A Rio de Janeiro il vertice BRICS ha messo in scena una cena di famiglia dove i principali invitati latitano, segnando il primo vero interrogativo geopolitico di un alleanza delle grandi ambizioni identitarie . Si dovrebbe prendere atto, passando per disfattisti , che la battuta di arresto dell’alternativa Multipolare antagonista dello strapotere del petrodollaro sta affrontando la sua prima vera crisi politica .
Mandare la palla in tribuna arrampicandoci sull’Esquilino dei Brics , non smuove nemmeno le statistiche degli Stream pompati . Continuiamo così, facciamoci del male. Come se ammetterlo non sia già abbastanza difficile .
Il vecchio catenaccio della Perfida
Lo sfacciato incontro Cipriota di Modi con i CEO Cap. Venturedi vecchio catenaccio della Perfida Albione, ha rappresentano la prima vera prova strutturale del sistema BRICS .
Per non infierire troverete qui sotto il rito dove , il presidente Indiano riceve (esattamente come il dono di Re Charles a Mattarella -Cipro era il centro congressi)
Condividere una sogno non sottintende l’istinto autoconservativo a confonderlo con il desiderio.
L’imminente tracollo del dollaro sembra sempre più lontano .
La notizia ufficiale: il “club degli emergenti” si allarga e apre le porte a Iran, Egitto e Indonesia, quasi a voler compensare la mancanza dei veri protagonisti. Perché diciamolo: senza Putin e Xi Jinping ,la foto di famiglia somiglia più al bilaterale con invitati tra il Dragone e il Brasile .
Eppure, tra brindisi e dichiarazioni per la stampa, la realtà si impone: l’accordo vero, quello che conta, resta l’asse tra Pechino e Brasilia. Una coppia male assortita che si studia da anni, ballando tra opportunismo e diffidenza.
Lula si muove con la leggiadria di chi sa di non poter troppo irritare né la Cina, né l’India (prossima alla presidenza BRICS) e neppure l’Occidente che guarda con sospetto ma non disdegna. Così, evita la Belt and Road Initiative ma giura fedeltà ai forum con Pechino, la cui “assenza strategica” viene liquidata con un’elegante scusa di diplomazia informale: meglio non dare nell’occhio .
Il Brasile ostenta identità globale, ma poi si risveglia ogni mattina con la realtà di essere il primo partner commerciale della Cina sull’intero continente latinoamericano: il 45% delle esportazioni brasiliane si ferma comodamente a Pechino, altro che multipolarismo.
Ogni dichiarazione di autonomia viene immediatamente smentita dai dati che rivelano una dipendenza ormai strutturale e di fatto ineludibile dalla real politique e dalla strategia di Trump e del suo protezionismo predittivo , apparentemente schizofrenico .
Cina: egemonia senza sbraitare (ma con calcolatrice in tasca) Pechino, dal canto suo, conduce il gioco con la pazienza di chi sa di aver già vinto. Investe, firma accordi anti-dollaro, ma evita i toni ruvidi e le imposizioni alla vecchia maniera: meglio una egemonia “zen” che non faccia scattare l’allarme nei partner moderati, soprattutto ora che il BRICS si trova a dover gestire quadri sempre più eterogenei e dialoghi surreali dovuti all’ingresso di attori come Iran ed Egitto.
L’espansione del blocco fa notizia, ma la sostanza non cambia. L’allargamento può dare l’illusione della forza, ma serve soprattutto a Pechino per allargare il fronte anti-sanzioni.
A Brasilia, invece, l’idea di condividere il tavolo con Iran e co. provoca più di una perplessità : Lula corre ai ripari, moltiplica gli incontri diretti bilaterali con India e UE, sponsorizza la COP30 e cerca di restare in gioco senza irritare troppo il vero padrone di casa.
In un mondo in cui tutti fingono di essere contro l’Occidente ma nessuno vuole realmente mollare l’osso, BRICS si conferma un raffinato laboratorio di realpolitik:
Lula recita il suo ruolo di mediatore, la Cina prende appunti e nessuno si sogna di spiegare davvero perché sono più amici di prima .
Ma Putin e Xi ?
Cesare Semovigo
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Nel 2025, la corsa all’intelligenza artificiale (IA) tra Stati Uniti e Cina si è trasformata in una competizione strategica cruciale, non solo per il dominio tecnologico, ma anche per le implicazioni economiche, geopolitiche e sociali a livello globale. Questa sfida, che coinvolge innovazione, investimenti, regolamentazioni e alleanze internazionali, sta ridefinendo gli equilibri di potere nel mondo digitale, con l’Europa che cerca di ritagliarsi un ruolo significativo in questo scenario complesso.
1. Il contesto della competizione USA-Cina nell’IA
L’intelligenza artificiale è ormai riconosciuta come una tecnologia chiave per il futuro, capace di influenzare la crescita economica, la sicurezza nazionale e la leadership geopolitica. Gli Stati Uniti, storicamente leader nel settore grazie a un ecosistema privato robusto e a giganti tecnologici come OpenAI, Google, Microsoft e Nvidia, continuano a dominare in termini di investimenti e innovazione. Nel 2024, gli investimenti privati statunitensi in IA hanno raggiunto i 109,1 miliardi di dollari, quasi dodici volte quelli della Cina, che si è attestata a 9,3 miliardi.
La Cina, tuttavia, ha compiuto progressi rapidi e significativi. Dal 2017, Pechino ha adottato una strategia nazionale ambiziosa per diventare leader mondiale nell’IA entro il 2030, sostenuta da politiche governative, investimenti pubblici e privati, e un crescente ecosistema di ricerca e sviluppo. Modelli come il DeepSeek R1, lanciato nel gennaio 2025, rappresentano un salto tecnologico che ha ridotto il divario con i modelli statunitensi, offrendo prestazioni comparabili ma con costi di calcolo molto più efficienti.
2. Le dinamiche tecnologiche e di mercato
La competizione si gioca su più fronti: dalla qualità e quantità dei modelli di IA sviluppati, alla capacità di calcolo (compute), fino alla diffusione globale delle tecnologie. Nel 2024, gli Stati Uniti hanno prodotto 40 modelli di rilievo, la Cina 15, e l’Europa appena 3. Tuttavia, la qualità dei modelli cinesi si è avvicinata rapidamente a quella americana, con differenze di prestazioni che si sono ridotte da decine di punti percentuali a una quasi parità in pochi anni.
La Cina ha inoltre adottato una strategia di apertura e collaborazione, sfruttando modelli open source e innovando su algoritmi e applicazioni specifiche, soprattutto nei settori software, finanziario ed energetico. L’adozione di modelli cinesi si sta estendendo in Europa, Medio Oriente, Africa e Asia, dove rappresentano un’alternativa competitiva ai prodotti statunitensi.
3. Le sfide geopolitiche e le restrizioni commerciali
La competizione tecnologica si intreccia con tensioni geopolitiche crescenti. Gli Stati Uniti hanno imposto restrizioni severe sull’export di chip avanzati verso la Cina, bloccando l’accesso di Pechino a componenti fondamentali per l’addestramento di modelli IA di ultima generazione. Ad esempio, la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC), sotto pressione statunitense, ha sospeso le forniture di chip più avanzati alla Cina nel 2024.
Queste misure mirano a rallentare lo sviluppo cinese, ma rischiano anche di spingere Pechino a investire massicciamente nella produzione domestica di semiconduttori, con un impatto a medio-lungo termine sull’industria globale. Nel frattempo, gli Stati Uniti cercano di rafforzare le proprie alleanze strategiche, siglando accordi per la fornitura di chip e tecnologie AI con paesi del Medio Oriente e altri partner.
4. Il ruolo dell’Europa nella competizione globale
L’Europa si trova in una posizione intermedia, con un ecosistema tecnologico meno sviluppato rispetto a USA e Cina, ma con una crescente consapevolezza dell’importanza strategica dell’IA. Nel 2024, le istituzioni europee hanno prodotto solo tre modelli significativi, ma stanno investendo in iniziative per aumentare la capacità di ricerca, l’adozione dell’IA e la regolamentazione responsabile.
Inoltre, l’Europa si distingue per un approccio normativo più rigoroso, volto a garantire un’IA trasparente, etica e sicura. Organizzazioni come l’Unione Europea, l’OCSE e le Nazioni Unite stanno promuovendo framework internazionali per la governance dell’IA, con l’obiettivo di bilanciare innovazione e tutela dei diritti civili.
L’adozione di modelli cinesi in Europa, soprattutto in ambiti pubblici e finanziari, indica una certa apertura verso soluzioni alternative, ma anche una sfida per le aziende europee di aumentare la propria competitività e autonomia tecnologica.
5. Impatti e prospettive future
La competizione USA-Cina sull’IA non è solo una gara tecnologica, ma un confronto che coinvolge aspetti economici, militari e sociali. L’IA potrà infatti influenzare la sicurezza nazionale, con applicazioni militari sempre più sofisticate, e trasformare interi settori economici, dalla sanità all’energia.
Tuttavia, questa corsa presenta rischi significativi. Un’escalation incontrollata potrebbe portare a una frammentazione degli standard tecnologici, a una riduzione della cooperazione internazionale e a problemi etici legati all’uso dell’IA. Come sottolineato da esperti, la competizione deve essere bilanciata da una governance globale che promuova sicurezza, responsabilità e trasparenza.
L’Europa, pur non essendo al momento un leader tecnologico in senso stretto, ha l’opportunità di giocare un ruolo di mediatore e promotore di standard condivisi, oltre a sviluppare un ecosistema di IA sostenibile e competitivo.
Conclusioni
La competizione tra Stati Uniti e Cina nel settore dell’intelligenza artificiale nel 2025 è una delle sfide tecnologiche e geopolitiche più rilevanti del nostro tempo. Mentre gli Stati Uniti mantengono un vantaggio in termini di investimenti e innovazione, la Cina sta rapidamente colmando il divario grazie a modelli competitivi e a una strategia governativa ambiziosa. Le restrizioni commerciali e le alleanze strategiche stanno ridefinendo il panorama globale, con l’Europa che cerca di affermarsi attraverso regolamentazioni avanzate e investimenti mirati.
Il futuro dell’IA dipenderà dalla capacità di questi attori di bilanciare competizione e cooperazione, innovazione e responsabilità, per garantire che questa tecnologia rivoluzionaria sia al servizio del progresso globale e non fonte di nuove tensioni.
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Di ritorno da Rio de Janeiro e Kuala Lumpur dopo tre incontri/vertice, Sergej Lavrov ha incontrato i media per condividere le sue impressioni e rispondere alle domande. È insolito che Lavrov elogi chi pone le domande; all’ultimo interlocutore ha risposto così: “Ottima domanda”. Ora, Lavrov:
Buon pomeriggio!
Qui a Kuala Lumpur organizziamo eventi ASEAN. Sono annuali. Ora si tengono a livello ministeriale e i vertici si terranno in autunno. Ci sono tre formati principali:
Partenariato di dialogo Russia-ASEAN. Ieri si è tenuta la riunione annuale a livello di ministri degli Esteri.
Il secondo formato è l’East Asia Summit, a cui partecipano un’ampia gamma di paesi, principalmente quelli che stanno sviluppando un partenariato di dialogo con l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico. L’idea era che l’East Asia Summit prendesse in considerazione progetti di cooperazione pratica e connettività in ambito economico, commerciale, dei trasporti e culturale.
Il terzo format è l’ASEAN Regional Security Forum. Oltre ai membri dell’Associazione, la cerchia dei partecipanti è ancora più ampia.
Tutto questo insieme costituisce gli eventi annuali dell’ASEAN che si tengono qui in Malesia. È simbolico che sia stato proprio in questo Paese che la Federazione Russa abbia preso parte per la prima volta a tali incontri. Qui, per la prima volta, sono state gettate le basi per il partenariato di dialogo Russia-ASEAN, che da allora ha raggiunto il livello di partenariato strategico. Questo è sancito nei nostri documenti congiunti .
Quest’anno abbiamo valutato l’attuazione degli impegni presi su base reciproca durante gli incontri precedenti, incluso il vertice Russia-ASEAN del 2016. Questo continua a essere un forum che ha definito l’orientamento strategico della nostra cooperazione.
Stiamo preparando una valutazione dell’attuazione del Piano di partenariato strategico per il periodo 2021-2025 . Di fatto, è in fase di attuazione in tutte le sue componenti. Oggi abbiamo constatato che i nostri rappresentanti speciali presso la sede centrale dell’ASEAN a Giacarta stanno lavorando attivamente al quarto piano strategico. Auspichiamo di avere il tempo di adottarlo entro la fine del 2025, idealmente in occasione del vertice Russia-ASEAN previsto per ottobre 2025 nella capitale della Malesia.
Per quanto riguarda l’incontro dei Paesi partecipanti al Vertice dell’Asia orientale, svoltosi oggi, esso è stato dedicato principalmente allo sviluppo di progetti di cooperazione pratica in vari settori. Riteniamo che questo debba costituire la base per le attività dei Vertici dell’Asia orientale.
Purtroppo, i nostri colleghi occidentali che prendono parte a questi eventi stanno sempre più deviando verso la politicizzazione, l’ideologizzazione e l’ucrainizzazione, che si sono manifestate anche nelle discussioni odierne, a scapito delle potenzialità delineate nel Vertice dell’Asia orientale per raggiungere risultati pratici importanti per i nostri Paesi e i nostri cittadini.
Non è il primo anno che promuoviamo iniziative per rispondere tempestivamente alle minacce epidemiche. Sembrerebbe che il tema sia molto più attuale. L’abbiamo proposto già nel 2021 ed è stato approvato. Ma, a causa del fatto che l’Occidente ha “preso posizione”, questa interazione non si è praticamente mossa da nessuna parte. Nel 2023, abbiamo proposto di sviluppare la cooperazione nel settore turistico, promuovendo il più possibile gli scambi turistici, in modo che la connettività dei nostri Paesi si trasmetta a livello di società e cittadini. Il turismo è in ogni caso in fase di sviluppo e gli incentivi che abbiamo proposto sono stati approvati per essere implementati nelle attività quotidiane. Ma finora è stato fatto poco.
Abbiamo proposto di sviluppare la cooperazione nello sviluppo delle aree remote (anche questo è stato concordato). In grandi paesi, come Russia, Indonesia, Malesia, Cina e altri, ci sono territori remoti in cui la civiltà ha già raggiunto il suo apice, ma i benefici non vengono distribuiti in modo così attivo come di consueto nelle megalopoli. Questo è un compito urgente per tutti. Auspichiamo che si raggiungano risultati concreti.
Un’altra delle nostre iniziative nel campo della cooperazione umanitaria è quella di garantire i legami culturali tra i nostri Paesi. L’Eurasia è un continente immenso. È la culla di numerose grandi civiltà. Il patrimonio culturale di ciascuna di queste civiltà merita di essere arricchito reciprocamente. Spero che anche la nostra iniziativa venga attuata.
Le riunioni del Vertice dell’Asia orientale e del Forum sulla sicurezza regionale dell’ASEAN non sono complete senza uno scambio di opinioni su problemi e questioni politiche. Oggi, tutti i membri dell’ASEAN e la maggior parte dei paesi partner, inclusa la Russia, hanno espresso grande preoccupazione per la tragedia in corso e in continuo peggioramento nei territori palestinesi, dove alla catastrofe umanitaria creata artificialmente nella Striscia di Gaza fanno seguito situazioni simili in un’altra parte dei territori palestinesi. Mi riferisco alla Cisgiordania, dove Israele continua la sua aggressiva politica di creazione di nuovi insediamenti in volumi sempre crescenti e record. Presto non rimarrà nulla dei territori in cui opera l’Autorità Nazionale Palestinese.
Oggi sono rimasto sorpreso nel leggere che esiste già un progetto per la creazione dell'”Emirato di Hebron”. Questo è visto come il primo passo verso la promozione del concetto di formazione di “Emirati Palestinesi Uniti” su territori palestinesi. Sembra fantascienza a questo punto, ma il fatto che tali idee stiano “spuntando” sempre più spesso nello spazio pubblico testimonia i rischi emergenti che continuano ad aumentare per quanto riguarda le prospettive di creazione di uno Stato palestinese, come deciso dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Questa è una grande sfida per la comunità internazionale.
Abbiamo parlato dei problemi creati dall’attacco immotivato di Israele alla Repubblica Islamica dell’Iran, seguito dagli attacchi missilistici e dinamitardi degli Stati Uniti. Questo viola il diritto internazionale, il Trattato di non proliferazione delle armi nucleari e i principi dell’AIEA, sotto la cui tutela erano protetti gli impianti nucleari attaccati.
Abbiamo chiesto che la tregua dichiarata continuasse senza interruzioni, in modo che, nonostante i danni arrecati al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari e le garanzie fornite dall’AIEA alle strutture sotto il suo controllo, si possa cercare di porre rimedio alla situazione, di indirizzarla su un binario politico e di risolvere tutti i problemi esclusivamente attraverso negoziati. Ciò è importante per evitare che si ripeta il disprezzo per i documenti fondamentali volti a garantire l’accesso all’uso pacifico dell’energia nucleare senza alcun tentativo o tentazione di impossessarsi di tecnologie per la produzione di armi nucleari.
Abbiamo anche parlato della situazione in Myanmar, dove si intravedono segnali di normalizzazione. Sosteniamo il processo portato avanti dalla leadership del Myanmar e il desiderio dell’ASEAN di contribuire a questa normalizzazione e ripristinare pienamente la piena partecipazione del Myanmar ai lavori dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico.
Abbiamo sottolineato la necessità di evitare qualsiasi azione provocatoria nella penisola coreana, che purtroppo continua a verificarsi nei confronti della RPDC, anche rafforzando le alleanze militari tra Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone. Vengono condotte sempre più esercitazioni militari su larga scala, persino con una componente nucleare. Esiste un potenziale di conflitto (anche grave). Faremo tutto il possibile per garantire i diritti legittimi dei nostri alleati nordcoreani e prevenire provocazioni che potrebbero avere conseguenze negative.
I nostri amici cinesi hanno individuato le controversie sul Mar Cinese Meridionale tra i problemi che considerano prioritari per sé stessi in questa regione. Crediamo fermamente che questo problema debba essere risolto sulla base del Codice di Condotta stipulato tra Pechino e gli Stati membri dell’ASEAN. Su questa base, i loro negoziati proseguono. Riteniamo inaccettabile che una potenza non regionale interferisca in questo processo.
Anche il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha parlato in modo sufficientemente dettagliato della situazione attorno a Taiwan, sottolineando con fermezza l’immutabilità della soluzione definitiva del problema di Taiwan basata sul concetto di un unico Stato cinese.
Abbiamo preso atto delle parole di alcuni dei nostri colleghi occidentali, già pronunciate in precedenza, secondo cui rispettano il principio di “una sola Cina”, ma che lo status quo non può essere cambiato. Questa è ipocrisia, evidente a chiunque abbia più o meno familiarità con questo problema e con il modo in cui l’Occidente si sta comportando ora nei confronti di Taiwan. Lo “status quo” per l’Occidente sono le relazioni con Taiwan come Stato indipendente. Pertanto, abbiamo ribadito ancora una volta l’immutabilità del nostro approccio a sostegno della posizione di Pechino e la disponibilità della Russia a contribuire in ogni modo possibile all’attuazione di tale posizione.
Domanda: L’anno scorso, durante un incontro con i vertici del Ministero degli Esteri russo, il Presidente Vladimir Putin ha parlato della necessità di una nuova architettura di sicurezza eurasiatica, incentrata sul principio secondo cui “la sicurezza di alcuni Stati non può essere garantita a scapito della sicurezza di altri”. Qual è l’atteggiamento dell’Asia in generale e dell’ASEAN in particolare nei confronti di questa idea, data l’attuale politica di militarizzazione della NATO?
Sergey Lavrov: In effetti, l’iniziativa di formare un’architettura di sicurezza eurasiatica è uno sviluppo della precedente iniziativa del Presidente Vladimir Putin, presentata al primo vertice Russia-ASEAN, sulla formazione di un Partenariato Eurasiatico Maggiore attraverso l’istituzione di legami, l’approfondimento di attività congiunte, progetti e programmi congiunti tra le strutture di integrazione esistenti nel continente eurasiatico. Sono già stati stabiliti collegamenti tra i vertici esecutivi e i segretariati dell’UEE e della CSI , tra queste organizzazioni e la SCO , e tra tutte queste e i paesi ASEAN. Si tratta di un processo utile che consente di armonizzare piani e progetti di integrazione, unire gli sforzi ed evitare duplicazioni. Inoltre, la composizione di queste formazioni di integrazione si interseca e si intreccia.
Promuoviamo il concetto di Grande Partenariato Eurasiatico, nella consapevolezza che le discussioni su questo tema e i negoziati sulle attività pratiche sono aperti a tutti i paesi e alle strutture di integrazione del continente eurasiatico. In particolare, vi sono buone prospettive di stabilire legami tra l’ Unione Economica Eurasiatica (UEE) , la SCO , la CSI , l’ASEAN e il Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC). Nell’Asia meridionale, sono presenti associazioni per l’integrazione nella penisola sudasiatica. Pertanto, vi sono numerose strutture che possono utilmente migliorare la connettività.
Questo processo (con la traduzione di diverse idee in azioni concrete) crea una base concreta per le discussioni e per garantire la sicurezza nell’intero continente eurasiatico. Ho ripetutamente affrontato questo argomento in seguito all’iniziativa del Presidente Vladimir Putin. Esistono anche numerose associazioni di integrazione subregionale in Africa e America Latina. Tuttavia, esistono strutture a livello continentale, come l’Unione Africana e la Comunità degli Stati Latinoamericani e Caraibici. E in Eurasia, la regione più grande, potente, ricca e in più rapida crescita al mondo, non esiste una struttura continentale di questo tipo sotto forma di piattaforma di dialogo (non è necessario creare un’organizzazione).
Sappiamo bene che non si tratta di un processo rapido. Tutti i paesi del continente invitati a partecipare a queste discussioni devono prima “maturare”. La maggior parte dei nostri vicini europei non è ancora “matura” e sogna chiaramente di estendere la propria influenza, attraverso l’Alleanza Nord Atlantica e le sue infrastrutture, all’intero continente eurasiatico in modo “neocoloniale”. Affermano direttamente, senza esitazione, che nelle condizioni attuali si tratta di un’alleanza difensiva, il cui compito principale è proteggere il territorio dei paesi membri. Affermano che, nelle condizioni attuali, la minaccia all’integrità territoriale e alla sicurezza dei paesi della NATO proviene dalla “regione indo-pacifica” (come la chiamano), ovvero direttamente dall’Oceano Pacifico. Mi riferisco al Mar Cinese Meridionale, allo Stretto di Taiwan e a molte altre cose.
Nel nostro concetto di sicurezza eurasiatica e di Grande Partenariato Eurasiatico , uno dei principi fondamentali è il rispetto delle strutture create nelle varie sottoregioni, tra cui l’ASEAN, il cui ruolo centrale è svolto dall’Associazione, frutto di un lavoro svolto da quasi 60 anni per unire i paesi interessati alla cooperazione sui principi di uguaglianza, apertura e inclusività. Il nostro concetto rispetta il ruolo dell’ASEAN e di altre formazioni simili. E quello promosso dalla NATO si basa sul fatto che l’alleanza detterà a tutti come comportarsi, se l’ASEAN è necessaria o meno. Formalmente, sì. Tutti i paesi occidentali hanno partecipato oggi alla riunione del Vertice dell’Asia orientale e al Forum regionale dell’ASEAN sulla sicurezza.
Ma mentre pronunciate belle parole, parallelamente (lo sapete) si stanno creando “troike”, “quattro”, “quartetti” – AUKUS, USA-Gran Bretagna-Australia per attuare il progetto di creazione di sottomarini nucleari. Ho già menzionato i tentativi di introdurre elementi nucleari nelle esercitazioni militari nel sud della penisola coreana. Ci sono i “Quattro Indo-Pacifico” – Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda. Oltre a una serie di altre “troike” simili (QUAD-1, QUAD-2). Stanno cercando di coinvolgere i membri dell’ASEAN in queste formazioni, “strappandoli” dall’Associazione. Ne stiamo parlando apertamente con i nostri amici. Sono ben consapevoli della differenza tra l’approccio in cui tutti sono invitati al tavolo per un dialogo paritario e lo sviluppo di posizioni consensuali che soddisfino gli interessi di tutti gli Stati e ne riflettano l’equilibrio, e l’approccio in cui i nordatlantici arrivano in questa regione e iniziano a “dire la loro” e a portare qui le proprie regole. Credo che questo non sia un bene per la causa.
Vogliamo garantire che questi format e forum che si tengono qui ogni anno contribuiscano a una migliore comprensione delle reciproche posizioni, in modo che tutti agiscano apertamente e non abbiano “pietre” o piani nascosti contro nessuno. Ma finora il processo sta procedendo su piani diversi. Sono convinto che il nostro approccio sia più promettente.
Domanda: Il vertice di Rio di pochi giorni fa ha dimostrato che, sullo sfondo delle sanzioni sempre più severe di Washington, i BRICS stanno diventando un’alternativa affidabile all’illegalità delle sanzioni. I paesi dell’ASEAN sono “maturati” al punto da essere pronti ad avviare una cooperazione più attiva con la Russia in particolare e con i BRICS in generale, non a parole, ma nei fatti?
Sergey Lavrov: Penso che i paesi dell’ASEAN siano interessati a cooperare con la Russia, indipendentemente da ciò che accade in Occidente e da ciò che gli Stati Uniti o i loro alleati stanno facendo nei loro confronti.
Non hanno la tesi che “se l’Occidente non ci facesse pressione, non saremmo amici della Russia”. Assolutamente no. L’amicizia con la Russia è iniziata molto prima che l’attuale amministrazione statunitense iniziasse a imporre sanzioni sotto forma di dazi (anche queste sono sanzioni). Non vedo alcuna risposta diretta nel modo in cui si stanno sviluppando le nostre relazioni con l’ASEAN e la cooperazione all’interno dei BRICS.
Ma se si ha la possibilità di scegliere tra, da un lato, commerciare nel contesto di un’associazione in cui non vengono utilizzati metodi senza scrupoli per reprimere i concorrenti e, dall’altro, commerciare con coloro che vi ricatteranno, allora la conclusione è ovvia.
Domanda: Sulla base degli incontri svoltisi nell’ambito del forum, quali conclusioni si possono trarre? I paesi dell’ASEAN sono pronti a resistere attivamente all’avanzata della NATO e ai tentativi del blocco di radicarsi nella regione? I paesi dell’ASEAN dispongono delle risorse necessarie per rimanere oggi un garante della sicurezza nella regione, soprattutto alla luce dei gravi obblighi imposti dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump a molti dei paesi membri dell’ASEAN?
Sergej Lavrov: Ho appena parlato dettagliatamente della nostra visione delle azioni che la NATO sta intraprendendo qui, cercando di penetrare qui, di introdurre le sue infrastrutture e di consolidare la propria posizione. Non ho dubbi che i paesi dell’ASEAN capiscano di cosa sto parlando e si rendano conto di essere invitati a rimanere formalmente membri dell’ASEAN parallelamente e, allo stesso tempo, a unirsi a strutture basate su blocchi non inclusivi, che mirano in gran parte a creare una sorta di “fronte politico e diplomatico” per contenere la Cina (non lo nascondo) e la Federazione Russa allo stesso tempo.
Non voglio decidere per loro, è una loro scelta sovrana. La percepiremo come tale. Ma non ho dubbi che preservare l’unità dell’ASEAN e il suo ruolo centrale nel determinare i meccanismi, i formati e l’architettura della cooperazione nel Sud-est asiatico sia nell’interesse di tutti, nella misura migliore possibile. Procederemo da qui.
Domanda: Ieri, il Segretario di Stato americano Marco Rubio ha dichiarato, dopo aver avuto colloqui con lei, che è stato discusso un nuovo “piano per l’Ucraina”. Quali delle parti hanno proposto questi nuovi approcci, quali sono, qual è la loro differenza fondamentale rispetto ai precedenti? Anche la fornitura di armi americane è inclusa nei piani? È stato discusso?
Sergey Lavrov: Vorrei rispondere con le parole del presidente degli Stati Uniti Donald Trump: “Ve lo dico io. Aspettatevi grandi sorprese”.
Non so se ci siano state “grandi sorprese”. Ma lei stesso, che conosce bene le attività diplomatiche e ci accompagna spesso, sa che ci sono cose che non vengono commentate. Sì, abbiamo discusso dell’Ucraina e ribadito la posizione espressa dal presidente Vladimir Putin, anche il 3 luglio in una conversazione con il presidente Donald Trump.
Quanto a questo “dialogo”, “fuga di notizie”, “registrazione” (se si tratti di una rete neurale o meno, non lo so) sui bombardamenti di Mosca e Pechino, abbiamo discusso di cose serie.
Domanda: Avete discusso la questione delle armi offensive strategiche durante l’incontro con Marco Rubio? Avete un’intesa sul futuro di START-3, che scade l’anno prossimo?
Sergey Lavrov: Questo non è stato discusso.
Domanda: Recentemente, il cancelliere tedesco Frank Merz ha affermato che le vie diplomatiche per risolvere il conflitto in Ucraina sono state esaurite. Da un lato, vorrei chiederle, in qualità di capo del Ministero degli Esteri russo, una reazione ufficiale. E dall’altro, da diplomatico professionista con esperienza, le chiedo se tali azioni da parte della Germania rientrino nell'”arsenale” diplomatico. Questo vale anche per la sfera diplomatica?
Sergey Lavrov: Bella domanda.
Ci preoccupa. Perché le ultime dichiarazioni e azioni di Berlino, Parigi e Londra dimostrano che l’attuale classe politica giunta al potere in questi e in molti altri Paesi ha dimenticato le lezioni della storia, le conclusioni che l’umanità intera ne ha tratto e, in generale, sta cercando di “sollevare” nuovamente l’Europa per una guerra (non una guerra ibrida) contro la Russia.
Abbiamo mostrato una conferenza stampa del Ministro degli Esteri francese Jean-Nuel Barrault, seduto sul palco con altri partecipanti a un evento di scienze politiche, e un francese del pubblico, che visitava spesso il Donbass, gli ha chiesto perché Parigi sostenga attivamente il regime nazista, che è già risorto in Ucraina. Avete visto come il Ministro Jean-Nicolas-Barrault è crollato, gridando con tono isterico che stavano difendendo l’integrità territoriale dell’Ucraina e il diritto internazionale. Ha ottenuto gli applausi di una parte della sala. Ma dopo tutto quello che si sa sulle azioni del regime di Kiev, sul perché abbia bisogno dell’integrità territoriale… Ed è necessaria per sopprimere tutti i diritti della popolazione russa, russofona, e per annientare fisicamente coloro che non sono d’accordo con la posizione di Kiev dopo il colpo di Stato.
Ieri, il Segretario di Stato americano Marco Rubio ha consegnato un breve riassunto di dichiarazioni di Vladimir Zelensky, del Primo Ministro ucraino Dmitry Shmyhal, del Capo di Gabinetto del Presidente ucraino Andriy Yermak e di Yury Podolyaka, che affermano direttamente la necessità di annientare legalmente i russi, o meglio ancora, fisicamente . Quando Jean-Nicolas Barrault e altri come lui affermano di non voler vedere altro che l’integrità territoriale dell’Ucraina, si tratta di auto-denuncia.
Quanto al cancelliere tedesco Merz, ha detto cose “buffe” più di una volta. Tra cui il fatto che il suo obiettivo principale è far tornare la Germania la principale potenza militare in Europa. Alla parola “di nuovo” non si è nemmeno strozzato . Ha anche detto cose che permettono a Israele di “lavorare” in Iran, facendo il “lavoro sporco” per noi.Questa è una citazione dei “proprietari” dei campi di concentramento. Quando preferirono usare i collaborazionisti per sterminare gli ebrei, per non sporcarsi le mani, rendendosi conto che si trattava di un “affare sporco” .
Se il Cancelliere Merz ritiene che le possibilità pacifiche siano state sfruttate e esaurite, allora ha finalmente deciso di dedicarsi alla completa militarizzazione della Germania a spese del suo popolo, solo per poi tornare a pavoneggiarsi con slogan nazisti per respingere le “minacce provenienti dalla Russia”. Questa è una totale assurdità. Spero che qualsiasi politico di buon senso lo capisca.
Il presidente russo Vladimir Putin ha ripetutamente affermato che questa assurdità viene utilizzata per tenere la popolazione all’obbedienza e impedire che le proteste sfocino, il che porta inevitabilmente a un deterioramento della situazione socioeconomica e alla stagnazione osservata in Europa. Tutto ciò è dovuto al fatto che centinaia di miliardi sono stati inviati e vengono nuovamente inviati all’Ucraina.
Mi sono imbattuto in una citazione. È stato interessante vedere come l’Europa percepiva la Germania all’epoca. C’era una citazione dal quotidiano svedese Aftonbladet del 22 giugno 1941. In altre parole, glorificavano i nazisti come simbolo di libertà. Se l’Europa si sta muovendo di nuovo in questa direzione… Cosa posso dire? Con tristezza.
Terremo pienamente conto di questo in tutti gli ambiti della nostra pianificazione . [Enfasi mia]
Mentre si svolgevano il vertice dei BRICS e tutti gli incontri dell’ASEAN, la Cina si stava preparando per un evento simile ma diverso : la riunione ministeriale del Dialogo sulle civiltà globali, che mira ad avviare l’attuazione dell’Iniziativa cinese per la civiltà globale. Come ha osservato Lavrov, l’Eurasia ospita molte grandi civiltà, ma ospita anche un gruppo di nazioni “immature” che chiaramente non sono pronte a diventare civili. Il commento conclusivo un po’ criptico di Lavrov, a mio parere, ci offre uno sguardo su ciò che gli sta frullando per la testa, dato che sono sicuro che sia a conoscenza dell’editoriale di Trenin e della sua tesi. E come ha anche detto Lavrov, “ci sono cose che non vengono commentate”. Per molti anni, Lavrov ha affermato direttamente che l’UE/NATO non vuole la pace, poiché il suo obiettivo dichiarato è sconfiggere la Russia. Vorrei ora ricordare ai lettori l’obiettivo politico principale dell’Impero fuorilegge statunitense, a cui non ha ancora rinunciato: il dominio a spettro completo. Ecco perché la NATO vuole espandersi nell’Oceano Pacifico occidentale. Ecco perché Taiwan è “ipocrita”. Ecco perché i sionisti sono stati insediati in Palestina. Sì, il progetto imperiale per stabilire un dominio totale ha poco più di 200 anni, ovvero quando il progetto sionista fu formulato in Europa. Il mio intento non è quello di raccontare di nuovo quegli oltre 200 anni di storia. Piuttosto, è quello di dichiarare la civiltà occidentale come incivile. Almeno l’87,5% della popolazione mondiale è pronta per le numerose iniziative globali della Cina, e fondamentalmente significano l’instaurazione della pace e dell’armonia affinché la civiltà globale possa continuare a svilupparsi. Solo le nazioni egemoni e parte della loro popolazione sono contrarie a tale aspirazione, e la domanda ovvia è: perché?
A mio parere, Lavrov e molti di noi sono stufi del SOSDD, la solita merda, un giorno diverso. Sappiamo abbastanza del passato per capire come siamo arrivati a questo punto, ma non abbiamo ancora trovato una via d’uscita dal caos che il passato ha causato. Beh, lasciatemelo riscrivere. Non abbiamo ancora trovato un modo per convincere quel 12,5% dell’umanità che deve cambiare i suoi comportamenti affinché l’umanità possa evolversi e progredire, che non sono eccezionali o prescelti, ma umani come tutti gli altri esseri umani. Sì, so che alcuni credono che sia un compito impossibile e che l’umanità sia destinata al fallimento e all’estinzione, tutto per qualche dollaro in più. Come conciliare chi vuole essere civilizzato con chi non lo vuole? Attualmente, la leadership dell’Impero Fuorilegge degli Stati Uniti è impegnata a isolarsi lentamente dalla Maggioranza Globale, pur cercando di raggiungere il suo obiettivo politico principale. Mi chiedo spesso come racconterebbe questa storia lo Zio Remus.
* *IL TESTO INTEGRALE DELLA CONFERENZA STAMPA
11.07.2025. 14:55
Discorso e risposte alle domande del Ministro degli Affari Esteri della Federazione Russa Sergey Lavrov a seguito dell’incontro Russia-ASEAN e della riunione ministeriale del Vertice dell’Asia Orientale, Kuala Lumpur, 11 luglio 2025
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Buon pomeriggio!
Qui a Kuala Lumpur organizziamo eventi ASEAN. Sono annuali. Ora si tengono a livello ministeriale e in autunno ci saranno dei vertici. In totale esistono tre formati principali:
Partenariato di dialogo Russia-ASEAN. Ieri si è tenuta la riunione annuale dei ministri degli Esteri.
Il secondo formato è il Vertice dell’Asia orientale, che riunisce un’ampia gamma di Paesi, principalmente quelli che stanno sviluppando un partenariato di dialogo con l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico. Il vertice dell’Asia orientale è stato concepito per esaminare progetti di cooperazione pratica, connettività in campo economico, commerciale, dei trasporti e culturale.
Tutto questo si aggiunge agli eventi annuali dell’Asean che si tengono qui in Malesia. È simbolico che sia stato proprio in questo Paese che la Federazione Russa ha partecipato per la prima volta a tali incontri. Qui, per la prima volta, sono state gettate le basi del partenariato di dialogo Russia-ASEAN, che da allora ha raggiunto il livello di partenariato strategico. Ciò è sancito nei nostri documenti congiunti.
Quest’anno abbiamo valutato il rispetto degli impegni assunti su base reciproca durante le precedenti riunioni, compreso il vertice Russia-ASEAN nel 2016. Continua a essere il forum che stabilisce la direzione strategica della nostra cooperazione.
Stiamo preparando una valutazione dell’attuazione del Piano strategico di partenariato 2021-2025. In effetti, il piano è in fase di attuazione in tutte le sue componenti. Oggi abbiamo notato che i nostri rappresentanti speciali con sede presso il quartier generale dell’ASEAN a Giacarta stanno lavorando attivamente al quarto piano strategico. Speriamo che venga adottato entro la fine del 2025, idealmente al Vertice Russia-ASEAN previsto per ottobre 2025 nella capitale malese.
Per quanto riguarda la riunione dei Paesi partecipanti al Vertice dell’Asia orientale, che si è svolta oggi. È stata dedicata principalmente ai compiti di sviluppo di progetti pratici di cooperazione in vari settori. Siamo favorevoli a che questa sia la base per le attività dei Vertici dell’Asia orientale.
Purtroppo, i nostri colleghi occidentali che partecipano a questi eventi sono sempre più spesso sviati dalla politicizzazione, dall’ideologizzazione e dall’ucrainizzazione, che è evidente anche nelle discussioni di oggi, a scapito del potenziale che il Vertice dell’Asia orientale ha per raggiungere risultati pratici importanti per i nostri Paesi e cittadini.
Non è il primo anno che promuoviamo iniziative di risposta rapida alle minacce epidemiche. Sembra che il tema sia molto più urgente. L’abbiamo proposto già nel 2021 ed è stato approvato. Ma a causa della “postura” dell’Occidente, questa interazione non sta andando da nessuna parte. Nel 2023 abbiamo proposto di sviluppare l’interazione nel turismo, di promuovere il più possibile gli scambi turistici, in modo da trasmettere la connessione dei nostri Paesi a livello di società e cittadini. Il turismo si sta comunque sviluppando e gli incentivi che abbiamo proposto sono stati approvati per essere implementati nelle attività quotidiane. Ma finora è stato fatto poco.
Proposto di sviluppare la cooperazione per lo sviluppo dei territori remoti (anche questo è stato concordato). Nei grandi Paesi: in Russia, in Indonesia, in Malesia, in Cina e in altri Paesi, ci sono aree remote dove la civiltà è già arrivata, ma i benefici non si diffondono così attivamente come di solito avviene nelle megalopoli. Questo è un compito urgente per tutti. Confidiamo che in questo ambito si raggiungano risultati concreti.
Un’altra delle nostre iniziative nell’ambito della cooperazione umanitaria è quella di garantire la connettività culturale dei nostri Paesi. L’Eurasia è un continente enorme. È la culla di diverse grandi civiltà. Il patrimonio culturale di ciascuna di queste civiltà merita di essere arricchito reciprocamente. Spero che anche la nostra iniziativa si realizzi.
Negli incontri del Vertice dell’Asia orientale, il forum dell’ASEAN sulla sicurezza regionale, non mancano gli scambi di opinioni su problemi e questioni politiche. Oggi, tutti i membri dell’ASEAN e la maggior parte dei Paesi partner, compresa la Russia, hanno parlato con grande preoccupazione della tragedia in corso e che si sta addirittura aggravando nei territori palestinesi, dove, dopo la catastrofe umanitaria creata artificialmente nella Striscia di Gaza, stanno emergendo situazioni simili in un’altra parte dei territori palestinesi. Mi riferisco alla Cisgiordania, dove Israele continua la sua politica aggressiva di creazione di nuovi insediamenti in volumi crescenti e record. Presto non rimarrà più nulla dei territori in cui opera l’Autorità nazionale palestinese.
Oggi ho letto con sorpresa che esiste già un progetto per la creazione di un “Emirato di Hebron”. Questo è visto come il primo passo per far avanzare il concetto di formare un “Emirato Palestinese Unito” sulle terre palestinesi. Sembra una fantasia in questa fase, ma il fatto che tali idee stiano sempre più “affiorando” nello spazio pubblico indica i rischi emergenti che continuano ad aggravarsi sulle prospettive di creazione di uno Stato palestinese, come deciso dall’Assemblea generale e dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Si tratta di una grande sfida per la comunità internazionale.
Parlare dei problemi creati dall’attacco non provocato di Israele alla Repubblica Islamica dell’Iran, seguito dagli attacchi missilistici e dinamitardi degli Stati Uniti. Ciò viola il diritto internazionale, il Trattato di non proliferazione nucleare e i principi dell’AIEA, sotto la cui tutela si trovavano gli impianti nucleari attaccati.
Hanno chiesto che la tregua dichiarata continui senza interruzioni, che si cerchi di rettificare la situazione nonostante i danni e i pregiudizi al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari e alle salvaguardie dell’AIEA sulle strutture sotto il loro controllo, che si metta su un binario politico e che si risolvano tutti i problemi esclusivamente attraverso i negoziati. Questo è importante per garantire che non si ripeta il mancato rispetto degli strumenti fondamentali concepiti per garantire l’accesso all’uso pacifico dell’energia nucleare senza alcun tentativo o tentazione di possedere la tecnologia delle armi nucleari.
Abbiamo anche parlato della situazione in Myanmar, dove ci sono segnali di normalizzazione. Sosteniamo il processo intrapreso dalla leadership del Myanmar e il desiderio dell’ASEAN di contribuire a questa normalizzazione e di ripristinare pienamente la partecipazione del Myanmar all’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico.
Hanno sottolineato la necessità di evitare qualsiasi azione provocatoria nella penisola coreana, che purtroppo continua nei confronti della RPDC, anche attraverso il rafforzamento delle alleanze militari di Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone. Vengono condotte sempre più esercitazioni militari su larga scala, anche con una componente nucleare. Anche qui c’è un potenziale conflitto (serio). Faremo del nostro meglio per contribuire a garantire i diritti legittimi dei nostri alleati nordcoreani e per evitare provocazioni che potrebbero finire male.
I nostri amici cinesi hanno identificato le dispute sul Mar Cinese Meridionale come una delle questioni prioritarie nella regione. Sono fermamente convinti che questo problema debba essere risolto sulla base del Codice di condotta concluso tra Pechino e gli Stati membri dell’ASEAN. I negoziati proseguono su questa base. Riteniamo inaccettabile che una potenza extraregionale interferisca in questo processo”.
Anche il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha fatto ampio riferimento alla situazione intorno a Taiwan, sottolineando rigidamente l’inevitabilità di una soluzione definitiva del problema di Taiwan sulla base del concetto di uno Stato cinese unificato.
Abbiamo richiamato l’attenzione sulle parole di alcuni colleghi occidentali, già pronunciate in passato, secondo cui rispettano il principio di “una sola Cina”, ma che è impossibile cambiare lo “status quo”. Si tratta di ipocrisia, evidente a chiunque abbia un minimo di familiarità con la questione e con il modo in cui l’Occidente si sta comportando nei confronti di Taiwan. Lo “status quo” per l’Occidente è il rapporto con Taiwan come Stato indipendente. Pertanto, abbiamo ancora una volta confermato l’immutabilità del nostro approccio a sostegno della posizione di Pechino e la disponibilità della Russia ad assistere in ogni modo possibile la realizzazione di questa posizione.
Domanda: Lo scorso anno, il Presidente russo Vladimir Putin, in occasione di un incontro con i vertici del Ministero degli Esteri russo, ha parlato della necessità di una nuova architettura di sicurezza eurasiatica incentrata sul principio che “la sicurezza di alcuni Stati non può essere garantita a spese della sicurezza di altri”. Cosa pensano l’Asia in generale e l’ASEAN in particolare di questa idea, visto il continuo processo di militarizzazione della NATO?
S.V.Lavrov: In sostanza, l’iniziativa di formare un’architettura di sicurezza eurasiatica è uno sviluppo della precedente iniziativa del presidente russo Vladimir Putin, presentata al primo vertice Russia-ASEAN, di formare un Grande Partenariato Eurasiatico attraverso la creazione di legami, l’approfondimento di attività congiunte, progetti e programmi comuni tra le strutture di integrazione esistenti nel continente eurasiatico. Sono già stati stabiliti collegamenti tra i capi esecutivi e i segretariati dell’Unione Europea e della CIS, tra queste organizzazioni e la SCO, e tra tutte e i Paesi dell’ASEAN. Si tratta di un processo utile per armonizzare i piani e i progetti di integrazione, combinare gli sforzi ed evitare duplicazioni. Soprattutto perché i membri di queste formazioni di integrazione si sovrappongono e si intrecciano.
Promuoviamo il concetto di Grande Partenariato Eurasiatico con la consapevolezza che la discussione su questo tema e i negoziati sulle attività pratiche sono aperti a tutti i Paesi e alle strutture di integrazione situate nel continente eurasiatico. In particolare, vi sono buone prospettive di stabilire legami tra UE, SCO, CIS, ASEAN e CCG. In Asia meridionale, ci sono gruppi di integrazione nella penisola dell’Asia meridionale. Esistono quindi molte strutture che possono utilmente occuparsi di migliorare l’interconnettività.
Questo processo (con la traduzione delle varie idee in azioni pratiche) crea una base materiale per le discussioni, per garantire la sicurezza in tutto il continente eurasiatico. Ho già toccato questo argomento molte volte nello sviluppo dell’iniziativa del Presidente Vladimir Putin. Anche in Africa e in America Latina esistono molte associazioni di integrazione subregionale. Ma anche lì esistono strutture continentali – l’Unione Africana, la Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi. Ma in Eurasia – la regione più grande, potente, ricca e in rapido sviluppo del mondo – non esiste una struttura continentale di questo tipo sotto forma di piattaforma di dialogo (senza necessariamente creare un’organizzazione).
Sappiamo bene che non si tratta di un processo rapido. Tutti i Paesi del continente invitati a partecipare a queste discussioni devono prima “maturare”. I nostri vicini europei, per la maggior parte, non sono ancora “maturi”, sognando chiaramente di diffondere la loro influenza attraverso l’Alleanza Nord Atlantica e le sue infrastrutture sull’intero continente eurasiatico in modo “neocoloniale”. Non esitano a dire che nelle condizioni attuali si tratta di un’alleanza difensiva e che il suo compito principale è quello di proteggere il territorio dei Paesi membri. Dicono che nelle condizioni attuali la minaccia all’integrità territoriale e alla sicurezza dei Paesi NATO proviene dalla “regione indo-pacifica” (come la chiamano loro), cioè direttamente dall’Oceano Pacifico. Vale a dire il Mar Cinese Meridionale, lo Stretto di Taiwan e altro ancora.
Nella nostra concezione della sicurezza eurasiatica e del Grande Partenariato Eurasiatico, uno dei principi fondamentali è il rispetto delle strutture istituite nelle varie sub-regioni, tra cui l’ASEAN, il cui ruolo centrale è svolto dall’Associazione come risultato del lavoro svolto da quasi 60 anni per riunire i Paesi interessati alla cooperazione sui principi di uguaglianza, apertura, inclusività. La nostra visione rispetta il ruolo dell’ASEAN e di altre formazioni simili. Ma quella promossa dalla NATO si basa sul presupposto che l’alleanza detterà a tutti come comportarsi, se l’ASEAN è necessaria. Tecnicamente, sì. Tutti i Paesi occidentali hanno partecipato oggi alla riunione del Vertice dell’Asia orientale, al Forum sulla sicurezza regionale dell’ASEAN.
Ma mentre si pronunciano belle parole, parallelamente (lo sapete) si creano “troike”, “quattro”, “quartetti” – AUKUS, USA-Bretagna-Australia – per realizzare il progetto di costruzione di sottomarini nucleari. Ho già menzionato i tentativi di inserire elementi nucleari nelle esercitazioni militari nel sud della penisola coreana. C’è l’Indo-Pacifico a quattro – Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda. Oltre a una serie di altre “troike” simili (QUAD-1, QUAD-2). Si sta cercando di coinvolgere i membri dell’ASEAN in queste formazioni, “staccandoli” dall’Associazione. Ne parliamo francamente con i nostri amici. Sono ben consapevoli della differenza tra un approccio in cui tutti sono invitati al tavolo per un dialogo paritario e lo sviluppo di posizioni di consenso che soddisfino gli interessi di tutti gli Stati e riflettano l’equilibrio di questi interessi, e un approccio in cui i nordatlantisti entrano nella regione e iniziano a “ordinare la musica” e a portare qui i loro ordini. Credo che questo non sia positivo per la causa.
Ci interessa che questi format, i forum che si svolgono qui ogni anno, contribuiscano a una migliore comprensione delle posizioni reciproche, in modo che tutti agiscano apertamente e non tengano “pietre” dietro la schiena o piani nascosti diretti contro qualcuno. Ma finora il processo si svolge su piani diversi. Sono convinto che il nostro approccio sia più promettente.
Domanda: Il vertice di Rio de Janeiro di pochi giorni fa ha dimostrato che, sullo sfondo delle sempre più dure azioni sanzionatorie di Washington, i BRICS stanno diventando un’alternativa credibile all’illegalità delle sanzioni. I Paesi dell’ASEAN sono “maturati” al punto da essere pronti, non a parole ma nei fatti, ad avviare una cooperazione più attiva con la Russia in particolare e con i BRICS in generale?
S.V.Lavrov: Penso che i Paesi dell’ASEAN siano interessati alla cooperazione con la Russia a prescindere da ciò che accade in Occidente e da ciò che gli Stati Uniti o i loro alleati fanno loro.
Non hanno questo atteggiamento del tipo “se l’Occidente non ci facesse pressione, non saremmo amici della Russia”. Non è affatto così. L’amicizia con la Russia è iniziata molto prima che l’attuale amministrazione statunitense iniziasse a imporre sanzioni sotto forma di dazi (che sono anche sanzioni). Non vedo alcuna ritorsione diretta nel modo in cui si stanno sviluppando le nostre relazioni con l’ASEAN e la cooperazione all’interno dei BRICS.
Ma se vi viene data la possibilità di scegliere se commerciare nel contesto di un’associazione in cui non vengono impiegati mezzi sleali per sopprimere i concorrenti, da un lato, e dall’altro commerciare con coloro che vi ricattano, allora la conclusione è evidente.
Domanda: Sulla base degli incontri tenuti al forum, quali conclusioni trarrebbe? I Paesi ASEAN sono pronti a resistere attivamente all’avanzata della NATO e ai suoi tentativi di prendere piede nella regione? I Paesi ASEAN hanno le risorse per rimanere garanti della sicurezza nella regione, soprattutto alla luce dei pesanti dazi imposti dal Presidente americano Trump a molti Paesi membri dell’ASEAN?
S.V. Lavrov: Ho appena parlato in dettaglio della nostra visione delle azioni che la NATO sta intraprendendo qui, cercando di infiltrarsi, di introdurre le sue infrastrutture, di prendere piede. Non ho dubbi che i Paesi dell’ASEAN capiscano di cosa stiamo parlando e si rendano conto che viene loro proposto di rimanere formalmente membri dell’ASEAN e allo stesso tempo di aderire a strutture non inclusive, simili a blocchi, che mirano fondamentalmente a creare una sorta di “fronte politico e diplomatico” per contenere innanzitutto la Cina (non è nascosto) e allo stesso tempo la Federazione Russa.
Non voglio decidere per loro, è una loro scelta sovrana. La prenderemo come tale. Ma non ho dubbi che preservare l’unità dell’ASEAN e il suo ruolo centrale nella definizione dei meccanismi, dei formati e dell’architettura della cooperazione nel Sud-Est asiatico sia nell’interesse di tutti. Procediamo da questo punto.
Domanda: Ieri il Segretario di Stato americano M. Rubio ha detto, dopo i colloqui con lei, che è stato discusso un certo nuovo “piano per l’Ucraina”. Quali parti hanno proposto questi nuovi approcci, quali sono, qual è la loro differenza fondamentale rispetto a quelli precedenti? Anche le forniture di armi americane fanno parte dei piani? Se ne è parlato?
S.V.Lavrov: Vorrei rispondere con le parole del Presidente degli Stati Uniti D.Trump: “Ve lo dico io. Aspettatevi grandi sorprese”.
Non so se ci siano “grandi sorprese”. Ma lei stesso si rende conto, conoscendo l’attività diplomatica, che spesso ci accompagna, che ci sono cose che non vengono commentate. Sì, abbiamo discusso dell’Ucraina e ribadito la posizione che il presidente russo Vladimir Putin ha espresso, anche il 3 luglio di quest’anno nel suo colloquio con il presidente Trump.
Che dire di questo “dialogo”, “fuga di notizie”, “registrazione” (rete neurale o no, non lo so) sul bombardamento di Mosca e Pechino, abbiamo discusso di cose serie.
Domanda: Nell’incontro con M. Rubio si è parlato di armi strategiche offensive? C’è un’intesa sul futuro dello START-3, che scade l’anno prossimo?
S.V.Lavrov: Non se ne è parlato.
Domanda: Recentemente, il Cancelliere tedesco Merz ha affermato che i mezzi diplomatici per risolvere il conflitto in Ucraina sono stati esauriti. Da un lato, vorrei chiederle, in qualità di capo del Ministero degli Esteri russo, una reazione ufficiale. Dall’altro, in qualità di diplomatico professionista esperto, vorrei chiederle se queste azioni della Germania rientrano nell'”armamentario” diplomatico. Appartengono alla sfera di lavoro diplomatica?
S.V. Lavrov: Buona domanda.
Ci preoccupa. Perché le recenti dichiarazioni e azioni di Berlino, Parigi e Londra dimostrano che l’attuale classe politica salita al potere in questi e in molti altri Paesi ha dimenticato le lezioni della storia, le conclusioni che tutta l’umanità ha imparato da esse, e, in linea di massima, sta cercando di “risollevare” nuovamente l’Europa per una guerra (non una guerra ibrida) contro la Russia.
In una conferenza stampa del ministro degli Esteri francese J.N.Barrot, che era seduto sul palco insieme ad altri partecipanti a un evento di scienze politiche, gli è stato chiesto dal pubblico da un francese che era stato spesso nel Donbas perché Parigi sostiene attivamente il regime nazista che è già stato riportato in vita in Ucraina. Si è visto come il ministro J.N.-Barraud è scattato, gridando in tono isterico che stavano difendendo l’integrità territoriale dell’Ucraina e il diritto internazionale. Ha spezzato l’applauso di una parte della sala. Ma dopo tutto quello che si sa sulle azioni del regime di Kiev, sul perché ha bisogno dell’integrità territoriale… E ne ha bisogno per sopprimere tutti i diritti della popolazione russa, russofona, e per distruggere fisicamente coloro che non sono d’accordo con la posizione di Kiev dopo il colpo di Stato.
Ieri il Segretario di Stato americano M. Rubio ha ricevuto una piccola “strizzata” di citazioni da parte di V.A. Zelensky, del Primo Ministro ucraino D.A. Shmygal, del capo dell’ufficio del Presidente ucraino A.B. Yermak e di Y.I. Podolyaka, che affermano direttamente la necessità di distruggere legalmente i “russi”, o meglio ancora fisicamente. Quando J.-N.Barro e quelli come lui dichiarano di non voler vedere altro che l’integrità territoriale dell’Ucraina, si tratta di un’autodenuncia.
Che dire del cancelliere della RFT F. Merz. Ha ripetutamente detto cose “divertenti”. Tra cui il fatto che il suo obiettivo principale era quello di far tornare la Germania la prima potenza militare in Europa. Non ha nemmeno soffocato la parola “di nuovo”. Ha anche detto che Israele “lavora” in Iran, che fa il “lavoro sporco” per noi. Questa è una citazione dei “maestri” dei campi di concentramento. Quando preferivano utilizzare i collaboratori per lo sterminio degli ebrei, per non sporcarsi le mani in prima persona, rendendosi conto che si trattava di un “lavoro sporco”.
Se il Cancelliere F. Merz pensa che le possibilità pacifiche siano state esaurite, esaurite, allora ha finalmente deciso di dedicarsi completamente alla militarizzazione della Germania a spese del suo popolo per poi “oziare” di nuovo con slogan nazisti per respingere le “minacce della Russia”. È un’assurdità assoluta. Spero che qualsiasi politico sano di mente se ne renda conto.
Il Presidente russo Vladimir Putin ha ripetuto più volte che questa assurdità viene utilizzata per tenere in riga la popolazione e impedire che scoppino proteste, che inevitabilmente causano il deterioramento della situazione socio-economica, la stagnazione vista in Europa. Tutto questo a spese delle centinaia di miliardi che sono stati convogliati e vengono nuovamente convogliati in Ucraina.
Mi sono imbattuto in questa citazione. Era interessante la percezione che l’Europa aveva della Germania di un tempo. Si trattava di una citazione del quotidiano svedese Aftonbladet del 22 giugno 1941. L’articolo di testa: “La Germania ha spezzato le sue catene e con rinnovato vigore si è avviata verso la libertà per adempiere alla sua missione europea e storicamente significativa: schiacciare il ‘regime rosso’ che minaccia l’essenza stessa della libertà”. Cioè, hanno cantato i nazisti come simbolo di libertà. Se l’Europa sta tornando a questo… Che dire? È triste.
Teniamone conto in tutte le aree della nostra pianificazione.
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Il tema delle vittime è uno di quelli che periodicamente rivisitiamo quando è necessario. Ora è un momento del genere, poiché Marco Rubio ha fatto l’assurda affermazione – coordinata con gli organi di stampa – che l’esercito russo ha subito ben 100.000 morti solo da gennaio di quest’anno; solo morti, non anche perdite totali:
Questo è stato immediatamente supportato da nuovi articoli, come il seguente dell’Economist, che sostiene che la Russia sta vivendo il suo anno più letale sul fronte, con oltre 30.000 morti solo negli ultimi due mesi:
L’articolo qui sopra è un esempio particolarmente eclatante. Basta dare un’occhiata alla loro metodologia, o alla sua mancanza. Questo piccolo estratto costituisce l’entità della loro premessa “scientifica” sulle perdite russe:
Non esiste un conteggio ufficiale delle perdite da entrambe le parti. Ma il nostro tracker di guerra quotidiano offre alcuni indizi. I nostri dati satellitari e gli spostamenti nelle aree di controllo suggeriscono quando i combattimenti si stanno intensificando. Ciò si allinea bene con più di 200 stime credibili di vittime da parte di governi occidentali e ricercatori indipendenti. Combinando questi dati possiamo, per la prima volta, fornire un tributo giornaliero credibile di vittime – o una stima delle stime.
In breve, sostengono che i dati satellitari li mettono in guardia sui luoghi in cui i combattimenti si “intensificano”, e da ciò deducono, con un incredibile salto di logica, che le forze russe stanno subendo perdite massicce. La cosa sconcertante è che questa facile metodologia dovrebbe applicarsi anche all’AFU in parallelo, ma quando si tratta delle perdite dell’Ucraina, lo staff dell’Economist non ha nemmeno un briciolo di curiosità:
Leggete di nuovo: i dati satellitari che mostrano “intensi combattimenti” indicano intrinsecamente le perdite russe semplicemente partendo dal presupposto che qualsiasi combattimento, come regola generale, comporta perdite russe ma non ucraine. Si tratta di un livello di analisi incredibilmente infantile, parziale e, a dirla tutta, fraudolento.
Ricordiamo questa precedente rivelazione, che è tutto ciò che dobbiamo sapere sull’igiene informativa dell’Occidente:
Queste pubblicazioni sostengono di avere una sintonia così “sensibile” con le fluttuazioni del campo di battaglia da fornire cifre esatte sulla Russia, ma quando si tratta dell’Ucraina, improvvisamente mancano di dati.
Il fatto è che c’è una ragione per cui MediaZona ha cambiato bruscamente la sua metodologia includendo i morti “previsti” piuttosto che quelli realmente contati, come fatto in precedenza: perché, contrariamente a questa campagna di propaganda coordinata, le perdite russe sono state in realtà le più basse da molto tempo a questa parte. È proprio questo il motivo per cui era necessaria una campagna così orchestrata: L’Ucraina sta perdendo malamente e l’unico aspetto della guerra che i propagandisti potrebbero utilizzare per cercare di far girare la narrazione sono i dati sulle vittime, perché sono tipicamente i più “soggettivi” e ambigui in natura, il che li rende perfetti per una manipolazione subdola.
Attualmente, MediaZona indica il numero totale di vittime russe a circa 117.000 all’inizio di luglio:
Se si evidenzia solo il periodo dal 1° gennaio a oggi, si ottengono 9.849 morti confermate:
Questo significa che nei primi sei mesi di quest’anno hanno registrato appena 9.849 morti russi, pari a 1.641 al mese. Le pubblicazioni occidentali e ucraine, invece, affermano che la Russia sta subendo un numero di morti pari a al giorno. La discrepanza dimostra un distacco dalla realtà senza precedenti.
Sappiamo che MediaZona ha un “ritardo” perché ci vuole tempo per confermare le morti più recenti, e quindi il numero probabilmente aumenterà, ma probabilmente non di una quantità smodata. Non c’è alcuna prova che la Russia stia subendo perdite simili a quelle dichiarate dall’Occidente. In effetti, qualcuno ha fatto una buona osservazione: dal momento che l’Ucraina sostiene che il 70-90% delle uccisioni di soldati russi avviene tramite droni, dovrebbe essere in grado di mostrare tutte queste vaste perdite tramite le registrazioni delle telecamere dei droni; eppure non c’è nulla – e sappiamo che l’AFU adora niente di più che mostrare i suoi “successi”.
In un articolo di due mesi fa, avevo evidenziato la cronologia della crescita dell’esercito russo da fonti ucraine. La cronologia era la seguente:
2023: Bloomberg annuncia che le truppe russe sono 420.000.
2024: il capo dell’intelligence militare ucraina dichiara all’Economist che il numero è salito a 514.000.
Inizio 2025: Erano 600.000.
E cosa abbiamo ora, a metà del 2025? Direttamente dalla bocca di Zelensky:
Quindi, per ribadire e semplificare:
400k truppe nel 2023, 500k nel 2024, 600k all’inizio del 2025 e già 700k a metà del 2025.
Come può la Russia soffrire di 100.000 morti in soli sei mesi – come dice Rubio – mentre ne sta letteralmente guadagnando oltre 100.000 all’anno?
Per far sì che la Russia subisca 100.000 morti in sei mesi – annualmente 200.000 all’anno – e guadagni comunque più di 100.000 uomini all’anno, il reclutamento russo dovrebbe essere sbalorditivo, dato il ricambio dei contratti che abbiamo descritto in precedenza. È difficile immaginare che le persone si arruolino volentieri sotto la nube oscura di tali perdite, mentre in Ucraina – che subisce “molte meno perdite” – le persone vengono rapite con la forza dalle strade e ammassate in furgoni come bestiame.
È strano che siano i cimiteri ucraini a continuare a riempirsi tristemente, piuttosto che quelli russi, e che l’anno scorso il rapporto tra scambi di cadaveri sia balzato a cifre talmente astronomiche da essere fuori scala:
Qualunque giornalista onesto si accapponerebbe la pelle di fronte a tali incongruenze nei dati, ma ahimè questa specie è comune quanto un emù a tre zampe.
Per dare uno sguardo recente alle perdite russe durante gli assalti attivi, ecco un post onesto di fonti militari russe su un insediamento che è stato catturato. Scrivono di aver subito quattro “200” durante l’operazione:
Ci sono molti assalti di questo tipo al giorno, quindi si possono moltiplicare i quattro per la quantità giornaliera per ottenere un conteggio ragionevole, ma certamente non sono centinaia, tanto meno migliaia.
–
La Neue Zürcher Zeitung ha un nuovo articolo in cui spiega che l’Ucraina ha solo due opzioni per evitare il collasso:
Il piano operativo russo mira a fare a pezzi le forze di terra ucraine. Lo stato maggiore di Kiev ha ancora due opzioni per evitare una svolta.
Si comincia con il notare che Putin stesso ha illustrato la strategia in un recente forum:
“Hanno già troppo pochi effettivi”, ha analizzato Putin, “e stanno ritirando le loro forze lì, che sono già carenti nei teatri decisivi di conflitto armato”. Putin fa pochi sforzi per nascondere le sue intenzioni operative: lo Stato Maggiore russo vuole fare a pezzi l’esercito ucraino – per poi tentare uno sfondamento in un punto opportuno.
Poi rivelano le due opzioni che l’Ucraina ha di fronte, che annoterò:
Sirski, d’altra parte, ha ancora due opzioni di base per salvare l’Ucraina da una sconfitta militare nell’attuale situazione:
1. Ritardo: L’obiettivo è quello di perdere meno terreno possibile durante l’offensiva estiva russa e di evitare l’accerchiamento delle unità di truppe più grandi. In autunno si potrebbe consolidare il fronte e creare un punto di partenza per i negoziati. Al momento, Kiev sembra perseguire questa strada, nella speranza che gli Stati Uniti riprendano gli aiuti militari.
In questo caso, ammettono che la migliore possibilità per l’Ucraina è semplicemente quella di temporeggiare fino a quando non sarà possibile “negoziare”; ma sappiamo che la Russia non ha alcun incentivo a fare una cosa del genere, a meno che non vi pieghiate alle false cifre delle perdite russe e crediate che la Russia sia “all’ultimo grido”, come dicono Strelkov e il resto del clan dei doomer.
La loro seconda opzione è quella di ritirarsi sulla nuova linea difensiva che, secondo quanto riferito, è in costruzione a poche decine di chilometri dietro l’attuale LOC:
2. ritiro operativo: Le forze di terra ucraine potrebbero ritirarsi gradualmente dal fronte e assumere nuove posizioni protette da ostacoli naturali e artificiali. L’obiettivo è quello di evitare una capitolazione e di mantenere l’esercito a protezione della sovranità anche in caso di esito sfavorevole dei negoziati. Un’indicazione del fatto che questa opzione viene esaminata è la costruzione di una linea di fortificazione ucraina 20 chilometri dietro il fronte dalla zona di Kharkiv a Zaporizhia, nel sud-ovest dell’Ucraina.
Non ci sono forze sufficienti per una sorpresa in qualsiasi punto del fronte, e le punture di spillo nelle profondità dell’area russa difficilmente avranno effetto se non nell’area di informazione. Agli ucraini mancano aerei da combattimento come l’F-35 per ottenere una superiorità aerea almeno parziale. Inoltre, le munizioni per l’artiglieria missilistica Himars, i missili guidati Taurus, i rifornimenti per la difesa aerea – la lista è ben nota nelle capitali occidentali.
L’Europa è partita per le vacanze estive e Trump sta almeno considerando di inviare nuovamente armi difensive all’Ucraina. Ma il rischio di uno sfondamento russo cresce. Se si apre un varco da qualche parte, le forze di occupazione possono improvvisamente manovrare e utilizzare le teste di ponte di Sumi e Charkiv per operazioni su larga scala. Sirski si trovò quindi gradualmente a corto di opzioni.
Tuttavia, la decisione di passare dal ritardo al ritiro operativo in tempo utile non spetta al capo dell’esercito, ma al presidente Volodimir Zelensky a Kiev e al suo dilemma: tra la necessità militare e il principio politico di sperare che gli alleati occidentali mantengano le loro grandi parole. Nel frattempo, il Cremlino si sta impegnando a fondo – politicamente e militarmente.
Ma a cosa servirebbe? Proprio come la natura intrinsecamente insensata della prima opzione, la seconda difficilmente farebbe riflettere la Russia. Sappiamo che l’Ucraina si affida alle pubbliche relazioni per mantenere la continuità e le cifre delle vittime sono un aspetto che può essere abilmente nascosto, mentre i cambiamenti territoriali non possono. Ciò significa che il capo degli organetti, Zelensky, preferirebbe continuare tranquillamente a far fuori migliaia di uomini, fingendo una “forte resistenza” e fingendo che la Russia “non stia facendo progressi”. Se un improvviso sfondamento su larga scala inghiottisse un pezzo di territorio ucraino, il sostegno dell’Occidente crollerebbe di notte, perché l’Ucraina sarebbe considerata un caso morto.
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Infine, in previsione del presunto “grande annuncio” di Trump di lunedì, diverse testate giornalistiche riportano che Trump si sta preparando a lanciare un embargo petrolifero globale senza precedenti contro la Russia:
Descrive un piano fantasiosamente irrealistico per incatenare qualsiasi paese del mondo che acquisti petrolio o uranio dalla Russia con una massiccia tariffa del 500%. Le possibilità che passi sono risibili, perché distruggerebbe le economie degli Stati Uniti e dei suoi alleati, piuttosto che danneggiare la Russia.
I battibecchi sul “controllo” di cui si è parlato l’ultima volta tornano a galla:
I senatori si sono detti disposti a concedere a Trump il potere di rinunciare alle tariffe per un massimo di 180 giorni, a patto che ci sia una supervisione del Congresso. La Casa Bianca, tuttavia, insiste sul fatto che il Congresso non dovrebbe avere il potere di intervenire se il Presidente decidesse di porre fine alle sanzioni.
Maximilian Hess, ricercatore presso l’Istituto di ricerca sulla politica estera, ha previsto che Trump si opporrà alla tariffa del 500% prevista dal disegno di legge, che equivarrebbe a un embargo globale sul petrolio russo.
Hess spiega:
“Così com’è scritto, a mio avviso è troppo forte per essere usato, a meno che Trump non esca allo scoperto e dica: ‘Dobbiamo affrontare il rischio che la Russia rappresenta per l’Europa e per il mondo e dobbiamo accettare prezzi del petrolio più vicini ai 100 dollari o forse anche più alti'”, ha detto. “Cosa che non vedo fare a Trump”.
La ragione per cui Trump vuole un tale controllo è che sta semplicemente usando la minaccia di queste risibili ‘sanzioni’ per cercare di spaventare Putin e indurlo a fare concessioni, e vuole avere la possibilità di ritirarsi immediatamente, in stile TACO, non appena gli si ritorce contro. Il segmento neocon del Congresso – Graham, Blumenthal e altri – vuole subdolamente “infornare” le sanzioni avendo potere su di esse, in modo che Trump sia costretto a un grande confronto con la Russia; ovviamente, le talpe dello Stato profondo che si muovono a ruota libera nel Congresso non possono permettere un riavvicinamento USA-Russia e devono creare spaccature a tutti i costi.
È anche il motivo per cui di recente hanno fatto “trapelare” l’audio delle sue minacce di bombardare Mosca in un momento opportuno: stanno facendo tutto ciò che è in loro potere per agitare le acque e alimentare le fiamme della narrativa del confronto per spingere Trump a un’escalation contro Mosca.
La grande domanda è: Trump ha la spina dorsale per mantenere il corso?
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Ultimamente:
L’Ucraina riferisce che la Russia ha accumulato un numero record di missili: 2000 in totale:
Proprio mentre parliamo, è in corso un altro grande attacco contro l’Ucraina, con centinaia di droni e alcune decine di missili, come al solito non contrastato:
Mi chiedo quando arriveranno i Patriot.
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Dopo aver fallito nel tentativo di costringere la Russia a una sfavorevole cessazione delle ostilità (leggi: resa), gli Stati Uniti stanno ora giocando di nuovo alla roulette delle “sanzioni”, che il vampiro neocon dello Stato profondo Lindsey Graham ha incastrato a Trump.
Le sanzioni sulle esportazioni di energia e sui servizi bancari russi hanno lo scopo di “degradare” la capacità della Russia di condurre la guerra in perpetuo, dato che l’élite occidentale si sta finalmente rendendo conto che la Russia non si sottometterà e intende continuare all’infinito.
Il NYT scrive che i senatori Lindsey Graham e Richard Blumenthal stanno preparando un disegno di legge su nuove sanzioni contro il settore energetico russo, che potrebbero portare a un crollo globale dei mercati energetici e a una recessione mondiale. Allo stesso tempo, la pubblicazione indica che a Mosca non c’è panico. La Russia è abituata alle pressioni delle sanzioni e si sta rapidamente adattando.
Ma c’è ancora qualche equivoco che è chiaramente inteso a dare a Trump la possibilità di giocare da entrambe le parti, come al solito, cioè di simulare il “duro” attraverso una legge sulle sanzioni, ma di avere la capacità di sminuirle diplomaticamente e di ridurle secondo le necessità, come un contentino per entrambe le parti.
Rubio lo lascia intendere:
In modo analogo, la stampa riferisce ora che Trump potrebbe avviare il primo pacchetto di armi completamente nuovo all’Ucraina sotto la sua amministrazione, in contrasto con il PDA dell’era Biden che stava ancora spremendo le ultime gocce.
Ma, ancora una volta, c’è qualcosa di più di quello che si vede?
In primo luogo, si parla di un misero pacchetto PDA (Presidential Drawdown Authority) da 300 milioni di dollari, che di fatto equivale a una manciata di missili, a seconda del sistema d’arma. Anche il PDA di Biden aveva quasi 4 miliardi di dollari da erogare.
In secondo luogo, come parte del suo nuovo pacchetto, Trump si sarebbe impegnato a inviare “10 missili Patriot” all’Ucraina:
Probabilmente starete pensando che si tratta di 10 lanciamissili completi, un’offerta considerevole!
Ma per quanto possa sembrare sconvolgente, i 10 missili sembrano riferirsi proprio a questo: 10 intercettatori missilistici veri e propri, cioè le munizioni.
Nell’articolo, Trump chiede alla Germania di inviare una batteria completa mentre lui invia 10 missili. Si tratta di una richiesta strana, in quanto 10 missili lanciatori rappresenterebbero essi stessi una batteria, per cui non sarebbe necessario fare una distinzione. In realtà, si tratta di quasi due batterie, ognuna delle quali costa circa 2,5 miliardi di dollari in termini di esportazioni; 5 miliardi di dollari sono una cifra estremamente improbabile da parte di Trump, dato che il suo nuovo pacchetto mira a regalare appena 300 milioni di dollari, come già detto.
Inoltre, gli aiuti precedentemente “congelati” contenevano in modo verificabile “30 missili Patriot” – cioè le munizioni vere e proprie – come si può verificare attraverso varie fonti tradizionali. Qui, Reuters:
Quindi, se questa tanto decantata spedizione ha generato tanto sconcerto per soli 30 missili, è ipotizzabile che l’annuncio di Trump di altri 10 si riferisca alle munizioni. Si tenga presente che i missili Patriot PAC-3 MSE costano circa 10 milioni di dollari l’uno. Ciò significa che altri 10 missili costerebbero fino a 100 milioni di dollari, il che ha certamente senso in questo contesto.
Se così fosse, allora dovremmo rimanere a bocca aperta di fronte a questo teatro dell’assurdo: tutto questo rumore per appena 10 missili che verranno sparati in tre o quattro secondi durante il prossimo attacco della Russia?
Proprio ieri sera, la Russia ha ancora una volta battuto il record, questa volta bombardando l’Ucraina con oltre 700 droni e missili in una sola notte.
Cosa dovrebbero fare i miseri 10 missili contro questo? È evidente la deliberata doppiezza e i giochi di ritardo di questo spettacolo farsesco.
L’ultima ragione per dubitare che i 10 si riferiscano ai lanciatori è la dichiarazione di Rubio riguardo al fatto che altre nazioni devono pagare il conto per inviare i loro lanciatori all’Ucraina, implicando che gli Stati Uniti non dovrebbero inviarne altri:
Naturalmente, sappiamo tutti che se si tratta di 10 miseri missili o di 10 batterie, alla fine non fa alcuna differenza. A 10 milioni di dollari per missile, si prevede un costo di 7 miliardi di dollari al giorno per intercettare gli oltre 700 attacchi di droni Geran della Russia. Diverse personalità ucraine hanno recentemente affermato che la Russia lancerà presto più di 1.000 Geran al giorno.
Ora Trump ha dichiarato alla NBC che lunedì farà una “grande dichiarazione” sulla Russia, presumibilmente qualcosa che avrà a che fare con le sanzioni.
Se una qualche forma di sanzioni più severe dovesse essere approvata, sarebbe solo parte del solito piano europeo di mettere in gabbia le flotte mercantili russe, piano che si sta sviluppando ogni giorno in direzioni pericolose.
Ricordiamo il doppio gioco: escludere le navi russe dai mercati assicurativi internazionali, quindi “richiedere l’assicurazione” in acque interamente controllate da ZEE arbitrarie per attuare la “pirateria legale”.
La Svezia ha ora annunciato che a partire dal 1° luglio la sua marina militare fermerà, ispezionerà e potenzialmente sequestrerà tutte le imbarcazioni sospette che transitano nella sua zona economica esclusiva, e sta dispiegando le forze aeree svedesi per sostenere questa minaccia.Dal momento che le zone economiche marittime combinate della Svezia e dei tre Stati baltici coprono l’intero Mar Baltico centrale, ciò equivale a una minaccia virtuale di tagliare tutti i commerci russi che escono dalla Russia attraverso il Baltico – il che sarebbe davvero un duro colpo economico per Mosca.
Inoltre, minaccerebbe di tagliare l’accesso alla Russia via mare all’exclave russa di Kaliningrad, circondata dalla Polonia.
Nel frattempo, la Russia ha continuato a scortare le navi della cosiddetta “flotta ombra”:
Un analista della Starboard Maritime Intelligence Ltd riferisce che le petroliere SELVA e SIERRA hanno attraversato il Canale della Manica contemporaneamente alla corvetta BOIKOY del Progetto 20380 della Flotta del Baltico della Marina russa. Si tratta della prima scorta registrata di petroliere russe da parte di navi da guerra russe (attraverso il Canale della Manica).
Per sicurezza, la Russia ha anche incrementato alcune di quelle riserve fantasma di cui abbiamo tanto parlato.
La Russia espande la presenza militare vicino al confine finlandese
Nuove immagini satellitari pubblicate da fonti occidentali mostrano che la Russia sta costruendo un nuovo complesso militare vicino al confine finlandese, un chiaro segno di un rafforzamento a lungo termine delle truppe nella regione.
Importanti lavori di sbancamento e nuove strutture sono apparse presso il presidio di Lupche-Savino, parte della città di Kandalaksha nella regione di Murmansk, a circa 110 km dalla Finlandia. Secondo i rapporti, due brigate sono già state trasferite in quest’area.
Le foto satellitari rivelano anche l’espansione del presidio di Sapyornoye sull’istmo careliano, situato a circa 70 km dal confine finlandese.
Contemporaneamente la Russia sta proseguendo i preparativi a Petrozavodsk, la capitale della Carelia. La città ospita il comando di una divisione mista dell’aviazione, che supervisiona la vicina base aerea di Besovets.
In particolare, la Russia sta formando un 44° Corpo d’Armata completamente nuovo nella Repubblica di Carelia – una mossa che di fatto aggiunge circa 15.000 truppe alla frontiera orientale della NATO.
Non stupitevi di vedere lì molti T-90M appena prodotti.
Le sanzioni statunitensi, in ogni caso, si dà il caso che siano nate morte, come lo scettico WaPo ci ha già informato la volta scorsa:
Sulla carta, la proposta di legge del senatore Lindsey Graham (R-South Carolina), che tenta di imporre alla Russia le sanzioni commerciali più dure e di più ampia portata, dovrebbe piacere ai sostenitori dell’Ucraina. Ma c’è un problema: per quanto audace sia la legislazione, essa equivarrebbe a lanciare una guerra commerciale con quasi tutto il resto del mondo, tagliando il naso all’America per far dispetto al Presidente russo Vladimir Putin.
Nel frattempo, la stanchezza per l’Ucraina si fa sentire in Occidente. Il presidente polacco Duda ha fatto una dichiarazione piuttosto provocatoria, minacciando essenzialmente di chiudere il gasdotto dell’aeroporto di Rzeszow verso l’Ucraina, che è di gran lunga il nodo di armi più critico della NATO:
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In chiusura, il venditore di olio di serpente “Hissing Hegseth” ha pubblicato questo nuovo spot pubblicitario che fa rabbrividire, per annunciare la prossima era del “dominio dei droni” americano:
Sembra che sotto Trump l’America continui il suo rituale dionisiaco di umiliazione. O questo o la sua trasformazione in una sorta di bazar-casinò kitsch, campeggiante, post-capitalista e distopico.
Insomma, il tipo di luogo che questa ristrutturazione della Casa Bianca è adatta a simboleggiare:
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Tra le molte memorie lasciate dai partecipanti alla Prima guerra mondiale, un motivo onnipresente è un profondo senso di disorientamento. L’esperienza della guerra era nettamente diversa, a seconda del nodo della gerarchia di comando in cui ci si trovava, ma gli arruolati, gli ufficiali e le autorità politiche condividevano tutti la sensazione che l’Europa fosse attanagliata da una macchina di morte che era sfuggita al controllo dell’uomo. Gli umili fanti al fronte lo sperimentarono più acutamente, nell’intenso disorientamento fisico che accompagnava i bombardamenti prolungati dell’artiglieria moderna, e anche nello strisciante intorpidimento spirituale che derivava da anni di assedio in trincee fangose piene di detriti, topi e cadaveri.
Per gli ufficiali delle alte sfere, il disorientamento della guerra fu caratterizzato non tanto dal disorientamento fisico del fronte e dalla sua infinita cacofonia di spari ed esplosioni, quanto piuttosto dalla rottura di presupposti di lunga data su come condurre le operazioni militari, con i pianificatori operativi che cercavano soluzioni nell’ignoranza. Col senno di poi, è facile liquidare le brutali e inefficaci offensive (in particolare sul fronte occidentale) come un esercizio di macelleria e ignoranza. In tempo reale, tuttavia, gli eserciti europei stavano cercando di risolvere problemi tattici e operativi che nessuno aveva mai affrontato prima, e nessuno aveva ottenuto risultati migliori di altri, soprattutto nei primi anni di guerra. Ypres, la Somme e Verdun si fondono in un velo di morte dissipata.
Data l’apparente insensatezza di queste operazioni, le perdite di massa che produssero e la natura bloccata di un fronte che si mosse pochissimo in un arco di tempo misurato in anni, è facile pensare alla Prima Guerra Mondiale come a un conflitto fondamentalmente sterile e statico. Questo sembrerebbe essere vero sia in mare che sulla terraferma, con le costose flotte dei combattenti che si scontravano in scontri che erano pochi, lontani tra loro e indecisi.
Tuttavia, se la guerra fu relativamente statica sulla scala operativa, gli immensi sforzi della guerra spinsero a sperimentare senza sosta. La Grande Guerra, pur essendo afflitta da fronti glaciali, combattimenti posizionali e intenso logoramento, vide la nascita di nuove forme di combattimento che sarebbero diventate fondamentali per la conduzione delle guerre successive. Tra queste, la guerra sottomarina senza restrizioni della Germania contro le navi nemiche, le innovative tattiche di fanteria incentrate sulle piccole unità e sull’infiltrazione e le primitive varianti del bombardamento strategico. È impossibile raccontare la storia della Seconda guerra mondiale senza questi concetti, tutti nati dal trauma apparentemente statico della guerra precedente.
Una delle nuove forme di combattimento della Grande Guerra, che come le altre avrebbe raggiunto la maturità nella seconda guerra, era la forma operativa che conosciamo come assalto anfibio. L’idea delle operazioni anfibie in sé non era nuova, naturalmente: i militari usavano il mare come spazio di manovra per il dispiegamento delle truppe fin dall’antichità. Una delle prime battaglie di cui la maggior parte delle persone ha sentito parlare –la battaglia di Maratona– iniziò con uno sbarco anfibio persiano nella Grecia centrale. Tuttavia, fu nella Prima guerra mondiale che le operazioni anfibie assunsero per la prima volta la forma riconoscibile dai popoli moderni: lo sbarco di una forza d’assalto contro una difesa preparata, di concerto con il supporto navale, con l’intenzione di tenere permanentemente la testa di ponte.
Come i grandi assedi dei principali fronti europei, queste operazioni marittime costituivano un problema di combattimento del tutto nuovo e le complicazioni non mancavano. Come praticamente tutti gli altri aspetti del combattimento offensivo nella Prima Guerra Mondiale, gli assalti anfibi erano chiaramente una forma operativa immatura, al punto che molti pianificatori tra le due guerre trassero la lezione che tali assalti non potevano essere condotti con successo. Naturalmente si sbagliavano, e le operazioni anfibie divennero pietre miliari della Seconda Guerra Mondiale in un’ampia varietà di teatri. In effetti, la più famosa battaglia americana di tutti i tempi, l’invasione della Normandia, fu condotta essenzialmente secondo le linee sperimentate nella prima guerra. Nel bene e nel male, il trattamento crudo di Spielberg nella scena d’apertura diSalvate il soldato Ryanè forse la rappresentazione più nota del combattimento americano.
Qui ripercorreremo la nascita di questa forma operativa, che fu generata – come praticamente tutti i disastri militari della Grande Guerra – da una combinazione di frustrazione strategica, imbroglio diplomatico, arroganza e un nodo tattico schiacciante per il quale nessuno aveva ancora trovato una soluzione. Mentre l’Europa cercava una soluzione nel 1915, alcuni uomini, come il Primo Lord dell’Ammiragliato britannico Winston Churchill, pensavano di averla trovata. Invece, si limitarono ad aprire un nuovo luogo di massacro nel luogo in cui la terra e l’acqua si incontrano.
Breve nota sulle operazioni anfibie.
Allora Dio disse: “Le acque sotto il cielo si riuniscano in un solo luogo e appaia la terra asciutta”; e così fu. E Dio chiamò la terra asciutta Terra, e il raduno delle acque lo chiamò Mare. E Dio vide che era cosa buona.
~ Genesi 1, 9-10
Il mare è sempre stato una zona di combattimento per gli Stati belligeranti del mondo e uno dei primi privilegi dello Stato che detiene il potere marittimo è il potere di usare l’acqua come spazio di manovra, per proiettare il potere di combattimento sulla terraferma attraverso vaste distanze. Questa proiezione di potenza, attraverso lo spostamento di forze da combattimento dal mare su una costa ostile, ciò che chiamiamo operazione anfibia, è uno dei compiti di combattimento più antichi dell’esperienza umana e uno dei più pericolosi. Una delle prime battaglie nella coscienza generale dell’occidente, laBattaglia di MaratonaLa battaglia di Maratona fu un’azione ateniese per contrastare uno sbarco anfibio persiano nella Grecia centrale, e nei secoli successivi il Mediterraneo divenne spesso un’autostrada per gli eserciti che navigavano (e remavano) avanti e indietro attraverso lo spazio interno del mondo antico.
La Grande Guerra, iniziata nel 1914, segnò un cambiamento sismico nella natura del compito di combattimento anfibio, che sembrò evolversi da un giorno all’altro in qualcosa di quasi completamente nuovo. La lunga storia del combattimento anfibio aveva generalmente enfatizzato il ruolo del mare come spazio di manovra libero, per lo sbarco preferenziale di forze in luoghi inaspettati o non difesi – in effetti, utilizzando il lungo raggio e la flessibilità del trasporto marittimo per aggirare il nemico. Per molti versi, l’intero scopo della proiezione di forze via mare era quello di sfruttare l’enorme raggio d’azione per far sbarcare le truppe dove il nemico non si trovava.
I britannici, ovviamente, non erano estranei a questa pratica. Come potenza navale preminente al mondo per molti secoli, pochi potevano vantare una così vasta esperienza nello spostamento di truppe negli angoli bui di teatri lontani. La capacità di depositare forze sul litorale aveva giocato un ruolo chiave nei numerosi conflitti coloniali della Gran Bretagna; in una delle più famose imprese d’armi britanniche, le forze del generale James Wolfe sbarcarono sulle rive del fiume San Lorenzo nel 1759 e scalarono le scogliere vicino a Quebec, cogliendo di sorpresa i francesi. Questa vittoria, che accelerò notevolmente l’acquisizione del Canada da parte degli inglesi, fu scandita dalle famose ultime parole del comandante francese Montcalm, che respinse la minaccia anfibia affermando: “Non si può pensare che i nemici abbiano le ali per poter attraversare il fiume nella stessa notte, sbarcare, scalare il dirupo ostruito e scalare le mura”. Infatti.
Sebbene lo sbarco a Quebec sia stato forse l’esempio più cinematografico della forma operativa, non era certo unico. Sia nella guerra rivoluzionaria americana che nelle guerre napoleoniche, il controllo britannico del mare permise di dispiegare e sostenere le forze nei teatri di loro scelta. Il controllo britannico del Chesapeake permise loro di penetrare nell’entroterra della costa americana (portando direttamente all’incendio di Washington DC nel 1812), e nelle guerre contro la Francia sostennero teatri di combattimenti terrestri scollegati in Iberia, compresa la famosa campagna di Wellington in Spagna.
Tutto questo è forse interessante, ma il punto chiave della lunga esperienza britannica con le operazioni anfibie era questo: il vantaggio del controllo del mare era che il mare diventava uno spazio di manovra, grazie al quale le forze potevano essere inserite in posizioni vantaggiose per ottenere un vantaggio sul nemico. Che si trattasse di un’impresa su piccola scala, simile alle moderne operazioni speciali, come nel caso della task force di Wolfe che scalò le scogliere del San Lorenzo, o su scala più strategica, come nel caso di Wellington che infiammò il fronte iberico contro Napoleone, il punto era che, poiché il mare permetteva di inserire le forze in un punto a scelta, poteva essere usato per aggirare o evitare le posizioni di forza del nemico.
In altre parole, lo scopo delle operazioni anfibie non era certo quello di usare il mare come piattaforma per lanciare assalti diretti ai punti di forza nemici. Anche ai tempi dei cannoni e delle vele, le fortificazioni litoranee, e in particolare i forti veri e propri, presentavano vantaggi intrinseci rispetto alle forze marittime che erano terribilmente difficili da superare. A parte la differenza di durata che derivava dallo scambio di cannoni tra un forte di pietra e una nave di legno, i forti godevano di un’elevazione vantaggiosa e di magazzini molto più grandi e meglio protetti.
Pertanto, nella maggior parte dei casi storici in cui le forze anfibie si sono trovate ad affrontare punti di forza costieri, hanno puntato ad aggirare il nemico sbarcando a distanza. Questo era stato il caso dell’assedio di Louisbourg (1758) e della battaglia di Beauport (1759). Quando Winfield Scott guidò l’invasione americana del Messico nel 1847, sbarcò l’intera forza a diverse miglia dalla spiaggia dalle fortificazioni di Veracruz e poi marciò via terra per assaltarle. Questo era considerato un metodo essenzialmente da manuale e idealizzato per affrontare una potente fortezza costiera. Nei rari casi in cui l’assalto diretto dal mare era inevitabile, i risultati erano spesso deludenti. Nella battaglia di Santa Cruz de Tenerife del 1797, Horatio Nelson perse un braccio guidando un assalto anfibio malriuscito alle fortificazioni spagnole nelle Isole Canarie. È sulla base di questa sconfitta che è stato attribuito a Lord Nelson il famoso detto, anche se quasi certamente non è stato lui a pronunciarlo: “Una nave è un pazzo a combattere un forte”.
Nelson ferito durante la battaglia di Santa Cruz de Tenerife, di Richard Westall
L’obiettivo di tutto ciò è relativamente semplice: esisteva una grande esperienza di operazioni anfibie in quanto tali, ma queste generalmente miravano a utilizzare il mare come spazio di manovra per depositare le truppe in teste di ponte non difese. Al contrario, non c’era un corpo di lavoro incoraggiante o sistematico che suggerisse che fosse desiderabile lanciare un assalto dal mare direttamente contro la forza delle difese nemiche preparate. Anche in casi di studio più recenti, come la guerra di Crimea, le forze navali francesi e britanniche non erano state in grado di sottomettere le fortificazioni russe in luoghi come Sebastopoli e Petropavlovsk attraverso un assalto via mare, e le operazioni intorno a Sebastopoli si trasformarono in un estenuante assedio via terra che assomigliava in modo inquietante a un’anteprima della guerra di posizione della Prima guerra mondiale. Anche nella guerra civile americana, la potenza navale permise alle forze dell’Unione di penetrare nel cuore della Confederazione attraverso i grandi fiumi interni, ma fu inadeguata per un assalto diretto alle potenti difese di Vicksburg, che alla fine fu sottomessa, come Sebastopoli, con operazioni via terra.
Quando scoppiò la Prima Guerra Mondiale, gli inglesi stavano studiando sistematicamente questi esempi passati di operazioni anfibie e stavano valutando come applicarli alle operazioni contro i tedeschi. Nel gennaio del 1913, Winston Churchill, in qualità di Primo Lord dell’Ammiragliato, incaricò l’ammiraglio Lewis Bayly di studiare la fattibilità dell’uso di operazioni anfibie per impadronirsi di una base di flottiglia avanzata sulle coste olandesi, danesi o scandinave, che Bayly in seguito restrinse all’isola di Borkum, a circa 18 miglia dalla costa tedesca. Churchill incaricò inoltre Bayly di studiare la fattibilità di uno sbarco di forze tedesche inosservate in Gran Bretagna, che rimaneva una preoccupazione sulla base di esercitazioni che avevano dimostrato la possibilità per una flotta da sbarco tedesca di raggiungere le coste britanniche senza essere individuata. Così, allo scoppio della guerra, Bayly stava già valutando il potenziale di operazioni anfibie in entrambe le direzioni, ovvero di sbarchi britannici sulla sponda opposta del Mare del Nord e di sbarchi tedeschi in Gran Bretagna.
Sulla base della sua analisi degli assalti anfibi del passato, Bayly trasse alcune importanti conclusioni: in particolare, che le finte e altri metodi di inganno sarebbero stati assolutamente necessari per coprire qualsiasi potenziale sbarco e, in secondo luogo, che la Royal Navy avrebbe dovuto acquisire mezzi da sbarco specializzati a fondo piatto. In effetti, egli aveva prodotto uno studio di fattibilità che, sebbene non avesse portato ad alcuna operazione anfibia a Borkum o in qualsiasi altro punto della costa del Mare del Nord, aveva fornito il primo schizzo intenzionale di futuri assalti anfibi. Il tema fu ripreso dal First Sea Lord Jacky Fisher, che sostenne la necessità di uno sbarco sulla costa baltica della Germania.
Tuttavia, la pianificazione sistematica fu minata dal generale senso di paralisi strategica che affliggeva la Marina britannica nel primo anno di guerra. Non emerse alcun consenso tra gli ammiragli su dove, come o addirittura se la flotta tedesca dovesse essere stanata per una battaglia di flotta decisiva, o su come si potesse utilizzare il dispiegamento di forze in avanti per raggiungere questo obiettivo. Fisher si batteva per l’opzione Baltico e ordinò una serie di mezzi da sbarco e cannoniere a basso pescaggio, mentre altri sostenevano l’offensiva del dragaggio di mine, le trappole per sottomarini e le operazioni sul litorale del Mare del Nord – c’era persino uno studio speculativo su un raid per distruggere le chiuse del Canale di Kiel. In breve, le proposte sembravano essere tante quante le personalità coinvolte. La sensazione generale era che la potenza marittima britannica avesse acquisito un’immensa flessibilità operativa e la capacità di proiettare la potenza di combattimento in qualsiasi luogo, ma c’era poco consenso su come capitalizzare tutto ciò. Ciò che contava, tuttavia, era che la marina stava già pensando sistematicamente alle operazioni anfibie, a partire dall’indagine storica di Bayly del 1913, quando si presentò un’opportunità nel ventre apparentemente molle del nemico.
La decisione per lo stretto
La grande catastrofe militare che conosciamo come battaglia di Gallipoli è una specie di paradosso storiografico. La ragione di ciò è abbastanza semplice. Poiché i responsabili della campagna britannica di Dardanelle furono in seguito costretti a difendersi davanti a una commissione d’inchiesta, fu prodotta un’enorme quantità di prove scritte sul processo di pianificazione. Di conseguenza, la battaglia è uno degli incidenti meglio documentati della storia militare. Tuttavia, poiché tra gli imputati c’era un individuo particolarmente verboso e famoso di nome Winston Churchill, questo stesso prolifico corpo di prove è stato pesantemente colorato dagli energici sforzi del suddetto signore per riabilitare il suo nome. In particolare, Churchill dedicò un ampio numero di parole nella sua storia della guerra in sei volumi per difendere le sue decisioni riguardo ai Dardanelli. Quindi, il paradosso è che quando si parla di Gallipoli e dei Dardanelli, in realtà sappiamo molto della campagna, ma le cose che sappiamo sono offuscate dalla versione della storia ampiamente diffusa da Churchill.
Per capire la disfatta militare che si è consumata negli stretti turchi, è bene tornare all’inizio. Convenzionalmente, alla campagna degli stretti si può attribuire una data d’origine precisa. Il 30 dicembre 1914, l’addetto militare britannico in Russia, il maggiore generale Sir John Hanbury-Williams, fu convocato allo Stavka (alto comando dell’esercito) di Baranovichi (l’odierna Bielorussia) per incontrare il cugino dello zar e comandante in capo russo, il granduca Nicola. Il Granduca informò il suo ospite che i Turchi avevano schierato un grande esercito nel Caucaso che stava avanzando sul fronte. Il Granduca tessé una fitta nube di melodramma, lamentando che la Russia era stata “costretta a privare il Caucaso della maggior parte delle sue truppe” per combattere i tedeschi. Suggerì, tuttavia, che “c’erano molti luoghi nell’Impero Ottomano in cui qualsiasi forza messa in campo avrebbe potuto ampiamente compensare le vittorie turche nel Caucaso”, e suggerì in particolare che una minaccia a Costantinopoli avrebbe potuto essere molto utile a questo proposito.
Senza dirlo esplicitamente, il Granduca chiedeva un attacco britannico diversivo contro gli Ottomani e, in un momento di notevole efficienza diplomatica, questo incontro ad hoc allo Stavka si trasformò in una vera e propria pianificazione operativa a Londra nel giro di pochi giorni. Quasi subito dopo aver concluso l’incontro con il Granduca, Hanbury-Williams salì su un treno per Pietrogrado, accompagnato dal principe Nikolai Kudashev (capo dell’ufficio diplomatico dello Stavka). Arrivati nella capitale zarista, i due incontrarono il ministro degli Esteri russo, Sergei Sazonov, e l’ambasciatore britannico, Sir George Buchanan. Il giorno di Capodanno, Buchanan inviò un telegramma urgente al ministero degli Esteri britannico a Londra, chiedendo che la Gran Bretagna escogitasse proprio un’operazione diversiva per alleggerire la pressione sui russi. Il giorno seguente (2 gennaio), il ministero degli Esteri trasmise questa richiesta a Churchill (Primo Lord dell’Ammiragliato) e a Kitchener (Segretario di Stato alla Guerra). Alla fine della giornata, Kitchener e Churchill conclusero che l’unico schema operativo adatto era l’assalto ai Dardanelli.
L’efficienza di questa catena di comunicazione lasciava senza fiato. La richiesta speculativa e poco velata del Granduca di un diversivo si trasformò in pochi giorni in una seria pianificazione operativa a Londra. In un modo strano, tuttavia, queste discussioni si stavano muovendo così velocemente da superare gli eventi sul campo. Fu proprio durante quei tre giorni di comunicazioni e discussioni urgenti che la Terza Armata ottomana fu portata sull’orlo della totale disintegrazione nella battaglia di Sarikamish, preannunciando una decisiva vittoria russa sul fronte caucasico. Il 2 gennaio, la situazione “urgente” nel Caucaso era stata completamente ribaltata e la premessa stessa della richiesta del Granduca di un attacco diversivo era diventata obsoleta. Questo, tuttavia, non ebbe alcun effetto significativo sul processo di pianificazione, che in pochi giorni aveva già preso un potente slancio.
Il motivo era piuttosto semplice. Anche prima della richiesta del Granduca di un attacco diversivo, il gabinetto di guerra britannico stava già pensando a dove aprire nuovi fronti per aggirare la situazione di stallo che si era creata sul fronte occidentale, pesantemente fortificato. Mentre Churchill, all’epoca, era ancora un sostenitore delle operazioni nel Baltico, altri membri del Consiglio di Guerra britannico avevano già maturato l’idea che il modo migliore per minare la Germania potesse essere quello di aprire un fronte contro la Turchia, soprattutto perché le vittorie alleate contro i turchi avrebbero potuto costringere gli Stati balcanici neutrali come la Bulgaria e la Grecia a entrare in guerra a fianco dell’Intesa. Un memorandum del 28 dicembre di Maurice Hankey, segretario del Consiglio di Guerra, sosteneva che “la Germania può forse essere colpita più efficacemente, e con i risultati più duraturi sulla pace del mondo, attraverso i suoi alleati, e in particolare attraverso la Turchia”. La richiesta del Granduca, quindi, servì solo ad accelerare una discussione già in corso a Londra.
Lord Kitchener
Churchill, da parte sua, era inizialmente scettico su un’operazione contro i Dardanelli e nelle discussioni iniziali del 2 gennaio sembra che lui e Kitchener pensassero solo a un attacco dimostrativo, piuttosto che a un vero e proprio sforzo per entrare nello stretto turco. Tuttavia, nelle due settimane successive Churchill fece una brusca virata e divenne un energico sostenitore della nascente operazione, e alla fine il “proprietario” di gran parte della colpa.
Il 3 gennaio Churchill inviò un telegramma all’ammiraglio Sackville Carden, comandante dello squadrone britannico nel Mediterraneo, chiedendogli senza mezzi termini se considerasse “un’operazione praticabile la forzatura dei Dardanelli con le sole navi”. Si trattava di un punto cruciale, poiché nel gennaio 1915 i britannici non avevano truppe da destinare a un nuovo fronte terrestre di dimensioni reali. Con grande sorpresa di Churchill, Carden rispose che, sebbene gli stretti turchi non potessero essere “affrettati”, riteneva possibile aprirli sistematicamente dal mare. Poi, il 7 gennaio, Churchill ricevette un rapporto di intelligence secondo cui la nave più potente della flotta turca era stata messa fuori uso per diversi mesi dopo aver colpito una mina. Si trattava dellaSMS Goeben, un potente incrociatore da battaglia tedesco che si era rifugiato a Costantinopoli ed era stato “adottato” nella marina turca dopo essere stato sorpreso nel Mediterraneo allo scoppio delle ostilità; infatti, il rifiuto dei turchi di sfrattare ilGoebenera stata una delle cause principali dell’ingresso formale della Turchia in guerra. Infine, il 12 gennaio, Jacky Fisher suggerì a Churchill che la nuova super-dreadnought britannica, laRegina Elisabettache era in viaggio verso il Mediterraneo per le prove di cannoneria, poté partecipare all’operazione e testare i suoi massicci cannoni da 15 pollici sulle fortificazioni turche. La disponibilità dellaLa Regina Elisabettaagli occhi di Churchill, migliorò significativamente le prospettive, dato che la flotta del Mediterraneo (un comando britannico privato di priorità) consisteva principalmente di incrociatori da battaglia più leggeri e di vecchie corazzate pre-dreadnought.
L’effetto netto di tutte queste informazioni fu quello di far cambiare completamente idea a Churchill sulla fattibilità di un’operazione nei Dardanelli. Sembra che sia rimasto sorpreso dalla risposta favorevole dell’Ammiraglio Carden sulle prospettive di sfondamento dello stretto e dall’improvvisa prospettiva di condurre l’operazione con rapporti di forza molto più favorevoli (cioè con l’aggiunta delle navi da guerra).Regina Elisabettae la sottrazione dellaGoeben) fece una forte impressione. Così, il 13 gennaio, Churchill sorprese tutti i membri del Consiglio di Guerra presentando un piano in quattro punti per forzare gli stretti turchi dal mare. Concludeva la sua proposta sostenendo che: “Una volta ridotti i forti, i campi minati sarebbero stati sgombrati, e la flotta avrebbe proceduto fino a Costantinopoli e distrutto laGoeben.Non avrebbero avuto nulla da temere dalle armi da campo o dai fucili, che sarebbero stati solo un inconveniente”. Ultime parole famose, ma l’operazione era in corso.
La Queen Elizabeth Super-Dreadnought
Sfortunatamente, dopo aver intrapreso la strada della Turchia, due fattori stavano cospirando per spingere gli inglesi a un vero e proprio disastro militare. In primo luogo, considerazioni diplomatiche e strategiche costrinsero i britannici a un assalto solo navale ai Dardanelli, escludendo altre scelte operative. Nel frattempo, gli intensi sforzi degli ufficiali tedeschi che collaboravano con i turchi stavano trasformando i Dardanelli nella posizione meglio difesa e più professionalmente presidiata dell’Impero Ottomano. In altre parole, nonostante avessero un’enorme portata operativa e molte scelte, Churchill e i suoi colleghi stavano inconsapevolmente puntando direttamente alla posizione ottomana più inespugnabile sulla mappa. Tutti questi fattori erano indipendenti, ma avevano una sinergia micidiale. Li esamineremo di volta in volta.
L’Impero Ottomano aveva un vasto litorale esposto alla potenza navale britannica. Infatti, nel momento in cui l’operazione dei Dardanelli cominciò a prendere slancio, i britannici stavano già combattendo i turchi nello Shatt Al Arab e, naturalmente, li stavano fissando attraverso il Sinai dal Canale di Suez – e c’erano altri luoghi potenziali per aprire un fronte. In effetti, Lloyd George (presto Primo Ministro, ma all’epoca Cancelliere dello Scacchiere) aveva suggerito già a dicembre che la Gran Bretagna avrebbe potuto sbarcare forze sulla costa siriana, dove avrebbe potuto interrompere la ferrovia di Baghdad e tagliare le linee interne di rifornimento e comunicazione ottomane. Per innumerevoli aspetti, questa era una prospettiva molto più facile che forzare i Dardanelli, ma le preoccupazioni diplomatiche la preclusero.
Il problema era rappresentato dai francesi, che avevano rivendicazioni postbelliche sulla regione ed erano già molto irritati per la questione del comando nell’operazione dei Dardanelli. Secondo i termini di un accordo firmato nell’agosto 1914, la Francia aveva il comando navale alleato nel Mediterraneo, mentre la Gran Bretagna aveva il comando nel Mare del Nord, nell’Atlantico e nella Manica. Tuttavia, poiché i britannici avrebbero impegnato il grosso delle forze nei Dardanelli, Churchill insistette che l’ammiraglio Carden dovesse avere il comando, con grande disappunto del ministro della Marina francese. Per placare i sospetti francesi, Churchill dovette garantire che i francesi avrebbero avuto il comando di qualsiasi operazione “in Levante” (cioè in Siria) e il ministero degli Esteri britannico dovette assicurare che nessuna truppa britannica sarebbe stata sbarcata sulla costa levantina. Così, l’idea di interrompere le comunicazioni ottomane con un assalto alla costa siriana – una soluzione militarmente molto sensata – dovette essere esclusa semplicemente per far contenti i francesi.
La decisione di forzare gli stretti, tuttavia, non riguardava solo i francesi. Il concetto strategico era già andato ben oltre una semplice diversione o dimostrazione, e Londra stava pensando di aprire gli stretti per permettere alle esportazioni di grano russo di uscire dal Mar Nero e alle munizioni per l’esercito russo di entrare. La questione della forzatura dei Dardanelli era anche intrinsecamente legata alla politica balcanica della Gran Bretagna. All’inizio del 1915, Paesi come la Grecia, la Romania e la Bulgaria erano ancora neutrali e si sperava fortemente che le operazioni britanniche contro gli stretti potessero far entrare in guerra una o più di queste potenze a fianco degli Alleati. In particolare, i britannici speravano che le truppe greche potessero partecipare all’operazione e costituire il grosso delle forze di terra.
Purtroppo, la partecipazione greca è stata esclusa dai russi, che hanno posto un veto inequivocabile a qualsiasi contributo greco all’operazione. La questione per i russi era molto semplice: Costantinopoli (che chiamavano Tsargrad) era l’ultimo premio di guerra per il governo zarista e non avrebbero permesso in nessun caso che i greci la conquistassero. Sir Edward Grey ebbe lo sgradevole compito di informare il consiglio di guerra che “l’ultima cosa che i russi volevano era vedere qualcun altro fare un ingresso trionfale a Costantinopoli”.
I russi avevano gli inglesi in pugno quando si trattava di Costantinopoli. La città doveva essere inequivocabilmente destinata ad essere un premio russo in qualsiasi accordo postbellico, al punto che i russi minacciarono (in più occasioni) di fare una pace separata con la Germania e di abbandonare semplicemente la guerra se questa condizione non fosse stata soddisfatta. Ciò significava che i greci non potevano contribuire con truppe di terra, ma i russi non erano altrettanto disposti a impegnarsi a fornire truppe proprie. C’era una sensazione generale che le truppe di terra avrebbero dovuto essere coinvolte ad un certo punto – come Churchill sottolineò in una riunione del 28 gennaio, anche se la flotta britannica fosse riuscita ad entrare con la forza negli stretti, “non avrebbe potuto aprire questi canali alle navi mercantili finché il nemico fosse stato in possesso della costa”. Kitchener assicurò vagamente che avrebbe “trovato gli uomini”, sotto forma di truppe del Commonwealth provenienti dall’Australia e dalla Nuova Zelanda, o della 29a Divisione di riserva in Inghilterra, ma l’idea era che le forze di terra sarebbero state rese disponibili solo dopo che la flotta avesse aperto gli stretti.
I Dardanelli
Si trattava di un pasticcio, ma non è difficile fare la somma di tutti questi fattori. Churchill e Kitchener avevano messo gli inglesi sulla strada per aprire un nuovo fronte contro i turchi, ma la necessità di pacificare l’indignazione francese escludeva qualsiasi operazione contro la costa levantina. L’importanza strategica di aprire il traffico navale nel Mar Nero garantiva inoltre che solo un assalto diretto agli stretti sarebbe stato sufficiente. Infine, il veto della Russia alla partecipazione della Grecia, la generale mancanza di truppe da parte della Gran Bretagna e l’incapacità della Russia stessa di contribuire, fecero sì che non ci fossero forze di terra disponibili a partecipare fin dall’inizio. Sommando il tutto, si ottiene il piano dei Dardanelli: un tentativo di aprire lo stretto turco con un assalto navale. Al diavolo l’adagio apocrifo di Nelson. Le navi avrebbero dovuto combattere contro i forti.
Sfortunatamente per i britannici, essi erano ora in procinto di attaccare il settore più formidabilmente difeso della costa ottomana. Allo scoppio della guerra, le difese sugli stretti turchi erano considerate altamente vulnerabili, ma da allora molto era cambiato. L’intelligence russa aveva già escluso un attacco dall’altra parte (contro il Bosforo), notando che “il momento favorevole per impadronirsi degli Stretti è andato perduto”. Questa conclusione, per qualche motivo, non fu condivisa dagli inglesi.
Gli stretti turchi: La regione di Marmara
Lo sviluppo critico per i turchi fu l’arrivo dell’ammiraglio tedesco Guido von Usedom, inviato da Berlino nell’autunno del 1914 per dirigere il Sonderkommando di Marmara.Sonderkommando(Comando Speciale) Turchia, portando con sé una schiera di specialisti in difesa navale, quasi 200 esperti di artiglieria e diverse batterie di cannoni pesanti, tra cui modelli Krupp da 14 pollici. Nei mesi successivi al suo arrivo, Usedom e la sua squadra condussero un’importante ristrutturazione delle difese turche: mimetizzazione dei cannoni, rafforzamento delle casematte, costruzione di batterie fittizie per attirare il fuoco nemico e creazione di otto batterie mobili in grado di lanciare fuoco a raffica sulle navi nemiche e molto difficili da colpire per il nemico. Il risultato netto di tutto ciò fu che le difese dei Dardanelli, che nell’agosto 1914 possedevano solo venti obici da terra, ora vantavano 235 cannoni sparsi tra fortificazioni e batterie mobili. Nel frattempo, nello stretto erano state posate non meno di undici linee di mine navali, per un totale di 323 mine.
Inoltre, gli esperti di artiglieria di Usedom avevano lavorato duramente per istruire gli equipaggi turchi, infondendo loro non solo le necessarie competenze tecniche, ma anche un senso della disciplina assolutamente tedesco. I turchi, da parte loro, impressionarono profondamente Usedom per la loro etica del lavoro e per i loro rapidi miglioramenti, tanto che egli inviò a Berlino rapporti entusiastici sul grande successo ottenuto nel portare gli artiglieri turchi al passo con i tempi. Usedom distribuì poi i suoi sottufficiali tedeschi in tutto il comando dei Dardanelli, in modo che in ogni squadra di cannonieri ci fosse almeno un tedesco. Mentre gli inglesi avevano una visione generalmente negativa sia della propensione turca a combattere sia dello stato delle difese dei Dardanelli, Usedom riteneva, a ragione, di aver organizzato una difesa motivata, disciplinata e schematicamente solida.
Admiral Guido von Usedom
Considerando il bilancio di tutti questi fattori, si ottiene una proposta abbastanza semplice. La flotta britannica (con un piccolo distaccamento francese) ammassata a Lemnos, nel Mar Egeo, si stava preparando a farsi strada attraverso una serie di fortezze, aumentate da batterie mobili a terra, per spianare la strada ai dragamine che dovevano entrare nello stretto e sbloccare la corsia. Inizialmente non erano disponibili truppe di terra per assistere l’operazione, anche se Churchill si aggrappava alle vaghe promesse di Kitchener che le truppe sarebbero state rese disponibili in seguito, in una data non specificata e per uno scopo non specificato. Gli inglesi non sembravano avere una valutazione accurata della forza turca, né dei numerosi miglioramenti che Usedom aveva apportato alla posizione. Nel complesso, l’inerzia strategica aveva semplicemente trascinato i britannici in questa direzione, con Churchill che insisteva ripetutamente sul fatto che la flotta avrebbe potuto attraversare lo stretto da sola, mentre copriva le sue scommesse sostenendo che alla fine sarebbero state necessarie truppe di terra per rendere completamente sicuro il canale. Non restava che fare un tentativo.
I Dardanelli
La campagna dei Dardanelli iniziò alle 9.51 del 19 febbraio 1915 con uno scambio farsesco di fuoco a lungo raggio. La flotta alleata che si era ammassata a Lemnos era una forza formidabile, anche se invecchiata. L’ammiraglio Carden aveva a disposizione una notevole armata di 18 navi capitali. Di queste, le due navi più potenti erano la nuovissima superdreadnoughtRegina Elisabettaarmata con otto cannoni da 15 pollici, e l’incrociatore da battagliaInflessibilecon otto cannoni da 12 pollici. Il grosso della flotta era costituito da corazzate pre-dreadnought, dodici britanniche e quattro francesi, armate con un totale di cinquantasei cannoni da 12 pollici e otto da 10 pollici. Non si trattava certo di una flotta in grado di rivaleggiare con la potente Grand Fleet britannica o con la Flotta d’altura tedesca, che si guardavano l’un l’altra attraverso il Mare del Nord, ma per un teatro secondario era certamente una forza imponente.
Le difese dei Dardanelli consistevano in due zone critiche. Quella di gran lunga più imponente era la sezione dello stretto a circa dieci miglia a monte dell’ingresso, nota appropriatamente comele Strette.Qui lo stretto si restringeva notevolmente, tanto che in alcuni punti era largo meno di un miglio, ed era qui che era disposta la maggior parte della potenza di fuoco ottomana (e tutti i campi minati). All’imboccatura dei Dardanelli, tuttavia, dove lo stretto si apre nel Mar Egeo, il passaggio era molto più ampio (2,5 miglia) e difeso da un piccolo gruppo di forti: Seddul Bahr e i forti di Capo Helles sulla penisola di Gallipoli (il lato settentrionale, europeo dello stretto) e Kum Kale sul lato meridionale, asiatico. Tutti questi forti erano di costruzione relativamente arcaica (Seddul Bahr, ad esempio, era un edificio del XVII secolo) e modestamente armati. Complessivamente, le postazioni turche all’imboccatura dello stretto disponevano di sedici cannoni pesanti e sette tubi medi.
Tenendo conto che Carden si era liberato di un volume significativo di artiglieria navale, i risultati dell’azione di apertura del 19 febbraio lasciarono molto a desiderare. Ridurre le difese all’imboccatura dello stretto avrebbe dovuto essere la fase più facile dell’operazione, sia per la mancanza di campi minati al di fuori dello stretto, sia per le dimensioni relativamente maneggevoli delle batterie turche, sia per il fatto che la flotta alleata – che sparava dal Mar Egeo – aveva uno spazio di manovra che sarebbe venuto a mancare una volta che si fosse inoltrata nello stretto stesso. L’attacco iniziale britannico, tuttavia, ebbe scarso effetto. Le corazzate di Carden, guidate dallaHMS Cornwallisaprì il fuoco da lunghe distanze a metà mattina, senza ottenere alcuna risposta dai difensori. Le navi britanniche erano al di là del raggio d’azione turco, ma a distanze così elevate era impossibile per gli Alleati valutare i danni provocati dalle loro salve iniziali. Alle 14:00, Carden si avvicinò a seimila metri e sparò di nuovo. Poco dopo le 16:00, gli inglesi arrivarono finalmente a tiro e i turchi aprirono il fuoco, mentre gli inglesi si ritirarono immediatamente. Alle 17:00, Carden abbandonò l’attacco e si ritirò.
La flotta alleata nei Dardanelli
Con il bombardamento iniziale del 19 febbraio, Carden aveva sprecato l’elemento sorpresa e sparato 139 proiettili, che non causarono praticamente alcun danno alle batterie turche e uccisero solo quattro difensori (due tedeschi e due turchi). Il problema di fondo, in quanto tale, era che le batterie difensive potevano essere messe fuori uso solo colpendo direttamente i cannoni, ma a lunga distanza il fuoco navale senza macchia era tristemente impreciso contro bersagli trincerati sulla terraferma. Se Carden sperava di aprire l’operazione con il botto, aveva fallito.
Perso l’elemento sorpresa, Carden fu ora ostacolato dal maltempo che impose un ritardo di cinque giorni prima di poter attaccare di nuovo. Mentre la flotta attendeva che il tempo si calmasse, i britannici rinnovarono la loro offensiva diplomatica e inviarono un sondaggio per verificare se i greci o i russi volessero partecipare all’azione. I greci risposero favorevolmente, con il primo ministro anglofilo che offrì tre divisioni da dispiegare nella penisola di Gallipoli per fornire una componente terrestre molto necessaria per l’operazione, ma la proposta fu nuovamente bocciata dai russi, che stavano giocando un gioco diplomatico molto efficace. Anche in questo caso i russi posero categoricamente il loro veto a qualsiasi coinvolgimento della Grecia, controbilanciandolo con un’offerta vaga e non vincolante di contribuire con un Corpo d’Armata che sarebbe stato coinvolto soltantodopodopo che gli inglesi avevano forzato i Dardanelli e distrutto la flotta turca. Come se non bastasse, Sazonov minacciò (tramite l’ambasciatore francese Maurice Paleologue) che se non avesse garantito alla Russia Costantinopoli e gli stretti, si sarebbe dimesso. Il significato di questa minaccia era chiaro: Paleologo informò Parigi che se le richieste della Russia non fossero state soddisfatte, Sazonov sarebbe stato sostituito da Sergei Witte, ampiamente conosciuto come germanofilo. Secondo l’interpretazione di Paleologo, Sazonov stava essenzialmente minacciando che la Russia avrebbe firmato una pace separata con la Germania se non le fosse stata garantita Costantinopoli.
Il risultato di tutto ciò fu un’immensa tensione per i decisori britannici, pressati da un lato dall’offensiva diplomatica di Sazonov e dall’altro dalla sorprendente tenacia della difesa turca. Il 25 febbraio, Carden si accinse a ridurre i forti esterni e rimase frustrato dall’inefficacia del fuoco dei cannoni. Gli inglesi riuscirono ad accedere all’ingresso dello stretto solo dopo aver sbarcato delle squadre di demolizione, che riuscirono a distruggere diverse batterie ottomane. Ciò suggerisce, ovviamente, che alla fine sarebbe stata necessaria una soluzione mista anfibia, ma poiché l’intero complemento di terra di Carden consisteva solo in alcune compagnie di Royal Marines, la sua capacità di impiegare questa strategia su scala ridotta era scarsa.
Avendo sfondato l’imboccatura dello stretto, Carden avrebbe potuto pensare di guadagnare slancio. Non era così. Una volta entrate nello stretto, le navi britanniche erano finite sotto i denti delle batterie mobili di Usedom, per le quali semplicemente non avevano una buona risposta. Il problema era una questione elementare di avvistamento. Le batterie di obici mobili, situate a una buona distanza nell’entroterra, potevano scatenare il “fuoco di tuffo” – proiettili ad alto arco che si abbattevano sulle navi britanniche – da punti di tiro al di là della linea di vista britannica, costringendo gli inglesi a rispondere al fuoco alla cieca. Gli idrovolanti britannici, che tentavano di sorvolare i difensori per individuare le batterie, venivano scacciati dal fuoco rastrellante dei fucili. Nel frattempo, i dragamine alleati (pescherecci riconvertiti) che tentavano di entrare nel canale erano dei veri e propri bersagli per gli obici nemici.
Una batteria tedesca interna nella zona difensiva dei Dardanelli
In questa fase dell’operazione, i giorni cruciali dal 10 al 13 marzo rivelano l’emergente disagio britannico e l’incombente crisi operativa. Il 10 marzo, Lord Kitchener accettò finalmente di costituire una forza di terra a sostegno dell’operazione, che sarebbe stata costruita attorno alla 29ª Divisione (che sarebbe stata inviata dall’Inghilterra pochi giorni dopo) aumentata da unità di origine australiana e neozelandese che stavano iniziando a radunarsi a Lemnos. Sebbene la decisione tardiva di formare una componente di terra, sotto il comando del generale Sir Ian Standish Monteith Hamilton, fosse molto gradita, essa non sarebbe stata disponibile per molte settimane e il suo scopo particolare non era ancora chiaro. Il 12 marzo, la pressione diplomatica di Sazonov (ancora diretta principalmente attraverso Paleologo) diede finalmente i suoi frutti e il ministero degli Esteri britannico approvò la rivendicazione postbellica della Russia su Costantinopoli e gli stretti. Infine, il 13 marzo l’ammiraglio Carden e il suo secondo in comando, l’ammiraglio de Robeck, giunsero alla conclusione che il loro lento e sistematico tentativo di ridurre le difese non stava funzionando e che “bisognava prendere in considerazione un pesante bombardamento concertato e l’attraversamento dei Dardanelli”.
Nel complesso, è chiaro che gli inglesi erano sull’orlo di una crisi operativa. Da un lato, Kitchener aveva finalmente accettato di riunire un contingente di terra a Lemnos, il che apriva una serie di nuove possibilità. Tuttavia, l’accumulo di forze di terra procedeva lentamente e iniziava proprio mentre i comandanti della Marina nel Mediterraneo, in particolare Carden, mostravano i nervi fragili e un crescente senso di urgenza. La pianificazione britannica si muoveva ora in due direzioni. L’ammiraglio Sir Henry Jackson, ad esempio, consigliava di non forzare seriamente gli stretti fino a quando non fossero state sbarcate le truppe per eliminare le batterie di obici mobili del nemico, mentre Churchill adottò l’approccio opposto ed esortò Carden ad abbandonare “la cautela e i metodi deliberati” a favore di una spinta aggressiva per “sopraffare i forti dei Narrows”.
Nel complesso, la seconda settimana di marzo avrebbe dovuto rappresentare il momento per una sistematica rivalutazione dell’operazione. Firmando la rivendicazione postbellica della Russia su Costantinopoli e sugli Stretti, la Gran Bretagna si era essenzialmente impegnata ad ampliare gli obiettivi strategici che ora implicavano la sconfitta totale e lo smembramento dello Stato ottomano. Quasi contemporaneamente, Carden e Churchill erano giunti alla conclusione che il loro approccio alla riduzione sistematica dei forti non stava funzionando, ma un po’ sorprendentemente non sembravano inclini a modificare il loro pensiero sulla base della decisione di Kitchener di organizzare una forza di terra. Lo sfortunato risultato fu che i britannici optarono per tentare una spinta più aggressiva per aprire gli stretti con la flotta prima che la forza di terra fosse organizzata. Ciò creò un’immensa confusione operativa, in particolare per le truppe di terra che cominciavano ad accumularsi a Lemnos. Hamilton ricorda che Kitchener gli disse, in modo poco incoraggiante, che “sperava che non dovessi sbarcare affatto” e che “pensava che non ci fosse una grande confusione”. In effetti, l’esercito stava formando un contingente a Lemnos, nella rosea ipotesi che la flotta sarebbe riuscita a forzare gli stretti da sola, lasciando ad Hamilton il compito relativamente facile di ripulire e occupare una Costantinopoli sconfitta.
Il 17 marzo, l’umore nel campo britannico era notevolmente migliorato. Hamilton era appena arrivato a Lemnos per supervisionare l’assemblaggio e la preparazione delle forze di terra, mentre il giorno precedente l’ammiraglio Carden aveva rassegnato le dimissioni (adducendo cattive condizioni di salute), lasciando il comando navale a de Robeck, personalità molto più forte e aggressiva. L’ipotesi generale, secondo il Consiglio di Guerra, era che un nuovo attacco navale sarebbe riuscito a rompere gli stretti, lasciando la forza di terra di Hamilton disponibile per “operazioni successive” di natura non specificata.
Il giorno seguente, 18 marzo, iniziò abbastanza bene, con un cielo sereno e una leggera brezza calda che dissipava la nebbia mattutina. De Robeck, energizzato dal suo nuovo comando, era pienamente preparato per quella che si aspettava fosse la spinta finale attraverso le strettoie. Il piano prevedeva una riduzione progressiva delle difese turche nel corso della giornata. In primo luogo, una linea delle navi più potenti (tra cui laRegina Elisabettae laInflessibile) avanzerebbero nella strettoia e distruggerebbero o sopprimerebbero i forti a lunga distanza. Dopo aver messo a tacere i cannoni dei forti, la seconda linea di corazzate si sarebbe spostata in avanti per impegnare le batterie più piccole sulla costa e fornire copertura ai dragamine che sarebbero entrati nella strettoia e avrebbero liberato un canale largo 900 metri nei campi minati. Con i campi minati sgombrati, la strettoia sarebbe stata aperta alle corazzate per avanzare a distanza ravvicinata e finire le difese costiere. Se tutto fosse andato bene, de Robeck si aspettava di attraversare lo stretto, sostare nel Mar di Marmara e bombardare Costantinopoli il giorno seguente.
L’attacco iniziò alle 11:00 del 18 marzo e cominciò come l’azione di apertura della campagna, con la prima linea di navi britanniche che bombardava le difese da oltre la portata dei cannoni turchi. Non essendoci alcun ritorno di fiamma dalle rive della strettoia, era difficile per gli inglesi valutare il danno che stavano arrecando. Era chiaro che avevano messo a segno alcuni colpi forti sui forti, e poco dopo mezzogiorno de Robeck ritenne che fosse giunto il momento di fare i conti a distanza ravvicinata. Inviò la sua seconda linea (composta dalle quattro pre-dreadnought francesi) in avanti per vedere cosa potevano fare a distanze più ravvicinate, con la sua potente prima linea che li seguiva e che continuava a riversare il fuoco.
Fu a questo punto, mentre la battaglia si protraeva nelle ore pomeridiane, che le cose cominciarono ad andare terribilmente male. Quando la flotta alleata si avvicinò finalmente al raggio d’azione, i cannoni turchi si aprirono da entrambi i lati della strettoia, soffocando il canale con fumo, spruzzi e schegge. La maggior parte dei cannoni turchi erano troppo piccoli per arrecare danni mortali a una nave da battaglia ben corazzata, ma creavano scompiglio nelle sovrastrutture delle navi e confondevano le mire degli alleati.
I cannoni britannici sparano sui forti
Un colpo diretto allaInflexibleLa postazione di controllo del fuoco, ad esempio, fu colpita da fuoco e schegge che attraversarono la postazione leggermente corazzata, appollaiata sull’albero di prua. Tre uomini furono uccisi e cinque feriti, tra cui l’ufficiale cannoniere dell’incrociatore, Rudolf Verner, che riportò una mano parzialmente tagliata, il cranio fratturato, una gamba frantumata e un braccio “spappolato”. Rimasto cosciente, Verner diede una di quelle notevoli dimostrazioni di stoicismo e coraggio che spesso vengono dimenticate nelle grandi storie di guerra. Disse “Grazie, vecchio mio” a un uomo che lo aiutò a sdraiarsi, poi riferì al ponte: “Comando di prua fuori uso. Siamo tutti morti e moribondi quassù. Mandate della morfina”. Verner e gli altri feriti nella stazione di controllo del fuoco furono alla fine salvati, conIl secondo in comando dell’Inflexible subì gravi ustioniIl comandante in seconda subì gravi ustioni salendo la scala d’acciaio che portava alla postazione, che era rovente a causa delle fiamme che ormai imperversavano intorno all’albero. Queste piccole vignette – Verner che chiede gentilmente della morfina e un soccorritore che si brucia le mani salendo su una scala d’acciaio surriscaldata – ricordano in modo toccante che, per tutto l’interesse che suscitano le grandi storie operative e i progetti, la guerra è sempre l’accumulo di innumerevoli drammi umani che sono vita o morte per le persone coinvolte.
Ancora peggiore è stato il destino della corazzata franceseBouvetche fu improvvisamente scosso da un’enorme esplosione intorno alle 14.00. La scena fu praticamente surreale: in meno di sessanta secondi la nave si inclinò, si capovolse e scomparve del tutto, portando con sé il suo capitano e 639 uomini. Si salvarono circa 66 uomini (quelli che avevano avuto la fortuna di trovarsi sul ponte o nelle vicinanze quando iniziò l’affondamento), che sopravvissero correndo lungo la fiancata e sul fondo della nave mentre questa si rovesciava, come criceti su una ruota. Perdere una nave da guerra in un batter d’occhio era già abbastanza grave, ma per de Robeck e gli altri membri dell’equipaggio che assistevano all’affondamento, l’elemento agghiacciante era che non era chiaro cosa avesse esattamente ucciso la nave.Bouvet. I più pensavano che un proiettile fosse penetrato nel caricatore, ma nessuno l’aveva visto accadere.
L’attacco stava facendo cilecca. Alle 4:00, notando un rallentamento del fuoco turco, de Robeck inviò i suoi dragamine. Le loro prestazioni lasciarono molto a desiderare: dopo aver eliminato un totale di tre mine dalla prima cintura, finirono sotto il fuoco degli obici e si ritirarono freneticamente verso l’ingresso dello Stretto. Alle 4:11, proprio mentre l’operazione di dragaggio delle mine stava crollando, l’Inflessibileha colpito una mina vicino alla costa asiatica, in un’area dove non era previsto alcun campo minato. Ora in lista,Inflessibilefu costretto a ritirarsi. Verner, ancora cosciente e gravemente sanguinante, fu trasferito su una nave ospedale per l’amputazione del braccio frantumato. Disse al chirurgo: “Dica alla mia gente che ho giocato la partita e che ho resistito”. Morì per il trauma accumulato poche ore dopo.
Poco dopo ilInflessibileha abbandonato la battaglia,Irresistibileanche lei colpì una mina, ma nel suo caso le sale macchine si allagarono quasi subito, lasciandola alla deriva. Il suo capitano, in particolare, issò una bandiera verde che indicava che credeva di essere stato silurato. Fortunatamente per l’equipaggio, un cacciatorpediniere si trovava in postazione e permise alla maggior parte degli uomini di abbandonare la nave in sicurezza, ma l’Irresistibile non fu in grado di far fronte alla situazione.Irresistibileera ormai alla deriva. QuandoHMS Oceanche tentò di accostarsi per rimorchiare la nave svogliata, colpì anch’essa una mina e l’equipaggio fu costretto a evacuare.
L’Irresistibile affonda
Fu a questo punto, mentre il pomeriggio si protraeva verso sera, che de Robeck staccò la spina dall’attacco e si ritirò. Delle dodici corazzate che componevano le sue tre linee di battaglia principali, tre erano ormai perdite totali (laBouvet,che era affondato in modo così spettacolare, e l’OceanoeIrresistibileche erano ormai alla deriva e abbandonate), e altre tre erano fuori uso, tra cui laInflessibilee il franceseGauloiseSuffren,entrambe parzialmente allagate dopo essere state colpite vicino alla linea di galleggiamento. De Robeck disponeva di navi di riserva, ma nel complesso l’azione del 18 marzo aveva portato alla distruzione di sei delle sue diciotto navi capitali. La parte peggiore di tutto questo, per de Robeck, era che non capiva veramente cosa stesse accadendo alle sue navi. Quattro delle navi perse o disabilitate (Bouvet, Ocean, Irresistible,eInflessibile)avevano apparentemente colpito le mine in punti in cui non erano attese. Sospettando una sorta di trucco, giunse alla conclusione che i turchi avevano escogitato un modo per inviare mine galleggianti a valle della strettoia.
In realtà, all’insaputa del comando alleato, i turchi avevano segretamente posato un campo minato non individuato (l’undicesimo di questo tipo), con il favore delle tenebre, nelle notti del 7, 10 e 11 marzo. Questo campo minato, molto abilmente, era disposto in modo molto diverso dagli altri. I primi dieci campi minati nei Dardanelli furono disposti orizzontalmente attraverso la strettoia (cioè perpendicolarmente da riva a riva) per bloccare l’accesso britannico. L’undicesimo, invece, fu disposto parallelamente alla sponda asiatica più a monte dello stretto, in modo che, quando la flotta alleata si avvicinava alla strettoia, alla sua destra si trovava un campo minato non individuato. Fu su questo campo minato laterale che tutte e quattro le navi citate caddero, colpendo le mine mentre cercavano di manovrare sotto il fuoco.
Il tentativo di aprire gli stretti era fallito, e fallito in modo spettacolare. Nell’elencare le cause della sconfitta alleata, spiccano tre fattori distinti, con importanti implicazioni per le operazioni future.
Innanzitutto, era diventato chiaro che, sebbene la potenza di fuoco dell’artiglieria navale moderna fosse estremamente potente, il suo utilizzo contro bersagli terrestri era limitato in assenza di un robusto sistema di avvistamento e controllo del fuoco. Nel caso ideale, questi cannoni dovevano essere sparati contro altre navi con un campo visivo non oscurato, con il mare aperto che forniva un orizzonte chiaro. I britannici disponevano di una grande potenza di fuoco, ma faticavano a mettere a punto un’artiglieria accurata contro le postazioni di tiro turche nascoste e soprattutto contro le batterie di obici mobili che sparavano “oltre l’orizzonte”, al di là del campo visivo degli Alleati. Sebbene siano stati compiuti alcuni sforzi per fornire un avvistamento con aerei e piccole squadre da sbarco, le comunicazioni e il controllo del fuoco dell’epoca erano semplicemente inadeguati al compito. In breve, gli inglesi disponevano di cannoni molto potenti che spesso sparavano alla cieca contro bersagli che non riuscivano a vedere.
In secondo luogo, l’armata alleata aveva capacità di dragaggio delle mine tristemente inadeguate. La forza di dragaggio consisteva in 21 pescherecci requisiti nel Mare del Nord, con i loro equipaggi di pescatori civili assegnati ai gradi della riserva navale. Dotati di armi dragamine e protetti da piastre d’acciaio improvvisate, i pescherecci si dimostrarono poco veloci sotto il fuoco e, cosa ancora più importante, inimmaginabilmente lenti. In acque calme, potevano spazzare a una velocità compresa tra i 4 e i 6 nodi, ma a causa della leggera corrente che scorreva fuori dalle strettoie, non potevano superare i 3 nodi quando spazzavano a monte, ovvero la velocità di una camminata veloce. Inoltre, il pescaggio dei pescherecci riconvertiti era più profondo della superficie delle mine, il che significava che correvano il rischio costante di saltare in aria se si imbattevano in una mina non spazzata. La corazzatura di fortuna, il pescaggio pericoloso e la velocità spaventosamente bassa si combinavano per creare un senso di intensa vulnerabilità, soprattutto quando si trovavano sotto il fuoco dell’artiglieria. Forse, piuttosto che chiedersi perché non riuscirono a liberare i campi minati, è più appropriato meravigliarsi che questi equipaggi civili siano stati in grado di fare il tentativo in primo luogo.
In breve, quindi, la mancanza di un avvistamento accurato impedì alla flotta di mettere a tacere con successo i cannoni turchi, e l’inadeguatezza delle navi spazzatrici garantì l’impossibilità di eliminare le mine, con l’effetto netto che entrambi gli elementi della difesa ottomana rimasero intatti. Quando il 18 marzo il polverone si dissolse, solo 9 dei 176 cannoni da terra turchi erano stati messi fuori uso, e le perdite combinate turche e tedesche furono di soli 29 morti e 66 feriti. Infine, il terzo fattore di disturbo – la presenza di un campo minato parallelo e non rilevato che correva lungo la costa asiatica – fece sì che il fallimento dell’attacco alleato avesse un costo esorbitante: le mine non rilevate fecero fuori quattro corazzate nel giro di poche ore.
Churchill rimase indifferente ed espresse la convinzione che i turchi fossero a corto di munizioni e che il loro morale fosse sul punto di crollare. Il primo punto è discutibile (i difensori stavano iniziando a scarseggiare le munizioni per i loro cannoni più grandi, ma le scorte complessive di proiettili erano ancora sane), mentre il secondo punto è una farsa. Tuttavia, il perdurante entusiasmo di Churchill per il piano di attacco esclusivamente navale era ormai un punto irrilevante. Dopo aver conferito il 22 marzo, de Robeck e Hamilton decisero che l’assalto navale era categoricamente fallito e che era giunto il momento che l’esercito entrasse in azione e distruggesse le difese costiere in modo che le spazzatrici potessero finalmente lavorare in relativa sicurezza. Gli inglesi avrebbero dovuto sbarcare sulla penisola di Gallipoli.
Gallipoli
La Battaglia di Gallipoli fu determinata in primo luogo da un paio di discussioni quasi simultanee che si svolsero tra i gruppi di comando contrapposti. Il 22 marzo, l’ammiraglio de Robeck ospitò una piccola riunione a bordo dellaRegina Elisabettache comprendeva il generale Hamilton (al comando generale delle forze di terra del Mediterraneo), il capo di stato maggiore di Hamilton, il maggior generale Walter Braithwaite, e il tenente generale Sir William Riddell Birdwood, che comandava le forze del Corpo d’armata australiano e neozelandese (ANZAC) che, insieme alla 29a Divisione ancora in viaggio dall’Inghilterra, avrebbe costituito il grosso delle forze di terra di Gallipoli. La conclusione della discussione fu duplice: in primo luogo, de Robeck convenne che era giunto il momento di abbandonare l’assalto solo navale e di sbarcare le truppe sulla penisola di Gallipoli; in secondo luogo, decise di opporsi al piano più aggressivo proposto da Birdwood di sbarcare immediatamente le forze Anzac senza attendere l’arrivo della 29a Divisione. Il risultato netto fu quindi la decisione di un assalto congiunto esercito-nave su larga scala alla penisola, che sarebbe stato necessariamente rinviato a metà aprile (al più presto) per consentire a Hamilton di allestire il suo gruppo d’armate al completo.
La tempistica, sia di questa conferenza di comando britannica che della proposta di sbarco, fu piuttosto serendipica, perché solo due giorni dopo, il 24 marzo, il ministro della Guerra ottomano, Enver Pascià, convocò il generale tedesco Otto Liman von Sanders e gli offrì il comando del neonato gruppo della Quinta Armata ottomana per la difesa dei Dardanelli e della penisola di Gallipoli. Così, dopo aver lasciato per diverse settimane che gli ammiragli si occupassero della questione (prima Carden e poi de Robeck per gli Alleati, e Usedom per i turchi e i tedeschi), entrambe le parti decisero quasi simultaneamente che era giunto il momento di lasciare che i generali (Hamilton e Sanders) prendessero il comando.
Liman von Sanders aveva una vasta esperienza di lavoro con i turchi, essendo stato nominato a capo di una commissione di Berlino con l’obiettivo di aiutare la modernizzazione militare ottomana nel periodo prebellico. In effetti, l'”Affare Liman von Sanders”, come venne chiamato, fu un importante punto di frizione nella rottura diplomatica prebellica, con gli Alleati che temevano la penetrazione tedesca in Medio Oriente. Nonostante la lunga relazione tra i turchi e Liman von Sanders, non fu una cosa da poco per Enver Pascià ingoiare il suo orgoglio e dare il comando del suo gruppo d’armate migliore e strategicamente più importante a un tedesco.
Liman von Sanders a cavallo
I turchi, tuttavia, disponevano di un buon flusso di informazioni che li avevano avvisati che era in corso una grande operazione anfibia ed Enver sapeva che la posta in gioco era alta. L’aspetto di intelligence della campagna dei Dardanelli-Gallipoli era piuttosto unico, a causa del bizzarro status amministrativo delle basi britanniche. I britannici si erano insediati nelle isole egee di Lemnos e Imbros, che erano territori greci. In particolare, però, la Grecia aveva preso possesso delle isole (in precedenza possedimenti ottomani di lunga data) solo in tempi molto recenti, con le guerre balcaniche del 1912 e 1913. Ciò significava, in effetti, che le basi britanniche a sostegno della campagna degli Stretti si trovavano su isole con una consistente popolazione turca, mentre l’amministrazione civile era nelle mani dei greci neutrali. Il risultato di tutto ciò era che le forze britanniche erano essenzialmente soggette a una persistente sorveglianza da parte dei turchi locali, che erano liberi di riferire ciò che vedevano ai loro contatti nella Turchia continentale. Enver Pascià era quindi pienamente consapevole che una consistente forza di terra alleata si stava radunando al largo dell’Egeo e che era il momento giusto per ingoiare un po’ di orgoglio turco e affidare il comando dei Dardanelli al miglior uomo disponibile, che riteneva essere Liman von Sanders.
All’indomani della Campagna di Gallipoli, come abbiamo notato in precedenza, le decisioni del comando in ogni fase furono sottoposte a un’accurata autopsia e criticate a fondo, e la scelta delle zone di sbarco da parte di Hamilton non fece eccezione. Una giusta valutazione delle opzioni, tuttavia, rivela che sia Hamilton che Liman presero decisioni essenzialmente sensate in una situazione difficile.
Il fatto fondamentale da capire è che c’erano solo quattro luoghi adatti sulla “faccia esterna” della penisola di Gallipoli che avevano un terreno adatto allo sbarco delle truppe in scala. Si trattava di Capo Helles, sulla punta sud-occidentale della penisola; Gaba Tepe e la Baia di Suvla sul versante occidentale; e il “collo” nord-orientale della penisola, vicino al villaggio di Bulair. Di questi, il collo di Bulair era di gran lunga il più interessante. Il collo della penisola di Gallipoli, dove confina con la Tracia, è molto stretto, con una larghezza di poco meno di tre miglia nel punto più angusto. Uno sbarco britannico qui comportava l’ovvia possibilità di interrompere i collegamenti della penisola con la Tracia, il che avrebbe tagliato fuori il grosso della Quinta Armata di Liman e l’avrebbe intrappolata. Liman ne era perfettamente consapevole e notò che uno sbarco a Bulair avrebbe potuto lasciare la Quinta Armata “tagliata fuori da ogni comunicazione terrestre”. Per Liman non si trattava solo di un esercizio teorico: avendo stabilito il suo quartier generale nella città di Gallipoli, al centro della penisola, rischiava di essere tagliato fuori e intrappolato insieme alle sue truppe. Per Hamilton, tuttavia, l’opzione Bulair comportava un rischio opposto: sbarcando le sue truppe all’estremità settentrionale della penisola, le avrebbe esposte a un possibile contrattacco da parte della Prima Armata turca, che era di stanza in Tracia. In sostanza, tra i pochi punti di sbarco possibili a Gallipoli, Bulair e il “collo” erano di gran lunga l’opzione ad alto rischio e alta ricompensa.
Sapendo, quindi, di dover difendere alcuni punti critici, Liman scelse un piano di schieramento sostanzialmente sensato, anche se appesantito dalla preoccupazione di non essere tagliato fuori dagli inglesi a Bulair. Liman aveva a disposizione sei divisioni, due delle quali (la 3ª e l’11ª) dovevano essere dislocate sul lato asiatico dello stretto per difendere i forti. Rimanevano quindi quattro divisioni per difendere la penisola di Gallipoli sul lato europeo dei Dardanelli. Liman scelse di posizionare una divisione (la 9ª) all’estremità sud-occidentale, intorno a Capo Helles, mentre ne tenne altre due (la 7ª e la 5ª) all’estremità settentrionale per difendere Bulair, che evidentemente aveva capito essere il punto più sensibile della mappa. Rimaneva l’ultima divisione (la 19ª, sotto il comando del futuro Ataturk, Mustafa Kemal), che egli collocò nell’entroterra, al centro della penisola, dove poteva essere dirottata in caso di necessità come una sorta di riserva operativa.
Il risultato di tutto ciò fu che, tra i possibili punti di sbarco a Gallipoli, quello meglio difeso era di gran lunga Bulair. Capo Helles era adeguatamente presidiato dalla 9a Divisione, mentre Gaba Tepe e la Baia di Suvla erano poco presidiate, anche se la 19a Divisione di Kemal era in grado di rinforzare le difese se necessario. Ironia della sorte, la preoccupazione di Liman per Bulair fece sì che fosse così solidamente presidiata che Hamilton decise di non sbarcarvi affatto. Invece, lo schema di sbarco alleato prevedeva sbarchi essenzialmente ovunque: Le forze francesi sarebbero sbarcate sul lato asiatico dello stretto, la 29a Divisione britannica avrebbe assaltato cinque diverse spiagge a Capo Helles e le forze dell’ANZAC sarebbero sbarcate a Gaba Tepe. A Bulair non ci sarebbero stati sbarchi, ma un distaccamento navale si sarebbe avvicinato alla costa per effettuare un bombardamento dimostrativo, nella speranza di fissare gran parte delle forze di Liman in attesa di uno sbarco che non sarebbe mai avvenuto.
Pertanto, le critiche allo schema di sbarco di Hamilton tendono a non cogliere il punto. Da un punto di vista puramente geografico, Bulair era certamente il posto migliore per sbarcare, in quanto offriva l’opportunità di tagliare fuori tutte le forze turche nella penisola e ottenere la “grande vittoria”. Poiché il mare era fondamentalmente uno spazio di manovra in questa campagna, i critici di Hamilton sottolineano la sua incapacità di sfruttare questa mobilità. Liman, tuttavia, era ben consapevole della vulnerabilità di Bulair e aveva posizionato due delle sue sei divisioni nell’area, con la possibilità che altre forze arrivassero dalla Tracia. Se il mare è davvero uno spazio di manovra, in questo caso era quasi certamente corretto che Hamilton lo usasse per evitare la forza della difesa nemica.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, un assillante disaccordo dottrinale si è protratto, incentrato sull’opportunità di sostenere gli sbarchi anfibi con un bombardamento navale preparatorio. Sulla carta, sembra ovviamente saggio ammorbidire le difese nemiche con il fuoco dell’artiglieria pesante, ma gli scettici sostenevano che i risultati di tali bombardamenti non valessero l’inconveniente di allertare i difensori dell’imminente sbarco. Gli Alleati nella seconda guerra provarono entrambe le cose, a volte applicando un generoso sbarramento preparatorio e a volte cercando di ottenere l’elemento sorpresa precipitandosi sulla spiaggia senza preavviso.
Gallipoli dimostrò fin dall’inizio il perché di questo dibattito e perché non esisteva una risposta univoca. Quando l’armata alleata si avvicinò alla penisola di Gallipoli nelle prime ore del mattino del 25, l’ammiraglio de Robeck notò che la notte era “calma e molto chiara, con una luna brillante”. La visibilità chiara facilita la supervisione di una complessa operazione di sbarco, ma aiuta anche il nemico. Alle 3:20 del mattino, poche ore prima che le prime truppe britanniche sbarcassero a Capo Helles, le sentinelle turche del 26° Reggimento avevano già avvisato il comando che la flotta nemica si stava avvicinando all’orizzonte. Quando i cannoni navali britannici aprirono il fuoco da distanze estreme alle 4:30 del mattino, fu inequivocabile che stava arrivando qualcosa di grosso. Le truppe che raggiunsero la costa alle 6:00, quindi, si scontrarono con una difesa che era essenzialmente in piena allerta, con conseguenze prevedibilmente deleterie.
Intervista a Jens Spahn: dopo il Cancelliere, è forse l’uomo più potente della CDU/CSU – e non perché sia così popolare nel suo partito. Molti riconoscono il suo talento politico e la sua diligenza. Ma anche all’interno della CDU/CSU molti non sembrano fidarsi di Spahn, probabilmente anche perché ha chiesto di trattare l’AfD “come qualsiasi altro partito di opposizione” e si è presentato come un apologeta di Trump. “Prima di tutto, dobbiamo armarci. Il Cancelliere vuole l’esercito convenzionale più forte d’Europa. Sono d’accordo. Poi dobbiamo imparare insieme a condurre dibattiti sulla politica di sicurezza senza cadere nei soliti riflessi”.
STERN 10.07.2025 Possiamo fidarci di lei, signor Spahn? Mercante di maschere, apologeta di Trump, cancelliere ombra: il capo del gruppo parlamentare della CDU/CSU fa paura a molti. Quali piani sta realmente perseguendo.
Spahn ha agito a mente fredda? Una cosa è certa: altri sono rimasti più fiduciosi durante la crisi Jens Spahn non è alla ricerca di un lavoro; l’uomo ricopre una delle posizioni più importanti della politica tedesca, come leader del gruppo parlamentare CDU/CSU al Bundestag. Proseguire cliccando su:
Il conflitto ultra vires ancora irrisolto all’interno dell’UE. Ultra vires (“al di là dei poteri”) significa che le istituzioni dell’UE eccedono i poteri loro delegati dagli Stati membri. Tuttavia, in base al principio del conferimento (art. 5, par. 2 TUE), l’UE può agire solo nei settori ad essa espressamente delegati. Ciò solleva una questione istituzionale. Non è chiaro chi decida in ultima istanza dove finiscono le competenze dell’UE: le corti supreme nazionali o la CGUE? Non esiste alcuna disposizione del trattato in merito. La ragione del conflitto ultra vires è la diversa comprensione del principio di validità del diritto dell’UE e del suo rapporto con il diritto nazionale (costituzionale). Questa disputa sulla validità del diritto dell’Unione è antica quanto l’UE stessa, è il “nodo gordiano” del diritto costituzionale europeo. Se i poteri dei parlamenti vengono svuotati, superando le loro competenze in violazione del trattato, un pilastro della democrazia europea viene meno, cosicché l’edificio europeo e quindi la legittimazione democratica dell’UE nel suo complesso non sono più sufficientemente garantiti. La catena di legittimità che attraversa le democrazie nazionali si spezza e i cittadini sono soggetti a un’azione sovrana che non hanno mai legittimato. Una volta che compiti e poteri sono stati trasferiti all’UE, i cittadini degli Stati membri non possono facilmente invertire la rotta.
9 luglio 2025 Tagliare il nodo gordiano Il contenimento del conflitto ultraviolento europeo
Di Benedikt Riedl (è assistente di ricerca presso la cattedra di diritto pubblico e filosofia dello Stato dell’Università Ludwig Maximilian di Monaco) Immaginate il seguente scenario fittizio: avete votato per la CDU/CsU alle elezioni del Bundestag e questa ottiene la maggioranza assoluta. Proseguire cliccando su:
La Polonia compie un passo drastico in risposta al cambiamento della politica migratoria tedesca. Da maggio, quando si è insediato il nuovo governo tedesco, sono aumentati i controlli alle frontiere tedesche, comprese quelle con la Polonia. I migranti vengono “respinti” più spesso di prima. La posizione della Polonia a questo proposito è contraddittoria. Da un lato, dal 2015 i governi polacchi hanno regolarmente accusato la Germania di non avere il senso della realtà in materia di migrazione. Poiché la Germania non espelle efficacemente i migranti illegali e le prestazioni sociali sono elevate rispetto agli standard europei, anche per i migranti costretti a lasciare il Paese, la Polonia ritiene che la Germania abbia sviluppato un effetto di attrazione per i migranti extraeuropei verso l’UE – con conseguenze anche per la Polonia.
03.07.2025 Il segnale della Polonia alla Germania Varsavia trae le conseguenze della politica migratoria della Germania e introduce controlli alle frontiere. La decisione è accompagnata da un avvertimento a Berlino
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DI SVEN CHRISTIAN SCHULZ – BRUXELLES Se si crede a Gheorghe Piperea, la sua mozione di censura contro Ursula von der Leyen segna l’inizio della fine del suo mandato di Presidente della Commissione UE. Proseguire cliccando su:
BRICS: durante l’incontro di quest’anno, i Paesi hanno quindi criticato anche la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. I ministri delle finanze si sono espressi a favore di una ridistribuzione dei diritti di voto e della fine della tradizionale leadership europea del Fondo per superare “l’anacronistico ordine del dopoguerra”. Per quanto l’alleanza di Stati sia unita nel rifiuto di alcune istituzioni di stampo occidentale, è probabile che ci sia troppo poco terreno comune per un secondo centro di potere globale.
08.07.2025 I paesi Brics stanno diventando dei seri concorrenti? L’alleanza delle economie emergenti continua a crescere. Alcuni dei membri vogliono diventare meno dipendenti dal dollaro USA come valuta di riserva, creando una propria valuta Brics.
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Nella conferenza di chiusura dello scorso fine settimana, l’AfD ha redatto un documento di posizione contenente sette punti, tra cui le misure per la sicurezza interna e le caratteristiche principali di una nuova politica estera. Tuttavia, ciò che è più interessante di ciò che è contenuto nel documento è ciò che non contiene. Mancano i termini “remigrazione” e “cultura dominante”, che erano stati inseriti in una prima bozza. L’obiettivo è quello di liberarsi dall’isolamento politico; si possono ipotizzare anche motivazioni tattiche: il partito vuole rendere il più difficile possibile ai giudici la conferma della classificazione di “estremista di destra sicuro” da parte dei servizi segreti nazionali. La chiamano “melonizzazione”, in riferimento al primo ministro italiano Giorgia Meloni.
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I presidenti degli Stati Uniti hanno un grande ego – se non lo avessero, le loro possibilità di raggiungere lo Studio Ovale sarebbero scarse – e vogliono essere ricordati favorevolmente anche dopo la loro morte. Alcuni presidenti, come George Washington, Abraham Lincoln e Franklin D. Roosevelt, godono di uno status eccelso in parte per le loro qualità eccezionali, ma anche perché hanno superato circostanze difficili che hanno richiesto una leadership straordinaria. I presidenti che governano in tempi più normali, o le cui azioni in carica sono macchiate da evidenti fallimenti, possono solo sperare di non finire in fondo a una di quelle liste che classificano i presidenti dal migliore al peggiore.
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Come in molte altre cose, l’ossessione di Donald Trump per il proprio posto nella storia è una classe a sé stante. Nessun altro presidente ha fatto della sua permanenza in carica una questione così evidente o è stato così trasparente nel suo desiderio di essere ricordato come uno dei più grandi presidenti degli Stati Uniti. Anzi, sembra credere di essersi già guadagnato questo riconoscimento.
I segni del desiderio di gloria personale di Trump sono ovunque. Durante il suo primo mandato, ha detto ai giornalisti che i ritardi nella copertura di posizioni chiave erano irrilevanti perché lui era “l’unico” che contava. Ha ripetutamente espresso il suo desiderio di ricevere il Premio Nobel per la pace, che brama in parte perché il suo predecessore Barack Obama lo ha ottenuto. Durante la sua campagna per le presidenziali del 2024, ha detto chiaramente che si considera il più grande presidente di sempre, anche meglio di Lincoln o Washington. Si vanta della propria intelligenza e si aspetta che i membri del gabinetto e gli altri alti funzionari si impegnino in rituali atti di ammirazione in pubblico. I repubblicani del culto MAGA stanno già lavorando per venerare Trump; c’è persino una proposta di legge del Congresso che propone di aggiungere il suo volto al Mount Rushmore.
Il problema di Trump, tuttavia, è che il suo bilancio in carica è nel migliore dei casi mediocre e nel peggiore un disastro. Durante il suo primo mandato, ha gestito male la pandemia COVID-19, ha aumentato il debito degli Stati Uniti di oltre 8.000 miliardi di dollari, ha peggiorato il deficit commerciale degli Stati Uniti, non è riuscito a porre fine alla guerra in Afghanistan, non è riuscito a persuadere la Corea del Nord a ridurre il suo arsenale nucleare e ha turbato le relazioni con gli alleati di lunga data senza alcun risultato. Dopo questa performance, l’elettorato lo ha giustamente cacciato dal suo incarico. Ha vinto un secondo mandato soprattutto perché Joe Biden non ha abbandonato la corsa abbastanza presto, e ora sta tentando una trasformazione radicale della politica interna ed estera degli Stati Uniti che ha sollevato legittimi timori di recessione, minaccia di distruggere le capacità scientifiche e accademiche del Paese, leader a livello mondiale, e ha fatto crollare i suoi indici di gradimento più velocemente di qualsiasi altro presidente degli Stati Uniti negli ultimi 80 anni. Chiamatemi pure all’antica, ma a me non sembra materiale da Monte Rushmore.
Ma non bisogna ancora escludere Trump, perché la sua intera carriera, sia prima che dopo l’ingresso in politica, si è basata su una notevole capacità di creare l’illusione di un successo, anche quando i fatti dicono il contrario. Ha iniziato la sua carriera imprenditoriale avendo ereditato una cospicua fortuna, per poi subire ripetute bancarotte e altri fallimenti commerciali e commettere molteplici frodi. Nonostante questi risultati mediocri, una combinazione di autopromozione incessante, di bugie abili e spudorate e di un ingaggio fortuito come divo dei reality ha convinto milioni di persone che egli fosse un genio degli affari e un maestro dell’affare.
Come presidente, il principale risultato di Trump è stato quello di infrangere molte delle norme che hanno plasmato l’ordine democratico degli Stati Uniti e di sfidare molte saggezze convenzionali. Per i suoi sostenitori, questo è il suo genio; per i suoi critici, è il motivo per cui è così pericoloso. Purtroppo, è stato troppo incapace o non disposto a padroneggiare i dettagli necessari per attuare riforme efficaci e troppo inetto come negoziatore per superare avversari stranieri esperti e dalla mentalità dura. Ma questi fallimenti potrebbero non avere importanza, data la sua capacità di convincere la gente che sta facendo grandi cose, indipendentemente dalla realtà.
Ma c’è qualcosa di sbagliato nel fatto che un presidente cerchi di ottenere un posto speciale nei libri di storia? Non dovremmo volere che i nostri presidenti siano ambiziosi e non si accontentino di preservare lo status quo o di modificarlo ai margini? La risposta è sì, a condizione che 1) abbiano idee ben concepite su come apportare benefici al Paese (e non solo arricchire se stessi o i loro maggiori finanziatori) e 2) sappiano come attuare questi piani in modo efficace. L’ambizione è benvenuta quando fa progredire il bene comune ed è perseguita con energia ed efficacia, ma non quando si tratta di glorificare l’individuo che occupa la Casa Bianca.
Quando i leader sono guidati principalmente dal desiderio di gloria personale, piuttosto che da un impegno genuino per l’interesse pubblico, è più probabile che perseguano “risultati” insignificanti che portano pochi benefici (ad esempio, rinominare il Golfo del Messico) e che ignorino problemi più impegnativi la cui soluzione aiuterebbe milioni di persone (come migliorare le infrastrutture o ridurre la disuguaglianza economica). Sono più inclini a correre grossi rischi, a evocare emergenze immaginarie per giustificare misure estreme e a perseguire progetti altisonanti ma mal concepiti che i cittadini comuni finiranno per pagare. E se l’apparenza è l’unica cosa che conta, un leader ambizioso passerà più tempo a costruire culti della personalità e a reprimere le critiche che a governare davvero. Vi suona familiare?
Il desiderio spesso espresso da Trump di conquistare la Groenlandia illustra perfettamente queste tendenze. Non c’è una giustificazione di sicurezza impellente per annettere l’isola, perché gli Stati Uniti hanno già un trattato con il legittimo sovrano della Groenlandia, la Danimarca, che permette di aumentare la presenza militare americana in quel Paese se le circostanze lo richiedono. Non c’è nemmeno un’impellente ragione economica per rilevarla, perché lo sfruttamento delle risorse minerarie della Groenlandia potrebbe non essere commerciale e le imprese statunitensi sono libere di perseguire queste opportunità, se lo desiderano. C’è anche il fastidioso problema che la popolazione della Groenlandia non desidera diventare parte degli Stati Uniti.
Un Cesare americano
Due leader a confronto, a due millenni di distanza.
Di Donna Zuckerberg, autrice di Not All Dead White Men: Classics and Misogyny in the Digital Age e del libro di memorie di prossima pubblicazione Antiquated.
Un’illustrazione in stile xilografia raffigura Donald Trump come Giulio Cesare
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Ad aprile, mentre l’economia mondiale vacillava per i dazi del presidente americano Donald Trump, il leader della minoranza del Senato Chuck Schumer pubblicò su X, “Nerone armeggiava. Trump ha giocato a golf”. Schumer si è unito alla lunga storia di paragoni tra Trump e gli antichi romani. Trump è Augusto che concentra il potere della Repubblica in un unico individuo autoritario, un Caligola crudele e capriccioso, un demagogo sul modello di Tiberio Gracco o Publio Clodio Pulcro.
La copertina del numero di Foreign Policy dell’estate 2025 mostra Donald Trump che entra in un portale temporale di cornici storiche.
Ma più spesso viene paragonato a Giulio Cesare, che nel 49 a.C. condusse i suoi soldati oltre il Rubicone, il fiume che segnava il confine tra la provincia della Gallia Cisalpina e l’area direttamente controllata da Roma. Portando una legione oltre il Rubicone, Cesare infranse le leggi che limitavano il suo potere. Secondo lo storico romano Svetonio, al momento del passaggio Cesare dichiarò: “Il dado è tratto”. Dopo cinque anni di guerra civile, nel 44 a.C. fu dichiarato dittatore a vita e poco dopo fu notoriamente assassinato.
Il parallelo tra Cesare e Trump si è rivelato così attraente che il confronto è crollato sotto il suo stesso peso e si è invertito. Cesare è ora paragonato a Trump, con una produzione del 2017 di Giulio Cesare di William Shakespeare e una serie di documentari della BBC del 2023 sulla dittatura di Cesare che confondono esplicitamente le due figure.
Non conosciamo la data esatta in cui Cesare attraversò il Rubicone, né sappiamo con precisione dove. Ma i Rubiconi di Trump sono stati molti, come ha sottolineato la psicologa e scrittrice Mary L. Trump, nipote del presidente. Ogni settimana, un opinionista dichiara che Trump ha attraversato un Rubicone o un altro. I riferimenti sono così frequenti che, pochi giorni dopo il post di Schumer che paragonava Trump a Nerone, la storica Michele Renee Salzman ha pubblicato un appassionato pezzo su Zócalo Public Square intitolato “Stop Comparing Trump’s Lawbreaking to Caesar Crossing the Rubicon”.
L’uso della metafora del Rubicone non è limitato ai critici di Trump. I rivoltosi del 6 gennaio 2021 hanno portato striscioni con l’hashtag popolare #CrossTheRubicon, alludendo all’ubiquità della retorica del Rubicone negli spazi online di estrema destra che ho descritto nel mio libro del 2018, Not All Dead White Men. Nel 2022, Newt Gingrich esplorò su Newsweek se l’irruzione dell’FBI a Mar-a-Lago fosse un momento del Rubicone, e nel 2024, il Washington Times pubblicò un editoriale intitolato “I democratici attraversano il Rubicone con il verdetto di colpevolezza di Trump”.
La critica di Salzman alla metafora del Rubicone è che non si spinge abbastanza in là. Cesare, sostiene, voleva sostanzialmente mantenere il sistema politico romano con se stesso al comando: “Quando Cesare attraversò il Rubicone, il suo obiettivo era specifico e limitato. Cesare non voleva rifare la repubblica né distruggere il funzionamento della politica romana. Voleva semplicemente portare con sé il suo esercito per candidarsi alla carica di console”.
Le ambizioni di Trump, scrive Salzman, sono molto più ampie: “A differenza degli obiettivi limitati di Cesare nel 49 a.C., Trump desidera apportare un cambiamento generalizzato alla nostra Repubblica, ribaltando tutto, da decenni di politica estera e agenzie federali legalmente costituite alla ricerca medica, all’istruzione e alla legge”.
Non è difficile fare un paragone tra Trump e Cesare, se lo si desidera.
Entrambi erano populisti, ma Trump è anche un presidente storicamente impopolare, con il suo indice di popolarità a 100 giorni il più basso degli ultimi 80 anni. Cesare, invece, aveva un’ampia base di sostegno sia come generoso mecenate che come rinomato generale. Entrambi erano estremamente ricchi, ma Cesare era ben noto come brillante stratega militare e uomo di cultura, rispettato anche da colleghi polimatici come Cicerone, che costellava le sue lettere a Cesare di riferimenti eruditi alla letteratura greca. (Cesare potrebbe aver davvero detto, durante la sua traversata, “lasciate che il dado sia tratto”, una citazione del comico greco Menandro).
Ma questo tipo di pignoleria sembra, in ultima analisi, un po’ fuori luogo. Certo, Trump non assomiglia perfettamente a un dittatore di un sistema politico molto diverso di oltre 2.000 anni fa (anche se entrambi erano un po’ consapevoli della loro diradazione dei capelli). Cercare di prevedere cosa succederà guardando all’antica Roma è un esercizio comprensibile ma inutile.
Come sostiene la storica Rhiannon Garth Jones nel suo recente libroTutte le strade portano a Roma, c’è una lunga e ricca storia di imperi che si definiscono in conversazione con Roma e che usano Roma come una stenografia, un modo per esprimere il potere imperiale. Il significato di Roma è, a quanto pare, nell’occhio di chi guarda.
A cosa equivalgono tutti questi paragoni con il Rubicone? I commentatori sembrano voler dichiarare che questo momento, questa azione, questo evento è un punto di non ritorno, che annuncia un grande cambiamento. Forse hanno ragione, anche se le lezioni degli eventi storici sono spesso opache per chi li vive. Forse, per i romani degli anni ’40, il passaggio del Rubicone da parte di Cesare era solo uno di una serie di eventi che sembravano completamente impensabili, dissolvendo tutte le norme e le regole concordate.
Forse si sono sentiti spiazzati proprio come noi, alla disperata ricerca di un paragone storico che li aiutasse a dare un senso ai loro tempi, trovando un precedente per l’inaudito. Secondo lo storico greco Polybius, quando il generale romano Scipione guardò le rovine di Cartagine conquistata, citò un verso di Omero sull’inevitabilità della caduta di Troia; forse i contemporanei di Cesare fecero qualcosa di simile.
Per me, questi paragoni parlano della futilità paralizzante ma allettante di collocare il momento presente in una conversazione con il passato classico. Come per la maggior parte dei paragoni, il confronto tra Trump e Cesare alla fine ci dice di più sulla persona che lo fa che su uno dei leader coinvolti. La metafora del Rubicone è talmente abusata che, sebbene possa essere importante per alcune persone, ha superato il punto di essere significativa come modo per spiegare la sensazione che le care norme democratiche vengano trasgredite quasi quotidianamente.
La lezione delle metafore del Rubicone potrebbe essere questa: Quando sono utilizzate dalla sinistra, segnalano il disagio per le azioni di Trump. Quando sono utilizzati dalla destra, segnalano la volontà documentata di intraprendere un’azione collettiva, anche se si arriva alla violenza. Forse i rivoltosi con gli striscioni capiscono le lezioni della storia meglio di quanto facciano gli opinionisti e gli storici. Solo il tempo ce lo dirà.
Donna Zuckerberg è autrice di Not All Dead White Men: Classics and Misogyny in the Digital Age e del libro di memorie di prossima pubblicazione Antiquated. Ha fondato e diretto la pluripremiata pubblicazione online Eidolon dal 2015 al 2020.
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Quattro ex ministri degli esteri e l’ex ambasciatore statunitense della Cina criticano la logica della sicurezza armata al Forum mondiale per la pace di Tsinghua
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Salve, miei lettori, la scorsa settimana l’Università Tsinghua e l’Istituto Popolare Cinese per gli Affari Esteri (CPIFA) hanno co-organizzato il loro Forum Mondiale per la Pace. Si tratta di un forum annuale sulla sicurezza internazionale che si riunisce dal 2012. Durante il forum inaugurale, l’allora vicepresidente Xi Jinping ha partecipato e ha tenuto un discorso. Per l’incontro di quest’anno era presente anche il vicepresidente Han Zheng. Ho deciso di tradurre uno dei suoi panel più interessanti, incentrato sulla pan-securitizzazione e sui dilemmi della sicurezza globale, con relatori tra cui Cui Tiankai , ex ambasciatore cinese negli Stati Uniti per otto anni, Bob Carr , ex ministro degli Esteri australiano, Kim Sung-hwan , ex ministro degli Affari Esteri e del Commercio della Corea del Sud, e George Yeo , ex ministro degli Affari Esteri a Singapore, con il rinomato studioso di relazioni internazionali Yan Xuetong come moderatore.
Durante il panel, diplomatici di lunga data hanno offerto aspre critiche su come le preoccupazioni per la sicurezza siano state strumentalizzate nelle relazioni internazionali contemporanee. Cui ha analizzato attentamente come la pan-securitizzazione sia stata promossa dagli stessi attori che storicamente hanno creato instabilità globale. Bob Carr ha inoltre offerto una schietta valutazione dell’approccio imprevedibile di Trump sia nei confronti degli alleati che degli avversari, e ha offerto la riflessione filosofica di George Yeo sulla necessità di una trasformazione morale nelle relazioni internazionali. I relatori si sono confrontati su diversi temi cruciali: la pericolosa espansione della logica della sicurezza in tutte le sfere della cooperazione internazionale, l’urgente necessità per le potenze medie di svolgere un ruolo di mediazione nella competizione tra grandi potenze e la richiesta di un nuovo fondamento morale nella diplomazia che trascenda i ristretti interessi nazionali.
In questa sessione discuteremo il tema della pan-securitizzazione. Credo che tutti i presenti abbiano notato che trasformare ogni problema in un problema di sicurezza è diventato causa di conflitto. Non ha migliorato la nostra sicurezza, ma ha portato più conflitti invece che pace. Pertanto, questa sessione discuterà specificamente di come affrontare i concetti di sicurezza e di quali tipi di concetti di sicurezza abbiamo bisogno.
Vi presenterò brevemente i nostri ospiti. Alla mia sinistra c’è Bob Carr , ex Ministro degli Esteri australiano (2012-2013) e il Premier del Nuovo Galles del Sud con il mandato più lungo nella storia australiana. Nel 2024 è stato nominato Presidente dell’Australia Conservation Foundation e Presidente del Museo di Storia Australiana del Nuovo Galles del Sud.
Accanto a lui c’è Cui Tiankai, che è stato a lungo ambasciatore della Cina negli Stati Uniti (2013-2021). L’ho incontrato due volte quando era a Washington. Attualmente è consulente del Consiglio dell’Istituto per gli Affari Esteri del Popolo Cinese.
Il prossimo è il signor Kim Sung-hwan , che è stato Ministro degli Affari Esteri e del Commercio della Corea del Sud (2010-2013). Attualmente è Preside dell’Istituto per la Responsabilità Sociale Globale presso la Seoul National University.
Infine, George Yeo , che ha ricoperto a lungo la carica di Ministro degli Esteri di Singapore (2004-2011), è attualmente visiting scholar presso la Lee Kuan Yew School of Public Policy della National University of Singapore.
Sig. Carr, potrebbe parlarci di questo concetto di sicurezza? Stiamo discutendo della trasformazione della cooperazione economica e della tecnologia in un’arma. In effetti, oggi qualsiasi cosa può essere trasformata in un’arma. La cooperazione economica è diventata uno strumento per creare e generare problemi, anziché per favorire lo sviluppo. Come vede questo problema? Qual è la sua opinione sulla sicurezza regionale?
Bob Carr: Questa è la sfida che ci troviamo ad affrontare attualmente. Il principe Faisal (Turki Al Faisal), uno dei nostri precedenti relatori, ha anche toccato questo punto: il genocidio a Gaza. Non credo che la nostra conferenza possa risolvere questo problema; questo è il dilemma che si trova ad affrontare il sistema internazionale. Ho sentito un rapporto secondo cui i bambini palestinesi si presentano ai centri di distribuzione alimentare molto presto prima dell’apertura, o se arrivano in ritardo, i centri di distribuzione vengono chiusi. Ma che arrivino presto o tardi, potrebbero essere colpiti dalle Forze di difesa israeliane. Questo è un crimine contro l’umanità e parte di crimini di guerra estesi. Dovremmo accettare la sfida posta dal principe Faisal: il mondo intero dovrebbe prestare attenzione a questo e cercare soluzioni. Quando parliamo del ruolo della Cina, dobbiamo lasciare che la Cina svolga un ruolo maggiore nella società mondiale. La Cina dovrebbe agire come difensore dell’ordine post-1945. Guardando alla Cina ora, il mondo occidentale non può più svolgere un ruolo di leadership per porre fine ai crimini in corso nella guerra di Gaza. Questo ci costringe a rispondere a una domanda più ampia sulle questioni istituzionali e strutturali: le sfide che l’intero sistema mondiale deve affrontare, incluso un potere politico organizzato da una persona degli Stati Uniti. Stati Uniti, un partito – il Partito Repubblicano – con un’ampia base, guidato da un leader molto forte che decide vari affari interni degli Stati Uniti e che vuole anche comandare il mondo intero.
La leadership di Trump è particolarmente stimolante. Spera che, nei rapporti con la Cina, sia come gli Stati Uniti trattano con la Russia, perché la Cina è una grande potenza. Apprezza e rispetta il presidente cinese e ammira profondamente i successi della Cina. Parlando della Cina, Trump una volta disse: “Rispetto la Cina, rispetto molto il presidente Xi. Il presidente Xi è molto saggio. Quando voglio dire che è molto intelligente, è davvero una persona particolarmente intelligente. Penso che la Cina sia grande, spero davvero che la Cina sia grande, amo la Cina”. Immaginate cosa dice Trump dei suoi alleati in Asia – Giappone, Corea del Sud – e persino quando parla dell’Australia: ciò che dice è piuttosto inimmaginabile. Questo dimostra che le idee del presidente Trump sul ruolo dell’America nel mondo sono diverse da quelle di tutti gli altri leader americani.
Credo che le persone in questa città abbiano già notato le capacità tecniche dimostrate dall’esercito statunitense nell’attacco agli obiettivi iraniani. Questa non è la tecnologia dei tempi di Jimmy Carter. Ora la confrontiamo con la prima Guerra del Golfo. Ho anche notato che gli strateghi cinesi esplorano attentamente ciò che gli Stati Uniti sono stati in grado di fare nella prima Guerra del Golfo. La sfida che ora ci troviamo ad affrontare è cosa dovremmo fare come alleati dell’America, inclusi noi nel Sud-est asiatico e in Cina? Gli alleati dell’America – Giappone, Corea del Sud, Australia – sono tutti nella regione asiatica. Gli Stati Uniti ci chiedono di spendere di più per la difesa. Per raggiungere questo obiettivo, quale piattaforma vogliono che adottiamo per raggiungere il consenso? È molto difficile. Tutti possono dire che la spesa per la difesa dovrebbe aumentare un po’ di più – è facile – ma quale piattaforma dovrebbe essere utilizzata per raggiungere questo obiettivo? Come dovrebbero essere utilizzati gli investimenti pubblici? Quali aree del bilancio pubblico dovrebbero essere sacrificate per aumentare la spesa per la difesa?
Pete Hegseth ci ha chiesto di aumentare la spesa per la difesa dell’Australia. Il nostro Primo Ministro ha affermato che avremmo deciso autonomamente se l’Australia avrebbe aumentato la spesa per la difesa. Questo potrebbe dispiacere al presidente americano. Gli alleati dell’America sono stati colpiti e sono terrorizzati, tra cui Giappone e Corea del Sud. È una guerra commerciale. Noi in Australia siamo ancora in attesa di ulteriori dettagli, ma quale sarà l’entità di questi dazi? In realtà, come ha affermato il nostro Ministro del Commercio Estero, l’Australia ha un deficit commerciale con gli Stati Uniti – gli Stati Uniti hanno un surplus – ma nella situazione attuale, continuano a minacciare di aumentare i dazi sull’Australia. In realtà, per rafforzare la cooperazione in materia di difesa tra Stati Uniti e Australia, la sua minaccia è che gli Stati Uniti si ritirino dall’accordo di cooperazione AUKUS per i sottomarini nucleari USA-Regno Unito-Australia, che è stato deciso congiuntamente da Australia e Stati Uniti. Questo è un enorme shock per noi e un enorme shock per gli amici americani in Australia.
Come ho già detto, credo che dobbiamo diversificare seriamente i nostri scambi commerciali. Ne abbiamo parlato stamattina. Anche noi in Australia speriamo di raggiungere un accordo commerciale con l’UE e di rafforzare gli accordi commerciali con l’India. Un altro aspetto molto importante e promettente è la collaborazione con gli Emirati Arabi Uniti, un grande mercato nel Golfo. Speriamo di diversificare gli scambi.
Gli alleati dell’America nella regione asiatica hanno bisogno di molte consultazioni tra loro, in modo che Giappone e Corea del Sud possano incoraggiare noi australiani, e noi australiani possiamo, a nostra volta, incoraggiarli, in modo da poter resistere alle intimidazioni del nostro grande partner americano. Quando lo faremo? Quali misure adotteremo? Quando cediamo? Quando resistiamo? Noi, alleati dell’America in questa regione, dobbiamo discutere la questione in modo adeguato.
Anche i paesi ASEAN del Sud-Est asiatico rappresentano un gruppo molto importante. Hanno molti anni di esperienza nei rapporti con la Cina. È presente anche il Ministro degli Esteri di Singapore, George Yeo. Singapore, Malesia, Indonesia e Vietnam sanno come mantenere il rispetto reciproco con la Cina senza creare una situazione in cui diventano parte di essa. Sanno che gli Stati Uniti a volte intimidiscono le persone, ma allo stesso tempo sperano di mantenere la presenza americana nella regione, non per sopraffarvi, ma per mantenere la propria presenza all’orizzonte.
D’altra parte, gli alleati americani, a mio avviso, non possono tollerare le richieste sempre più insistenti degli Stati Uniti di disaccoppiarsi dalla Cina. Il 40% delle esportazioni australiane è destinato alla Cina. Se ci disaccoppiassimo, l’Australia cadrebbe immediatamente in povertà. Questa non è la scelta dei leader imprenditoriali australiani, sebbene siano molto filoamericani, perché direbbero che dobbiamo dire agli americani di no, che non possiamo disaccoppiarci dalla Cina. Credo che la Corea del Sud e il Giappone siano probabilmente la stessa cosa.
Mantenere l’ordine mondiale del dopoguerra dovrebbe rappresentare una posizione entusiasmante per la Cina. Se studiamo attentamente l’ordine del dopoguerra, incluso il sistema commerciale mondiale, vedremo che la Cina può immediatamente stringere partnership con europei, paesi del Sud-Est asiatico e alleati degli Stati Uniti – Canada, Nuova Zelanda, Australia, Giappone e Corea del Sud – per promuovere e far progredire le regole del commercio mondiale. La Cina può affermare di promuovere un ordine internazionale basato su regole in questo senso, perché gli Stati Uniti stanno ottenendo scarsi risultati in questo ambito. La Cina promuove beni pubblici, tra cui la Belt and Road Initiative, la Shanghai Cooperation Organization, la Banca Asiatica per gli Investimenti nelle Infrastrutture, ecc. Ma quali sfide deve affrontare la Cina? Per promuovere beni pubblici nell’intero sistema mondiale che non siano correlati agli attuali interessi della Cina, quali sfide deve affrontare la Cina? Una di queste potrebbe essere l’attuale situazione del popolo palestinese.
Ho quasi finito. Una possibilità per la Cina è considerare la gamma di alternative diplomatiche che si trova ad affrontare. La Cina può fare una scelta del genere per gestire le sue controversie sui diritti marittimi con i paesi vicini in modo più sensibile? La sua condotta nelle controversie con le Filippine è valida o danneggia la reputazione della Cina? Quando qualcuno parla di “teoria della minaccia cinese” o di “aggressione cinese”, a volte sui media australiani, americani ed europei, spesso si riferisce al panico causato dalla Cina. L’unico esempio citato è la posizione molto dura della Cina nei confronti delle Filippine nella rivendicazione dei propri diritti marittimi.
Da amico, vorrei suggerire alla Cina di rivedere le sue posizioni di politica estera. Stringiamo partnership insieme, includendo questi alleati degli Stati Uniti e partnership con la Cina: questo è il nostro interesse comune. Qui non cerchiamo il predominio o il vantaggio in questa parte del mondo. Vediamo la forza americana, anche sulla questione di Taiwan. In realtà, la posizione dell’amministrazione Trump sulla questione di Taiwan è diventata più discreta. Sono passati cinque anni dalla visita di Pelosi a Taiwan e osserviamo questa tendenza. In realtà, stiamo anche promuovendo un’idea di distensione, come durante il periodo USA-URSS. Tale idea può essere incorporata nel nostro dialogo diplomatico – dialogo diplomatico sulla distensione – in modo che tutte le parti adottino azioni caute nei prossimi anni e comprendano meglio i nostri interessi comuni per evitare una guerra tra la grande potenza mondiale consolidata e la grande potenza emergente.
Yan Xuetong: Grazie. Il signor Carr ha appena menzionato due fattori che incidono seriamente sulla sicurezza globale. In primo luogo, l’amministrazione Trump strumentalizza tutto, compresi commercio e dazi, non solo contro la Cina, ma anche contro gli alleati americani. In secondo luogo, l’intensificarsi della competizione tra Stati Uniti e Cina: questo tipo di competizione rafforzata tra due grandi potenze potrebbe portare a conflitti.
Ora, per favore, Ambasciatore Cui Tiankai, condividi la tua opinione. Come giudichi Trump quando afferma di amare la Cina, ma, d’altra parte, anche gli alleati americani dubitano della reale politica americana nei confronti degli alleati? Quindi, quanto di ciò che dice è vero?
Cui Tiankai: Grazie. Dato che c’è l’interpretazione simultanea, parlerò comunque in cinese.
Innanzitutto, sono onorato di partecipare a questa discussione con diversi diplomatici di alto livello della regione Asia-Pacifico. In apertura, vorrei fare due osservazioni sul tema della pan-securitizzazione e dei dilemmi di sicurezza. Riservo altri spunti per una discussione successiva.
Il primo punto che voglio sottolineare è che la pan-securitizzazione è completamente diversa dalle ragionevoli preoccupazioni per la sicurezza: sono diametralmente opposte. Ad essere onesti, il mondo di oggi non è molto pacifico. Spesso diciamo che è un mix di cambiamento e caos. Ci sono molti problemi di sicurezza nel mondo che non sono stati risolti, alcuni conflitti persistono da molto tempo senza prospettive di arresto. La sovranità, la sicurezza e gli interessi di sviluppo di molti paesi si trovano spesso ad affrontare sfide e interferenze da parte di altri paesi. Unilateralismo e comportamenti prepotenti nelle relazioni internazionali emergono uno dopo l’altro. In questa situazione, naturalmente, molti paesi, soprattutto quelli in via di sviluppo, nutrono preoccupazioni sempre più forti per la sicurezza. Ritengono che il mondo sia insicuro e che il futuro sia incerto. Questa è una questione che dovremmo prendere sul serio. Ma la pan-securitizzazione va completamente in un’altra direzione. Quindi, la mia interpretazione della pan-securitizzazione è che inverte la causa e l’effetto delle sfide alla sicurezza, distorce la connotazione dei concetti di sicurezza e amplia infinitamente l’estensione delle questioni di sicurezza.
Come ha appena affermato il Ministro degli Esteri Carr, le normali relazioni economiche e commerciali sono ormai diventate questioni di sicurezza, i normali scambi e la cooperazione scientifica e tecnologica sono diventati questioni di sicurezza, e persino l’Università Tsinghua, in quanto università, gli scambi culturali e formativi ora hanno tutti una connotazione di sicurezza. Questo sta espandendo la sicurezza all’infinito. Questo approccio di fatto diluisce l’attenzione sulle questioni di sicurezza a cui la comunità internazionale dovrebbe realmente prestare attenzione e marginalizza le ragionevoli preoccupazioni di sicurezza dei Paesi in via di sviluppo. Il risultato di ciò non può che causare un aumento dei problemi di sicurezza, sempre più difficili da risolvere, rendendo il mondo intero più insicuro. Questo è il primo punto che voglio sollevare.
Il secondo punto, e molto ironicamente, è che coloro che ora promuovono la pan-securitizzazione nel mondo sono esattamente le stesse fonti che hanno creato molti fattori di insicurezza e provocato molte sfide alla sicurezza nel mondo per molti anni. Possono ignorare gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite per violare la sovranità, la sicurezza e gli interessi di sviluppo di altri paesi. Possono impegnarsi in “rivoluzioni colorate” e cambi di regime, sanzioni unilaterali e giurisdizione a lungo raggio, e persino inviare truppe a combattere altri paesi sovrani. Tuttavia, sono proprio coloro che attuano queste politiche e sostengono tali concetti a sentirsi ora insicuri. Creano costantemente nell’opinione pubblica internazionale la sensazione che altri abbiano causato loro insicurezza. Credo che la ragione fondamentale sia che sempre più paesi nel mondo non credono più nel loro approccio, ne capiscono le reali intenzioni e ora osano dichiararsi e opporsi.
Inoltre, con lo sviluppo economico complessivo e l’ascesa del Sud del mondo, che rappresenta una quota sempre maggiore nel mondo, coloro che sono abili o abituati all’unilateralismo e all’egemonia si sentono insicuri. Ora affermano costantemente che il mondo non è sicuro, e persino il normale sviluppo di altri Paesi è visto come una minaccia alla loro sicurezza. Questa è in realtà anche una sorta di pan-securitizzazione.
Si può quindi affermare che la loro mentalità, i loro concetti e le loro politiche li abbiano intrappolati in un dilemma di sicurezza. Questo dilemma non è imposto loro da altri; è qualcosa che hanno creato e in cui si sono gettati. Se continuano ad aderire a questo pensiero a somma zero, insistendo su questa mentalità e politica di danneggiare gli interessi altrui per massimizzare i propri interessi e di danneggiare la sicurezza altrui per perseguire la propria sicurezza, sprofonderanno sempre più in questo dilemma e il loro percorso diventerà sempre più stretto.
Cosa si dovrebbe fare? Credo che tutti dovrebbero continuare a seguire un nuovo concetto di sicurezza. Proprio ora, a pranzo, il Ministro Liu Jianchao (capo del Dipartimento Internazionale del PCC) ha parlato di un concetto di sicurezza comune, globale, cooperativo e sostenibile. In altre parole, la comunità internazionale dovrebbe perseguire una sicurezza comune e universale per tutti i Paesi, senza escludere alcun Paese e senza prendere di mira alcun Paese. Sia per la sicurezza tradizionale che per quella non tradizionale, dovrebbero essere adottate misure globali con una valutazione coordinata e globale. Tutti i Paesi dovrebbero affrontare le sfide comuni alla sicurezza attraverso il dialogo e la cooperazione. Non solo si dovrebbero risolvere alcuni problemi di sicurezza superficiali, ma si dovrebbe prestare attenzione anche ai fattori profondi e alle cause profonde dei problemi di sicurezza. Quindi, se tutti riuscissero a sostenere un nuovo concetto di sicurezza – un concetto di sicurezza comune, globale, cooperativo e sostenibile – il dilemma potrebbe essere facilmente superato. Possiamo, come afferma il tema del Forum Mondiale per la Pace di quest’anno, godere di un nuovo mondo di responsabilità condivisa, benefici condivisi e sicurezza reciprocamente vantaggiosa. Quindi, la chiave sta nel tipo di concetto di sicurezza che si segue.
Come osservazione iniziale, vorrei dire subito questo: Grazie.
Yan Xuetong: Grazie, Ambasciatore Cui. Hai risposto molto chiaramente al nostro tema: il grave danno della pan-cartolarizzazione.
Signor Kim, ci dica la sua opinione.
Kim Sung-hwan: Grazie per avermi invitato a partecipare al Forum Mondiale per la Pace. Sono particolarmente lieto di partecipare alla discussione di questa sessione. Ringrazio l’Università Tsinghua per avermi invitato a questa conferenza.
Concordo con le opinioni espresse dall’Ambasciatore Cui Tiankai sulla pan-cartolarizzazione. Credo che ormai quasi tutto sia stato indirizzato verso la pan-cartolarizzazione. Il concetto di sicurezza ha ampiamente superato le categorie tradizionali e quasi tutto è diventato un potenziale rischio. Pertanto, ritengo che questa tendenza alla pan-cartolarizzazione sia diventata una delle principali fonti dell’attuale dilemma di sicurezza globale.
Questa tendenza si è intensificata, soprattutto da quando il Presidente Trump è tornato in carica a gennaio di quest’anno. Stamattina al forum, tutti dicevano che viviamo in un’era di incertezza. Ho un amico coreano che ha descritto la situazione internazionale sotto l’era Trump. Ha detto che l’era dell’elegante ipocrisia è finita e che è arrivata l’era della brutalità sfacciata. Sono completamente d’accordo con la sua descrizione. Ma voglio anche aggiungere che ciò a cui assistiamo ora non è solo la diffusione di preoccupazioni per la sicurezza, ma l’evoluzione dell’intera agenda per la sicurezza, incluso il modo in cui imposteremo e ridefiniremo le questioni di sicurezza in futuro.
Perché si verifica la pan-securitizzazione? Le ragioni sono diverse. Innanzitutto, il crollo della fiducia reciproca tra le grandi potenze, in particolare tra Stati Uniti e Cina. Credo fermamente che se il rapporto di cooperazione tra Cina e Stati Uniti non potrà essere ripristinato, il fenomeno della pan-securitizzazione sarà difficile da eliminare nel breve termine. A questo proposito, sono stato lieto di sentire il Ministro Liu Jianchao esprimere ottimismo sul futuro delle relazioni Cina-Stati Uniti durante il discorso di oggi a pranzo.
La seconda ragione è la strumentalizzazione dell’interdipendenza, che si manifesta nel disaccoppiamento tecnologico, nel controllo energetico e nella regolamentazione dei dati. In passato, l’interdipendenza era considerata fonte di pace e resilienza, uno stabilizzatore per le relazioni tra grandi potenze. Ma ora questa logica dell’interdipendenza si è invertita. Come ha affermato l’Ambasciatore Cui, i fattori che un tempo garantivano sicurezza sono ora visti come vulnerabilità. La riduzione del rischio e il disaccoppiamento hanno sostituito la cooperazione.
La terza ragione è che le istituzioni di governance globale non sono state in grado di adattarsi alle nuove situazioni. Alcuni relatori hanno già accennato al fatto che quest’anno ricorre l’80° anniversario della fondazione dell’ONU. Dovremmo riflettere sull’efficacia dell’ONU. Dopo 80 anni, dovremmo chiederci se funzioni normalmente? Constatiamo che la guerra di Gaza e quella in Ucraina non accennano a concludersi, quindi dovremmo valutare se rivitalizzare l’ONU o cercare alternative. In particolare, per quanto riguarda la riforma del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, constatiamo l’abuso del potere di veto: i cinque membri permanenti abusano del loro potere di veto. Dobbiamo anche riorganizzare l’OMC. È un compito urgente.
Ero un diplomatico e ho visto come la logica della sicurezza prevalga sulla diplomazia, e questo accade spesso. In molti momenti cruciali, i meccanismi di dialogo vengono sospesi, e anche la diplomazia di secondo livello viene sospesa a causa di rischi per la sicurezza, anche quando è urgentemente necessaria una cooperazione globale su clima, pandemie e soccorsi in caso di calamità. Restringiamo l’ambito della diplomazia quando dobbiamo ampliare lo spazio diplomatico.
Un altro punto è che le potenze medie possono svolgere un ruolo. Le potenze medie sono proprio questo: medie. Non siamo grandi potenze, non abbiamo ambizioni egemoniche, ma abbiamo una certa forza e una genuina volontà di far collaborare tutti per risolvere i problemi. Quindi le potenze medie dovrebbero impegnarsi di più per mediare la competizione tra grandi potenze, soprattutto in questa regione asiatica o nel Nord-est asiatico. Credo che la cooperazione tra Giappone, Corea del Sud e Cina sia molto importante. Se riusciamo a rafforzare la nostra cooperazione trilaterale, possiamo ridurre il rischio di uno scontro Cina-USA.
Da quando è stata istituita la cooperazione trilaterale in Corea del Sud nel 2012, il vertice trilaterale è proseguito, ma negli ultimi anni ha principalmente esplorato le questioni Giappone-Corea del Sud. A causa di problemi storici, Giappone e Corea del Sud non possono tenere incontri regolari con i leader. Ora spero che, con l’insediamento del nuovo governo sudcoreano, si possa rafforzare la cooperazione trilaterale in questa regione, riducendo così i rischi di una competizione tra grandi potenze.
Infine, vorrei sottolineare che l’attuale tendenza alla pan-cartolarizzazione non è nel nostro interesse. Dovremmo ristabilire l’equilibrio tra sicurezza e cooperazione. Inoltre, quando si parla di sicurezza, i giornali coreani spesso menzionano termini come sicurezza energetica e sicurezza alimentare. Dobbiamo definire cos’è la sicurezza economica e come il concetto di sicurezza debba essere utilizzato correttamente. Dobbiamo definire chiaramente la sicurezza del debito. Se si vuole usare il termine “sicurezza”, ogni termine correlato deve essere definito accuratamente, inclusi sicurezza energetica, sicurezza economica, ecc. Dobbiamo collaborare o creare un meccanismo per esplorare la vera definizione di cartolarizzazione.
Yan Xuetong: Grazie. Il signor Kim ha ipotizzato che una delle ragioni per la militarizzazione sia la competizione tra Cina e Stati Uniti. Dato che le grandi potenze globali non hanno svolto un ruolo positivo, le potenze medie possono effettivamente colmare questa lacuna e invertire la situazione. Questa è la mia opinione.
Infine, signor George Yeo, potrebbe condividere la sua opinione?
George Yeo: Siamo in una transizione verso un mondo multipolare. Non è un cliché. L’amministrazione Trump è la prima amministrazione statunitense a riconoscere che l’America si trova ora in un mondo multipolare. Quando l’America si sentiva una superpotenza, sapeva essere generosa. Molti anni fa, Lee Kuan Yew aveva ragione quando disse che l’America è una grande potenza benevola: era generosa in molti ambiti. Ricordo ancora il dialogo tra l’ex presidente George H.W. Bush e Lee Kuan Yew. Parlarono della Cina. Il presidente Bush era allora molto preoccupato per il ritorno della Cina nel mondo e per il successo delle riforme economiche. Le sue intenzioni erano buone: sperava che la Cina avesse successo. Ma da allora, l’America si è trovata ad affrontare sempre più divisioni interne e insicurezza.
Qualche settimana fa sono andato all’Università di Harvard per una riunione di classe. I nostri compagni di classe sono tutti anziani ormai e mi hanno chiesto: “L’America è in declino? Pensi che l’America sia in declino?”. In realtà non avrei mai immaginato che questi compagni americani mi facessero questa domanda in passato. Ora sanno che il loro Paese è diviso. L’America non è abbastanza forte per essere un egemone globale, ma è ancora abbastanza forte da essere un bullo globale. Per esempio, dice all’Ucraina: “Voglio i tuoi minerali”. Dice al Giappone: “Faresti meglio a comprare il nostro riso americano”. Minaccia ogni tipo di persona. È particolarmente educata con Xi Jinping perché sa di non poterlo intimidire. In questo nuovo mondo, diverse dinamiche stanno cambiando. Abbiamo letto tutti libri come “Il problema dei tre corpi” di Liu Cixin. La chiave de “Il problema dei tre corpi” sta nel problema matematico: le equazioni matematiche non possono essere risolte, quindi gli schemi di movimento di tre corpi celesti non possono essere previsti.
Se la matematica di un mondo multipolare è instabile e le sue dinamiche sono instabili, allora in un mondo così nuovo le potenze regionali giocheranno un ruolo importante. Ciascuno dei nostri Paesi deve impegnarsi a mantenere la pace, la stabilità e lo sviluppo, prendendosi cura dei propri quartieri. Perché anche l’America lo dice: vogliono guardare a est. La Russia dice di no, non farlo. La Russia ha reagito, e anche l’America sostiene la Gran Bretagna. Anche i Paesi europei lo stanno facendo. Improvvisamente scopriamo che Trump ha aggirato i Paesi europei per negoziare direttamente con la Russia, e i Paesi europei sono certamente scontenti. A volte diventa un mediatore, mediando tra i Paesi europei e la Russia.
I paesi europei devono riflettere con chiarezza su quali siano i propri interessi, su come coesistere con la Russia – e la Russia esisterà sempre – e su come assumere posizioni sulle questioni mediorientali, su Gaza e Israele, sull’Africa e sulla Cina. I paesi europei devono riflettere.
Trump ha costretto con successo i paesi della NATO ad aumentare la spesa per la difesa. Il risultato è che se i paesi europei hanno una potenza militare, avranno una propria politica estera. In un certo senso, Trump sta promuovendo lo sviluppo di un mondo multipolare. La pace europea dipende in ultima analisi dagli europei stessi, da come si rapportano tra loro e con la Russia. Certo, le grandi potenze continueranno a svolgere un ruolo, ma anche questi paesi devono svolgere ruoli importanti.
Lo stesso vale per il Medio Oriente. Qui vediamo delle opportunità. Netanyahu ha attaccato l’Iran e Trump, convinto di stare vincendo, ha intimato all’Iran di arrendersi rapidamente. Ha notato che non era così facile, ma ha cercato di bombardare gli impianti nucleari iraniani. Ma non vuole una guerra di vasta portata perché una guerra di vasta portata potrebbe coinvolgere la Russia, altre forze e persino la Cina. Quindi ha chiarito che i bombardamenti hanno preso di mira solo questi tre siti nucleari. Se gli impianti nucleari iraniani siano stati effettivamente distrutti, non lo sappiamo – solo loro lo sanno. Naturalmente, per ragioni interne, Trump deve dichiarare la sua vittoria, e anche Israele deve dichiararla. Ma questa è anche la prima volta nella storia di Israele che subisce perdite ingenti.
Se pensiamo a cosa succederà tra dieci anni, credo che in termini di potere relativo l’America non sarà certamente forte come lo è ora, e l’influenza di Israele in America potrebbe non essere così grande come lo è ora. Di recente, alle primarie democratiche di New York, hanno scelto Mamdani come candidato: 33 anni, musulmano e sciita. Non solo sciita, ma sciita Jafri, ovvero la stessa setta principale dell’Iran. Perché i giovani lo hanno scelto? Perché hanno chiesto a questi candidati chi volessero visitare per primo. Tutti hanno risposto Israele e Giamaica. Solo questa persona ha detto “Voglio andare a New York”. Non ha menzionato Israele, quindi ha trovato riscontro tra i giovani. Quindi gli israeliani devono riflettere se avranno ancora l’influenza odierna in America a lungo termine. Quali saranno le dinamiche tra le grandi potenze?
Allo stesso tempo, i vicini di Israele e dell’Iran non sono impotenti. La Cina ha facilitato la riconciliazione tra Arabia Saudita e Iran. La Turchia ha svolto un ruolo, includendo anche i paesi del Caucaso: Armenia e Azerbaigian stanno facendo il loro lavoro. Il programma nucleare iraniano non sarà il loro unico obiettivo. Hanno l’aiuto della Russia e la precedente cooperazione in materia di difesa aerea. Ma Putin sta anche pensando in cuor suo: la Cina fornirà aiuto economico, ma non vuole essere troppo coinvolta. In definitiva, le potenze regionali in quella regione devono dire di no: siamo la forza principale per il mantenimento della stabilità. Lo stesso vale per il Mar Cinese Meridionale. Le questioni del Mar Cinese Meridionale coinvolgono tutti i paesi del Sud-est asiatico e la Cina. L’America potrebbe svolgere un ruolo, ma se il suo ruolo fosse troppo importante, la Cina si assicurerebbe che i filippini non ottengano un accordo molto vantaggioso. Prima o poi, i filippini capiranno che far entrare gli americani non è un bene per loro. Dicono che sono molto filo-cinese, ma ho detto che i filippini sanno in cuor loro che l’arrivo degli americani non è un bene per loro. Marcos guida le Filippine da un’altra direzione. Questa tendenza non continuerà perché ci sono fattori organici nella pace, nella stabilità e nello sviluppo: tutti i paesi della regione, compresi Cina e paesi del Sud-est asiatico, collaborano.
Quindi, un mondo multipolare non significa che le grandi potenze abbiano più voce in capitolo. I paesi della regione devono contribuire al mantenimento della pace e della stabilità. In realtà, se insistiamo nel promuovere la pace e la stabilità, la capacità delle grandi potenze di creare problemi sarà limitata.
Grazie.
Yan Xuetong: Grazie, signor George Yeo.
Tutti i relatori hanno appena espresso le loro opinioni sulla pan-securitizzazione e sui dilemmi della sicurezza globale. Alcuni hanno affermato che servono concetti pertinenti, altri che le potenze medie possono svolgere un ruolo positivo. Anche George Yeo ha parlato con passione di questo punto: tutti dovrebbero partecipare attivamente.
Stiamo entrando nel secondo turno di questa sessione. Darò a ciascuno di voi 5 minuti per rispondere alle mie domande, a partire dal signor George Yeo. Ha appena detto che tutti dovrebbero svolgere un ruolo attivo. Quando diciamo che ogni Paese dovrebbe svolgere un ruolo attivo, dovremmo fare qualcosa o astenerci dal farne qualcuna?
George Yeo: In cuor nostro, se non crediamo di essere tutti fratelli e sorelle, se non abbiamo pace nei nostri cuori, non importa quanto siano abili i nostri diplomatici, il mondo non raggiungerà la pace. Se guardiamo a ciò che sta accadendo oggi a Gaza e a ciò che sta accadendo in Ucraina, ciascuna parte odia l’altra e la considera un demone. Persino i bambini pensano che l’altra parte debba essere distrutta perché è un demone. Questo è ciò che accade quando gli esseri umani si odiano a vicenda. Possiamo continuare a odiarci a vicenda, ma con la tecnologia odierna possiamo uccidere tutti gli esseri umani più e più volte. Quindi abbiamo bisogno di un nuovo senso morale: abbiamo bisogno che tutta l’umanità abbia questo senso morale e questa conoscenza. La Cina parla di una comunità con un futuro condiviso per l’umanità. Questo è moralmente necessario. Negli anni ’90, il Papa dell’epoca firmò una dichiarazione importante con il leader religioso islamico ad Abu Dhabi. Il significato essenziale era che siamo tutti fratelli e sorelle. A pranzo oggi, il Ministro Liu Jianchao ha sottolineato che abbiamo bisogno di questo sentimento: che, in definitiva, siamo tutti umani. Questo non può essere risolto tramite forme legali; può essere solo una convinzione nel nostro cuore. È una lotta: non mi piace questa persona, perché dovrei trattarla come un fratello?
Ad esempio, sulla questione di Taiwan, Ko Wen-je, sindaco di Taipei, ha affermato: “Le persone su entrambe le sponde dello stretto sono un’unica famiglia”. Anche Xi Jinping ha citato questa frase. Se sentiamo di essere davvero un’unica famiglia, possiamo parlare: si possono discutere molte cose. Ma se sentiamo di non esserlo, qualsiasi cosa può causare conflitti. Dai genitori ai figli, dagli insegnanti agli studenti, compresi legislatori e autorità di regolamentazione, tutti devono farlo. Un vescovo cinese è venuto a Singapore e ha incontrato un vescovo di Singapore, parlando di come promuovere l’armonia religiosa. Il vescovo di Singapore ha affermato che il governo regolamenta troppo, rubandomi molto tempo, perché Singapore è sempre preoccupata – dato che abbiamo dieci religioni – sempre preoccupata per le controversie tra religioni. Infatti, i leader religiosi spesso si incontrano e partecipano alle feste religiose e, quando ci sono problemi, si incontrano immediatamente e dicono ai loro fedeli che si tratta di una questione di poco conto. Possiamo anche parlare di grandi questioni, di politica di potere, ma moralmente parlando, siamo tutti umani. Ci trattiamo come fratelli e sorelle, proprio come il tema del Forum Mondiale per la Pace: “pace”? Siamo tutti umani.
Yan Xuetong: Mi piace molto quello che ha detto. Il signor George Yeo ha appena menzionato la moralità: abbiamo bisogno di una nuova motivazione morale. Dopo la Guerra Fredda, il neoliberismo ha prevalso. Ora vediamo una certa ipocrisia nei diritti umani di cui parlano. Molti governi rivendicano i diritti umani, ma sostengono le politiche del governo Netanyahu nei confronti di Gaza. Quindi, ovviamente, nessuno dice ora che dovremmo riabbracciare il liberalismo.
Signor Kim, ha appena parlato della capacità delle potenze medie di svolgere un ruolo attivo. Quale nuovo concetto morale raccomanderebbero al mondo le potenze medie?
Kim Sung-hwan: Dovremmo rispettare l’umanità. Quando consideriamo i problemi, spesso consideriamo prima i nostri interessi nazionali. Questa pan-securitizzazione deriva anche da questo tipo di paura nazionale. Dobbiamo basarla sul rispetto per l’umanità. Gli esseri umani dovrebbero essere al centro di ogni cosa. Solo così possiamo raggiungere la pace. Il Ministro Liu Jianchao ha affermato che il Presidente Xi ha proposto tre principi per le relazioni con gli Stati Uniti: rispetto reciproco e rispetto per l’umanità. Questo dovrebbe essere il fondamento di qualsiasi cosa, così da poter risolvere i problemi.
Yan Xuetong: Quello di cui stai parlando è molto importante: come definire il contenuto e i metodi del rispetto reciproco. Vorrei chiedere all’Ambasciatore Cui di parlarne.
Cui Tiankai: In realtà, il rispetto reciproco è sempre stato un principio che abbiamo sostenuto nei rapporti con gli Stati Uniti. Parliamo di rispetto reciproco, coesistenza pacifica e cooperazione reciprocamente vantaggiosa, mettendo sempre il rispetto reciproco al primo posto. Senza rispetto reciproco, non c’è fondamento per il resto. Ma cosa dovremmo rispettare reciprocamente? La vostra cultura, la vostra storia, il vostro stadio di sviluppo e, soprattutto, i vostri interessi fondamentali e le vostre principali preoccupazioni. Taiwan è stata menzionata prima. Ad esempio, sulla questione di Taiwan, abbiamo sempre detto che è la questione più importante e delicata nelle relazioni Cina-USA, e lo è ancora. Ma questo non significa che l’America abbia voce in capitolo o addirittura potere decisionale su questo tema. Lo diciamo perché l’America è intervenuta nella guerra civile cinese e si è intromessa negli affari interni della Cina. Se riusciamo ad aderire alla politica di una sola Cina, questa questione può essere risolta bene. Dipende dalla capacità dell’America di rispettare gli interessi fondamentali della Cina. Questo è il metro migliore per verificare se esiste rispetto reciproco.
Naturalmente, è stata menzionata anche la questione del Mar Cinese Meridionale. Voglio dire che la questione del Mar Cinese Meridionale e la questione di Taiwan sono di natura diversa. La questione di Taiwan riguarda la sovranità, l’integrità territoriale e l’unificazione della Cina: non c’è spazio per negoziati o compromessi. La Cina sarà unita: non c’è nulla da discutere su questo. La questione del Mar Cinese Meridionale riguarda controversie territoriali tra la Cina e alcuni paesi confinanti. Naturalmente, abbiamo le nostre rivendicazioni, che riteniamo del tutto ragionevoli, ma riconosciamo anche che in alcuni altri paesi – alcuni paesi dell’ASEAN – questa non è una questione tra la Cina e l’ASEAN nel suo complesso, ma controversie territoriali tra la Cina e alcuni paesi dell’ASEAN. Questo può essere risolto attraverso negoziati e consultazioni.
Cina e ASEAN hanno una DOC (Dichiarazione di Condotta) e stanno ora negoziando un COC (Codice di Condotta). Esiste un principio fondamentale secondo cui queste controversie dovrebbero essere risolte attraverso la pace, la consultazione e il negoziato tra paesi direttamente sovrani. Su questo tema, l’America non è un paese direttamente interessato. L’America non ha rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Meridionale. Perché interviene con così tanta intensità? Perché c’è una crescente presenza militare? Credo che questo sia un problema dell’America. Ma questa questione non è esattamente della stessa natura della questione di Taiwan.
Per quanto riguarda la competizione tra grandi potenze e la competizione tra Cina e Stati Uniti menzionate in precedenza, credo ci sia un concetto che dobbiamo chiarire. Potrebbe oggettivamente esserci una certa competizione tra Cina e Stati Uniti, persino inevitabile, ma la Cina non ha mai fatto della competizione con l’America il nostro obiettivo di sviluppo. L’obiettivo di sviluppo della Cina è molto chiaro: vogliamo raggiungere una modernizzazione in stile cinese. Tutti possono consultare il rapporto del presidente Xi Jinping al XX Congresso del Partito Comunista Cinese, che ha parlato di cinque caratteristiche della modernizzazione in stile cinese. Una di queste è “intraprendere la via dello sviluppo pacifico”. Quindi il nostro obiettivo di sviluppo non è sopraffare gli altri, ma superare noi stessi: migliorare noi stessi, non sconfiggere o sostituire nessuno. La Cina non ha mai fatto di questo un obiettivo. Quindi, se si pensa che la competizione tra Cina e Stati Uniti significhi che Cina e America competono per l’egemonia, credo che questa sia un’interpretazione errata. Non vogliamo competere per l’egemonia con nessuno e ci opponiamo a chiunque cerchi l’egemonia. Ci opponiamo all’egemonia americana. Tutti ricorderanno che negli anni ’60 e ’90 davamo ancora priorità all’opposizione all’egemonia sovietica. Questo non è un concetto fatto su misura per l’America, ma per qualsiasi egemonia. Quindi, quando si parla di competizione tra Cina e Stati Uniti e di competizione tra grandi potenze, credo che questo concetto debba essere chiaro e definito in modo rigoroso. Non siate vaghi.
Yan Xuetong: Grazie, Ambasciatore Cui. Ora, quando discutiamo di un nuovo ordine morale internazionale, l’Ambasciatore Cui ha anche sottolineato la differenza tra unificazione nazionale e controversie territoriali. L’opposizione all’egemonia dovrebbe essere parte di un nuovo concetto morale.
Bob, come vedi questa ipocrisia liberale? I paesi europei sostengono le politiche di Netanyahu: questa prima politica europea ne è un esempio. Abbiamo suggerimenti per stabilire un nuovo ordine mondiale?
Bob Carr: Parlando a nome dell’America, principalmente per correttezza. Sono lieto che il Ministro George Yeo abbia menzionato che il nuovo sindaco di New York è musulmano e sciita. Oggi è anche l’anniversario del Discorso di Gettysburg, quando l’America, come forza del bene, abolì la schiavitù. Forse possiamo prendere in prestito le parole di Lincoln: “Tutti abbiamo angeli della nostra natura migliore”.
Nella nostra politica estera odierna, la Cina sta difendendo l’ordine mondiale del dopoguerra. Forse possiamo riflettere sui contributi positivi che l’America ha apportato negli ultimi decenni. Voglio dire che l’amministrazione Obama si è impegnata in quello che in seguito è stato chiamato l’Accordo Nucleare Globale sull’Iran. Ciò che l’America ha fatto è stato promuovere il grande obiettivo della non proliferazione nucleare. Ha compiuto grandi sforzi per promuovere questo lavoro diplomatico per diversi anni. Il risultato è stato che i dipartimenti di sicurezza americani hanno riferito al Congresso che l’Iran rispettava questo accordo, sia nel testo che nello spirito. Questa era l’America al suo meglio. Sebbene avesse anche interessi personali, si concentrava più sul fare del bene, sul fare la cosa giusta. Questa era l’America al suo meglio.
Quando ero Ministro degli Esteri, ho avuto contatti con Hillary Clinton. Collaborare con l’amministrazione Obama è stato particolarmente piacevole perché hanno menzionato molti obiettivi internazionali. La Segretaria Clinton ha effettuato numerose visite in tutto il mondo e, durante le visite, ha sempre incontrato organizzazioni femminili, soprattutto giovani donne, per migliorare il trattamento delle ragazze e delle donne nei paesi in via di sviluppo. Questa natura spesso si scontra con il fallimento. Credo che l’ambasciatore statunitense in Ucraina abbia partecipato a manifestazioni di piazza contro l’allora governo ucraino filo-russo. Ciò rifletteva l’idealismo americano, ma questo idealismo si è trasformato in ingerenza negli affari interni.
Gli esempi che ho citato prima si riferiscono tutti al periodo in cui l’America era al suo apice: il suo contributo al mondo, pur perseguendo i propri interessi, non può essere negato. La sfida che la Cina si trova ad affrontare ora – prendo in prestito un’espressione di Gareth Evans – è questa: se la Cina si trova in una situazione simile, può diventare un buon vicino in questa comunità?
Yan Xuetong: Non sono del tutto sicuro che la Cina lo farebbe. Noi cinesi vogliamo stabilire un nuovo ordine per il mondo, non ne sono molto sicuro. Ma credo che quello che hai appena detto su Hillary Clinton sembri essere in grossi guai alla Columbia University perché ha sostenuto le politiche di Netanyahu, e gli studenti stanno organizzando proteste contro di lei.
Tutti gli oratori di oggi hanno espresso le loro opinioni: cosa dovrebbe fare la Cina, cosa dovrebbe fare l’America, cosa dovrebbero fare i Paesi di medio sviluppo. Abbiamo ancora qualche minuto. Vorrei invitarvi a fare delle domande. Raccoglieremo tre domande alla volta e risponderemo insieme. Vi prego di presentarvi e di dire chiaramente a chi state rivolgendo le vostre domande.
Domanda 1: Grazie. Spero che mi permettiate di esprimere alcune delle mie opinioni.
Yan Xuetong: Sii breve.
Domanda 1: Sarò molto breve. Riguarda la pan-cartolarizzazione.
Perché ho anche dato un contributo alla ricerca sulla pan-securitizzazione. In primo luogo, la pan-securitizzazione non è un pensiero razionale, ma emotivo, persuasivo. Basta guardare Trump per capire. In secondo luogo, la securitizzazione non significa dichiarare lo stato di emergenza per adottare misure eccezionali, persino uccidere quando necessario. Dovresti ricordartelo. Con un tema del genere, penso che possiamo chiederci quali siano i fattori trainanti della pan-securitizzazione. Ho due possibili spiegazioni. Una è che se sei un governo autoritario o vuoi diventarlo, la pan-securitizzazione è una strategia perfetta. Per Trump, questo è un esempio ovvio: securitizza tutto, attraverso il quale può controllare l’economia e la società. Questa è una strategia perfetta. Questo è successo in America, e sta succedendo anche in Israele, Russia, Iran e, in una certa misura, in Cina.
Un altro fattore determinante è che il fallimento della globalizzazione neoliberista ha causato instabilità economica e sociale, facendo sì che la securitizzazione si manifestasse in aree più ampie, perché le persone sono state sconvolte e forse costrette a spostarsi durante la globalizzazione. Si trovano in una situazione di smarrimento, il che porta a determinate politiche.
Yan Xuetong: Grazie. Al prossimo.
Domanda 2: Grazie, moderatore. La mia domanda è rivolta all’ambasciatore Cui Tiankai e vorrei porre la stessa domanda anche al ministro degli Esteri Kim Sung-hwan. L’ambasciatore Cui ha appena parlato delle relazioni Cina-USA. Abbiamo notato che, dal secondo mandato di Trump, le relazioni di molti alleati degli Stati Uniti con la Cina sono migliorate. Recenti sondaggi internazionali mostrano che il consenso globale per la Cina ha superato quello degli Stati Uniti. Quindi la mia domanda è: ritiene che il secondo mandato di Trump rappresenti un’opportunità per la Cina? Come dovrebbe la Cina rispondere e sfruttare questa opportunità?
Inoltre, alcuni pensano che Trump presti più attenzione alle questioni economiche che a quelle geopolitiche.
Yan Xuetong: Penso che la sua domanda sia già molto chiara: chiede all’Ambasciatore Cui. Vorrei che una signora mi facesse una domanda.
Domanda 3: Sono Zhong Yining del China Media Group. Oltre a essere un giornalista, oggi mi pongo anche questa domanda da giovane, una generazione che osserva ciò che accade nel mondo. Non vedo l’ora di sentire le risposte di tutti e cinque. La mia domanda è: oggi ho notato che sono state menzionate diverse cose “nuove”: un nuovo mondo, una nuova struttura, un nuovo meccanismo, nuove sfide, una nuova moralità. Tutti hanno menzionato molte cose “nuove”. Oggi partecipiamo al Forum Mondiale per la Pace. Mi chiedo se ci siano nuovi concetti o una nuova comprensione della pace. Perché siamo in questo processo di nuova globalizzazione e integrazione globale.
Yan Xuetong: Qual è la tua domanda?
Domanda 3: Nuovi concetti e nuova comprensione della pace.
Yan Xuetong: Ti riferisci a come definire “nuovo”, a quanto è nuovo.
Un’altra domanda: sono benvenute sia le donne giovani che quelle anziane.
Domanda 4: Tu giudichi se sono giovane o vecchio.
Grazie. Sono Tian Wei di CCTV. Vorrei prendere in prestito una simulazione del Ministro degli Esteri Carr di prima: angeli buoni. Centinaia di anni fa, quando si parlava di unità interna americana, se guardiamo a ciò che sta accadendo oggi in tutto il mondo, soprattutto per quanto riguarda i negoziati tariffari, vediamo che strumenti come la leva finanziaria potrebbero avere un effetto maggiore di quegli angeli buoni. Pertanto, dobbiamo chiederci: quando parliamo della cosiddetta pan-cartolarizzazione, di cosa stiamo parlando esattamente? In che misura possiamo vedere queste leve diventare strumenti per tutti i Paesi? D’altra parte, stiamo cercando di stabilire nuove regole, un nuovo ordine o i cosiddetti nuovi concetti. Questa domanda non riguarda solo il signor Carr: chiunque sia disposto a rispondere può farlo.
Grazie, Professor Yan.
Cui Tiankai: Innanzitutto, per quanto riguarda la questione delle relazioni Cina-USA, speriamo di sviluppare normali relazioni di cooperazione e persino di amicizia con tutti i Paesi, inclusa l’America, inclusa l’Europa, compresi gli alleati americani nella regione Asia-Pacifico. Perché il tipo di leader che altri Paesi, soprattutto l’America, produrranno non dipende da noi. Non possiamo riporre le nostre speranze in questo, e poi si torna alle elezioni ogni pochi anni. Si dice spesso che opportunità e sfide coesistono: se non si colgono le opportunità, diventano sfide; se si gestiscono bene le sfide, diventano opportunità. Noi ci basiamo ancora su questo pensiero.
Da questa prospettiva, tutte le opportunità e le speranze risiedono in noi stessi, in quanto ci comportiamo bene. Non importa che tipo di leader un altro Paese eleggerà, possiamo affrontarlo. Come si dice, “contro i soldati con i generali, contro la terra con l’acqua”. Se volete dialogo e cooperazione, la nostra porta è sempre aperta. Se volete contenimento e repressione, noi contrattaccheremo con risolutezza.
Ma il nostro obiettivo è ciò che il Presidente Xi ha sempre affermato a livello internazionale: costruire una comunità con un futuro condiviso per l’umanità. Questo è il nostro obiettivo. Non vogliamo escludere o sconfiggere nessuno. Speriamo che tutti possano essere inclusi. Come ha appena detto il Ministro degli Esteri George Yeo a proposito del concetto di famiglia: una comunità globale per tutta l’umanità è un’unica famiglia. La Cina afferma fin dall’antichità che “tutti coloro che vivono nei quattro mari sono fratelli”. Certo, con alcune persone non è facile essere fratelli. Il punto di partenza e l’obiettivo della Cina non sono escludere o sconfiggere nessuno. Speriamo di sviluppare buoni rapporti con tutti i Paesi, inclusa l’America. Ma ci basiamo sui nostri sforzi e ci prepariamo ad affrontare ogni situazione. Naturalmente, questo lavoro deve essere svolto giorno per giorno.
Tornando a ciò che la signora ha detto sulle novità – nuovi meccanismi, nuove tecnologie, nuove opportunità, nuove… – credo che la cosa più importante sia ancora la nuova generazione di esseri umani. Non possiamo dire che lasceremo che l’intelligenza artificiale risolva i problemi che non abbiamo ancora risolto. Dobbiamo comunque lasciarli alla nuova generazione di esseri umani. Continuo a credere in questo. Grazie.
Bob Carr: Mi piace molto questa espressione: lasciare questo problema alla prossima generazione, alla nuova generazione. Questa volta ci blocchiamo. Penso che ci sia molta saggezza in questo. Voglio sempre ricordare cosa hanno significato le riforme di Deng Xiaoping per la Cina e quali vantaggi hanno portato a livello internazionale. Trump porta opportunità per la Cina? Scommetto che il mondo intero sta osservando la flessibilità e l’agilità diplomatica della Cina nel rispondere alle azioni per lo più sconsiderate del presidente americano. Tutto il mondo lo vede, inclusa la gestione da parte della Cina delle sue controversie marittime con le Filippine. Vediamo che in Africa potrebbe esserci un presidente filo-cinese in futuro. A volte potrebbe essere un presidente democratico. L’opinione pubblica nelle Filippine a volte diventa più anti-cinese intorno all’isola di Huangyan o in altre località, ed eleggono più presidenti anti-cinesi. Non voglio puntare il dito contro la Cina, ma spero che gli sviluppi all’interno delle Filippine possano far riflettere la Cina e modificare leggermente la sua posizione dura nei confronti delle Filippine. Questo in realtà influisce sull’opinione pubblica interna filippina.
Vedremo che questo potrebbe portare alle Filippine: più la situazione è difficile ora, più facile sarà per le Filippine eleggere un presidente più filoamericano. Sappiamo che la Cina non diventerà una paladina dell’ordine postbellico: la Cina sfiderà il mondo intero. Ma credo che il mondo intero speri che la Cina possa colmare il vuoto lasciato dal completo ritiro americano.
Per quanto riguarda la questione della guerra tariffaria, non ci sono molte ragioni. Finché Trump la ritiene appropriata, pensa di poter punire la Cina o il Canada. Altre volte, a volte menziona la creazione di maggiori opportunità di lavoro per l’America. Per il Canada, causerebbero effettivamente perdite di posti di lavoro in America. Sperano di acquistare alluminio ed elettricità dal Canada a prezzi relativamente bassi. Quando Trump fa qualcosa, in realtà il Partito Repubblicano non può limitare ciò che fa il Presidente Trump, ma le oscillazioni del mercato azionario, comprese le fluttuazioni della Borsa di New York, lo limiteranno.
Onestamente, ho parlato con il mio collega Ministro Evans. Dobbiamo considerare la stabilità nucleare: come stabilizzare la corsa agli armamenti nucleari, come ridurla ed esplorare il disarmo nucleare. Una di queste è iniziare a discutere del controllo degli armamenti, proprio come fecero Stati Uniti e Unione Sovietica durante il periodo di distensione. Mosca e Washington hanno discusso seriamente del controllo degli armamenti: questa era una caratteristica della distensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Speriamo che Cina e America possano fare lo stesso.
Kim Sung-hwan: Il presidente Trump dà importanza all’economia piuttosto che alla geopolitica. Credo che questo giudizio sia corretto. Non gli interessano affatto le relazioni di alleanza. Ad esempio, queste alleanze – NATO, Corea del Sud, Giappone – stanno tutte approfittando dell’America, quindi fa sì che gli alleati contribuiscano di più. Ora i paesi della NATO hanno concordato di aumentare la spesa per la difesa al 5% del PIL. Il nostro nuovo governo si è appena insediato. Non abbiamo ancora avviato negoziati formali con l’America. Avevamo già accordi rilevanti con l’amministrazione Biden, ma non so a quanto ammonti la condivisione dei costi il presidente Trump ci chiederà di aumentare ora. Si concentra in particolare sull’economia, sul denaro, e non presta molta attenzione alla geopolitica. Grazie.
George Yeo: Il mio vecchio amico, il grande intellettuale francese Attali, mi ha parlato dell’ex presidente francese Mitterrand. Diceva che quando Mitterrand visitava un paese, voleva una mappa in cui quel paese fosse al centro della mappa del mondo, non la Francia. In questo modo si possono capire quali siano le paure e le speranze di quel paese. In strategia militare, conoscere se stessi e conoscere il nemico è una grande saggezza. Perché se ci si mette nei loro panni, innanzitutto non ci si arrabbia tanto perché si possono vedere i problemi dalla loro prospettiva. Allo stesso tempo, si possono vedere quali metodi win-win esistono. Anche se si deve combattere, si possono usare meno truppe perché si pensa anche per l’altra parte. Quindi la cosa più importante qui è l’empatia. Se vogliamo la pace, dobbiamo guardare alle questioni di pace dalla prospettiva dell’altra parte.
Come la vede l’Ucraina? Come la vede la Russia? Come la vedono i palestinesi? Come la vedono gli israeliani? Come la vedono i filippini? Come la vedono i cinesi? Se fossi filippino o israeliano, potrei capire. Ma se si è molto arrabbiati e ci si rifiuta di vedere i problemi dal punto di vista dell’altra parte, il risultato sono guerre estremamente costose, dove molte persone muoiono e viene usata la violenza. Quindi la saggezza suprema è capire l’altra parte e trovare soluzioni, il che può migliorare notevolmente le prospettive di pace.
Come ricercatore, ritengo di aver tratto grande beneficio dalla discussione di questa sessione. Abbiamo discusso della pan-securitizzazione, che è strettamente correlata alla moralità. Abbiamo bisogno di quale tipo di moralità sia necessaria per costruire un nuovo ordine mondiale. In realtà, in cinese abbiamo un detto: “Un gentiluomo ama la ricchezza, ma la ottiene con mezzi appropriati”. Oggi abbiamo discusso del fatto che ogni Paese ha i propri interessi nazionali. Abbiamo anche parlato di quali standard morali dovrebbero essere utilizzati nella gestione delle relazioni reciproche, soprattutto quando gli interessi nazionali sono in conflitto. In terzo luogo, ogni Paese spera e ha bisogno di proteggere i propri interessi, ma dovremmo comunque usare metodi civili piuttosto che intimidazioni per risolvere le controversie tra noi; persino i tradizionali alleati degli Stati Uniti non tollerano la strategia intimidatoria dell’amministrazione Trump.
Qui, i nostri quattro relatori hanno davvero offerto un dibattito di alto livello, introducendo prospettive filosofiche che ci sono state di grande beneficio. Un caloroso applauso per esprimere la nostra gratitudine!
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Il Periodo degli Stati Contendenti rappresenta la transizione post-culturale da poteri informi (Napoleonismo) a un duro cesarismo. Può essere visto come una condizione politica alternativa in cui l’idealismo di grandi forme politiche come lo Stato Assoluto e la raffinata etichetta del Periodo d’Autunno (Fau. 1650-1800 d.C., App. 500-350 a.C., Mag. 650-800 d.C.) viene abolito e la politica inizia a disgregarsi nel periodo della civiltà. E poiché lo Stato e le nazioni non hanno più una forma , il risultato è una serie caotica di lotte di potere e guerre basate su grandi individui che travolgono la storia al loro passaggio e la pongono a tacere con la stessa facilità con cui è venuta.
Il Periodo degli Stati Contendenti è testimoniato anche a metà del Tardo Periodo. Grandi uomini come Cromwell, Wallenstein e Richelieu furono grandi individui alla guida di nazioni. La differenza tra queste figure e quelle napoleoniche, tuttavia, è che le prime cercarono di dare una forma alla società, mentre le seconde annunciarono un’epoca di imperdonabile disfatta.
Ciò che una cultura fondamentalmente fa è prendere le energie del potere e della verità e legarle in una forma specifica che le permetta di esprimersi. Non c’è esempio migliore di questo, credo, della cultura del duello del XVIII secolo . Risolvere le controversie con onore e morire secondo le proprie parole in combattimenti basati su regole è un microcosmo della più ampia guerra basata su regole del periodo Rococò. Ma si può capire il momento in cui una cultura muore quando le persone, come sue migliori espressioni, non vivono e muoiono più secondo queste regole. La cultura è ora in decomposizione e le energie e le tensioni vengono lasciate andare.
Se avete visto un qualsiasi film sulla Seconda Guerra Mondiale, sarete accolti dallo shock delle antiche tradizioni massacrate dall’industria moderna. La carica di cavalleria falcidiata dalle mitragliatrici in War Horse, i carri armati che emergono dal fumo in Niente di nuovo sul fronte occidentale. Lo sbarco in Normandia in Salvate il soldato Ryan o il grido degli Stuka in Dunkerque. Tutti esprimono l’orrore delle antiche usanze annientate dall’uso al limite dell’ingiustizia della tecnologia contro nemici obsoleti, solitamente dalla parte del protagonista. Ma questo tema non era diverso cento anni prima, quando l’etichetta del Rococò veniva considerata una debolezza di fronte alle tattiche belliche napoleoniche. Invece di un campo di battaglia curato con una strategia bilanciata da equità e principi di giustizia, la guerra da Napoleone e Dionisio in poi diventa una corsa per vincere per primi a tutti i costi. Ogni sorta di massa viene trascinata sul campo di battaglia nella speranza di salvare una vittoria. Nel mondo greco, Dionisio I di Siracusa (regnò dal 405 al 367 a.C.) fu soprannominato il padre dell’antica arte dell’assedio, poiché mobilitò catapulte, torri d’assedio e altre artiglierie nelle sue guerre, discostandosi dalle tattiche di guerra standard utilizzate fino a quel momento.
L’espressione stessa, in tipico stile spengleriano, è ampliata da un periodo culturalmente specifico a un periodo culturalmente universale. In questo caso, è presa in prestito dal periodo cinese degli stati contendenti, altrimenti noto come periodo degli Stati Combattenti o periodo Zhànguó. Al suo inizio nel 475 a.C., alla fine del periodo delle “Primavere e Autunni”, esistevano sette regni separati. Alla sua fine, nel 221 a.C., solo il regno di Qin sopravvisse dopo aver sconfitto i suoi vicini, con Qin Shi Huang che divenne “imperatore” dell’intera civiltà e contemporaneo cinese di Cesare Augusto. Il processo di questa transizione comportò la fine definitiva della già nominale dinastia Zhou (c. 1046-256 a.C.) dopo 800 anni di supremazia e l’abbandono della guerra morale di matrice confuciana in favore del pensiero del “Più forte sul Giusto”, guerre di annientamento al posto delle punizioni per i vinti ed eserciti permanenti professionali al posto di quelli aristocratici. Di fatto, le redini erano state sciolte e i vecchi ideali non avevano più alcun effetto sulla politica cinese, che ora non si era più trattenuta dal perseguire interessi personali al di sopra di ogni altra cosa. In questo contesto, si notava una notevole opposizione tra lo stato “romano” di Qin e gli “He-Zong”, un’alleanza di stati che prevedeva il predominio di Qin e tentava di sconfiggerlo prima che la Cina si trovasse in tale situazione. Spengler considera questa alleanza simile alla “Società delle Nazioni”. Solo che, la nostra storia ha avuto un esito diverso da quello cinese, dove quest’alleanza si è sgretolata in lotte intestine e alla fine è stato Qin a prevalere.
Questo periodo dura 254 anni prima che otteniamo il nostro primo Cesare della Cina. Altrove e in altri tempi, lo Zhànguó del mondo classico inizia con le Guerre dei Diadochi, in particolare con la Battaglia di Ipso nel 301 a.C. che sancì la disgregazione dell’impero alessandrino dopo diverse guerre di successione, ponendo fine al sogno di un impero ellenistico multinazionale come quello persiano prima di esso, e con la Battaglia di Azio nel 31 a.C. che riportò il Mediterraneo sotto un’unica bandiera romana sotto Ottaviano Cesare, che sarebbe tornato a Roma e avrebbe ottenuto il titolo di Augusto. Questo periodo durò 270 anni. Le tre guerre puniche si svolgono tra il 264 e il 146 a.C. Ognuna può essere considerata una guerra mondiale tra la potenza marittima di Cartagine e la potenza terrestre italica di Roma. Alla fine della terza guerra punica, il risultato fu la completa distruzione di Cartagine, il saccheggio della città e la schiavitù della sua popolazione, a dimostrazione di una totale degradazione della correttezza. All’epoca si trattava di una battaglia tra nazioni, ma con il passare del tempo le opposizioni divennero sempre più individuali, tanto che Azio fu contesa tra Ottaviano e Antonio e non più territori dell’impero.
La Rivoluzione francese del mondo islamico segnò la caduta della dinastia degli Omayyadi, che aveva regnato dal 661 al 750 d.C. La politica degli Omayyadi era quella di casate aristocratiche arabe in una condizione “gaia e illuminata” non dissimile da quella del nostro XVIII secolo , ma in seguito il Califfato si trovò ad affrontare numerose rivolte e disordini. I musulmani non arabi convertiti di recente – i Mawālī – spesso prendevano la religione più seriamente degli arabi che la trattavano in modo più politico. Ne derivarono movimenti fanatici, contemporanei ai giacobini della Francia rivoluzionaria, come i Kharijiti e i Karramiyya, che divennero il volto di questo malcontento. Mentre Napoleone sfruttava le energie della Rivoluzione, gli Abbasidi avrebbero poi sfruttato lo stesso caos per prendere il controllo del Califfato. Così facendo, spostarono la sede del potere da Damasco a Baghdad, spostando la storia verso est, dagli ex territori cristiani a quelli ex zoroastriani, essendo gli Abbasidi stessi persiani. Questo gesto segnò l’inizio della civiltà magica, con Baghdad che divenne la prima città al mondo. Quest’era sarebbe continuata con varie rivolte fino al 1050 circa, quando i turchi selgiuchidi regnarono in un vero e proprio cesarismo nel Califfato, con il califfo in carica pressoché influente quanto il senato nella Roma imperiale, e fino al 1081 nell’Impero bizantino, che fu governato da una dinastia armena con generali come Romano, Niceforo e Barda Foca al posto degli imperatori, un titolo ormai completamente privo di forza intrinseca.
La storia islamica non è il mio forte e probabilmente non lo è nemmeno quella di Spengler, ma il movimento che prevede è quello del Califfato omayyade che si evolve in sultanati militari nel corso di circa 300 anni. Questo è anche il passaggio da Alessandro a Ottaviano, e sarà il nostro passaggio da Napoleone al nostro Cesare. Se dovessimo fare un’ipotesi approssimativa basata su queste tre culture precedenti, potremmo stimare una durata media per il Periodo degli Stati Contendenti di circa 275 anni. Il nostro periodo di civiltà è iniziato nel 1800, più o meno un decennio, quindi i calcoli sono piuttosto semplici, se non troppo semplici, e la nostra era del cesarismo è prevista verso la fine del secolo, qualunque sia il modo in cui si manifesterà, per quanto sanguinoso possa essere.
Negli ultimi 200 anni, abbiamo vissuto numerosi conflitti di portata geopolitica. Le guerre napoleoniche minacciarono di unificare l’Europa fin dall’inizio, come fecero gli Abbasidi. Se non fosse stato per lo shock del conflitto di massa sulle popolazioni coscritte, scommetterei che questa guerra sarebbe stata la vera Prima Guerra Mondiale. La Guerra Civile Americana definì il futuro degli Stati Uniti come un’unica potenza continentale e rafforzò i meriti dell’industria nel vincere i conflitti. La Prima Guerra Mondiale vide l’Europa, affollata di potenze regionali, scontrarsi contro se stessa. Qui assistiamo alla vera devastazione di intere nazioni che si scagliano l’una contro l’altra in condizioni orribili, sporche e rancide, come testimoniano i milioni di morti della Somme e l’introduzione di aerei e carri armati come risposta occidentale alle armi d’assedio di Dionisio. Da questo conflitto deriva la rivoluzione russa, incidentalmente vittoriosa, che nell’arco di ottant’anni trasforma un impero russo feudale in una potenza nucleare rapidamente modernizzata, il tutto sulla scia di una rivolta popolare che fu colta da un Napoleone russo. Lo stesso vale per i movimenti fascisti di Germania, Italia e Spagna, che rapidamente abolirono i vecchi ordini aristocratici e li sostituirono con strutture statali modernizzate, fondate su principi militari. Gettarono i semi e alla fine diedero inizio alla Seconda guerra mondiale. In questo conflitto, sono certo che alcuni di voi siano a conoscenza non del genocidio tedesco contro gli ebrei, ma del fervore genocida al vetriolo degli ebrei contro i tedeschi, come l’opera di Theodore Kaufman “La Germania deve perire!”, che promuoveva l’annessione e la sterilizzazione del popolo tedesco. Il genocidio come premessa è anche un fenomeno di questi periodi. Interi popoli possono essere trattati come collaterali degli errori dei loro governanti, in questo senso la Germania non sarebbe stata trattata diversamente da Cartagine.
Da qui, però, la guerra e la geopolitica prendono una piega diversa. Se i fascisti avessero vinto la Seconda Guerra Mondiale, si sarebbe trattato di una vittoria standard, in linea con le previsioni di Spengler sulla vittoria dello Stato tedesco e sul socialismo etico manifestato attraverso il nazionalismo. Invece, da qui si verificano molteplici cambiamenti.
La recente innovazione delle armi nucleari ha reso la guerra calda troppo difficile senza continuare a massacrare milioni di innocenti. Di conseguenza, la guerra è diventata più sfumata. È diventata un gioco di propaganda e vittorie di intelligence invece che di combattimento diretto. Le schede elettorali sono diventate più importanti dei proiettili. La guerra fredda è stata un gioco di espansione ideologica e di dominio ideologico da parte dell’ideologo più forte. Contemporaneamente, la Società delle Nazioni è stata sciolta e trasformata nelle Nazioni Unite. La pace nel mondo è diventata un obiettivo e un ideale per tutti. L’Europa ha avuto la sua versione di questo, incoraggiando il commercio e l’interdipendenza reciproca tra gli Stati membri dell’UE, che poi hanno consolidato l’influenza legale e politica. Gli antichi imperi sono scomparsi e l’America, la nostra tarda Repubblica Romana, è subentrata al loro posto. Ma con tutto ciò, siamo diventati consapevoli del pericolo delle grandi personalità e di conseguenza l’Occidente raramente ne accoglie in modo appropriato. Detto questo, ci sono ancora uomini che definiscono le epoche. Trump definisce la nostra; Tony Blair definisce la Gran Bretagna moderna; Netanyahu definisce Israele attualmente. Ma pochi possiedono sia l’abilità che la reputazione di un Napoleone o di uno Stalin. La loro politica è intrecciata con potenti attività di lobbying a favore del potere finanziario e dei governi stranieri.
Spengler ha detto questo a riguardo. L'”idea della Società delle Nazioni” è una resa. Per mantenere la pace nel mondo, è necessario che tutti si facciano da parte, oppure che uno solo si schieri a nome di tutti, e quest’ultima è la più inevitabile. Ciò a cui stiamo effettivamente assistendo è un grande tentativo di pace nel mondo. Ma la pace nel mondo si ottiene con la forza, e la forza può essere mantenuta solo da grandi potenze che rimangono in forma . È per questo che l’Europa riesce a esistere in modo pacifico: grazie alla NATO e all’America, ed è per questo che in futuro non lo farà, poiché, esternamente, l’America diventerà sempre più scettica nel sostenere la NATO e l’UE sarà costretta a militarizzarsi per difendersi, e, internamente, perderà ogni parvenza di un tessuto sociale coerente a causa di decine di gruppi etnici in competizione per il proprio spazio. Roma ha vinto, Qin ha vinto, perché sono stati gli ultimi a rimanere in piedi, e ciò ha richiesto un livello di forma conservatrice per mantenere lo Stato organizzato e garantirne l’esistenza.
Essere ” in condizione” è tutto. Tocca a noi vivere nei tempi più difficili che la storia di una grande Cultura conosca. L’ultima razza che manterrà la sua forma, l’ultima tradizione vivente, gli ultimi leader che avranno entrambi al loro fianco, passeranno e proseguiranno, vincitori .