Alessandro De Carolis Ginanneschi, Il liberalismo, questo illustre sconosciuto _ di Teodoro Klitsche de la Grange

Alessandro De Carolis Ginanneschi, Il liberalismo, questo illustre sconosciuto, Ergo Sum Editore, Grosseto 2023, pp. 92, € 9,00.

Quanto mai utile questo agile libretto in un’epoca in cui di sedicenti liberali ce ne sono tanti, per il motivo che, essendo crollato nel 1989-1991 il comunismo, gran parte della sinistra si è riconvertita (spesso a parole) ad un asserito e rivisitato liberalismo che, dell’originale, conserva solo alcuni (e limitati) profili, per lo più in stretta correlazione con le minoranze che “tutela”. Lo scrive l’autore nella “premessa” “La constatazione che da troppo tempo molti parlano a sproposito del Liberalismo, convinti tra l’altro si tratti di una ideologia quando invece è un metodo, mentre molti si dichiarano liberali pur senza esserlo – anzi esprimendo idee e promuovendo politiche o comportamenti che liberali non sono, mi ha indotto a scrivere questo riassunto di riflessioni altrui”.

Peraltro già del liberalismo classico se  ne hanno più “versioni” distinte, anche se vicine.

Ad esempio quella sintetizzata dall’alternativa “Parigi o Filadelfia?”, onde liberalismo anglosassone o continentale? La preferenza dell’autore va alla declinazione anglosassone, che articola in una  serie di opposizioni. Antropologica: l’uomo è “legno storto” o “buon selvaggio”? Istituzionale: “rule of law” o “Stato di diritto”?. Common law (diritto consuetudinario) o legge (diritto statuito dal legislatore). Ognuna di queste alternative “parigine”, anche se in misura diversa, rischia di tradursi in un depotenziamento della libertà a favore di un potere statale pervasivo e opprimente. Nonostante le migliori intenzioni: forse non è un caso che la situazione odierna, malgrado quelle, somigli assai alla descrizione profetica che Tocqueville fa del “dispotismo mite”: un potere paternalistico che tratta i cittadini come bambini da rieducare. Anche l’Unione europea non è immune da tale menda. Come scrive De Carolis “Nell’attualità, sono sempre più convinto che un altro giacobinismo ci minaccia, ovvero quello del super-Stato europeo in mano ad una classe più burocratica che politica, e quindi svincolata dalle volontà dei propri cittadini/sudditi; mentre lo stiamo costruendo, lo Stato liberale e federale all’anglosassone sembra invece essere il modello che l’Europa, per essere davvero unita in armonia, dovrebbe seguire”: l’alternativa quindi non è tanto tra Stati nazionali e unioni superstatali, che andrebbero contemperati, ma tra bulimia del “pubblico” e garanzia del privato, presente sia a livello statale che sovrastatale, sia tra sovranisti che globalisti.

Il libro è completato da una serie di documenti: dalla dichiarazione dei diritti del 26/08/1789 al Manifesto di Oxford del 1947 (ed altre) che testimoniano, anche se sinteticamente, del perdurare del nucleo fondamentale del liberalismo in oltre due secoli.

Nel complesso un libro per chiarirsi le idee nella confusione imperante (e spesso artatamente intensificata). Particolarmente opportuno in una nazione, come l’Italia, che negli ultimi trent’anni ha visto una costante riduzione degli ambiti di libertà reale a favore del potere pubblico, presentati come un processo di “liberazione” e (addirittura)  come “fine della storia”. Un farmaco contro la weberiana eterogenesi dei fini.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Onestà: Cosa ci guadagno?_di AURELIEN

Onestà: Cosa ci guadagno?
Prima di tutto, fare molto male.

AURELIEN
10 MAG 2023

Molto tempo fa, in un contesto politico e sociale molto lontano, stavo affrontando un brutale processo di selezione per individuare un gruppo di giovani idonei a concorrere per i Top Jobs nel settore pubblico del Regno Unito, ai tempi in cui esistevano i Top Jobs, in cui valeva la pena averli e in cui le persone che li ricoprivano erano degne di rispetto ed emulazione.

A un certo punto, sono stato intervistato da quel tipo di vecchio e saggio funzionario pubblico in pensione che non esiste più e che mi ha posto una serie di domande standard, una delle quali era: “Che cosa rende un buon funzionario pubblico? Ho dato una risposta altrettanto standard, se ricordo bene, elencando le ovvie qualità di competenza, neutralità, discrezione e una serie di altre cose che non sono più apprezzate.

“Non hai dimenticato una cosa?”, mi chiese con aria interrogativa. Devo aver avuto un’aria un po’ smarrita, perché ha subito aggiunto. “Intendo l’integrità”.

“Lo davo per scontato”, risposi: una risposta che, se all’epoca era perfettamente ragionevole, oggi sarebbe probabilmente accolta con derisione e incomprensione. Quella risposta non mi impedì di vincere il concorso (non che alla fine mi sia servita a qualcosa), ma la piccola vignetta mi ha accompagnato per tutta la vita, mentre assistevo, prima dall’interno e poi dall’esterno, alla distruzione del servizio pubblico nella maggior parte dei Paesi occidentali, e in particolare alla fine della presunzione che l’integrità sia la sua caratteristica fondamentale. (È per questo che la parola “servizio” è stata usata nel suo senso tradizionale, non nel senso moderno di prendere soldi dalle persone per rimuovere un ostacolo che avete messo sulla loro strada).

Naturalmente, il servizio pubblico di qualsiasi Paese è inserito in un contesto più ampio e dipende da movimenti politici più grandi. Sappiamo tutti quali sono stati, dopo l’abolizione della società da parte di una certa M. Thatcher, e non ha senso in questa sede lamentarsi ancora una volta della disastrosa caduta degli standard della vita pubblica nella maggior parte degli Stati occidentali, e della trasformazione del servizio pubblico in un’altra via per fare soldi. Voglio affrontare un punto piuttosto diverso e più interessante: cos’è che promuove l’onestà e l’integrità in primo luogo, e cos’è che la distrugge? La seconda è forse più facile da rispondere, ma la prima è più interessante, anche perché credo che la nostra società non capisca più il significato e l’importanza della domanda, e ancor meno la risposta. Ecco quindi un tentativo di spiegare la corruzione e la disonestà e perché sono diventate un grande problema nelle società occidentali.

Per iniziare, invochiamo di nuovo l’ombra di Max Weber. Weber scrisse notoriamente di “burocrazia”, codificando di fatto la moderna concezione di essa come sistema decisionale razionale, prevedibile e gerarchico. Per il nostro scopo, però, voglio concentrarmi su un aspetto particolare, quello dell’onestà. Weber disse molto chiaramente che il servizio pubblico è una “vocazione”. (Usava il termine tedesco Beruf). Egli distingueva molto chiaramente il servizio pubblico da “una fonte da sfruttare con rendite o emolumenti, come avveniva normalmente nel Medioevo” (e in seguito, si potrebbe aggiungere). La lealtà del funzionario non era verso un individuo, ma verso una funzione e verso valori culturali impersonali, e questa lealtà è ricompensata con la sicurezza del posto di lavoro, a differenza delle epoche precedenti in cui i favoriti potevano essere nominati e licenziati a piacimento del sovrano. C’è, almeno idealmente, una totale separazione tra gli interessi privati dell’individuo e le esigenze del lavoro, proprio come tra lo stipendio del funzionario e il denaro pubblico che potrebbe passare per le sue mani.

Come illustra Weber, non è sempre stato così. Tradizionalmente, individui ambiziosi (anche se non necessariamente talentuosi) si contendevano posti di lavoro lucrativi sotto il patrocinio del sovrano o di qualche figura subordinata. Così, dopo un sacco di intrighi e di leccapiedi, potreste ottenere il posto di Assistente del Controllore del Commercio in una città su un fiume, responsabile della riscossione dei dazi doganali. Poiché il vostro lavoro potrebbe scomparire la settimana successiva, fareste ogni sforzo per guadagnare il più possibile dalla vostra posizione, attraverso tangenti ed estorsioni. In sostanza, prima del XIX secolo, il governo era quasi completamente privatizzato: persino gli eserciti erano spesso ciò che oggi chiameremmo Compagnie Militari Private, con reggimenti che passavano dal servizio di un sovrano all’altro. Perché questo cambiamento? Ci sono innanzitutto una serie di ragioni puramente meccanicistiche. Una di queste è che la modernizzazione dello Stato richiedeva di fatto la sua professionalizzazione. La modernizzazione poteva essere frenata per un po’, come nella Francia pre-rivoluzionaria, ma alla fine gli Stati moderni avrebbero trionfato su quelli premoderni. Una seconda ragione fu l’ascesa al potere politico di una classe media liberale, che chiedeva leggi e procedure chiare e inequivocabili per regolare il commercio e una burocrazia onesta per farle rispettare. (C’è un’enorme ironia nascosta in questo sviluppo, su cui torneremo).

Ma la vera ragione, a mio avviso, è nascosta nella parola “vocazione”. Questa parola, che deriva dal latino vocare “chiamare”, è correlata a “vocale”, “vocabolario” e ad altre parole simili. In inglese moderno diremmo “calling”, che è una traduzione letterale. Ora, i sacerdoti di tutte le religioni si sono generalmente sentiti “chiamati” al sacerdozio, ma in alcune tradizioni il concetto ha anche una dimensione secolare. Soprattutto nella tradizione protestante, con la sua enfasi su un rapporto diretto e non mediato tra Dio e l’individuo, una “vocazione” era effettivamente un’istruzione da parte di Dio sul ruolo che dovevate svolgere in una società, e che avreste fatto bene a seguire. Weber ha erroneamente identificato questa vocazione protestante con l’ascesa del capitalismo: oggi diremmo che fu piuttosto la nuova classe mercantile a trovare favorevoli certi tipi di protestantesimo e ad adottarli, ma Weber aveva ragione a indicare una relazione tra le due cose.

Una vocazione è qualcosa che non si fa per denaro e da cui non ci si allontana. Promuove la serietà della vita e la dedizione a obiettivi che vanno oltre la propria prosperità e il proprio successo. Anche se la credenza nella religione formale cominciò a indebolirsi, queste abitudini mentali resistettero e divennero parte dell’arredamento intellettuale di molte società, soprattutto nel Nord Europa. Ma ci furono anche esempi paralleli. In Francia, ad esempio, la Repubblica, con la sua etica ferocemente laica, era l’equivalente di una vocazione religiosa e molti giovani brillanti seguivano la vocazione di insegnante, spesso una figura isolata e impopolare in un villaggio di campagna, perennemente in lotta con il curato locale, che predicava che l’istruzione era contro la volontà di Dio. All’altro capo del mondo, in Giappone, con la sua tradizione confuciana e il ritorno della capitale nella città imperiale di Edo (Tokyo), sembra essersi sviluppato un ethos simile. Ma che si tratti dei postumi della religione, della superiorità confuciana degli studiosi rispetto ai mercanti, del senso di servizio nei confronti di un re o di un imperatore, del disprezzo per il “commercio” o di una mezza dozzina di altre cose, una mentalità di servizio a un bene più grande, e in ultima analisi al pubblico, aveva preso piede in molti Paesi quando Weber scrisse il suo studio sulla burocrazia. È stato questo ethos – spesso vagamente monastico e leggermente puritano – a sostenere lo sviluppo economico e politico dell’Occidente. In modo piuttosto diverso, l’Unione Sovietica ha funzionato così bene solo grazie a una cultura molto forte di servizio (spesso non retribuito) al Partito, che ha iniziato a disintegrarsi verso la fine, a favore della corruzione e del carrierismo. Anche i Talebani, e in misura minore lo Stato Islamico, erano rispettati per la loro relativa onestà in un mare di corruzione.

In tutto questo, naturalmente, manca qualcosa: l’ego. Più precisamente, non si entrava nel servizio pubblico per diventare ricchi, potenti o famosi. La tradizione in molti Paesi era quella di essere piuttosto distaccati, di evitare di esprimere opinioni forti e di dare priorità al lavoro svolto rispetto a qualsiasi ricompensa personale. Il carrierismo palese tendeva a essere disapprovato. Per definizione, tutti i funzionari pubblici, tranne quelli più anziani, erano anonimi: il ministro poteva ricordarsi di ringraziare l’autore di un discorso particolarmente apprezzato, ad esempio, ma poteva anche non farlo. Sebbene esistano molte varianti, la ricerca della ricchezza, della fama e dello status da un lato, e la responsabilità di mandare avanti il Paese dall’altro, erano delimitate abbastanza chiaramente l’una dall’altra, a volte anche da leggi. Molto occasionalmente, venivano introdotte persone dall’esterno, il sistema di gabinetto continentale di consiglieri personali confondeva queste distinzioni ai vertici, e al momento del pensionamento gli alti funzionari potevano eventualmente andare a lavorare nel settore privato, ma si trattava di sfumature.

La caratteristica principale di queste organizzazioni, anche al di sopra della competenza e della buona gestione in generale, era l’integrità, senza la quale i governi non possono funzionare. Ma l’integrità era una cultura e non, criticamente, un insieme di regole. Ricordo di essere stato sorpreso, da giovane funzionario pubblico, dall’attenzione minima prestata ai controlli formali e alle misure anticorruzione. Ma in quasi tutti i casi si trattava di affrontare un problema che quasi non esisteva, in parte per motivi culturali e in parte per motivi pratici, sui quali tornerò. Nei decenni successivi si è assistito sia a un massiccio aumento dei controlli formali sia a una crescente tendenza alla corruzione, e nessuno si sorprenderà di sapere che il primo ha largamente preceduto il secondo.

La creazione e il mantenimento di un settore pubblico onesto è quindi una cosa misteriosa, che dipende in larga misura da concetti che ci sembrano obsoleti o addirittura reazionari: essi possono includere, a seconda dei casi, la solidarietà di gruppo, il rispetto per la tradizione, il rispetto per la gerarchia e l’esperienza, il servizio a un’ideologia politica, il disgusto per l’ambizione personale, l’identificazione con una causa superiore. Soprattutto, come sarà evidente, non hanno alcun legame con l’ideologia liberale che ha dominato il pensiero dell’ultima generazione, anzi sono antitetici a essa.

Rimaniamo su questo pensiero per un momento. Il liberalismo riguarda esclusivamente l’individuo: anche una società liberale riguarda una società di individui e il modo in cui bilanciare i loro interessi contrastanti. Il liberalismo è il perseguimento razionale dell’autonomia individuale e della libertà finanziaria, senza tener conto delle conseguenze per gli altri e con le sole limitazioni specificamente prescritte dalle leggi. Inoltre, il liberalismo considera lo Stato un fastidio e idealmente vorrebbe che le sue funzioni fossero ridotte al minimo assoluto di protezione della proprietà e di applicazione del diritto contrattuale. Questa ideologia non lascia spazio all’onestà come concetto, ma solo a un comportamento conforme alla lettera di un insieme di regole. Non si chiede Cosa devo fare, ma piuttosto Cosa posso fare? Come vedremo, non può promuovere e mantenere alcun comportamento moralmente onesto, se non attraverso la paura.

Eppure, si potrebbe obiettare, il liberalismo è stato una potente forza politica durante la creazione dello Stato moderno in Europa. Come poteva il liberalismo, con la sua etica di egoismo radicale, conciliarsi con l’idea di un apparato statale gestito sul principio dell’integrità e dell’identificazione con il bene collettivo? Credo che la risposta sia che si trattava di una questione di sopravvivenza. In Gran Bretagna, nonostante il potere delle idee liberali, l’élite politica stava subendo lo shock della concorrenza industriale tedesca e il disastro della guerra di Crimea. Era ovvio che quello che era essenzialmente uno Stato medievale, profondamente corrotto e irrimediabilmente inefficiente, doveva essere sostituito da uno Stato moderno se il Paese voleva sopravvivere e prosperare. I nostromi liberali sul governo limitato andavano bene, ma non quando mettevano a repentaglio la prosperità e il successo delle stesse classi liberali. Il risultato fu la riforma del Rapporto Northcote-Trevelyan del 1854, che creò il primo Servizio Civile moderno del mondo occidentale, le cui norme etiche e culturali non solo sono rimaste in vigore in Gran Bretagna fino agli anni ’80, ma hanno influenzato anche molti altri Paesi.

Iniziò così il paradosso essenziale della sopravvivenza di un settore pubblico onesto ed efficace in uno Stato liberale che apparentemente venerava solo il miglioramento finanziario e personale dell’individuo. Per generazioni, i politici e gli opinionisti liberali hanno inveito contro la “burocrazia”, pur aspettandosi che i loro affari fiscali, ad esempio, fossero gestiti in modo onesto e competente, che i loro contratti fossero applicati da giudici che risolvevano le questioni in modo spassionato e che le loro case fossero protette da un servizio di polizia che non prendeva tangenti. Questa ipocrisia organizzata, che tuttavia consentiva il funzionamento di un servizio pubblico onesto e competente, ha iniziato a crollare solo negli anni Ottanta. Inoltre, l’esperienza di due guerre aveva fatto emergere con forza stucchevole la necessità e i vantaggi di uno Stato moderno ed efficace, e sia la tradizione di servizio pubblico delle classi superiori, sia la paura del lavoro organizzato e della sinistra politica, rafforzarono l’idea che uno Stato moderno non fosse poi una cattiva idea, anche se svolgeva più funzioni di quelle che John Locke avrebbe necessariamente approvato. (Detto questo, cinquant’anni fa non sono sicuro che qualcuno avrebbe creduto che i politici potessero un giorno escogitare una tale marcia indietro forzata verso il Medioevo).

Il liberalismo è quindi bloccato da questo paradosso fondamentale: una filosofia politica di radicale individualismo ed egoismo può prosperare solo in una società gestita quotidianamente da persone che non accettano i principi liberali e che i liberali stessi disprezzano. I liberali non vogliono vivere in una società in cui l’ispettore delle tasse o il poliziotto si aspettano di essere pagati per fare il loro lavoro, ma il liberalismo stesso non contiene alcun argomento razionale sul perché queste persone dovrebbero essere oneste. Anzi, si potrebbe andare oltre, e dire che la disonestà e la corruzione dovrebbero essere tranquillamente riconosciute come caratteristiche principali e inevitabili di una società liberale, perché rappresentano ciò che accade quando gli individui decidono di perseguire razionalmente il proprio bene privato. Se sono un ispettore fiscale in una società liberale, allora è del tutto ragionevole e logico che io sfrutti questa situazione per ottenere tutti i vantaggi privati che posso. Non ha senso parlarmi del bene pubblico e della necessità di riscuotere le tasse in modo equo. Il liberalismo non riconosce il bene pubblico, se non come sintesi contestata dei beni privati, quindi rispondo: “Perché dovrei essere onesto? Cosa ci guadagno? E la risposta, ovviamente, è: niente. Tutto ciò che il liberalismo può fare è sventolare un libro di regole, scritto in gran parte per garantire la posizione delle classi proprietarie, e minacciare sanzioni se le infrango.

In una situazione del genere, l’onestà e l’integrità diventano questioni tecniche di conformità, piuttosto che imperativi culturali e morali. Nella vita vige la buona regola che se si deve guardare in qualche libro di regolamenti per scoprire se si è autorizzati a fare qualcosa, allora probabilmente non si dovrebbe farlo. È chiaro che ci sono occasioni in cui le regole sono importanti e in cui i dettagli sono importanti. Ma su questioni importanti, le società e le organizzazioni funzionano solo perché le persone rispettano le norme culturali e morali sottostanti. “Qui non si fa” è un divieto molto più forte di “questo è vietato dal paragrafo 24, sezione vii di questo libro”. Quindi, se ad esempio ho una posizione di fiducia (!) nel settore pubblico, le regole possono vietarmi di possedere azioni di qualsiasi società con la quale la mia organizzazione intrattiene rapporti. È giusto che io obbedisca a questa regola. Ma le regole non dicono nulla sul fatto che il mio coniuge possa possedere tali azioni, quindi ovviamente va bene così e mi sto comportando onestamente, perché sto seguendo le regole.

In definitiva, l’ossessione liberale per le regole e i documenti scritti che disciplinano il comportamento è una conseguenza di questo paradosso fondamentale. Il liberalismo parte dal presupposto che le persone siano egoiste, ma tratta i vincoli sociali, politici o religiosi sul comportamento come reliquie antiquate da buttare via. Per garantire un buon comportamento, che ovviamente protegge coloro che traggono i maggiori benefici da un sistema liberale, non c’è altro che la minaccia di una punizione, per cui ci si sforza molto di decidere esattamente cosa è permesso e cosa non lo è, per poi pronunciarsi su questioni tecniche in diversi casi. Questi sforzi falliscono inevitabilmente e, anzi, hanno più probabilità di produrre cattivi comportamenti di quanto non facciano le semplici ingiunzioni morali. Le ragioni sono interessanti e hanno a che fare con l’incapacità dei sistemi complessi di descriversi completamente. A questo proposito, è utile ricordare il Teorema di Incompletezza di Kurt Godel, che dimostra che, per qualsiasi insieme coerente di assiomi matematici, esistono proposizioni che non possono essere dimostrate o confutate all’interno del sistema. Per estensione, nel caso di un libro di regole, ciò significa che nessuna regola, per quanto lunga e dettagliata, può coprire tutte le possibili eventualità. In realtà, più lunghe e complesse sono le regole, maggiore sarà il numero di potenziali conflitti tra di esse. Ciò significa che il tradizionale approccio liberale agli illeciti – aumentare il numero e la complessità delle regole – in realtà peggiora la situazione. Con l’aumento del numero di norme e delle interazioni, aumenta anche il numero di possibili scuse e ambiguità. Molto bene, il paragrafo 24, sezione vii, può dire questo, ma deve essere letto insieme, sicuramente, al paragrafo 158, sezione xiv, che, se preso nel contesto in cui è stato ovviamente inteso, non esclude definitivamente, direi, che io accetti quella vacanza all’estero da una banca che regolo, o almeno permette un margine in cui la discrezionalità è sicuramente possibile.

È questo passaggio da “Cosa dovrei fare?” a “Cosa mi permettono di fare le regole scritte?” la causa fondamentale del crollo dell’integrità e dell’onestà nei sistemi politici occidentali. Il noto paradosso secondo cui ciò che è legale non è necessariamente morale, e ciò che è morale non è necessariamente legale, è stato dimenticato, e le due cose sono state completamente confuse, a vantaggio della stretta legalità. Pochi episodi recenti lo hanno dimostrato meglio della tragicommedia malata del comportamento di Boris Johnson durante il blocco di Covid, e ancor più dei suoi successivi tentativi di giustificarsi, insistendo non sul fatto che fosse moralmente giusto (dato che sembra non avere alcuna concezione della moralità), ma che, secondo alcune interpretazioni, non aveva effettivamente violato le disposizioni specifiche di alcune istruzioni. A quel punto, si può dire che l’integrità pubblica era sostanzialmente morta.

Stando così le cose, ci si aspetterebbe che le istituzioni liberali si avvicinassero alla corruzione e all’integrità con un po’ di circospezione: dopo tutto, hanno davvero intenzione di criticare un comportamento economico razionale? Sì, lo fanno, e a lungo e con grande ferocia. La Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, le Nazioni Unite, l’Unione Europea, l’OCSE e molti altri fanno delle misure “anticorruzione” una delle principali caratteristiche delle loro politiche verso il Sud globale, e fanno a gara per enfatizzare i danni economici e la distruzione che la corruzione dovrebbe causare. (Fortunatamente, uno studio recente dimostra che la maggior parte delle cifre sbandierate sono poco fondate, se non addirittura inventate). Insistendo sulla centralità della corruzione, naturalmente, le istituzioni liberali acquisiscono potere e influenza sulle aree più sensibili dei governi dei Paesi più poveri. Di conseguenza, una grande quantità di denaro viene destinata a misure “anticorruzione”, formazione, leggi, strategie, codici di condotta, workshop e quadri normativi. L’aspetto interessante, però, è che l'”anticorruzione” o anche l'”integrità” sono percepite in termini liberali come l’obbedienza a regole scritte. L’assunto di partenza è che gli esseri umani sono individui razionali, che massimizzano l’utilità e che quindi saranno disonesti quando gli conviene. Così si crea l'”integrità”, definita come la pratica di seguire fedelmente regole di comportamento dettagliate, minacciando le persone di indagini e azioni penali se deviano da queste regole. Si presume quindi che le persone decidano razionalmente di essere oneste, perché i pericoli dell’essere disonesti sono sproporzionatamente grandi.

Naturalmente questo non funziona, come saprebbe chiunque abbia cinque minuti di esperienza di vita reale, e quando non funziona il rimedio è sempre lo stesso: più leggi, più controlli, pene più severe. (Va aggiunto, per correttezza, che la politica cinese di giustiziare gli uomini d’affari corrotti potrebbe essere degna di studio e forse anche di emulazione altrove). E a volte il fallimento crea situazioni quasi troppo surreali per essere colte. Molta corruzione nei Paesi del Sud globale esiste perché le persone che lavorano per lo Stato non sono pagate adeguatamente, o addirittura non lo sono affatto, e ci si aspetta che integrino il loro reddito con altre fonti. Ho avuto conversazioni con più di un poliziotto africano appena tornato da un corso “anticorruzione” a Ottawa o a Stoccolma, con le spese pagate e una generosa diaria (e questo è uno dei motivi per cui la partecipazione a tali corsi è così popolare), con lezioni morali sull’essere buoni e con l’insegnamento di come indagare e arrestare i suoi colleghi, altrettanto non pagati.

Quindi ci arrendiamo, vero? Accettiamo che il liberalismo abbia distrutto le numerose e varie forme di controllo sociale che un tempo servivano a limitare la corruzione e a promuovere l’onestà e l’integrità? Beh, non possiamo tornare indietro e annullare i danni che il liberismo ha fatto, ma ci sono alcune cose che possiamo fare per alleviare, e forse anche invertire, il problema, a patto che partiamo dalla realtà di come funzionano le organizzazioni e di come si comportano le persone. Vorrei suggerire tre possibilità.

La prima consiste semplicemente nell’eliminare le opportunità di disonestà: Prevenzione della corruzione situazionale, come la chiamo io. Weber, come ricorderete, sottolineava che il burocrate non aveva alcun interesse finanziario nel suo lavoro. Da un po’ di tempo a questa parte, questo non è più vero e la cultura dei bonus, delle retribuzioni di risultato e delle indennità speciali si è insinuata nel settore pubblico di molti Paesi, creando incentivi perversi e tentando persone fondamentalmente oneste a diventare disoneste, spesso con piccoli passi che non si notano. Se, ad esempio, siete un ispettore fiscale che riceve un bonus per il numero di dichiarazioni dei redditi che esamina, farete prima quelle più facili e probabilmente lascerete passare comunque le dichiarazioni dei redditi disoneste, perché il tempo speso per interrogarle riduce il vostro reddito. O forse lavorate al Ministero del Commercio e avete frequenti incontri con i vostri colleghi in altri Paesi. In passato, siete stati disposti a rinunciare a un po’ di tempo nei fine settimana per viaggiare, in modo da avere il massimo tempo in ufficio durante la settimana lavorativa. Ma poi il vostro governo, nella sua magnanimità, decide che, al posto di un aumento di stipendio, i viaggi nei fine settimana riceveranno un’indennità speciale. Per quanto siate onesti, comincerete a pensare che è meglio organizzare le riunioni il lunedì, perché è meno tempo lontano dall’ufficio. E prima che ve ne rendiate conto, organizzerete il maggior numero possibile di riunioni di lunedì. In fondo, non state infrangendo nessuna regola, no? Oppure lavorate in un ufficio acquisti e le regole per non accettare ospitalità sono meno rigide. Ma nessuno sa bene quali siano i limiti. Quindi sì, potete accettare il pranzo. Ma la cena? Cena e ricevimento con il vostro coniuge? Cena, ricevimento e notte in albergo? E un taxi per tornare a casa? Nessuno sembra saperlo, e nessuno è sicuro di cosa significhino esattamente le regole nella pratica, perché sono sempre redatte da persone che non devono viverle. Solo quando uno dei tuoi contatti, davanti a un whisky a tarda notte, ti chiede se puoi fargli un piccolo favore, ti rendi conto che improvvisamente non dovrei farlo. Ma è troppo tardi: avete dimenticato che tutto ciò che vi permette di aumentare il vostro reddito manipolando il modo in cui svolgete il vostro lavoro, porta a opportunità di corruzione.

Il secondo è mantenere le cose semplici. Un esempio ovvio è quello delle spese di viaggio, una delle rovina della vita in qualsiasi grande organizzazione. Una generazione fa, tutti i governi e le organizzazioni internazionali di cui ero a conoscenza avevano un sistema semplice: ecco una somma di denaro che dovrebbe coprire le spese. Portatela via e spendetela, e non tornate indietro a meno che non vogliate essere rimborsati per qualche costo speciale che dovete giustificare. In alcuni Paesi il denaro veniva pagato in anticipo, in altri veniva pagato dopo. Il sistema presentava evidenti vantaggi. In primo luogo, era semplice e veloce da utilizzare: spesso non c’era molto di più che firmare un modulo: niente ricevute, niente domande su cosa fosse esattamente incluso. In secondo luogo, cosa fondamentale, era praticamente impossibile essere disonesti con questo sistema. E terzo, e forse più importante, si basava sulla fiducia e sul trattamento delle persone come individui responsabili, non come potenziali criminali le cui attività dovevano essere controllate.

In alcuni Paesi e organizzazioni questo processo sembra essere continuato, almeno in parte. In altri, invece, è caduto vittima dell’eccessiva microgestione del liberalismo e della sua ossessiva convinzione che più un sistema è elaborato e complesso, meglio è. Ricordo una conversazione di qualche anno fa con una persona ancora inserita nel sistema, che si è svolta sulla falsariga di quanto segue. “Prima avevamo il vecchio sistema, poi sono passati al rimborso delle spese alberghiere effettive. Ma naturalmente la gente ha iniziato a soggiornare in alberghi più costosi, così hanno introdotto tariffe indicative che non sembravano basarsi su nulla, e si doveva giustificare il fatto di soggiornare in un posto più costoso. E poi hanno iniziato a discutere se si potessero richiedere i costi di lavaggio a secco e cose come il check-out tardivo se si aveva un volo notturno. Poi si doveva giustificare un upgrade della camera, anche se offerto gratuitamente. Poi hanno iniziato a richiedere le ricevute per i singoli pasti, il che costituiva un problema se si era a cena prima di una riunione con colleghi di altri Paesi, che avevano tutti regole diverse in materia di spese. Poi hanno cercato di imporre dei limiti a quanto si poteva spendere per ogni pasto e non era consentito chiedere il rimborso delle mance. Insomma, siete mai stati in un ristorante di Washington? Oh, e potevi ordinare alcolici con il tuo pasto, ma non potevi chiederne il rimborso, il che va bene finché non hai un cameriere in Montenegro che non parla inglese e ti dà un conto scritto a mano per il totale. Cosa dovresti fare, cercare di capire quanto è costato il tuo bicchiere di vino e sottrarlo?”.

E così via. Paradossalmente, questo livello di stupidità e di cattiva gestione aumenta il rischio di corruzione. In parte perché provoca risentimento e amarezza, soprattutto nelle persone impegnate che cercano solo di portare a termine il lavoro. Sorprendentemente, spesso la corruzione nasce dal desiderio di vendetta nei confronti di un sistema che non vi capisce e non vi apprezza. Quindi, perché dovreste apprezzarli? Tiri fuori le tasche e trovi la ricevuta del taxi in bianco che di solito viene rilasciata dai tassisti analfabeti di Washington. Quanto è costato? Era ieri o l’altro ieri? L’avete dimenticato. In ogni caso non era un granché, quindi di solito si potrebbe lasciar perdere. Ma i sadici burocrati di casa cercano sempre di imbrogliarvi. Così alla fine inserisci una cifra consistente. Dopo tutto, nessuno potrà mai saperlo. In parte questo è dovuto anche al fatto che nelle organizzazioni le persone crescono per assomigliare all’immagine di sé che l’organizzazione proietta loro. Le campagne anticorruzione sono un messaggio subliminale che indica che siete disonesti, così come i controlli finanziari scrupolosi sono un messaggio subliminale che non ci si può fidare di voi. Dite a qualcuno abbastanza spesso che non ci si può fidare di lui e, ecco, sarà meno affidabile.

Il terzo è tornare a osservare rigorosamente la distinzione assoluta tra pubblico e privato che Weber riteneva giustamente così importante. Non ci si può aspettare che un uomo d’affari di alto livello abbia gli stessi principi etici di chi è attratto dal servizio pubblico, e le organizzazioni in generale obbediscono a una versione della legge di Gresham: le cattive pratiche scacciano quasi sempre quelle buone, e più alto è il livello in cui si trovano le cattive pratiche, peggiore sarà il risultato. Si potrebbe sostenere che il sistema statunitense, dove tutto è politicizzato e tutto e tutti sono in vendita, ha almeno il merito della chiarezza. Nessuno si aspetta che il proprio governo sia onesto. Ma in Paesi come la Gran Bretagna, la finzione dell’integrità è stata mantenuta, mentre la realtà è stata minata. Questo è vero soprattutto per i giovani imprenditori politici con una laurea in scienze politiche, qualche stage e un lavoro di ricerca che improvvisamente ottengono un posto nello staff di un ministro. Questa persona potrebbe trovarsi senza lavoro nel giro di pochi mesi o di un anno con il prossimo rimpasto, e l’unica merce che ha da vendere è la sua esperienza e i nomi della sua rubrica. Agire con integrità non li aiuterà ad ottenere un lavoro di lusso in una società di consulenza per l’outsourcing.

La regola di base del cambiamento organizzativo è che è molto più facile demolire e distruggere che creare qualcosa di migliore, o anche solo di altrettanto buono. Ci è voluta forse una generazione perché il sistema britannico, allora famoso per la sua corruzione e incompetenza, venisse ricostruito in modo adeguato e i cambiamenti venissero introdotti, e un’altra o due generazioni perché venisse ammirato in tutto il mondo. Ma questo avveniva in una società diversa, e la velocità con cui è stato fatto a pezzi in seguito è stata spaventosa. L’unica nota debolmente positiva che mi viene in mente per concludere è che, per come sta andando il mondo, anche l’uomo d’affari o l’opinionista neoliberista più accanito si renderà conto che i Paesi del mondo hanno bisogno di Stati onesti e competenti, e che non si ottiene questo risultato urlando alla gente di essere onesti, mentre si creano sistemi che incoraggiano il contrario. Forse il senso di emergenza generato dall’Ucraina, da Covid, dal cambiamento climatico e da altri fenomeni produrrà lo stesso tipo di shock che si verificò in Gran Bretagna quasi due secoli fa. Se così fosse, potremmo dover aspettare anche solo cinquant’anni prima che uno Stato onesto prenda nuovamente forma.

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Bene comune e diritti umani liberali_a cura di Roberto Buffagni

 

E’ di grande interesse e attualità questo articolo della “Beijng Review” del 27 luglio, che riporta stralci di un colloquio tra gli accademici Adrian Vermeule e John Pang[1].

Adrian Vermeule è uno dei protagonisti dell’odierna corrente di pensiero cattolica conservatrice statunitense, critica del liberalismo, dei suoi presupposti filosofici, giuridici e politici; una corrente di pensiero che nelle sue analisi si rifà alla tradizione classica europea, greco-romana e cristiana (un altro nome tra tutti, Patrick J. Deneen[2] con il suo fortunato e recente Why Liberalism Failed[3] ).

Qui Vermeule e Pang toccano uno dei temi politico-giuridici più importanti della critica al liberalismo, la concezione classica del bene comune raffrontata con la concezione individualistico-liberale dei “diritti umani”; e delineano le corrispondenze tra la concezione del bene comune propria alla cultura classica europea, e l’analoga concezione cinese di xiaokang (società di moderata prosperità), antica di millenni, e che sta tuttora al centro della cultura politica cinese.

Alla luce della concezione classica di bene comune, viene criticato il concetto di democrazia come sinonimo di liberalismo, l’identificazione tra buon governo e specifiche forme istituzionali, e in sintesi l’universalismo astratto e intrinsecamente imperialistico del pensiero dominante in Occidente.

La critica cattolico conservatrice che elabora questa vivace e fruttuosa corrente di pensiero americana si ricollega alle riflessioni di Rémi Brague[4] e alla pastorale di papa Ratzinger, incentrata sul tentativo di ricostruire il dialogo tra la Chiesa e la società contemporanea sulla base dei preambula fidei[5], le premesse razionali della fede, in una rilettura anche politica della filosofia classica, soprattutto aristotelica.

Difficile sopravvalutare l’importanza e l’attualità di questa corrente critica. Che cosa sono le” democrazie”? Che cosa sono gli “autoritarismi”? Che cosa significa “lotta delle democrazie contro gli autoritarismi”, l’odierna giustificazione occidentale del conflitto tra Stati Uniti, Russia e Cina? Che cosa significa “buon governo”? L’unico buon governo è il governo democratico-liberale, o anche altre forme istituzionali possono governare bene?

Nel dialogo che qui traduciamo, di questo si parla. Se ne parlerà sempre di più negli anni a venire. Buona lettura. Roberto Buffagni

 

Il diritto costituzionale americano ha perso di vista la concezione classica secondo cui la legge è maestra di virtù, e deve essere ordinata a beneficio dell’intera comunità“. —Adrian Vermeule, Ralph S. Tyler Jr. Professor di diritto costituzionale presso la Harvard Law School[6]

 

Tra le concezioni classiche del bene comune di Oriente e Occidente la differenza è piccola, ma le interpretazioni moderne del concetto si stanno allontanando.

Preferiresti essere povero in una nazione ricca o ricco in una nazione povera? Questa domanda ha ispirato un dibattito senza fine dal I secolo d.C., quando lo storico e moralista romano Valerio Massimo disse per la prima volta degli antichi romani che “preferirebbero essere poveri in un impero ricco che ricchi in un impero povero“. Oggi, il sentimento della popolazione negli Stati Uniti è diverso da quello degli antichi romani, secondo il professore della Harvard Law School, Adrian Vermeule, che afferma che l’attuale posizione americana su questo punto è “apparentemente intelligente” ma finisce per “sconfiggersi da sé“.

Via via che un sistema politico diventa sempre più disordinato, sempre più lontano da una prospera comunità che promuove pace, giustizia e abbondanza, le esigenze del bene comune e della stessa legge naturale diventano più visibili, più incalzanti e meno discutibili. Questo è un paradosso suggerito da Vermeule in una recente conferenza tenuta in occasione del lancio del suo nuovo libro Common Good Constitutionalism[7]. “Il diritto costituzionale americano ha perso di vista la sua eredità giuridica classica“, afferma Vermeule.

Il bene comune, come lo definisce la tradizione giuridica occidentale classica, corrisponde al concetto cinese di xiaokang, una società di moderata prosperità. “La centralità del bene comune nelle nozioni cinesi di buon governo è trasmessa dalla sua cultura politica“, ha affermato John Pang, Senior Fellow, Bard College, New York[8]. Si ritiene che la frase sia stata usata per la prima volta per descrivere una vita prospera nel Libro dei Cantici[9], la prima antologia di poesie della Cina, risalente a più di 2000 anni fa.

 

Per esplorare questa intersezione di concetti che hanno influenzato i sistemi giuridici sia dell’Oriente che dell’Occidente, il senior editor della “Beijing Review”[10] Li Fangfang ha videointervistato il professor Vermeule e il dottor Pang. Ecco alcuni estratti dal colloquio:

 

Beijing Review: Una diversa comprensione di determinati termini, ad esempio “diritti umani”, ha provocato molte conseguenze politiche ed economiche tra i paesi. Credete che esista una definizione universale del bene comune per la comunità internazionale, che tenga conto delle preoccupazioni dell’Occidente, dell’Est, del Nord e del Sud?

 

Adrian Vermeule: Sì e no. L’ordinamento classico del diritto occidentale postula che, in linea di principio, il fine proprio al governo temporale è lo stesso in tutte le società: promuovere la prosperità della comunità politica in quanto tale, uno stato di pace, giustizia e abbondanza, e promuovere le precondizioni materiali e sociali di questa prosperità. La prosperità della comunità politica è anche il più elevato bene temporale degli individui che la compongono, nel senso che non è possibile godere pienamente dei beni privati ​​della vita familiare e individuale in una comunità politica impoverita, decadente e violenta, come stiamo sempre più scoprendo negli Stati Uniti.

Tuttavia, il pensiero classico sostiene anche che questo obiettivo generale del governo deve essere attuato in modo diverso nelle diverse comunità politiche, a seconda delle loro circostanze particolari, delle tradizioni, cultura e istituzioni di governo della società in questione. Ciò che importa è che il giudizio prudenziale delle autorità pubbliche sia rivolto al bene comune come sopra definito, piuttosto che al beneficio privato o egoistico. Il governo diretto al beneficio privato, il governo corrotto, è la definizione classica di tirannia; si noti che ciò differisce dalle moderne definizioni di tirannia, incentrate sulla violazione dei diritti liberali, basati sull’autonomia individuale. In contrasto con la democrazia liberale, che mira a imporre un modello istituzionale molto specifico a ogni società in tutto il mondo, rifacendo ogni società a propria immagine, la tradizione classica sostiene che non esiste un tipo di per sé migliore di specifiche forme istituzionali. Ciò che importa sono i fini o gli scopi a cui è dedicato il governo, fatti salvi i vincoli del diritto civile e consuetudinario specifici del sistema politico, del diritto delle genti, della giustizia naturale e del dovere di praticare la virtù pubblica, propria dei governanti. Di nuovo, parlo qui della visione classica, che rispetta le differenze culturali, a differenza della visione liberal-democratica, che è istituzionalmente imperialista.

 

 

John Pang: La centralità del bene comune nelle nozioni cinesi di buon governo è trasmessa dalla sua cultura politica. Oggi il governo ha descritto come il suo principale progetto il raggiungimento dello xiaokang per il popolo cinese. Questa è una frase che si rifà al Libro dei Cantici.

 

Il popolo invero porta un pesante giogo

Ma forse un po’ di conforto (xiaokang) gli potrebbe esser concesso.

Abbiamo a cuore questo centro del regno,

Per assicurare la quiete ai quattro quarti di esso.

Nessuna indulgenza per gli scaltri e gli adulatori

Per ammonire così gli irresponsabili

E per reprimere briganti e oppressori,

Che non temono la luminosa volontà [del Cielo].

E dunque mostriamoci benevoli ai lontani, e prestiamo aiuto ai vicini; —

Instaurando così [il trono del] nostro re.

—Min Lao, poesia tradotta dal sinologo scozzese James Legge[11]

 

Nella sua conferenza lei ha usato la citazione “Nessun uomo è un’isola“. Essa coincide con l’osservazione del presidente cinese Xi Jinping al vertice di Pechino del Forum sulla cooperazione Cina-Africa 2018, secondo il quale “Nessuno che si isoli su una singola isola avrà un futuro condiviso“. Il vantaggio di dare la priorità all’intera comunità quando si affrontano i problemi è un concetto ampiamente compreso in Cina. Secondo lei, cosa dovrebbero fare le persone per bilanciare il beneficio individuale e quello collettivo, quando devono decidere tra di essi? E quale ruolo ha il sistema giuridico, nel facilitare questo equilibrio?

 

Adrian Vermeule: La citazione completa è di John Donne[12], un poeta inglese dell’inizio del 17° secolo, e dice: ” Nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto“. Quali che fossero le intenzioni originali di Donne, se leggiamo il suo aforisma come un commento sociale, mi colpisce il parallelismo con la citazione del presidente Xi. Per dirla in altro modo, Robinson Crusoe, abbandonato da solo su un’isola, è in un certo senso perfettamente libero, ma in un senso più profondo non è libero, perché non può godere dei benefici di una civiltà comune.

Dagli anni ’60, la malattia dell’individualismo aggressivo ha invaso la vita intellettuale, la cultura e la politica americane. Nella visione classica, invece, il bene comune della comunità è il più elevato bene temporale anche per gli individui. In questa concezione, se posso disquisire un po’, non si tratta di bilanciare beni individuali e collettivi, o di far calpestare i beni individuali dalle volontà della maggioranza. Piuttosto, nel contesto classico gli stessi diritti degli individui sono sempre, fin dall’inizio, ordinati al bene comune, e la loro portata e il loro peso sono definiti di conseguenza. La tradizione classica quindi riconosce eccome i diritti, ma li giustifica in un modo molto diverso da quello dell’individualismo liberale. Classicamente, i diritti non sono giustificati sul terreno liberale dell’autonomia individuale, ma nella misura in cui il riconoscimento di tali diritti avvantaggia la comunità.

John Pang Per quale ragione molti americani preferirebbero essere ricchi in una nazione povera piuttosto che essere poveri in una nazione ricca, un’idea che a suo parere “si sconfigge da sé”? Che ruolo giocano la legge e la moralità in una società del genere?

Adrian Vermeule: È difficile districare tutte le influenze, materiali e culturali, che hanno prodotto questo stato di cose. Basti rilevare che tra tutti, spiccano due dinamiche. Una è che le élites americane sono sempre più distaccate dalle opinioni e dagli interessi delle persone che governano – distaccate economicamente, culturalmente, persino geograficamente. Vedono il popolo non come concittadini del cui benessere sono responsabili, ma come masse aliene che rappresentano una minaccia per la “democrazia”, ​​la parola con cui le élites intendono il liberalismo. Un’altra dinamica nel campo del diritto, e per certi versi tema del mio Common Good Constitutionalism, è che il diritto costituzionale americano ha perso di vista la concezione classica secondo cui la legge è maestra di virtù, e deve essere ordinata a beneficio dell’intera comunità. Invece, la nostra legge è sempre più una carta dei diritti individuali basati sull’autonomia liberale – una visione che serve gli interessi delle élites benestanti molto meglio di quanto non serva il benessere del popolo nel suo insieme, che generalmente soffre di più per il divorzio facile, il dissolversi delle strutture familiari e il dominio delle grandi corporations sull’economia.

Le élites liberali americane si immaginano per così dire di fluttuare al di sopra della società. Eppure, penso che sia diventato chiaro anche a loro che alla fine dei conti si trovano in uno spazio concreto, in una comunità politica geografica, e che nel bene o nel male, non possono separarsi completamente da quella comunità, anche se vivono in compound recintati e in genere tentano di isolarsi dalla società sempre più decadente, conflittuale e disordinata che li circonda. Piaccia o no, in una società comune tutti finiscono per condividere un comune destino.

John Pang Negli anni ’30 Lin Yutang, un famoso scrittore cinese, paragonò il senso giuridico occidentale con quello cinese con il criterio della sua osservanza. ‘Una costituzione presuppone che i nostri governanti possano essere criminali che abuseranno del loro potere e violeranno i nostri diritti, caso in cui useremmo contro di loro la costituzione come un’arma per difenderci’, ha scritto. Proseguendo il confronto, ha detto che la concezione cinese del governo è quella di un governo di genitori o di un governo di gentiluomini, che dovrebbero prendersi cura degli interessi del popolo come genitori nelle cui mani il popolo ripone piena fiducia. Potrebbe condividere con noi le sue intuizioni sulle principali differenze tra il sistema politico statunitense e quello cinese? In quali aspetti pensa che i due paesi possano imparare l’uno dall’altro?

Adrian Vermeule: Uno dei punti principali del libro è che gli studiosi di diritto americani, dalla seconda guerra mondiale, hanno costruito una “tradizione inventata” che ha falsificato e riscritto la storia e i principi dell’ordine costituzionale americano. Abbandonando la classica focalizzazione sul bene comune come fine appropriato del governo, i teorici legali americani, sia di sinistra che di destra, hanno adottato un approccio che è sia più positivista (o, più precisamente, finge di essere più positivista) e più individualista rispetto alla tradizione classica. In questo approccio, il diritto costituzionale è visto principalmente come un modo per garantire i diritti individuali, giustificati dal riferimento all’autonomia liberale, contro uno Stato minaccioso. Il costituzionalismo è, come nella diagnosi di Lin Yutang, principalmente un’arma di autodifesa per una popolazione sospettosa dei suoi governanti.

Ma faccio notare che questa non è la concezione classica del costituzionalismo, e sta diventando chiaro che questa concezione ha prodotto almeno tanti mali di quanti ne ha evitati. Quindi, non sottoscriverei alcuna posizione per la quale l’unica versione del costituzionalismo sarebbe la versione liberale. Le dinastie cinesi classiche avevano certamente costituzioni con la “c” minuscola, nel senso di principi normativi fondamentali del diritto politico che guidavano la concezione di quali dovrebbero essere i fini propri alle autorità pubbliche, anche se non avevano costituzioni scritte, o costituzioni fondate sui diritti liberali. Avevano anche lo stato di diritto, come attestano (ad esempio) gli elaborati codici legali e i sistemi giudiziari della dinastia Qing; ci sono molti esempi di giudici cinesi che hanno deciso che le autorità di livello inferiore avevano emesso ordini amministrativi o decretato pene erronee o troppo severe. Più in generale, come sosteneva un famoso libro di Charles Howard McIlwain[13], bisogna distinguere tra costituzionalismo antico e moderno. Non tutte le costituzioni sono moderne costituzioni scritte e non tutte le costituzioni scritte sono costituzioni liberali. In effetti, come sostengo, credo che nemmeno la costituzione scritta americana sia meglio intesa se la si pensa come costituzione liberale, ossia come è stata interpretata dalla seconda guerra mondiale in poi.

 

John Pang: Come caratterizzare quindi la base filosofica soggiacente al sistema giuridico cinese? Dove si trova la continuità tra il suo passato e il suo presente, tra Oriente e Occidente? Suggerirei che la si ritrova nella persistenza delle nozioni fondamentali di ordine e armonia, viste non solo nelle sue tradizioni legali e filosofie politiche, ma in una durevole teologia politica che sta alla base delle scuole contrastanti di pensiero politico, siano esse taoiste, buddiste, confuciane o legiste [14]  .

La continuità della pratica giuridica cinese, data la sua turbolenta storia recente, va ricercata nella continuità della sua cultura politica, piuttosto che nella continuità istituzionale formale. L’orientamento di questa cultura verso il bene comune non è trasparente per la prospettiva liberale moderna, ma è anche quello della tradizione classica dell’Occidente, e quello di ogni cultura storica che abbia mai abitato la terra.

Possiamo fare molto meglio che tentar di tradurre le concezioni cinesi di ordine cosmico, naturale e umano in termini occidentali contemporanei, vale a dire liberali, che sono versioni impoverite di concetti un tempo ricchi, e corrodono la comunità politica e sociale. Se anche in Occidente il “diritto” non significa più quel che significava un tempo, facili paragoni che inevitabilmente finiscono per giudicare la prassi cinese in questi termini, mentre il Paese si sta riprendendo da un secolo di violento incontro con il modernismo e il liberalismo giuridico, sono doppiamente depauperanti. Non è una ritirata nel relativismo culturale, o un tentativo di instaurare un contro-eccezionalismo cinese [speculare all’eccezionalismo americano NdT]. La necessità di costruire ponti per il dialogo non è mai stata così urgente. La solida sponda dall’altra parte del fiume è la tradizione occidentale classica, articolata brillantemente per il nostro tempo dal professor Vermeule in Common Good Constitutionalism.

[1] https://www.bjreview.com/Opinion/Governance/202207/t20220715_800300955.html?fbclid=IwAR2ZvHuKfMCu8uvuloQgIBjd3hmv2GLEMohBaxivIoA-fs4H5zFd70n8r-w

 

[2] https://en.wikipedia.org/wiki/Patrick_Deneen_(author)

[3] https://en.wikipedia.org/wiki/Why_Liberalism_Failed

[4] https://it.wikipedia.org/wiki/R%C3%A9mi_Brague

[5] https://cristianesimocattolico.wordpress.com/tag/preambula-fidei/

[6] https://blogs.harvard.edu/adrianvermeule/

[7] https://www.wiley.com/en-ie/Common+Good+Constitutionalism-p-9781509548873

[8] Qui una interessantissima intervista a John Pang: http://www.china.org.cn/world/Off_the_Wire/2022-04/10/content_78157638.htmInterview: West’s unipolar behaviors bound to fail, disastrous for itself, says scholar”

[9] https://www.scaffalecinese.it/il-libro-delle-odi-lo-shijing-antica-raccolta-poetica-cina/

[10] https://www.bjreview.com/

[11] Mia traduzione dalla versione inglese di James Legge.

[12] https://it.wikipedia.org/wiki/John_Donne

[13] https://it.wikipedia.org/wiki/Charles_Howard_McIlwain . Il libro a cui allude Vermeule è  Constitutionalism Ancient & Modern, 1940

[14] https://it.wikipedia.org/wiki/Legismo

 

Il sogno liberale, di Andrea Zhok

Il sogno liberale

Come mi è capitato di sottolineare altrove, la nozione di “liberale” è strutturalmente ambigua per ragioni storiche. Purtroppo tale ambiguità continua a creare confusione e a smussare le armi dell’analisi, dove di volta in volta, di fronte agli stessi eventi, si finisce per invocare l’aggettivo “liberale”  a volte come causa di oppressione, a volte come fattore di emancipazione (così ha fatto recentemente, ad esempio, il prof. Orsini). Di fronte all’irreggimentazione, al controllo sociale, alla crescita di impulsi persecutori che ha tratteggiato questi ultimi due anni c’è ancora chi lo caratterizza utilizzando l’aggettivo “illiberale”, come se tutto ciò fosse estraneo e contrario all’essenza del liberalismo.

È perciò opportuno tentare un breve chiarimento concettuale e terminologico. Non provo qui a fornire un’analisi dello sviluppo storico e delle sue ragioni – svolta in altra sede – ma mi limito ad esplicitare l’ambiguità del termine liberalismo e a ribadire perché l’uso emancipativo del termine è latore di confusione.

I. Il liberalismo perfezionista

Esiste davvero una forma emancipativa del liberalismo?

Sì, esiste, si tratta di un’idea che concepisce il liberalismo come staccato dalla sua componente economica e che lo pone come una visione teorica che promuove il libero sviluppo umano. Questa concezione può essere chiamata “liberalismo perfezionista”, laddove il termine “perfezionista” è utilizzato nella filosofia morale contemporanea per definire una teoria che pone il senso dell’azione umana nell’esercizio e nel libero sviluppo delle proprie facoltà. Questa visione può essere rappresentata da pensatori come Benedetto Croce, in una cornice idealista, da Joseph Raz, Michael Polanyi e in parte John Rawls, in una cornice immanentista. Non è accidentale che la distinzione tra “liberalismo” e “liberismo” venne introdotta proprio da Croce per isolare il proprio liberalismo dalle istanze economiche (liberiste).

Qui l’idea portante è che l’uomo conferisce senso alla propria esistenza esplorandone le potenzialità e sviluppando le proprie capacità. Tale visione è minoritaria ed eccentrica rispetto allo sviluppo storico del liberalismo, ma è esistita ed esiste. Quanto sia essa lontana dalla prospettiva storica principale del liberalismo lo si può capire osservando come questo “liberalismo perfezionista” sia perfettamente compatibile con l’impianto teorico del critico per antonomasia del liberalismo, cioè di Karl Marx, la cui concezione del libero sviluppo umano (si vedano i Manoscritti economico-filosofici del 1844) è ampiamente sovrapponibile a questa visione. Non pochi soggetti, soprattutto intellettuali, si reputano liberali in quanto nutrono, in forma talvolta chiara, spesso confusa, un’immagine del genere.

 

II. Il liberalismo reale

Sul piano storico, tuttavia, questa versione del liberalismo disaccoppiata dal liberismo economico è ampiamente minoritaria, e influente quasi solo a livello di elaborazione intellettuale. Il liberalismo si è sviluppato incardinandosi nella teoria economica marginalista alla fine del XIX secolo, in questa forma ha acquisito centralità politica e ha imposto in modo egemonico la propria visione a partire dagli anni ’70 del XX secolo. Chiamiamo questo liberalismo egemone “liberalismo reale”, nel senso in cui si parlava una volta di “socialismo reale”.

Per capire l’essenza del liberalismo reale bisogna comprendere come si configura la sua visione ideale, quella visione che ogni agente liberale coltiva dentro di sé come ispirazione, come motore della propria azione.

Si dice spesso che il liberalismo sarebbe “neutrale” sul piano etico, nel senso di non volersi impegnare nel prendere posizione sui temi eticamente più controversi e scottanti. L’idea della neutralità liberale storicamente nasce in contrapposizione alla sostanzialità delle posizioni religiose: che si parli di aborto, eutanasia, famiglia, educazione, ecc. ogni religione ha una posizione definita – non necessariamente immobile nel tempo, ma di volta in volta ben definita – mentre il liberalismo, sin dalle origini, si vanta di rigettare questa dimensione di valutazione sostanziale, che andrebbe risolta lasciando a ciascun individuo la scelta ultima.

Questa idea di “neutralità” etico-politica è tuttavia perfettamente illusoria. L’etica e la politica si muovono in un’atmosfera densa in cui non esiste neutralità, in cui scelte sovraindividuali si fanno sempre necessariamente, e in cui quando condotte specifiche vengono favorite, altre vengono sfavorite e ostacolate. La “neutralità” liberale è in effetti un camuffamento, magari in buona fede, ma un camuffamento. In effetti anche il liberalismo ha un’immagine ideale del mondo, proprio come ce l’ha il comunismo o il cristianesimo, solo che è un’immagine che si interpreta come poco esigente e perciò universale.

 

III. Libertà negativa e presunta “neutralità” etica

La concezione che caratterizza il liberalismo è innanzitutto una concezione che promuove una forma di libertà negativa: laica, asociale e apolitica. Il liberalismo tipicamente nega che queste specifiche proprietà siano alcunché di sostanziale perché sostiene che anche per questi tratti, come per ogni altro tratto, la scelta viene lasciata al singolo individuo (se essere laico o credente, sociale o asociale, politicamente attivo o passivo, ecc.). Solo che le cose non stanno così. Questo perché ciascuna di quelle dimensioni travalica il singolo e non è alla portata di alcuna scelta individuale, unilaterale.

Non posso decidere individualmente di condurre un’esistenza politica, se l’ambiente circostante non lo consente; non posso associarmi, se non ci sono le altrui condizioni per formare un’associazione; posso condurre una vita da mistico stilita, ma nessuna vita religiosa in assenza di una comunità religiosa operante; non posso vivere un’esistenza comunitaria, se le forme di vita comunitarie sono disgregate, ecc.

Il cuore della libertà negativa nel liberalismo reale  è che, non essendovi un divieto a indirizzare la vita in queste forme, ciascuno è in grado di decidere autonomamente se percorrerle o meno. Ma questo è semplicemente falso. Ogni scelta politica, legislativa, economica che venga fatta potrà essere funzionale a costruire forme di vita religiosa, politica, comunitaria, ecc. oppure può essere disfunzionale a questi fini. Quando uno di questi indirizzi non viene supportato, proprio per la loro natura sovraindividuale, esso deperisce e si estingue.

 

IV. La visione propositiva del modello liberale

Quest’apparente “neutralità” è solo metà della storia del “sogno liberale”. La seconda fondamentale parte è determinata sul terreno economico, dove gli indirizzi più chiaramente positivi, “sostanziali” del liberalismo si vedono all’opera. L’impianto economico liberale infatti coltiva la competizione su base individuale, venera il rischio, l’innovazione e la mobilità. Ciascuno di questi elementi opera costantemente come fattore che accresce l’insicurezza individuale e alimenta lo sradicamento sociale. In una cornice di concorrenza auspicabilmente perfetta ogni singolo individuo occupa una posizione sociale differenziale, dove ogni successo altrui è potenzialmente una minaccia al successo proprio. Quanto più ci si approssima alla base della piramide sociale, tanto minore diviene il proprio potere contrattuale nella società, e tanto maggiori diventano per ciascuno le possibilità di essere proprio escluso dal sistema, di venire espulso ed emarginato.

Sul piano tecnologico, finanziario e ambientale lo stimolo costante al rischio, all’accelerazione e all’innovazione crea condizioni strutturalmente instabili. Esse vengono compensate – da chi è economicamente nelle condizioni di farlo – con la creazione di cuscinetti difensivi (riserve monetarie, assicurazioni private, ecc.). Questo significa che all’insicurezza generata dal sistema si cerca di rimediare con la “sicurezza economica”, cioè con lo sforzo di accumulare denaro: quanto maggiore l’insicurezza tanto maggiore la spinta alla competizione più spregiudicata, che aumenta a sua volta l’insicurezza, le possibilità di fallimento e la frustrazione.

La spinta alla mobilità, nella ricerca di opportunità d’impiego, spezza la possibilità di una perdurante cooperazione territoriale, e con ciò corrode ogni senso di partecipazione comunitaria: il soggetto liberale non è più “parte di una comunità”, ma è “utente di un servizio urbano”. (Incidentalmente, è per sopperire a questo vuoto che la società liberale contemporanea si riempie ossessivamente la bocca di “comunità” / “community”: secondo un tipico canone liberale, meno una cosa esiste, più ossessivamente la si evoca per fingerne l’esistenza.)

In questa cornice in cui tutto converge verso l’isolamento individuale e la competizione interpersonale, l’Altro appare primariamente nella forma di un’insidia, una fonte di potenziale pericolo – o almeno di ingombro. In un mondo liberale, se qualcuno ti si avvicina la prima domanda che tende a sorgere è: “Cosa vuole questo da me?” Dunque non solo le condizioni economiche ed ambientali tendono a far crescere il senso di insicurezza, ma anche i singoli individui sono innanzitutto percepiti come potenziali minacce.

Questo sfondo genera una tendenza profonda, che rappresenta l’ispirazione e il motore del sogno liberale. Siccome sia l’ambiente che l’altro soggetto (se non altrimenti esplicitato), si profilano prima facie come potenziali minacce, la disposizione che anima la società liberale si orienta in due direzioni: la neutralizzazione difensiva dei rapporti con il prossimo e l’acquisizione di potere mediato sull’ambiente.

 

V. Figure del sogno liberale

Siccome ciascun soggetto individuale è vissuto innanzitutto come una potenziale minaccia, la concezione liberale lavora sistematicamente a creare o mantenere le distanze tra individuo e individuo, a isolarli preliminarmente e a consentirne l’associazione solo in forme contrattuali sorvegliate. La società liberale tende a divenire sempre più isterica intorno al pericolo che altri esseri umani, o altri gruppi umani, o altre forme di vita umane, rappresentano per “noi liberali”.

Rispetto ad ogni individuo cresce costantemente una sorta di permalosità strutturale, di ipersensibilità per cui l’altro potrebbe essere in procinto di ferirci, di offenderci in maniera insopportabile. Individui sradicati e psicologicamente provati dal distanziamento forzoso cui il mondo liberale conduce, temono il contatto diretto con il prossimo e a maggior ragione temono ogni forma di dipendenza dal prossimo. Figure emblematiche di questa dinamica sono, ad esempio, i giovani “hikikomori” che si rifiutano di uscire di casa e che si relazionano con gli altri solo in forma virtuale; o, in altro modo, sono figure emblematiche i pasdaran del “politicamente corretto”, alla continua ricerca di un possibile lato da cui potrebbero ritenersi offesi; o ancora, lo sono gli studenti dei college americani che firmano consensi scritti per avere rapporti sessuali, a garanzia che vi sia piena volontarietà dell’atto. Stendiamo poi un pietoso velo sulla recente isteria da contagio, che ha portato a galla strati profondi di questo autentico terrore nei confronti del prossimo.

Siccome il nostro prossimo è, proprio per la sua prossimità, il più pericoloso, il liberalismo reale dimostra la propria umanità come filantropismo verso i più remoti, verso coloro i quali hanno solo l’esistenza virtuale dei reportage giornalistici e delle raccolte di petizioni. Verso i lontani, gli sconosciuti, con cui mai entreremo in contatto e di cui nulla sappiamo, il liberalismo reale riversa la propria umanità residua, che, incapace di vicinanza, si trova a proprio agio invece nella sfera in cui può dipingere l’umanità a piacimento, con i tratti addomesticati del proprio immaginario. Se verso i più remoti il liberale può esercitare generosità, nei confronti del prossimo i rapporti sono governati dalla sfiducia e dal timore, e dunque le forme relazionali preferite sono l’isolamento o il rapporto mercenario, in cui il potere del denaro media la relazione tra esseri umani.

Dipendere da qualcun altro è, nel mondo liberale, la ricetta sicura per lo scacco, visto che per come il sistema funziona è razionale attendersi che tale dipendenza prenda la forma di uno sfruttamento. Questo varrà tanto sul piano lavorativo che su quello affettivo: se dipendo sono sottomesso; sono libero solo se sono io a sottomettere. Questo modello di indipendenza è quella che promuove ad esempio l’idea, sempre più diffusa nel Nord Europa, per cui avere un figlio dovrebbe essere disaccoppiato dall’avere un compagno o una compagna. Siccome un rapporto affettivo è percepito come un rischio e un vincolo, una subordinazione ad esigenze limitanti che intaccano la propria indipendenza, allora attingere ad una banca del seme o noleggiare un utero altrui, sono soluzioni decisamente preferibili.

La visione di principio della società nel liberalismo reale è quella di un sistema di percorsi di vita paralleli che non si intersecano se non con la mediazione di un controllo terzo (contratto, supervisione, giudice). I contatti ammessi e preventivati sono l’acquisizione di un servizio, l’erogazione retribuita di un servizio, o, dove entrambi falliscono, lo scontro. Un sistema che produce strutturalmente insicurezza ad ogni livello lavora per risparmiare ai propri adepti l’incertezza dei rapporti umani, l’insicurezza dei giudizi personali, il rischio dei contatti, la vulnerabilità dell’affettività.

Il sogno liberale consta di un mondo in cui non devi niente a nessuno, non hai bisogno di contare su nessuno, non dipendi da nessuno, ma in cui puoi portare avanti i tuoi progetti acquistando i servigi altrui. Questo tratto spiega il carattere insieme patetico e pericoloso dei grandi “sognatori” partoriti dal liberalismo, gente che conta di realizzare i propri infantili sogni di potenza comprandoli.

Il sistema del liberalismo reale perciò partorisce due forme umane: “servi” e “padroni”, che nello specifico si profilano come “frustrati senza remissione” e “imperatori per censo”.

Il primo gruppo, di gran lunga maggioritario, è rappresentato da tutti quelli che ambivano ad essere piccoli autocrati di un proprio regno a pagamento, ma che non ce l’hanno fatta. Questi cercano comunque di esercitare tutto il potere che viene loro concesso sul prossimo, sfogando almeno in parte la propria frustrazione, che tuttavia cova sempre sotto la cenere e nutre una rabbia costante, pronta ad esplodere. È gente che avrebbe voluto essere Bill Gates o Ellon Musk, e che rimarrà certa fino alla fine che, se avesse raggiunto quella posizione economicamente apicale, allora sì che il mondo avrebbe manifestato tutto il proprio senso. Essendo invece rimasti lontani dalla vetta non gli resta che rivalersi come possono sugli altri: piccoli delatori, burocrati inflessibili, bulli da parcheggio, ecc. Recentemente abbiamo avuto il piacere di ammirare simpatici esempi di questa tipologia umana in quelli che si sbracciavano orgogliosi per poter esibire il proprio Green Pass (come piccolo segno di esclusività), o in tutti quelli che vomitano odio bellicista fomentando guerre per procura.

Le guerre per procura sono in effetti un caso di scuola della visione liberale, perché combinano due elementi strutturali del liberalismo reale: il filantropismo per cause distanti in luoghi remoti e la frustrazione rabbiosa pronta ad esplodere, che può essere rilasciata verso l’apposito “malvagio” o lo “stato canaglia” di turno. Le guerre per procura in luoghi remoti, cui ci si può collegare televisivamente ore pasti, per poi tornare alla serietà della vita nel resto della giornata, sono una soluzione pulsionale perfetta per il cittadino liberale, che può al tempo stesso sentirsi un benefattore dell’umanità e sfogare il proprio desiderio rabbioso di distruzione (evitando così di sparare al vicino o di farsi sparare da esso).

Accanto all’esercito degli sconfitti dalla vita, che covano sotto un volto disciplinato una rabbia disperata, c’è poi la rarefatta truppa dei vincitori, di coloro i quali vedono la società dall’alto della propria capacità di comprare ogni cosa e persona che gli possa servire. Questi sono finalmente nella posizione che il sistema gli ha promesso come premio sommo: la capacità di “realizzare i propri sogni” in grande stile. Sciaguratamente chi ha fatto tutto ciò che il sistema gli richiedeva per raggiungere quei vertici, di norma non ha avuto né il tempo nè la cura per approfondire nulla, e i suoi sogni vivono dell’immaginario plastificato, astratto, convenzionale che il sistema secerne come sottoprodotto culturale. Nel migliore dei casi queste anime piatte “si realizzano” in qualche modo infantile, comprandosi qualcosa di molto molto grande e molto molto costoso (una nave, un razzo spaziale, un’isola). Il caso peggiore però è quello in cui questi stessi ritengano di essere nella posizione di “migliorare l’umanità” – un’umanità di cui hanno solo una conoscenza da rivista patinata postprandiale – e che cercheranno di “migliorare” realizzando qualche fantasia letteraria: l’emancipazione di quelle che nel proprio tinello gli appaiono come “minoranze oppresse”; il miglioramento della volgare umanità con qualche tecnologia transumanista, ecc. Questi imperatori per censo che si vogliono despoti illuminati sono obiettivamente personaggi pericolosi per l’unione di potere e astrattezza.

*          *          *

Ciò che bisogna tenere fermo di questo quadro, in conclusione, è soprattutto un punto, un singolo punto essenziale.

L’idea che la forma di vita liberale sia una forma di vita pacifica, rispettosa degli altri e umanitariamente ispirata è una delle più straordinarie fandonie e delle maggiori illusioni autointerpretative che una cultura abbia mai partorito.

Il liberalismo reale nella sua evoluzione storica ha fatto serenamente commercio di schiavi finché gli è convenuto (si vedano gli ottimi studi di Losurdo); ha fatto ogni resistenza possibile all’avvento di governi democratici che non fossero vincolati al censo; ha guidato gli eserciti imperialisti nello sfruttamento senza remore del resto del mondo nel XIX secolo (e anche dopo); ha fomentato lo sciovinismo e la guerra con i suoi giornali alle soglie del 1914; dopo la parentesi delle guerre mondiali ha ripreso la propria battaglia ideologica (nella versione “difesa del mondo libero”) facendo una raffica di guerre per procura mentre si vantava del proprio pacifismo; e infine dagli anni ’70, nella forma neoliberale, ha ripreso l’opera di progressivo spegnimento delle democrazie e di sistematico sfruttamento di chiunque abbia basso potere contrattuale.

Questo quadro può sorprendere il cittadino ingenuo, che magari è caduto vittima della pubblicità-progresso che il marketing ideologico liberale coltiva con grande cura. Essendo una cultura che nasce da una generalizzazione dello scambio commerciale, il liberalismo ha avuto sempre straordinaria cura del marketing, proiettando ovunque immagini idealizzate e ampiamente finzionali di sé. Ma al netto di questi raffinati tentativi di dissimulazione, il nocciolo duro del mondo liberale è rappresentato da una linea di sviluppo individualmente rivolta ad ideali di conquista, strumentalizzazione e asservimento, perché questa è la forma in cui “i sogni si realizzano”. Ciascun soggetto è spinto ad immaginarsi come un soggetto sovrano, indipendente, che non ha bisogno di nessuno, che può disporre strumentalmente degli altri e che è a sua volta disposto ad essere utilizzato, se questo lo conduce avanti nella realizzazione del suo sogno solitario. Ciascuno è dunque  un re, un sovrano, un piccolo imperatore in potenza, e di diritto, che ha solo bisogno di un po’ di fortuna per esserlo anche di fatto. E se il destino non gli concede tale fortuna, sente di avere pieno titolo per sfogare la propria rabbia. Un sistema predatorio che genera con eguale intensità, sfruttamento, violenza, indifferenza e la più spettacolare ipocrisia.

https://sfero.me/article/il-sogno-liberale?fbclid=IwAR0N9Icsr5FYK7KPoecji66oHM5fsaHtqr1773H2ncMRLTDdmTrgAjFh33E

Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, III_di Alessandro Visalli

“I Regimi di Verità – Il politico-impolitico, travestimenti liberali”

 

 

Questa è la terza puntata ed ultima della lettura del libro di Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, uscito per l’editore Meltemi nel 2020.

  • Nella prima parte è stato trattato il processo di costruzione delle invarianti della ragione liberale e dei suoi caratteri tipici per come emergono dal testo in esame,
  • Nella seconda parte è stato ricostruita la lettura che il libro compie dei “Regimi di ragione” che scaturiscono dalla struttura liberale e neoliberale di pensiero e pratica, quindi della ragione postmodernista,
  • In questa terza parte, i “Regimi di verità” della ragione liberale verranno mostrati nelle loro applicazioni politiche, ovvero nella particolare forma di politico impolitico che è generato dalla ferrea logica liberale (tanto più forte quando non si vede e ci si pensa avversari).

 

In sostanza dalla ricostruzione del liberalesimo nel libro, e riportata nella prima parte, emergono, secondo quanto propone l’autore, due prescrizioni e due idealizzazioni.

La prima prescrizione scaturisce dall’idea di libertà negativa, essenzialmente interpretata come richiesta di non interferenza. La seconda è l’individualismo assiologico, ovvero una concezione per cui il valore si manifesta essenzialmente nell’acquisizione di desideri individuali. “Non interferenza” e “desiderio individuale” come valore sono, quindi, le due prescrizioni definenti la “Ragione liberale”. In loro presenza si sa di essere al cospetto di una versione, delle tante, del liberalesimo.

Queste prescrizioni reggono e sono (normalmente tacitamente) giustificate dall’esistenza di due idealizzazioni (assunzione di un’idea, o un modello, come universale).

La prima idealizzazione è l’assunto ideale dell’esistenza dei diritti naturali, che uniscono la normatività del diritto positivo con l’autoevidenza di un fondamento presente già in natura. Infine, troviamo l’assunto ideale per cui la libera interpretazione di individui, che si muovono sulla base delle prescrizioni prima e seconda, è sufficiente a generare sempre esiti positivi. In altre parole, la seconda idealizzazione è il paradigma della mano invisibile.

Se si richiede la ragione per la quale le due prescrizioni devono essere tenute per valide, si incontrano sempre versioni delle due idealizzazioni, in una delle varie forme in cui si presentano.

Pippo Rizzo, “Treno notturno in corsa”, 1926

 

Le prime due definiscono uno spazio assiologico specifico e le seconde hanno un carattere idealizzante teologico, ovvero introducono visioni specifiche del funzionamento dei rapporti intersoggettivi. Il quadro concettuale liberale, bisogna sottolineare, non emerge come frutto di una riflessione organica, ma prende forma come collazione di argomenti di solidità dubbia, ma efficaci sul piano della tensione politica e coerenti con lo sviluppo delle forze produttive e dei rapporti sociali, nonché istituzionali e politici. Essenzialmente si afferma, in altre parole, per la sua capacità di abbattere, contestare o criticare un regime già esistente, quindi per il suo carattere negativo. Infatti, rifarsi a un ‘diritto di natura’, nelle condizioni storiche del tempo (XVI-XVII secolo), permette di delegittimare e di indebolire la sovranità regale, creando un set di giustificazioni opportunamente separate dalla tradizione. Un insieme di ragioni il cui basso contenuto veritativo e la scarsa fondazione delle premesse emerge solo ogni qual volta diventa concreto, mentre è efficacissimo e potente come arma polemica. È solo il successo finale, in ogni ambito della vita, della “Ragione liberale” che ne determina e rende visibili le disfunzioni. Tutte queste incrinature di cui parla il libro sono presenti sin dall’inizio, ma iniziano a manifestarsi solo a partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo fino alla Prima guerra mondiale. Quindi si manifestano pienamente solo nel mondo contemporaneo. Naturalmente si tratta di linee di tendenza lunghe e variamente denunciate, nella letteratura sociologica, ad esempio, già la sociologia classica (da Weber[1] a Durkheim e Mauss[2]) denuncia l’erosione della coesione sociale, nello stesso momento in cui si afferma la fredda “razionalità allo scopo”. Nello stesso contesto del welfarismo imperante assistiamo all’emergere poi, da una parte, di quella che Onofrio Romano, in un bel libro chiama “una sensazione di soffocamento e disseccamento nella clausura dorata dello Stato del benessere [che] attanaglia il corpo sociale. [e] Questo nodo costituisce il comune terreno di critica su cui si trovano i neoliberali e i radicali di sinistra”[3], dall’altra si assiste agli esiti sistemici di un processo di erosione egemonica e incrudimento delle dinamiche competitive alla scala del sistema-mondo (o, meglio, delle interazioni tra il sistema-mondo occidentale, quello orientale socialista e gli emergenti[4]) che confluiscono in quello che James O’Connor, in un influente libro, chiamò “La crisi fiscale dello Stato[5]. La drammatica crisi antropologica, segnale di quella che si ripresenterà dopo la parentesi anestetizzante degli anni novanta (un intermezzo nel quale sembrò che la crisi egemonica, al contempo economica e strategica, dell’occidente fosse superata a vantaggio delle sue élite e classi medie), fu diagnosticata tempestivamente da autori come Christopher Lasch[6], Cornelius Castoridias[7], Daniel Bell, Ronald Inghehart[8], Antonhy Giddens[9], se pure con colori e direzioni politiche diverse (negli ultimi due salutando l’era “postmaterialista”). Si possono ricordare anche Talscott Parsons, con il suo complesso ‘struttural-funzionalismo’[10] e Robert Merton, che descrive un funzionalismo senza struttura, o la ‘teoria dei sistemi’ di Niklas Luhman. Potrebbero essere citati, nella storia delle scienze, anche gli indebolimenti prodotti da Heisenberg, Einstein, e tanti altri. Da questa enorme costellazione di stimoli emerge, con differenze anche significative tra la versione anglosassone e quella continentale, la soluzione neoliberale[11] di cui vediamo in questi ultimi anni l’indebolimento[12]. Subentra una repentina “crisi da orizzontalismo”, analoga a quella mostratasi nel 1929. Il modello ha infatti prodotto, e lasciato accumulare come la cenere sotto un camino, una proliferazione della finanza speculativa ed altamente inefficiente in termini di sistema, una crescita alla lunga insostenibile di ineguaglianze che scavano sotto i bastioni del consenso e producono un’enorme quantità di disattivazione esistenziale e rabbia. Di cui è motore ed effetto al tempo l’assottigliamento, sempre più visibile, della classe media[13].

 

Di qui il testo finisce per concentrarsi su alcuni centri logici della costellazione di pensiero e di prassi liberale. Punti nei quali, per componenti crescenti della società, la “frizione” tra le promesse di liberazione individuale e scatenamento del desiderio (in uno sperato mondo dell’abbondanza sotto la tutela della “Ragione liberale” fattasi ideologia), e la realtà della continua crescita delle ineguaglianze più feroci e dello sfruttamento più selvaggio si fa sempre più manifesta. Quel che accade si potrebbe descrivere in questo modo: mentre la società si fraziona per strati funzionali e geografici tra chi può accedere alle risorse di capitale, ed ai relativi gradi di interconnessione, e chi resta abbandonato e sconnesso, i connessi “sovraestendono” le risorse ideologiche della “Ragione liberale” per inibire sul piano culturale, e respingere sul piano politico-organizzativo l’insorgenza potenziale dei marginali. Non è un caso che, man mano la crisi morde (alcuni), i toni (di altri) si facciano sempre più striduli e la danza totemica più frenetica. Né lo è che qualunque “vittima” sia sacralizzata, purché non sia economica, non sia un abitante delle periferie reali, materiali, e lo sia solo delle periferie mentali e “post-materiali”.

Questa ‘sovraestensione’ è lo sfondo sulla base del quale Zhok, nel 2020, sente l’urgenza di scrivere questo importante libro. Si tratta della risposta che strati sociali minoritari (ma non trascurabili quantitativamente) che si sentono superiori esprimono verso la sfida esistenziale portata dai “paria”. La superiorità percepita si esplica nella dotazione di ‘capitale culturale’, ‘relazioni sociali’, disponibilità di ‘capitale spaziale’[14], accesso a ‘risorse simboliche’ e ad ‘attività dinamiche’ che restituiscono prospettive esistenziali (se pure, per molti illusorie) e, non ultimo ma non necessariamente, ‘capitale economico’ fisso o mobile. Si tratta di una differenza di status non necessariamente di censo. Proprio il rischio che il censo declinante impedisca la conservazione dello status (autopercepito e riconosciuto tra pari) sottende alle danze totemiche più frenetiche. Naturalmente la sfida è portata, a questa ‘compagnia di danza’, solo dai veri “paria”, non certo dagli oggetti sacrificali (‘resi sacri’) scelti da individui “desideranti” che, interpretando lo spirito del tempo ed in coerenza con questo, fanno leva sui “capitali” detenuti per sottrarsi a regole e solidarietà percepiti come soffocanti. Scelti precisamente per la loro capacità di attivare un rito la cui principale funzione è l’autolegittimazione degli officianti.

Possiamo riassumere lo sfondo in questo modo. Le disastrose tensioni introdotte dalla “Ragione liberale” e dal suo braccio armato neoliberale nella struttura sociale e nelle personalità socialmente confermate, dopo la ‘felice’ pausa degli anni Novanta (nei quali permanevano comunque sufficienti strutture welfaristiche e strutture di senso per controbilanciare l’acido dissolutore che le stava intaccando), nel primo decennio del nuovo millennio giungono ad una rottura. Nel secondo decennio, quindi, il caos sistemico ha preso il sopravvento, le potenze politico-militari e i sistemi d’ordine che lo trattenevano hanno perso influenza. La fragilità finanziaria si è resa manifesta, l’assurdità delle regole scritte per tempi diversi è emersa fragorosamente, altri centri d’ordine sono emersi. Dentro lo stomaco delle ex ricche società occidentali il gemito dei troppi esclusi si è fatto continuo ed insopportabile, elezione dopo elezione. Il triplice colpo della Brexit, venuto dopo la lezione greca (e quella Irlandese), dell’elezione di Trump, delle tornate “antisistemiche”, ha evocato a questo punto il fantasma del “populismo”.

Ora, dopo due decenni così interessanti, in questo avvio del terzo decennio, apparentemente di pausa e riflusso, si gioca il destino a medio termine del mondo. L’ossessione della crescita fondata sulle esportazioni, in un mondo nel quale la cosiddetta mondializzazione ripiega per “grandi spazi”[15] (e la finanza è attaccata alla tenda a ossigeno delle Banche Centrali), davanti la sfida strategica della potenza cinese e del network in formazione intorno ad essa (Russia, in primo luogo, poi Iran, Venezuela, Pakistan, Siria, Nepal) non è più credibile e sostenibile per tutti. Bisognerà che qualcuno sia salvato e altri condannati siano essi territori, settori, individui. Tutto sta giungendo al suo limite.

Stava già accadendo, ma l’intero sistema di tensioni strutturali ha visto cadere il ‘cigno nero’ della pandemia come un maglio. Il libro cade esattamente un attimo prima di questo evento.

Capita così una congiuntura particolare: si divaricano ancora le condizioni che determinano un “momento Polanyi[16] sull’occidente, ma, al contempo, rifluisce nettamente il “momento populista[17]. Nel decennio trascorso questo aveva preso una forma specifica. Si era presentato come chiusura nazionalistica, ricerca di purezza identitaria (se non etnica), una sorta di ostentato plebeismo, vitalismo, protezionismo. Ma non bisogna ingannarsi, a questo servono libri preziosi come questo. In tutte le forme di “populismo” (sia “di destra”, egemonico, sia di “sinistra”, poco più che abbozzato) erano comuni alcune caratteristiche, proprie della lunga fase neoliberale e della sua conseguente disgregazione sociale. Caratteristiche nella quale affondano le radici le ragioni ultime della rivolta. Si trattava, in altre parole, di un adattamento, con fortissimi elementi di continuità, allo spirito del tempo neoliberale (ovvero, alla “Ragione liberale” che Zhok qui descrive) dal quale molti si sentivano traditi pur senza essere in grado di pensare altro. Una reazione che si nutriva ambiguamente dello stesso veleno[18] che genera il “momento Polanyi”, ovvero della disgregazione e iperindividualismo. Ma se ne nutriva in larga misura inconsapevolmente, quindi senza essere in grado di dosarlo in modo da farlo divenire farmaco.

 

Si è, dunque, ora in un momento di stallo. Coloro i quali restano profondamente connessi alla “Ragione liberale” e, al contempo, sono (o sperano e sentono di essere) ancora connessi alla sua promessa di futuro, rispondono alla sfida “sovraestendendo” i suoi concetti per respingere “i barbari” che si erano spinti fino alle porte. Coloro che si sentono scacciati, ma sono altrettanto connessi alla “Ragione liberale” (che è, alla fine, la “Ragione” del mondo), rispondono con rabbia, ma senza una vera direzione strategica. Tra la danza rituale e la sostituzione sacrificale dei primi e la cieca rabbia dei secondi si allarga un insuperabile fossato.

Il vecchio appare sempre più morto, ma il nuovo non può nascere.

 

Perché si apra la possibilità della nascita bisogna, prima, sgombrare le macerie. A questo serve il libro del quale, ora, finalmente, leggeremo la terza parte.

 

La seconda si era chiusa con la descrizione della cultura postmoderna, la terza si apre con la superficie visibile, in un certo senso, dei “regimi della Ragione liberale”. Sulla base dell’obiettivismo naturalistico e della svolta postmoderna avviene (per ragioni di complessa costituzione, come vedremo) il rifugio nel diritto naturale soggettivo e quindi nella logica “rivendicazionista” dei “Diritti Umani”. Di qui procedono spinte alla disgregazione sociale (Zhok parla di “liquefazione”) di cui sono immagine anche apparentemente insospettabili dinamiche rivendicative come il femminismo di seconda (e successive) generazione e la danza frenetica del “politicamente corretto”.

 

Diritti Umani

Alcune tappe simboliche del processo di formazione del costrutto politico e giuridico dei “Diritti Umani” sono: il 1948, cioè la Dichiarazione universale dei diritti umani; il 1968, con l’imporsi della piattaforma rivendicativa fondata sulle esigenze di realizzazione dell’individuo; e l’89 o il ’91, quando il crollo del muro di Berlino e dell’URSS eliminano il contendente dell’unico egemone rimasto. Nel testo è presente un’interessantissima descrizione del tema dei diritti dell’uomo, passaggio teorico fondamentale che viene promosso nel ‘48 con la Dichiarazione universale dei diritti umani promossa dall’ONU, e per esso dagli Stati Uniti, e che si rifà, da una parte, alla Dichiarazione di indipendenza americana del 1776, dall’altra alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del cittadino francese del 1789. C’è, però, una importante differenza tra i due antecedenti. La Dichiarazione americana non è una carta dei diritti e il testo è dedicato prevalentemente a motivare le ragioni dell’indipendenza dalla corona britannica, e gli argomenti sui diritti dell’uomo sono inseriti solo come cappello retorico introduttivo e chiave di una legittimazione che si pretende estranea alla fedeltà al re[19]. Si può dire che il famoso preambolo per il quale tutti gli uomini sono creati uguali, cioè dotati di inalienabili diritti, tra cui la vita, la libertà e il perseguimento della felicità, serve, in tutte le Dichiarazioni di questo periodo ad affermare che i governi sono istituiti per garantire questi diritti, e quindi sia diretta ad affermare che il fondamento della vita sociale non deriva dal re, non deriva dalla tradizione, ma deriva da Dio per come viene interpretato nel testo. Compiendo questo rovesciamento del canone fondativo si esprime con la massima chiarezza, e si pone al centro della scena, una mossa emancipativa di primario valore. Ma i contenuti e fondamenti dei diritti inalienabili, su cui si basa quella mossa, sono ridotti al contempo ai minimi termini; non è il caso di ricordare che in tutti gli uomini non erano incluse né le donne né, tantomeno, gli schiavi. Del resto, quando dieci anni dopo viene approvata la Costituzione americana non ci sono in essa Dichiarazioni dei diritti. Queste vengono aggiunte ancora dopo nel 1789 e nel ‘91, anche sulla scorta della Rivoluzione francese, in forma di emendamenti alla Costituzione, e in esse si parla di diritti civili interni alla nazione americana.

 

Invece la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 francese ha una caratterizzazione dei diritti dell’uomo molto particolare. Ci si appella qui a diritti naturali inalienabili e sacri dell’uomo, cioè ad una dimensione universalistica astorica; però, già dal terzo articolo, la Dichiarazione prende una piega storicamente determinata, eminentemente politica, e la libertà individuale viene limitata dalle leggi “espressione della volontà generale”, quindi giustificate dal bene della società verso le quali la resistenza del cittadino è giudicata inammissibile. Dunque, il protagonista della Dichiarazione del 1789 è la legge civile, definita dalla Nazione, all’interno della quale il cittadino trova il suo spazio di libertà. L’intera Dichiarazione si rivolge al cittadino.

 

Centocinquanta anni dopo, la Dichiarazione del 1948 è diversa. Per la prima volta l’idea di un “Diritto naturale” che appartiene individualmente a ciascun membro della specie umana è effettivamente articolato. Ci si trova di fronte a un tentativo di creare un corpus di diritti nel senso comune del diritto legale che però, diversamente dai codici delle leggi finora conosciute, non dipende da alcun organismo politico. È chiaro che una delle spinte decisive per scrivere questo documento consisteva nel desiderio di trovare un modo per condannare i criminali nazisti che non facesse riferimento alla legge tedesca. Peraltro, atrocità come l’olocausto non sarebbero risultate legali neppure secondo la legislazione razzista del Terzo Reich, ma di fronte a ciò che si presentava come male assoluto e avendo vinto la guerra emergeva con potenza, da entrambe le parti vincitrici, la necessità di trovare un punto di vista superiore astorico che non concedesse alcun terreno di legittimità la legislazione nazista. In questa ottica, storicamente data, l’idea di diritto umano con i suoi antecedenti storici si sposava perfettamente a questa funzione. Naturalmente a questa esigenza storica si univa la tendenza e la cultura individualista e antitradizionalista americana.

Ma nelle fasi preparatorie emersero subito notevoli difficoltà. Nell’inquadrare dal punto di vista etico e filosofico il testo, ad esempio, l’Associazione Antropologica Americana mosse critiche molto severe alla possibilità stessa di concepire qualcosa come una ‘dottrina universale dei diritti umani’. Gli antropologi osservarono come fosse impensabile considerare come base di partenza dell’analisi un individuo desocializzato. Ciascun individuo si determina sempre ed inevitabilmente come parte di un gruppo sociale, con una forma di vita sanzionata nei modelli il comportamento. In questa prospettiva una Dichiarazione che pretendesse di applicarsi a tutti i singoli esseri umani, prescindendo dalle appartenenze culturali (e quindi in effetti prescindendo dalle particolarità dello sviluppo della cultura nazista in Germania) rischiava di essere implicitamente imperialista. Come sostenne l’Associazione “e rischia di diventare un’affermazione di diritti concepiti solo nei termini dei valori prevalenti nei paesi dell’Europa occidentale e dell’America”[20]. In sostanza si rischiava di ripetere la mossa del “fardello dell’uomo bianco” che aveva alimentato il colonialismo. Queste ragionevoli considerazioni vennero semplicemente ignorate.

In effetti il progetto non era affatto descrittivo, nessuno pensava che i “diritti umani” fossero una sostanza data, ma espressamente normativo, tutti la ritenevano un’opportuna norma da porre. Secondo le parole di René Casin “poggiava su un atto di fede in un domani migliore”. È ovvio che sul piano logico l’idea che potesse esistere qualcosa come un “diritto di natura” è un esempio sfacciato di fallacia naturalistica che trasforma una presunta naturalità in norma. In natura noi possiamo trovare fatti, ma i valori implicano delle norme. Non le implicano ‘naturalmente’ e senza il passaggio della scelta politica e, quindi, della contingenza storica.

Nell’articolo tre della Dichiarazione troviamo scritto che “ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona”. Tutti possiamo leggerla come una considerazione condivisibile: chi potrebbe mai desiderare che gli sia tolta la vita o la libertà. Chi potrebbe mai desiderare di vivere nell’insicurezza. Ma da questi valori ragionevoli non scaturisce alcuna norma. Il fatto che un individuo abbia diritto alla libertà significherebbe che la sua libertà non può mai essere vincolata. Ma evidentemente esistono leggi, carceri, punizioni per i casi nei quali la libertà distrugge il vivere comune e civile. La questione è, piuttosto, sempre quanta libertà e sotto quali condizioni. La questione è quella posta dalla Costituzione francese. Ma se ammettiamo che la libertà di cui si tratta è quella consentita dal diritto positivo dei vari Stati, allora la Dichiarazione è totalmente vuota. Se, viceversa, non facciamo riferimento a nessuna registrazione reale non si sa di che cosa si sta parlando. Peraltro, nella stessa frase è dichiarato, oltre al diritto alla libertà, anche quello alla sicurezza. Dunque, si pone il problema di quanta sicurezza e del conflitto tra la sicurezza di uno e la libertà dell’altro (ad esempio, di costringerlo a lavorare, di rendere insicura la sua vita, per es. aumentando la “flessibilità” e “precarietà”, per ridurne la forza negoziale).

Il tema è sempre, in altre parole, come limitare la libertà o quanta libertà può limitare la sicurezza. Norberto Bobbio osservava che i “diritti naturali” non sono “diritti”, ma al massimo “esigenze” che poi devono essere fatte valere negli ordinamenti normativi positivi. La cosa è particolarmente evidente appena ci si accosta al gruppo dei “Diritti umani” di contenuto sociale (articoli da 22 a 27), qui la situazione è davvero paradossale. Si tratta infatti di “diritti” inseriti inizialmente sotto la pressione dell’Unione Sovietica (la quale comunque si astenne dalla votazione finale). Di norma quando si levano gli scudi per denunciare le violazioni dei “Diritti umani” questi sono sistematicamente ignorati, perché sono ininterrottamente violati ovunque dal ‘48 a oggi. Il fatto è che per essi ogni individuo ha il “diritto umano” al lavoro, o alla “protezione contro la disoccupazione”, o, ancora, ad “una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia un’esistenza conforme alla dignità umana” (art. 23). Oppure ha diritto a “ferie periodiche retribuite” (art. 24). Si tratta evidentemente di un libro dei sogni che conta violazioni innumerevoli anche nei paesi più benestanti. Anzi che è sistematicamente violato, disapplicato e distrutto tanto più quanto più il liberalismo e la sua forma pura neoliberale si afferma.

 

Ma questi “Diritti” hanno anche un contenuto che Zhok non esita a definire traviante. In sostanza stabiliscono il principio dell’esistenza di istanze individuali che possono legittimamente abbattere ogni altra considerazione, cioè che agiscono come assi di briscola. Che possono travolgere l’interesse collettivo, ogni sovranità nazionale, e vanno sopra e al di là di ogni consenso. In effetti sono stati espressamente preordinati come arma per andare al di là del consenso nel caso storico dato nazista. Tuttavia, essi riescono ad andare anche oltre le forme di consenso democratico. Se il discorso pubblico assume come dati, e rielabora non criticamente, la validità dei “diritti umani” e se i titolari più autorevoli se ne fanno carico sul piano operativo, la cosa diventa una potentissima arma ideologica. Una cosa che inizia a prendere forma durante la guerra fredda come arma contro un altro consenso (tramite la sistematica denuncia della violazione dei “diritti umani” da parte degli Stati Uniti a sostegno etico e legittimazione delle proprie iniziative sia contro l’Unione Sovietica e contro la Repubblica Popolare Cinese ed i loro alleati) e da allora viene usata, senza soluzione di continuità, contro chiunque si elevi ad ostacolare il dominio imperiale statunitense.

In effetti, già l’idea in sé dei “diritti umani” può essere accusata di individualismo metodologico il quale è, esso stesso, alla base della microfondazione della teoria economica. I diritti sono immaginati come inerenti all’individuo naturale, cioè a un individuo astratto astorico, aculturale e dunque sono utilizzabili come marcatore e punto di riferimento del giudizio sulle azioni e sulle dinamiche collettive. Il dispositivo dei “diritti umani” crea, cioè, un decisivo passaggio teorico in cui richieste individuali che non fanno per sé stesse riferimento a nessun organismo sociale dato (o contesto culturale noto) e che finora nessuno ha riconosciuto possono essere poste come eticamente fondanti ed esistenti in natura e restare lì, in attesa che qualcuno ad un certo punto se ne faccia carico. Magari in appoggio alle sue istanze politico-strategiche.

Questa visione è costituzionalmente irrazionalista, in quanto pone come eticamente fondanti esigenze che, per definizione, non hanno bisogno del criterio epistemico più fondamentale e sul quale c’è ampio consenso: cioè l’accordo intersoggettivo. Inoltre, è una lista aperta alla quale si può sempre aggiungere qualcosa. Negli ultimi anni si è aggiunto il “diritto alla pace”, il quale è tuttavia sistematicamente violato, ma sempre dal più forte; il “diritto alla sessualità”; il “diritto all’informazione”; il “diritto all’acqua”, eccetera. Da ora anche il “diritto alla scelta del genere”. In sostanza, dice Andrea Zhok, ciò che sta succedendo qui è che l’idea di diritto sul piano fondazionale sta diventando indistinguibile da un semplice desiderio. Il dispositivo teorico dei “diritti umani”, essendo fondato internamente su un invisibile individualismo metodologico, delegittima necessariamente gli ordinamenti sociali come sorgente di diritto e accredita, al loro posto, il desiderio individuale come fonte di diritto.

Questo è il passaggio cruciale.

Nel momento in cui si fa posto all’idea che le propensioni o i desideri personali siano fonte primaria di diritto si crea un particolare sfondo. A questo punto il desiderio personale è legittimato a imporre obblighi a terzi. Naturalmente non il desiderio del singolo individuo, perché ciò collasserebbe immediatamente nella guerra di tutti contro tutti hobbesiana; ciò che accade è che, piuttosto, la forma privilegiata per l’ottenimento di norme sociali diventa la rivendicazione.

 

Cioè, la forma privilegiata diventa il contenzioso, la sfida aggressiva che si appella contro un potere estraneo per avere ragione. Questa metamorfosi della sfera normativa è di primissima rilevanza. Come ricorda Zhok, in tutta la storia umana la fonte primaria della normatività sociale è sempre stata, al contrario, la concordia pratica; ovvero la capacità di certe aspettative di far funzionare un gruppo sociale.

L’obiettivo implicito è sempre stato poter creare società, dunque la norma è sempre stata incarnata in costumi prevalenti, in tradizioni, in regole sia tacite come scritte. A sua volta la legge scritta serviva a discernere i casi dubbi, districare le situazioni ambigue. Determinava, e si determinava, come fonte normativa di assemblee dei magistrati o del sovrano. Nel diritto moderno gli usi e costumi o la normatività sociale viene tacitata e retrocessa sullo sfondo, venendo in primo piano le fonti costituzionali e la creazione corrente di norme positive, in quanto si assume che il diritto scritto abbia già assorbito nel tempo quella originaria base informale e la includa in una forma particolarmente sorvegliata, precisa e razionalizzata. Ma il funzionamento di ogni regola e di ogni legge presuppone necessariamente la condivisione di abiti collettivi, di usi, di pratiche sociali, che rendono la norma intelligibile. Se si distacca eccessivamente da questi tende a rimanere sulla carta. Secondo quanto sostiene invece Zhok “il ‘rivendicazionismo’ implicito del paradigma dei ‘diritti umani’ capovolge radicalmente il senso della normatività sociale, pretendendo che i desideri soggettivi si impongano ai costumi consolidati, anzi, appellandosi spesso proprio all’esigenza di opporsi al costume consolidato, che in quanto ‘tradizionale’ e ‘collettivo’ porterebbe con sé uno stigma, un sospetto di irrazionalità ed oppressione. In quest’ottica il, ‘diritto umano’, invece di assumere come il diritto positivo ed ordinare una funzione regolatrice pacificatrice, tende a rappresentare il grido di battaglia di rivendicazioni sempre nuove, cioè di richieste che qualcun altro si adegui alle mie esigenze”[21]. Ciò accade perché ad ogni diritto di qualcuno corrisponde sempre il dovere di qualcun altro. La crescita di alcuni diritti implica sempre la dislocazione di comportamenti altrui e la limitazione di libertà altrui. Ovvero la contribuzione altrui all’implementazione di un certo diritto.

 

Ne scaturisce una conseguenza paradossale: ogni società infarcita di ‘diritti soggettivi’ è anche una società con elevatissimi tassi di repressione, coazione e sorveglianza. Ne deriva una società disciplinare, dove la possibilità di violare qualche diritto altrui è un fantasma ossessivo sempre presente. Inoltre, produce un’illimitata tendenza al contenzioso all’aggressione di tutti contro tutti. Se, infatti, le ragioni non sono frutto delle mediazioni, ma devono emergere contro altri e il mondo è concepito con un mondo di estranei, ciò che si afferma è sostanzialmente il principio liberale dell’interazione competitiva. Della sfida per ottenere quanto più possibile a scapito della controparte. In altre parole, “ciò che sul mercato e la competizione per il massimo vantaggio economico, sul piano normativo diviene la lotta per rivendicare il massimo riconoscimento dei propri desideri”[22]. Tutto ciò milita per la sacralizzazione delle inclinazioni, opinioni, desideri personali, che esige semplicemente di trovare qualcuno che ti dia ragione e ti attribuisca i mezzi.

 

Inoltre, e anche qui paradossalmente, il “paradigma rivendicazionista” dei “diritti umani”, nella generale conflittualità sociale e litigiosità produce depoliticizzazione e forme di intolleranza diffusa perché è espressione della vittoria di un desiderio armato, cioè organizzato, potentemente finanziato, e riapre le porte al diritto del più forte. Sia esso la forza di uno studio legale, di uno stato potente, di una lobby organizzata, questa forma di diritto inventata con l’imporsi del modello dei diritti umani soggettivi è una forma fluida contendibile, reinventabile, capace di superare tutte le barriere di consenso pubblico di sovranità nazionale o di legittimazione democratica. Dunque, ‘l’individualismo metodologico’, ‘il rivendicazionismo’ e la manipolabilità che caratterizzano il paradigma dei diritti umani non sono errori contingenti. Sono espressione, nella cornice intellettuale che sta venendo alla luce, di un’impostazione aliena alla fondazione democratica e parte di una dimensione sovranazionale dove i diritti sono definiti da chi li implementa di fatto. In questo modo la libertà si traduce in arbitrio, ovvero viene esercitata senza appellarsi ad alcuna dimensione razionale normativa e valoriale comune che ne circoscriva e definisca la portata, ma viene letta come “poter fare quel che si vuole perché lo si vuole”.

Ma in questo modo la libertà negativa inizia a divorare sé stessa. Questo processo involutivo mostra delle similitudini anche con fenomeni come il femminismo della ‘seconda generazione’.

 

Femminismo

La problematica femminista nel dopoguerra[23] è connessa in modo piuttosto intimo con l’emergere di questa forma di ‘rivendicazionismo’ dei diritti. Tuttavia, essa opera non su uno qualsiasi dei molti temi sociali ma sul più fondativo e sul più radicale. Quello da cui è sempre dipesa, cioè, la divisione e il rapporto tra i sessi e dunque la sopravvivenza di ciascuna società. La specie umana è, infatti, quella in cui la riproduzione e l’allevamento della prole impegnano di gran lunga il maggiore investimento di tempo e di risorse rispetto a qualunque altra specie. La specie umana si caratterizza per una gravidanza prolungata, per un parto di norma singolo, e per una lunga cura dopo la nascita. In altre parole, per un esteso addestramento sociale. Sono queste componenti strutturali che portano in luce le specificità, le potenzialità ed i vantaggi evolutivi che ci caratterizzano rispetto al resto del regno animale. In particolare, le caratteristiche vincenti di adattabilità e ubiquità. Ne deriva che la specie umana dispone di una complementarità funzionale davvero molto pronunciata tra i sessi. Una complementarità che si può ricostruire già a partire dalle prime “società” note, quella cosiddetta dei “cacciatori raccoglitori” (che poi, in effetti, include la gran parte della storia nota dell’umanità). In queste società, dominanti fino alla soglia dell’età moderna in gran parte del pianeta, si può dire che la caccia fosse un’attività a trazione maschile, che implicava mobilità sul territorio, mentre le raccolte implicavano meno forza e resistenza ed erano attività a trazione femminile[24]. Ciò perché, come ricorda Zhok, la prole per lungo tempo ha bisogno di sostegno e sorveglianza, cura, e qualcuno deve prestarla. All’origine di questa divisione, secondo la ricostruzione che ne fa Andrea, ci sono quindi due caratteristiche naturali: la prima è il dimorfismo sessuale che caratterizza la specie, per cui nell’uomo tendenzialmente l’esemplare maschile a una maggiore massa muscolare; la seconda caratteristica è l’asimmetria nella facoltà riproduttiva, per cui essendo la specie umana mammifera la gravidanza e l’allattamento sono esclusivamente femminili.

Tuttavia, ciò non implica, di per sé, gerarchia[25].

Molto spesso i gruppi di cacciatori raccoglitori manifestano un elevato livello di uguaglianza se si vanno ad analizzare la dignità, il potere decisionale, tra i soggetti maschili e soggetti femminili. Piuttosto che ‘dominio’ si dovrebbe qui parlare di ‘complementarità funzionale’. Una complementarità che esprime una co-essenzialità. Entrambi i sessi producono e sono indispensabili alla sopravvivenza del gruppo. Come si legge in un testo specificamente dedicato al tema, nella sua prima parte, di Emmanuel Todd[26], la situazione è altamente differenziata nelle diverse epoche e territori, tuttavia la scena originaria si può riassumere come struttura familiare nucleare (una coppia e i loro figli e figlie), con sistema parentale bilaterale, matrimonio esogamico, possibilità di divorzio, talvolta forme di poliginia o poliandria, elevato status della donna. Questa organizzazione è fluida e poco strutturata, abbastanza indifferente verso le pratiche omosessuali (assoluta in caso di quella femminile), poche fobie.

Quando questa forma sociale, molto gradualmente, viene sostituita dalle società agricole stanziali ed emergono organizzazioni anche vaste, a partire dall’età del bronzo, compaiono forme gerarchiche e maggiori differenziazione nelle forme organizzative familiari. Quella distinzione tra ‘interno’ ed ‘esterno’, per la quale il femminile aveva competenza sull’interno, quindi sostanzialmente sulla famiglia e sui rapporti intrafamiliari, e il maschile invece si occupava dei rapporti esterni, della caccia della guerra, man mano che si estendono le dimensioni dei gruppi sociali si struttura e si muta in una distinzione ‘privato’ verso ‘pubblico’. Anche qui, per lo più, la donna ha il controllo e la competenza nella sfera privata mentre l’uomo in quella pubblica. Ma la ‘sfera pubblica’ subisce una notevole estensione. In questa descrizione semplificata per funzione e ruolo sessuale andrebbe inserita una distinzione che si crea (o consolida) in questa forma sociale e che riguarda la forza gerarchica del gruppo familiare in questione nel suo complesso. Per cui ai livelli più bassi (‘subalterni’) si tende al lavoro di tutti, in parte anche all’esterno, e ai livelli più alti (‘dominanti’, o ‘aristocratici’) si tende invece a una partizione più tipica. Osservando la cosa dal punto di vista dei ceti alti che poi è quello ovviamente più noto, per effetto del tramandarsi delle fonti storiche, e al quale implicitamente la ricostruzione di Zhok fa riferimento, nella sfera pubblica nasce il potere. È del tutto evidente che questo potere, infatti, non coinvolge gli schiavi e/o vari ‘paria’. Si tratta del potere legale, del potere politico, creato nel luogo in cui vengono fatte e modificate le leggi scritte, in cui si consolidano le istituzioni, che via via si fa sempre più complesso ed esteso e che essenzialmente è definito nell’ambito extrafamiliare che, a questo punto, si configura essenzialmente come sfera di competenza maschile (maschile e nobiliare).

Questo è l’ambito di cui abbiamo ufficialmente storia, appunto l’ambito del quale la storia scritta nella sfera pubblica ci riconduce notizia. E noi abbiamo notizia scritta sempre di figure maschili che si stagliano con nettissima prevalenza rispetto alle figure femminili proprio a partire da questa arcaica divisione del lavoro. Abbiamo, naturalmente, anche notizia sempre di figure maschili dominanti (con qualche significativa eccezione nelle società più “femministe”, come, ad esempio, l’antico Egitto, o l’età ellenistica nella quale si afferma una relativa equivalenza tra uomini e donne[27]). Intendere questa asimmetria dei ruoli nel potere pubblico, nelle classi dominanti in particolare, come “oppressione” delle donne nelle medesime classi è un evidente anacronismo storico. In quanto proietta il nostro moderno, e contemporaneo, senso di giustizia, strettamente legato alle idee di parità e di uguaglianza nella versione che ci viene tramandata dalla tradizione liberale, su un passato semplificato e idealizzato. Idealizzato perché, ad esempio, trascura che i rapporti gerarchici “patrilineari” non sono uniformemente presenti nel mondo antico, e non lo sono stati sempre. Ad esempio, Sahra Pomeroy ricorda[28] che durante l’età ellenistica la situazione delle donne migliora sensibilmente, e l’educazione delle ragazze inizia ad essere di interesse per le famiglie. Nell’Egitto dei Tolomei, partendo da una tradizione molto più paritaria, la cosa è ancora più pronunciata. Ma anche nel mondo romano, nel quale, pur in un contesto patrilineare e fortemente militarista, in epoca tardo repubblicano e imperiale la situazione migliora, fino ad arrivare alla piena parità legale nel diritto ereditario con il codice Giustiniano (533 d.c.). Comunque sia, pur con significative eccezioni, l’insieme del mondo antico è dominato da assetti ‘patrilineari’ (di tipo “stipite” o “comunitari”[29]), come evoluzione da una forma arcaica meno strutturata. Anche nei casi più gerarchici e lontani dalla nostra sensibilità bisogna ricordare che il nostro ideale di eguaglianza e libertà è estraneo alla stragrande maggioranza della storia umana fino ai tempi recentissimi. Piuttosto, la nozione antica di giustizia è espressa dalla formula latina “unicuique suum tribuere” (attribuire a ciascuno ciò che gli spetta). E ciò che nel mondo antico e nelle società tradizionali spettava a ciascuno era precisamente la sua appropriata posizione e il suo compito in una società che con gli occhi contemporanei, ovvero con i miei propri occhi e con gli occhi del professore Zhok, è permeata di relazioni gerarchiche da capo a fondo. Relazioni gerarchiche costituenti la stessa personalità dei membri.

Prima del diciottesimo secolo ovunque nel mondo la posizione di ciascun individuo era, infatti, sempre definita in relazione all’armonia sociale complessiva ed alla sua relazione di subordinazione rispetto a qualcun altro. Ogni individuo era inserito in un ordine, il quale faceva riferimento ad altri ordini. In questi modelli di società e nelle personalità che in essi erano nati e si erano formati, definire un comportamento “giusto” significava ‘stare nel posto’ rappresentato da una rete di doveri di obbedienza e reciproci doveri di cura. Nella nostra sensibilità contemporanea questa idea è altamente repulsiva; l’idea di dipendere dalla benevolenza di un superiore è un affronto alla nostra originaria dignità. Ma nella storia umana questa è stata la condizione normale di tutti, non specificamente delle donne. Questa caratteristica che noi leggiamo come “paternalismo” è la nota caratterizzante tutte le etiche tradizionali a noi giunte perché informate da un modello di società a ciò ordinato. In una delle civiltà di cui abbiamo più documentazione, quella romana, per gran parte della sua storia esiste una chiara ed espressa condizione di subordinazione legale della donna rispetto al padre e al marito, ma, al contempo, abbiamo ampia testimonianza anche dell’influenza e della capacità o di farsi valere delle donne. Ovvero, l’inferiorità dello status pubblico non corrispondeva automaticamente a ‘oppressione’ e ‘sfruttamento’, e, comunque, non impediva forme compatibili con il quadro dato di “realizzazione personale”. Il punto è che questa realizzazione non ha la forma del ‘trionfo individuale’, piuttosto ha quella della ‘buona rappresentazione di ciò che compete al ruolo’. In questo sistema di concetti e valori ‘una vita ben spesa’ è una vita nella quale ‘tutto è compiuto secondo il proprio posto’. ‘Diritti’ e ‘doveri’ si bilanciavano secondo il principio di una sorta di “benevola complementarità”. Difficile, quindi, a priori (e soprattutto senza proiettare i nostri valori) dire quale fosse la posizione ‘più comoda’, se rispondere ai propri doveri di gravidanza e cura o a quelli del lavoro e della guerra. Doveri di lavoro che nelle classi inferiori erano estesi evidentemente a tutti e due i sessi (ma non quelli della guerra).

Quello che cambia avviene nella rivoluzione industriale e qui nasce anche il ‘primo femminismo’. Il suo inizio simbolico viene fatto risalire alla pubblicazione nel 1792 del libro di Marie Wollstonecraft. In effetti anche sul piano strettamente funzionale a partire dalla metà del diciottesimo secolo fino al diciannovesimo secolo diventa via via piuttosto evidente l’insostenibilità del vecchio modello sociale. Nel 1851 il censimento britannico dimostra che il 30% delle donne tra i 30 e 40 anni sono nubili, cosa che avrebbe comportato normalmente un alto rischio di mancanza dei mezzi di sussistenza. Tuttavia ciò dipendeva dal fatto che molte donne, soprattutto nelle classi popolari (anzi nelle esclusivamente classi popolari), erano, in effetti, impiegate nel lavoro e quindi a partire dalla metà del secolo, su pressione di un movimento molto forte e crescente (al quale parteciparono sia donne che uomini tra le classi alte, si pensi al ruolo di Harriet Taylor e del suo secondo marito il filosofo John Stuart Mill) si mise mano, gradualmente, ad una radicale modifica della posizione sociale della donna in direzione di una parificazione dei diritti formali con l’uomo. Un processo che implicava l’accesso a tutti i livelli educativi e la parità legale in tutte le forme il diritto di proprietà, ma poi, successivamente, anche il diritto di voto e di piena partecipazione politica. Una lotta grandiosa che occuperà il tempo dal 1906 al 1971 (l’ultimo paese a dare diritto di voto appena partecipazione politica alle donne fu la Svizzera).

A cavallo tra la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni 70, però, anche il femminismo subisce una metamorfosi radicale. Nel ‘68 un articolo del New York Times usa per la prima volta la distinzione tra un ‘femminismo della prima ondata’, con cui nomina il femminismo tradizionale emancipativo e per il suffragio che aveva avuto evidente successo nei 150 anni precedenti, e un femminismo ‘della seconda ondata’. Questa nuova forma di femminismo nasce nell’atmosfera culturale rappresentata dal ‘68 e sulla base degli esiti delle lotte del femminismo della ‘prima ondata’ nei paesi occidentali e nella parte abbiente della popolazione occidentale. Qui l’idea di una parità completa tra uomo e donna si era ormai affermata, dunque le nuove generazioni avevano metabolizzato l’idea di uguaglianza tra i sessi e le leggi e costituzioni le assorbivano. Tra gli anni ‘50 e gli anni ‘60 questo processo si scontra con ritardi ed arretramenti, ovvero con scorie e normali inerzie. Ci sono aree più arretrate e ci sono generazioni più anziane, ci sono luoghi dove l’ordinamento tradizionale dei rapporti continua a opporre una resistenza al cambiamento, ci sono, anche legalmente, elementi di trattamento asimmetrico residuali da emendare (per esempio, in Italia l’abolizione dell’attenuante per il diritto d’onore si trascinerà fino al 1981). Inoltre, è proprio della concorrenza e dell’aver posto come ordinatore fondamentale della società all’economico che ogni fattore di debolezza dell’offerente forza lavoro sul mercato venga sfruttato per abbassarne il valore (e quindi la remunerazione).

Dunque, si aprono subito due possibilità strutturali, coerenti con il capitalismo e il suo orientamento all’accumulazione di valore astratto, per risolvere la asimmetria biologica determinata dall’impegno di cura caricato in particolare, o in modo asimmetrico, sulle donne: o queste rinunciano alla procreazione, e si riducono a fornitrici di forza lavoro esattamente analoga a quella maschile (e, quindi, dal punto di vista del capitalismo hanno pari valore); oppure la loro parziale indisponibilità ne determina necessariamente una riduzione del valore. Concretamente solo un intervento di tipo statale, che sia esterno e prescinda dalle logiche competitive del mercato, può risolvere questo problema senza costringere a una rinuncia delle funzioni di cura.

Nella versione radicale della cultura del ’68, di cui si è fatto cenno nella seconda parte di questa lettura, questi rapporti di complementarità funzionale tra uomo e donna vengono interpretati però come alias del modello del rapporto capitalistico tra ‘sfruttati’ e ‘sfruttatori’, peraltro proiettando un canone storico e contemporaneo sull’intera storia dell’umanità. Tutto il rapporto tra uomo e donna nell’intera storia della specie umana viene concepito e raccontato, anche a fini polemici, come il più antico sistema di sfruttamento ‘di classe’ (con notevole abuso di concetto). Uno sfruttamento fondato sulla divisione sessuale del lavoro che può essere superato soltanto superando questa divisione. Viene proposta una lettura della storia in cui il ‘potere maschile’ sarebbe stato costantemente esercitato utilizzando strumentalmente istituzioni come il ‘matrimonio’, l’allevamento dei figli o le pratiche sessuali. Questo sistema di sfruttamento viene considerato analogo, in alcuni casi sinonimo, del ‘capitalismo’ e godrebbe ancora di grande seguito perché gli sfruttati non avrebbero preso conoscenza della propria condizione e vi collaborerebbe, sia pure inconsapevolmente. Dunque, il ‘femminismo della seconda ondata’ predilige una militanza politica oppositiva, ma anche persuasiva, e, in alcuni casi, tende al separatismo. Esso diverge in maniera fortissima dal femminismo classico e dalle sue istanze di uguaglianza e diritti. La ‘seconda ondata’ mira, piuttosto, a un rovesciamento del potere; addirittura, ad un rovesciamento rivendicativo che sani tutte le ingiustizie del passato. Cioè il secondo femminismo è mosso da un ideale rivendicativo che non punta a costruire una nuova unità ed un nuovo equilibrio, ma punta al riconoscimento di quella che viene definita come una irriducibile ‘differenza’. È un atto di sfida nei confronti del sesso maschile che è identificato ora come nemico. Naturalmente questo processo nasce dentro lo spirito antigerarchico e antiautoritario del tempo e si sintonizza spontaneamente, con la nuova atmosfera neoliberale che si va imponendo, la quale è tutta rivolta a cancellare ogni traccia di egalitarismo e ogni senso di unità sociale. Uno dei punti di attacco è la nozione di “patriarcato” per il quale, strettamente parlando, si intende che la gestione del potere pubblico avviene per linea maschile (cosa che non implica automaticamente oppressione della parte femminile). Ma nel 1970 Kate Millett[30] individua una nuova e diversa nozione di patriarcato: in esso la subordinazione femminile nella sfera del potere pubblico è vista automaticamente, e senza bisogno di giustificazione o dimostrazione argomentativa, come espressione di un sistema di oppressione e sfruttamento delle donne da parte degli uomini. Ovvero senza porlo come tema o argomentarlo l’interpretazione presuppone le condizioni del mondo contemporaneo e le sue categorie mentali e culturali specifiche come sovrastoriche, e le utilizza per interpretare e comprendere un sistema sociale diverso (peraltro proiettando all’indietro anche i sistemi moderni di sfruttamento capitalistico). Seppure la Millett riconoscesse i progressi avvenuti sul piano legale istituzionale dal ‘femminismo la prima ondata’ lamentava la mancanza dei risultati sul piano della coscienza, degli abiti mentali. Anche questo elemento è perfettamente coerente con lo spirito del tempo e la svolta culturalista. In questa nuova accezione essenzialmente il ‘patriarcato’ non indica necessariamente una dimensione ‘strutturale’, quanto una dimensione ‘culturale’, ‘ideologica’, inerente alla struttura psichica, la quale doveva essere abbattuta per portare la “rivoluzione sessuale” a compimento. Siamo, cioè, in perfetta continuità con lo sforzo postmodernista. Anche il femminismo abbandona da allora la dimensione dell’analisi strutturale socioeconomica e si concentra sul tentativo di ottenere un rivolgimento essenzialmente culturale. Uno spostamento ricco di conseguenze perché concorda con la tendenza soggettivistica del periodo che non disturba più gli assetti che nel frattempo si stavano trasformando in direzione neoliberale[31], non toccando i processi economici, e si concentra piuttosto sul fattore di opinione; ma anche perché sposta la percezione dei rapporti di potere come fattore di natura morale. Lo sfruttamento diventa espressione di una mentalità maschile e moralmente deformata, da qui emerge l’idea che la violenza dell’uomo sulla donna è una forma costitutiva essenziale del ‘patriarcato’. Da questa struttura logica si avvia quel movimento di sensibilizzazione al tema della violenza sulle donne (che naturalmente ha tanti meriti però finisce per promuovere anche una visione unilaterale a tratti paranoica del rapporto tra i sessi).

La sottovalutazione dei rapporti strutturali, rispetto a quelli culturali, porta con sé anche una apparentemente paradossale conseguenza, in realtà espressione specifica della posizione di classe dei denuncianti o meglio delle denuncianti: creare una cornice sistematicamente accusatoria da parte della cosiddetta ‘classe femminile’, sfruttata, verso la ‘classe maschile’, sfruttatrice, che oscura quella che è da sempre, in tutta la storia dell’umanità storicamente nota (ovvero dall’epoca stanziale in poi) la principale subordinazione (se pure non sempre vissuta come tale). Le subordinazioni per ceto e quelle per censo sono, infatti, sempre state quelle dominanti, le principali, più evidenti e più determinanti nella vita concreta delle persone che hanno attraversato la storia di questo pianeta. Tutti gli uomini e tutte le donne di ceto e di censo superiore hanno sempre esercitato, entrambi, un potere su tutte le donne e su tutti gli uomini di ceto o di censo inferiore (insieme ad obblighi e responsabilità il cui tradimento, a ben vedere, provocava sempre rivolte). E questa gerarchia di potere è stata l’elemento biograficamente dominante della vita di miliardi di persone. Questo è l’enorme fenomeno che viene semplicemente oscurato e diventa trascurabile dalla scelta della divisione fondamentale ‘politica’ (ovvero tra l’amico ed il nemico) secondo l’asse maschile/femminile per il quale una principessa sarebbe per sé stessa oppressa da uno stalliere. E compare in questa costellazione di concetti e valori l’idea di dover correggere un torto storico, come se le donne contemporanee fossero eredi dirette di tutte le donne sfruttate della storia (mentre, evidentemente e se mai, ogni donna vivente è erede sia degli sfruttatori e sia delle sfruttate volendo definire gli uni e gli altri secondo il sesso, avendo sempre sia madri come padri). Ma più specificatamente, ogni donna contemporanea è, più plausibilmente, erede di una storia di sfruttamento o di dominazione che deriva dal censo della sua famiglia. Ci sono eredi degli sfruttatori ed eredi degli sfruttati.

Peraltro, in alcune versioni del pensiero femminista della ‘seconda ondata’ lo stesso amore romantico è stato visto come un ‘inganno ideologico’, un imbroglio. Alcuni esiti sono stati, coerentemente, verso il separatismo e la scelta “politica” dell’omosessualità. Anche questa è una conseguenza logica, seppure rigida, dell’individuazione come nemico dell’intero sesso maschile. Come ricorda Jessa Crispin[32], il femminismo è (o rischia di essere) un “processo mentale narcisistico autoriferito”, che classifica le proprie azioni come eroiche, una forma di esclusione di discorso particolarmente potente e subdola (solo i pari possono accedere ad esso), “un mastino che si finge un micetto con una goccia di latte sul naso” (il che, detto tra parentesi, è, in effetti, molto femminile). Si è trattato, e si tratta, anche di un’impresa di piccole élite che spingono per l’affermazione di una politica identitaria, generata con il medesimo meccanismo psicologico della formazione di tutti i gruppi umani in fusione – l’identificazione di un nemico che concentri su di sé “il male”, in modo da poter essere “il bene” -.

Sempre la Crispin ricorda quel che sopra abbiamo riportato, ma giova leggerlo anche da lei:

“le donne hanno sempre lavorato. Molte sono sempre state costrette a farlo. Le nubili, le vedove, le indigenti, le svantaggiate hanno sempre lavorato. Quando le femministe hanno deciso di combattere per il diritto al lavoro, ciò che intendevano era il diritto di diventare medici, avvocati e via dicendo. Le donne hanno sempre pulito gabinetti e pavimenti, sono sempre state pagate per toccare corpi altrui come infermiere, badanti e lavoratrici del sesso.

Né le donne combattevano per svolgere i lavori dei poveracci: in fabbrica, in miniera, nei mattatoi. Fin dall’inizio, il presupposto era che il lavoro fosse una cosa buona, gratificante, che noi ci stavamo perdendo. Non qualcosa che distrugge corpo ed anima, che ti uccide da giovane o ti spinge a desiderare che lo faccia”[33].

 

In una versione più recente si può registrare la dissociazione tra sesso e genere, che non significa soltanto che il primo termine indica i tratti biologici mentre il secondo quelli psicologici, ovviamente non necessariamente pienamente coincidenti, quanto la tendenza a identificare il secondo essenzialmente come pura entità culturale. In intima connessione con l’idea che il dominio ‘patriarcale’ sia un’ideologia di sfruttamento emerge a questo punto l’idea per cui lo stesso genere sarebbe un costrutto culturale, imposto su una base biologica tutto sommato malleabile, il cui scopo è di definire i generi ‘maschili’ e ‘femminili’, rispettivamente, come il gruppo ‘che comanda’ e quello ‘che obbedisce’. Nel momento in cui io concepisco il genere come un costrutto culturale e lo collego con questa narrazione semplificata (e falsa) emerge, come conseguenza politicamente logica, l’idea che sia possibile decostruire e ricostruire altrimenti i generi, per accedere a un’agenda politica diversa. Detto altrimenti, se si ammette che la distinzione polare tra ‘maschile’ e ‘femminile’ è esito di uno sfruttamento storico, e ancora pienamente operativo, è abbastanza ragionevole immaginare che se lo decostruisco, o lo cancello, allora questo sfruttamento ne viene annullato. Viene messo, quindi, sotto accusa il ‘binarismo sessuale’ e quindi anche, sulla scorta delle letture di Derrida o di Lacan, la tendenza delle categorie linguistiche di costruirsi per opposizioni binarie. Anche qui si tratta, come ovvio, di un’applicazione del post-modernismo filosofico che fa uso di alcune tesi psicanalitiche e fa riferimento soprattutto a un’autrice importante e radicale come Judith Butler[34]. In effetti per la Butler il ‘genere’ non è un nome ma un ‘performativo’ cioè un’espressione che fa essere il proprio significato. Ne consegue che il ‘corpo’ dotato di ‘genere’ è una sorta di fabbricazione, una performance, ed è ‘prodotto’ attraverso gesti ed atti a loro volta condizionati dal prevalente discorso pubblico. Per cui la ‘femminilità’ e la ‘mascolinità’ sono travestimenti del carattere performativo del genere, artificialmente plasmato dal dominio maschilista e dall’eterosessualità obbligatoria. Queste sono le ragioni per cui punto di caduta di una discussione che sopprima i condizionamenti storici e quelli culturali sull’intera divisione di genere, per Butler, è la dissoluzione di ogni opposizione, la fluidificazione del genere teorizzato dalla queer Theory. Saremmo, in un certo senso, all’apogeo della “Ragione liberale”. Viene sostituita ogni identità ed ogni normalità, come ogni naturalità con un appello all’arbitrio soggettivo di essere qualunque cosa si voglia e di rivendicare questa possibilità come diritto.

Secondo il punto di vista che si difende nel libro non si predilige ovviamente un obbligatorio necessario binarismo sessuale o una sessualità obbligatoria. Ovviamente chiunque è libero di fare le sue scelte in questo campo, purché si comprenda che la complementarità biologica tra i sessi, e quella psicologica tra i generi maschili e femminili, con tutte le articolazioni e divisioni possibili e con tutti gli stati intermedi, non può essere trattata come una distinzione sociologica accanto a mille altre. Una complementarità è necessaria, oltre che essere fondante ed essere preliminare per la riproduzione fisica ma anche e soprattutto sociale della specie, cioè per la procreazione per l’accudimento per l’esistenza di un ordinamento familiare e per la relativa educazione. Zhok sostiene, in sostanza, che ci vuole cautela per toccare questo punto, perché potrebbe provocare squilibri relazionali e reazioni violente. Non è un ambito in cui sia appropriato un atteggiamento militante, bensì un atteggiamento di equilibrato approfondimento, che consenta di comprendere e giustificare naturalmente l’esistenza di casi che non rientrano nel canale binario. Sviluppare tolleranza, accettazione, e normalizzare la diversità. Tutte cose in linea con le versioni del femminismo della ‘prima onda’, ma problematiche nell’atteggiamento rivendicativo sorto nella ‘seconda onda’. Se si prova, facendo uso di un atteggiamento forte, a spiegare a tutti coloro i quali si collocano nel quadro binario tradizionale che sono in errore, o addirittura colpevoli. Ovvero, che stanno supportando inconsapevolmente un’ideologia oppressiva e che dovrebbero educare i propri figli in modo diverso. In quanto l’educazione derivante da una millenaria ed ubiqua tradizione sarebbe solo lo sfortunato esito di condizionamenti psicologici passati, eccetera, ciò porterebbe al livello di conflittualità che il professore Zhok giudica essere elevatissimo e rovinoso. Ciò anche considerando che “naturalmente armonizzare i rapporti tra i sessi e un’operazione utile e necessaria, di per sé una operazione complessa a causa di tutte le tendenze centrifughe individualistiche competitive che sono proprie del liberalismo affermato, tuttavia si tratta di un’attività doverosa ed eticamente raccomandabile”.

Politiche delle identità

Queste tendenze si inseriscono nel più generale quadro che ha preso il nome di “politiche delle identità”. Questa è un’espressione complicata e in base alla quale i gruppi sociali che si sentono oppressi non cercano più di ottenere riconoscimento come uguali, cioè come parte della comune umanità, ma sulla base del fatto che sono speciali. Da una prospettiva egalitaria e comunitaria si passa ad una prospettiva rivendicativa e competitiva. Questo spostamento coincide con la rivoluzione liberale. Anche questo fenomeno avviene dentro uno spostamento strutturale che è a monte, cioè quello della progressiva perdita di credito a partire dai primi anni ‘70 della lezione marxiana e socialista, o comunista, che comporta una riduzione delle analisi attente alla dimensione strutturale o collettiva dei fenomeni. Tutta la prospettiva su cui muovevano le lotte sociali precedenti era, infatti, quella della costruzione di una ‘società nuova’, cioè di una ‘comunità nuova’ o di una ‘nazione nuova’ ovvero la costruzione di nuove identità collettive. Tutta questa prospettiva è interamente ed integralmente scomparsa dall’orizzonte in concomitanza con la svolta neoliberale e con essa è scomparsa sia la tradizione culturale letteraria e sia la rete dei concetti. Al suo posto è emersa una sfera di identità alternative affiancate le une alle altre, libere da scegliere individualmente come un prodotto su uno scaffale al supermercato.

In linea generale, invece, le identità fondate e capaci di riprodursi socialmente, estendendosi da una generazione all’altra, hanno una ricchezza di contenuto interno che viene coltivata ed elaborata e quindi trasmessa. Si tratta di culture che sono amate da coloro i quali vi partecipano e conciliano in sé una pluralità di differenze ed inclinazioni. Le identità che si costruiscono, invece, sulla scorta di un gesto inaugurale di negazione, quindi di aggressione e separazione, sono costruite a partire dal concetto di nemico. Sono qualcosa che assomiglia strutturalmente al processo di costruzione del “nazionalismo”, nel quale l’identità collettiva ‘nazione’ è generata per negazione di un’altra nazione: dove, cioè, non è più in questione tanto la coltivazione del proprio interno, della propria cultura, della propria società o delle proprie tradizioni, ma diventa centrale la negazione del proprio ‘esterno’. Per esempio, il disprezzo nei confronti degli altri paesi, che conferisce identità nel senso di non essere quell’altro. Potremmo ricordare il tentativo di formare l’identità italiana attraverso l’ostilità verso la ‘perfida albione’, ovvero le democrazie occidentali, che fa parte della nostra storia. Il punto è che l’identità e l’unità politica si formano attraverso la negazione del nemico. I soggetti che vi appartengono non sanno e non gli interessa sapere se c’è molto, o poco, che li unisce internamente nel lungo periodo, ma trovano un’identità nel momento in cui identificano un nemico comune. Nel farlo si sentono simili e vicini. Tipicamente questa tipologia identitaria emerge sul piano psicologico nella forma di una rivendicazione pubblica di “orgoglio”. L’orgoglio, e la risposta psicologica simmetrica ‘l’umiliazione’, e questo genere di politiche d’identità, si costruiscono come risposte ad azioni ovvero a uno stigma percepito. In questo senso è chiaramente una dinamica comprensibile, ma contiene in sé il problema di non essere in grado di istituire un’identità veramente collettiva. Porta in essere ‘comunità’ che hanno soltanto forma rivendicativa, come desiderio di conquistare tutte le garanzie e diritti speciali riservati. Le stesse sono immediatamente indisponibili ad altri compiti (come la lotta per l’emancipazione economica generale) in quanto nel porli il confine ‘amico/nemico’ che le costituisce si dissolverebbe e potrebbero scoprire di essere attraversate al loro interno dai nuovi confini.

Questo è un punto decisivo: lo spostamento dell’agenda politica, tra l’era socialdemocratica (o ‘socialista’) e quella neoliberale, ha fatto cambiare radicalmente natura al “politico”. Creando quello che ho provato a nominare come “politico-impolitico”. Nel senso che questo ‘politico’ si costruisce moltiplicando le frontiere oppositive sulla base di presunte “identità oppresse” sistematicamente scelte in modo da non porre in questione l’indisponibile assetto generale della società (colpito dal “Tina” neoliberale, o da quello che Mark Fisher chiamava “realismo capitalista”[35]), ma dissolverla attraverso l’identificazione come ‘nemici’ per lo più degli umiliati ed oppressi reali. Se si guarda da quest’angolo la natura ‘di classe’ (ovvero lo status e il ceto dal quale sono identificate queste ‘fratture’ da politicizzare) risulta chiaro. Come risulta chiara la sua natura ‘impolitica’. Allo scopo di porre in questione l’assetto generale della società (i modi di distribuzione, la creazione di ricchezza, la ripartizione del potere effettivo, etc.) questo “politico” relativo alle ‘identità’ è strutturalmente indisponibile. Anzi è neutralizzante. Lungi dai sogni di assemblaggio delle “lotte”, per farlo non bisogna porre le questioni. Non appena si ponessero queste si dissolverebbero[36].

 

Le lotte identitarie avviano, quindi, processi di frazionamento sociale potenzialmente illimitati, esposti nel discorso pubblico dalla sfera materiale a quella simbolica. Questo processo di frazionamento è visibile già all’interno del ‘femminismo della seconda ondata’, che iniziò subito a frazionarsi secondo ulteriori faglie rivendicative, per cui abbiamo le femministe di colore, quelle privilegiate bianche, quelle separatiste, quelle che spingono per la fluidificazione dei generi e così via. Ma, come appena detto, la cosa più rilevante è che queste dinamiche rendono impossibile impostare una lotta sociale comune per obiettivi strutturali, nel momento in cui moltiplicano le lotte individuali per obiettivi simbolici. In altre parole, ogni tentativo di unire le forze per definire politiche per una società o per una comunità, o una nazione, migliore sono sistematicamente ostacolate da una politica delle identità che si mostra essere in effetti una politica della progressiva disintegrazione di ogni identità[37].

 

Politicamente corretto

Il ‘politicamente corretto’ è un’operazione di organizzazione dei discorsi interna all’élite. Specificatamente è un’operazione di organizzazione egemonica interna per regolare le liti intellettuali. Il suo impatto sociale non è proporzionale dal numero delle persone coinvolte. Dal punto di vista popolare le gesticolazioni e le censure del politicamente corretto sono infatti di interesse assolutamente minoritario, restano quasi non viste, tuttavia, le minoranze coinvolte in queste pratiche sono collocate nei punti strategici della creazione dell’opinione pubblica, cioè nei giornali, nelle scuole, nell’università e si tratta quindi di minoranze il cui impatto tende a essere significativo. Il senso profondo del ‘politicamente corretto’ consiste nell’escludere dal numero del tollerabile (ovvero di ciò che si può dire e possibilmente di ciò che si può pensare) tutto quello che si presenta come potenzialmente offensivo o lesivo di gruppi presunti vittimizzati. Lo slittamento rilevante qui è che nel momento in cui la percezione soggettiva e il desiderio individuale diventano essi stessi sorgenti potenziali di diritto di normazione morale, come è stato visto, cioè quando si ammette che qualcuno può imporre limiti all’espressione altrui sulla sola base del proprio senso soggettivo di cosa sia offensivo o improprio, allora si apre un processo intrinsecamente privo di moderazione ed illimitato. Ad una parte viene attribuito un privilegio unilaterale che prescinde dal bisogno di confrontarsi con la controparte, i cui diritti vengono compressi, e le richieste di rispetto non hanno bisogno di sollevare altro argomento che non sia il proprio disagio personale, il proprio senso soggettivo di vulnerazione e di insulto di fronte a certe espressioni, oppure a certi temi o certi argomenti. Si tratta di un processo, per così dire, di sacralizzazione della vittima. Operazione assolutamente caratteristica del trionfo della “Ragione liberale”. Il punto di partenza logico è la cornice assiologica liberale, nella quale non esistendo più valori obiettivi l’unico valore sui generis è il sentimento della libertà negativa. Date queste premesse e visto che la libertà negativa non ha propri contenuti, l’unico contenuto positivo su cui si può convergere è, infatti, una doppia negazione. L’avversione verso negazioni della libertà soggettiva. Ogni negazione della libertà soggettiva è violenza. E la violenza si esercita su un oggetto passivo che è quindi la vittima. La vittima è chi ha subito, e quindi proverbialmente è ‘per definizione’ senza colpa. Come sostiene Zhok “nella cornice liberale la tutela delle vittime è perciò l’unica cosa rimasta su cui creare un simulacro di unità etica”[38].

Ma chi sono le vittime? Il punto è che la vittima è una fonte normativa primaria, quindi la creazione di un gruppo vittimizzato è la mossa etica fondante. Una volta che qualcuno è riuscito accreditarsi nella posizione di vittima acquista automaticamente quella autorità morale che nella società moderna è stata sottratta a tutte le altre voci, che quindi, a questo punto e per definizione, esprimono solo opinioni personali. Il ‘politicamente corretto’ è naturalmente un’arma asimmetrica, ed essendo essenzialmente di natura morale esercita un impatto in tutte quelle aree sociali nelle quali il discredito assume un ruolo fondamentale. Dove, cioè, la posizione di potere o di carriera è determinata dal credito presso i propri pari ed al ruolo intellettuale rivestito. Perciò il ‘politicamente corretto’ è per sua natura un’arma debole se è rivolta verso i ceti popolari o ceti subordinati, i quali vivono in un altro mondo, ma è un’arma potentissima se usata nei contesti sociali apicali, in cui la carriera si fa sulla base del consenso tra i pari. Qui violare il conformismo del ‘politicamente corretto’ può costare letteralmente l’intera vita sociale. Il ‘politicamente corretto’ esercita, quindi, la funzione di blocco sacro o tabù in senso tecnico, ovvero di interdizione sacrale.

Tra le altre cose anche l’affermarsi di queste forme di inibizione preventiva a certi discorsi crea uno scollamento tra le forme delle discussioni dell’élite e le forme di discussione popolare, dove simili censure hanno scarsa presa. In un regime democratico questo scollamento ha pesanti ripercussioni e crea fratture insanabili nel dibattito pubblico, inoltre l’articolazione dei gruppi definiti come ‘vittime’, quindi come socialmente in credito, produce una competizione sociale verso rivendicazioni particolari con esiti naturalmente divisivi senza limiti. A questo proposito è molto interessante notare ancora una volta che c’è un solo gruppo che non compare mai, neppure per caso, tra quelli letti come oppressi e bisognosi di tutele speciali e questo gruppo è il ‘proletariato’, in qualunque delle possibili definizioni contemporanee[39]. La frammentazione di ogni società in una miriade di istanze rivendicative particolari, che sono per definizione non universalizzabili è selezionata cioè favorevolmente dal sistema economico, perché crea un agone competitivo frammentato e depotenzia ogni istituzione politica che guardi alla società il suo complesso. Inoltre, colpisce sistematicamente le idee di normalità e naturalità, con tutti i loro corollari, colpisce cioè l’idea di natura umana.

 

Conclusioni

Il senso di questa lunga riflessione non è di condannare, in blocco, l’intero sviluppo storico del liberalismo (operazione in sé antistorica), ma di prendere le distanze dagli esiti che si generano in occidente e in questo secolo. L’emergere della “Ragione liberale”, a partire dagli impulsi determinati dalle nuove forme culturali, dall’espansione dell’economia monetaria e dalle condizioni della rivoluzione scientifica (e dagli altri fattori della “Grande convergenza”) è stata una soluzione adattiva di successo nel nostro occidente. Questo successo non è dipeso da una più organica teorizzazione ma proprio da risposte parziali, qui e lì necessarie per colmare lo spazio tra un sistema resistente e gli impulsi delle nuove classi emergenti. La tesi fondamentale di Zhok è che proprio per questo la “Ragione liberale” ha avuto successo. “l’essere un contenitore culturale vago e piuttosto informe l’ha resa permeabile a variazioni in corso d’opera, a integrazioni pragmatiche e a una certa ‘ecumenicità’ (donde la natura variegata delle istanze che si sono dette ‘liberali’)”[40].

La conseguenza è rilevante:

“In ultima istanza la ragione liberale ha trovato una chiara identità solo nei suoi tratti negativi, in ciò contro cui si schierava (il superamento dell’Ancien Régime), lasciando alla contendibilità futura ulteriori aspetti. E questo carattere che sta alla radice dell’apparente difficoltà odierna di ‘non dirsi liberali’: dopotutto in qualche senso chiunque non sostenga apertamente il ritorno a forme di vita teocratiche, monarchiche oligarchiche a base ereditaria può essere inserito in qualche modo nella grande famiglia liberale”.

 

Le soluzioni di successo che la Ragione liberale ha, via via, escogitato sono la “tolleranza”, la “teoria del bilanciamento dei poteri”, l’affermazione della “virtù della libera iniziativa economica”, lo “Stato di diritto”, il contributo ai moderni stati democratici. Tutte queste soluzioni per Zhok sono consolidate e vanno conservate (se pure in qualche caso temperate e comunque relativizzate).

Tuttavia, al contempo, la Ragione liberale, nel momento in cui ha manifestato quella che definisce una “forza progressiva”, ha anche mostrato dei limiti. Alla metà dell’Ottocento questi limiti sono risultati evidenti e denunciati nel “Manifesto del partito comunista” da Karl Marx con acutezza che tuttavia confermava, al contempo, la sua fascinazione per quelli che gli apparivano come gli elementi ‘progressivi’ dominanti nel lungo processo storico che stava descrivendo. I processi di disgregazione sociale e culturale derivanti, e connessi all’infittirsi delle dinamiche di competizione capitalistica per i nuovi mercati e l’espansione della fase finanziaria, già alla fine dell’Ottocento, però, portarono in luce gli elementi disgreganti decisamente distruttivi connessi con quella che si può chiamare, la “Prima globalizzazione”. Con essa il disorientamento individuale, la rabbia sociale che furono deviate verso esiti sciovinisti nazionalisti fino alla guerra mondiale.

Il vero problema per l’autore è che:

“Il nucleo portante della visione liberale non è frutto di alcuna visione etica, filosofica, religiosa, umana, non è mossa da un progetto, non da una prospettiva di civiltà, non da un quadro morale, non da un’intuizione ideale. In esso si ritrova la necessità di utilizzare ogni visione utile a liberarsi del vecchio mondo, con il peso delle sue tradizioni e dei suoi vincoli, e si ritrova la necessità di gestire un nuovo potere, conferito dalle inedite capacità di manipolazione scientifica e incremento produttivo. Non c’è mai nella ragione liberale alcuna ‘profondità etica’. E anzi per il liberale già parlare di qualcosa come una ‘profondità etica’ appare incongruo e sospetto. C’è l’esigenza per chi si va a liberando dell’ingombro del vecchio mondo di trovare coperture giustificative, soluzioni pratiche che gli consentono di cavalcare con successo le nuove forze sociali ed economiche si sono liberate. È perciò che il trascolorare dell’essenza del liberalismo classico nelle categorie dell’economia neoclassica non presenta alcuna difficoltà: non c’era una visione strutturata dell’uomo, del mondo, del giusto e dello sbagliato da trasporre, ma solo una versione minimalista e pragmatica, traducibile senza resti in una visione che rendeva l’umano un fantoccio senz’anima, la storia un non senso, e la società un’illusione. La forma di vita liberale, implementata dal sistema di relazioni capitalistiche, ha proceduto ad elevare il mezzo all’altezza del fine, lo strumento in posizione di scopo, il potere al posto del valore. Ciò ha condotto una progressiva ‘liquidazione del mondo’, concependo ogni momento dell’esistenza come uno snodo, un transito provvisorio verso la conquista di maggior potere, maggior libertà d’agire, maggior capitale. Le identità sociali sono state frammentate indefinitamente e spoliticizzate. Le identità territoriali sono state trafitte e debilitate dai movimenti di capitali e forza lavoro. Le identità personali sono state impoverite e scosse dalla rottura delle relazioni di riconoscimento, dalla mobilità e flessibilità, dalla precarietà e dall’insicurezza”[41].

 

L’azione collettiva è resa più ardua dalla rottura delle comunanze e dalla frammentazione dei rapporti materiali, dalla identificazione per moto proprio di sempre più ‘identità’ in reciproco conflitto.

Poiché la Ragione liberale, nella sua essenza, è assenza di limite e di senso allora sostanzialmente la natura si trasforma in una sorta di grande deposito di mezzi e strumenti, di cose indifferenti, predisposta al calcolo. L’unica radice di valore resta il singolo individuo, ed essa vale solo per sé. Una sfera residuale di valore che ha la forma di un’apparenza soggettiva insindacabile e può essere espressa solo in atti individuali, quindi nelle scelte di mercato. Ma si tratta di una sfera che non ambisce, e non può farlo, a costruire alcuna realtà condivisa. Il valore viene ridotto a emozione. Questa idea che la società può funzionare con la sola adozione di regole formali, mentre tutto il resto viene lasciato la libera scelta individuale è palesemente insostenibile, falso empiricamente, sostanzialmente disgregante ed anche logicamente incoerente. Perché dovremmo concordare nel rispetto delle stesse regole formali e sulla base di quale motivazione? Perché le regole formali permettono la pace, il benessere economico? Se fosse così sarebbe l’adesione ai valori condivisi, quelli che appunto valorizzano pace e benessere economico come valori chiave ed essenziali, a giustificare l’adozione delle regole. Allora le regole non sarebbero più ciò che dicono di essere (formali), potrebbe essere revocate in favore di regole differenti o di decisioni sostanziali che permettono di restituire in modo migliore quei valori.

Questa forma di isolamento soggettivo caratteristico e coerente con la Ragione liberale si esprime nella sua forma più sistematica attraverso le istanze del “rivendicazionismo”.

 

“Ogni gruppo, sottogruppo, in ultima istanza ogni individuo lotta per essere riconosciuto come vittima di qualcosa di qualcuno, in modo da poter conquistare spazio diritti a scapito di altri individui e gruppi. Un sistema di rivendicazioni oppositivo ha preso il posto del tentativo di creare consenso positivo intorno a qualcosa; al suo posto emerge la ricerca di un consenso negativo come legittima rivalsa. Vengono così a crearsi a getto continuo linee di frattura e risentimento: donne contro uomini, omosessuali contro eterosessuali, bianchi contro neri, islamici contro cristiani, nord contro sud, vegani contro carnivori, giovani contro anziani eccetera. L’epoca che inneggia la diversità fa di questa diversità un campo di battaglia in cui i rapporti tra diversi prendono una forma oscillante tra il contenzioso sindacale la causa giudiziaria”[42].

 

L’altra tendenza emergente è quella che porta ad individuare, come linea di frattura essenziale, quella tra ‘progressismo liberale’ e ‘reazionarismo imperialistico’. Il primo remerebbe in direzione della corrente, procedendo ancora allo smantellamento delle unità sociali residue ed alla liquidazione delle identità più coriacee. Al contrario la linea cosiddetta ‘reazionaria’ sarebbe quella che, rigettando questo movimento, cerca di ripristinare condizioni pre-liberali. Ovviamente questi ultimi, ad esempio espressi da alcune delle affermazioni del presidente Reagan o della Thatcher verso stili di vita più tradizionali o valori patriottici (ma si potrebbe elencare anche Bush junior e Trump) sono sempre stati del tutto illusori. Non si può tornare a forme di vita preesistenti.

 

 

Tuttavia, l’analisi condotta in questo libro chiede di andare oltre le forme di opposizione apparente, in realtà perfettamente in linea con la direzione liberale. È assolutamente indispensabile frenare le tendenze distruttive messe in essere dalla “Ragione liberale”, nel momento in cui si espande senza freni. Bisogna disporre, in altri termini, di un apparato frenante[43]. A questo fine, però, bisogna anche riconoscerla, perché questa, come ogni discorso egemonico largamente dominante, è presente anche nelle forme oppositive (anzi, data la sua natura storica, specialmente in queste).

L’intero discorso di Andrea Zhok, per come lo leggo, è incorporato in questa decisione di lettura, che necessariamente si fa ‘filosofia della storia’. Scriveva Benjamin in “Sul concetto di storia”:

 

“articolare storicamente ciò che è passato non vuol dire conoscerlo ‘come è stato veramente’. Vuol dire impadronirsi di un ricordo per come balena nell’istante di un pericolo”[44].

 

Ed oggi il “pericolo” al quale chiama la riflessione è questo ridursi senza resti di tutto “a strumento della classe dominante” (ancora Benjamin), e quindi bisogna “cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla”. Michael Lowy riporta[45] un passo contenuto nelle note preparatorie, che richiama direttamente la metafora del ‘sistema frenante’ proposta da Zhok: “Marx dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia universale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno di emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno”. Un passaggio non incluso nel testo finale.

Sul piano pratico bisogna quindi ostacolare l’ampliamento costante di tecnologie distruttive, di cose disponibili per gli atti di compravendita, l’estensione della capacità del denaro di esercitare il suo potere e di disporre quindi dell’esistenza di soggetti talmente immiseriti da essere a sua totale disposizione. Occorre adottare sistematicamente correttivi per modulare, arrestare e far regredire le tendenze all’opera. Realizzare un limite.

[1] – Si veda, in particolare Max Weber, “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, del 1904, che inaugura una lunga tradizione (per la verità anticipata dalle intuizioni di Marx) poi ripresa da Benjamin nel frammento “Il capitalismo come religione”, del 1921, e riprende molti elementi da “Il capitalismo moderno”, di Werner Sombart, del 1902.

[2] – I quali già nel 1903 diagnosticano l’insostenibile antropologia liberale, decostruendo la credenza del carattere originario dell’attore sociale, gli effetti perversi derivanti da questa dimenticanza nelle strutture di produzione e riproduzione sociale. Si tratta, del resto, della ripresa di elementi di critica già presenti in Hegel che del processo storico di affermazione del liberalismo trionfante vede solo i prodromi, l’individuo ha natura intersoggettiva nel senso che è sempre il frutto di eventi storici ed è costruito a ridosso “dell’altro” (e quello di questo). Marcel Mauss “Saggio sul dono”, 1903.

[3] – Onofrio Romano, “La Libertà Verticale”, Meltemi, 2020, p.75.

[4] – Che ho cercato di descrivere in Alessandro Visalli, “Dipendenza”, Meltemi 2020.

[5] – Pur se la sensazione di assoluta assenza di vie di uscita che promana dalla lettura del libro risente dell’implicita mancata presa di consapevolezza degli spazi di espansione monetaria aperti dal delinking del dollaro con l’oro del 1971. Cfr. James O’Connor, “La crisi fiscale dello Stato”, Einaudi, 1973. Lettura parziale qui.

[6] – Christopher Lasch, “La ribellione delle élite”, 1995

[7] – Castoridias, Lasch, “La cultura dell’egoismo”, 1986.

[8] – Ronald Inglehart, “La società postmoderna”, 1996

[9] – Antony Giddens, “Identità e società moderna”, 1991

[10] – Una delle fonti principali della sistemazione habermasiana. Che riprende il particolare “automatismo” nella emergenza dell’ordine sociale in grado di spiegarlo senza deliberazione e scelta politica.

[11] – Naturalmente si deve intendere sui termini, è vero che ci sono differenze rilevanti tra il neo-liberismo e l’ordoliberismo. Le formule che scaturiscono in diversi ambienti culturali ed orientamenti politici dalla crisi del liberismo originario, nei primi anni del novecento, e fanno parte di una vasta ricerca di un “nuovo liberalismo” -Keynes- o di un “neoliberismo”. Ma mentre il primo si propone di limitare il mercato attraverso un’azione statale compensativa, che salvi di questo l’essenziale, ovvero la libertà di azione degli individui; il secondo, al contrario, intende usare una gabbia normativa sostenuta dalla forza dello stato per purificare il mercato e far affermare in esso la forma pura della concorrenza. La mossa eleva la concorrenza a principio centrale della vita sia sociale sia individuale, ma lo fa riconoscendo che l’ordine di mercato non è affatto un ordine di natura: è il prodotto di una costruzione politica intrinsecamente storica. Questo movimento che porta alla messa a punto della proposta neoliberale parte per gli autori dal “Convegno Lippman”, dal 26 al 30 agosto 1938, che precede di qualche anno la fondazione della Società Mont Pelerin (1947). Sono invitati Hayek, von Mises, Rueff, Aron, Ropke, Von Rustow, Rougier. Nel discorso inaugurale Rougier ricorda che il liberalismo non si identifica affatto con il laissez-faire, ma è un ordine legale che richiede l’intervento dello stato. Malgrado l’opposizione di Von Mises (che sarà in minoranza anche nella successiva Società Mont Pelerin), la linea centrale condivide questa impostazione, in favore di un “interventismo liberale”. Lo scontro si determina tra ortodossi (Von Mises e Hayek, Robbins e Rueff) e i riformatori (Ropke e von Rustow, che insistono sul fondamento sociale del mercato, ma anche Lippman e Rougier) per i quali ‘essere liberali significa essere progressisti’ adeguando continuamente l’ordine sociale e legale alle scoperte, ai cambiamenti strutturali, senza pianificare interamente il traffico, ma creando un “codice della strada”. Insomma, come scrive Lippman, “gli ‘ultimi liberali’ non hanno capito che ‘ben lungo dall’essere astensionista, l’economia liberista presuppone un ordine giuridico attivo e progressista, teso al continuo adattamento dell’uomo a condizioni sempre mutevoli. Serve un ‘interventismo liberista’, un ‘liberalismo costruttivo’ ed un dirigismo statale che certo si deve differenziare sostanzialmente rispetto alla pianificazione ed al collettivismo” (Dardot e Laval “Il nuovo spirito del mondo”, p.182). Un dirigismo “che implica la protezione della libertà, non il suo asservimento; deve garantire che la conquista di benefici sia il frutto di una vittoria dei più adatti all’interno di una competizione leale, e non il privilegio dei più garantiti o di coloro meglio collocati socialmente”. Questo liberismo rinnovato è, insomma, il regno della legge, e contemporaneamente il governo delle élite, uno stato forte organizzato da competenti la cui qualità sia l’esatto opposto della “mentalità magica e impaziente delle masse” (ivi. p.196). Ne deriva, ovviamente, che la democrazia è affetta da una debolezza congenita determinata dalla eccessiva influenza dei popoli sul governo, attraverso l’opinione pubblica ed il suffragio universale. L’eterno bersaglio del neoliberalismo, per la stretta logica interna che lo contraddistingue, è dunque il potere del popolo, che va limitato e ricondotto alla guida degli esperti. Ma nel neoliberalismo, e sin dai suoi esordi, è presente anche un’altra corrente, non perfettamente coincidente: l’ordoliberalismo tedesco. L’ordine è concepito come dovere politico, nato come movimento conservatore nei circoli antinazisti, prevede “una teoria della trasformazione sociale che fa appello alla responsabilità degli uomini” ed il cui problema fondamentale è come riformare l’ordine sociale dopo lo stato totalitario. Certo l’ordine liberale muove dalla creazione di uno stato di diritto che è all’origine stessa della forma capitalista, l’economico non è per loro un insieme di processi naturali ai quali in qualche modo si aggiunge la regolazione ed il diritto, in accordo o in ritardo. L’ordoliberalismo respinge dunque ogni forma di riduzione del giuridico a sovrastruttura, e ogni concezione unitaria del ‘capitalismo’ fondata su una autonomia dell’economico. Ne sono espressione autori importanti come Ropke, che in “Civitas umana” rifiuta frontalmente il laissez-faire e identifica l’economia di mercato “vitale”, come un’opera d’arte, un prodotto della civiltà particolarmente difficile e che presuppone molto. L’ordoliberalismo è, a sua volta, diviso in due gruppi principali: gli economisti e giuristi della Scuola di Friburgo, come Euckel e Bohm, i sociologi Alfred Muller-Armack, Wilhelm Ropke e Alexander von Rustow. La distinzione è tra la struttura giuridica e quella sociale come focus, i primi sono concentrati sulla crescita economica, dalla quale deriverebbero i progressi sociali, mentre i secondi sono preoccupati degli effetti di disintegrazione sociale propri dei meccanismi di mercato e allo Stato affidano anche il compito di garantire e strutturare un soziale umwelt, un ‘ambiente sociale’, che reintegri gli individui nella società. Alla wirtschaftspolitik, ‘politica economica’, si contrappone la gesellschaftspolitick, ‘politica della società’.

[12] – Un indebolimento che non produce ancora il rovesciamento che si determinò almeno altre tre volte (la prima al termine della crisi mondiale del 1875-90, quando si affermano le prime forme difensive di welfarismo conservatore al contempo della espansione e trasformazione in chiave imperialista del sistema militare/industriale/finanziario denunciato da Hobson, Hilferding e Lenin; la seconda quando il collasso delle due guerre induce ad una nuovo governo del capitalismo, sotto la ferma diarchia dei vincitori – Usa e Urss -; la terza quando il lungo ciclo avviato dalla crisi del ’29 giunge ad una svolta sistemica e si rovescia nuovamente nella soluzione neoliberale), per la persistenza delle strutture ideologiche di fondo – che il testo in oggetto cerca di disvelare e decostruire – sfidate dalla revoca delle loro strutture e condizioni di esistenza. In altre parole, una visione materialista temperata (non dogmatica, né determinista) consente di vedere che la parabola ideologica descritta poggia su una “buona novella” legittimante e su condizioni materiali che non la contraddicano almeno per i più: quella che si sia almeno su un percorso ascendente di ricchezza e benessere. Senza benessere l’intera narrazione liberale viene meno. La revoca, provocata specificamente dal successo del liberalismo nel consentire ai forti di vincere (di essere “liberi”), delle condizioni materiali di benessere per la grande maggioranza rende contraddittorio l’intero paradigma. Si tratta di una ideologia, in altre parole, che si regge necessariamente sulla promessa della “società dei due terzi” (in cui due terzi siano almeno classe media possidente). Ma questa è tramontata in occidente, in particolare dopo la violenta ristrutturazione seguita al 2008 e accelerata dal Covid. Si può vedere anche per contrasto. Oggi una ideologia sconnessa dalle sue basi materiali viene “iperestesa” come reazione. È il canto del cigno.

[13] – Per leggere un recente testo che, da parte decisamente delle élite mondiali, o presunte tali, parte dalla insostenibilità di sistema (ma propone una soluzione “recuperante”), si veda Klaus Schawb e Thierry Malleret, “Covid 19: The Great Reset”, 2021. Un altro autore specializzato in questa sottoletteratura è Richard Florida, il quale nel 2011 ha pubblicato un libro dal medesimo titolo “The Great Reset”, Harper. O Richard Baldwin, specializzatosi nel descrivere ad ampio raggio i processi di innovazione tecnologica ed i suoi effetti sul mutamento sociale e politico (e geopolitico), si tratta ti libri come “La grande convergenza”, quando nel 2016 ipotizzava una terza ondata della mondializzazione (ne abbiamo parlato in questo post), o, il più recente “Rivoluzione globotica”, di tre anni dopo. In un ambito per certi versi più ristretti, focalizzato sul mutamento tecnologico, si può leggere Brynjolfsson e McAfee (“La macchina e la folla”, 2017) Tyler Cowen (“La media non conta più”, 2015) o Jerry Kaplan (“Le persone non servono”, 2016).

[14] – Formula che allude alla differente possibilità di accesso ai diritti sociali che si manifesta e produce quando un processo di formazione della rendita (o meglio, della sua appropriazione) non ordinato al bene pubblico determina crescenti differenziali di complessità sociale, di qualità, efficienza ed interconnessione. Cfr. Bernardo secchi, “La città dei ricchi e la città dei poveri”, Laterza, 2014; David Harvey, “L’esperienza urbana”, Il Saggiatore, 1989; David Harvey, “Geografia del dominio”, Ombre Corte 2001.

[15] – Per molte ragioni che qui non si possono ripercorrere, ma è un processo già in corso almeno da un decennio e che la crisi del Covid-19 ha potentemente accelerato. Tutte le linee di connessione si stanno in questo momento, sotto i nostri occhi, riarticolando.

[16] – Una rivolta della società alla costrizione dell’economico per effetto del rovesciamento della disgregazione del sociale e la crisi di legittimazione di poteri non più in grado di contrastarlo.

[17] –  La forma politica del “momento Polanyi”, che vive della caduta di legittimazione, ma necessita di un’espressione specifica per addensarsi, dunque ne dipende. L’espressione politica entra in crisi per effetto delle sue contraddizioni interne e l’incapacità manifesta a produrre una risposta e soluzione plausibile e operabile.

[18] – Il veleno è la disgregazione sociale, individualismo ‘post-materialista’, dominio dei nuovi media disintermedianti, discredito delle élite, snellezza, leaderismo.

[19] – Il problema specifico che era davanti alla Commissione ed al Congresso Continentale nel 1776, con la guerra coloniale già in corso, era di trovare un principio di legittimazione che giustificasse la secessione. Chiaramente si tratta di un processo molto complesso e convulso, la più famosa Dichiarazione di Indipendenza “continentale” fu nello stesso anno preceduta dalla Dichiarazione dei Diritti della Virginia, promossa da George Mason, e adottata dalla Quinta Convenzione della Virginia riunita a Williamsburg. La formulazione di maggio è dunque: “tutti gli uomini sono per natura ugualmente liberi e indipendenti, e hanno alcuni diritti intrinseci di cui … non possono privare o spogliare la loro posterità; vale a dire, il godimento della vita e della libertà, con i mezzi per acquisire e possedere proprietà, e perseguire e ottenere la felicità e la sicurezza”, poi tradotta nella Dichiarazione in “Riteniamo che queste verità siano evidenti, che tutti gli uomini sono creati eguali e sono dotati dal loro Creatore di certi diritti inalienabili, che tra questi sono la Vita, la Libertà, la ricerca della Felicità”.

[20] – Zhok, p. 261

[21] – Zhok, p. 272

[22] – Zhok, p. 273

[23] – Si veda, sul tema del femminismo “della seconda onda”, e sulla sua corrente principale il post “Pochi appunti sul femminismo della differenza”. Sul piano storico e della provenienza delle idee il ‘femminismo della differenza’ (che, certo, è altamente differenziato al suo interno e si può solo qui riportare idealtipicamente), muovendo dal contesto della ‘controcultura’ degli anni sessanta e dalle università americane, è fondato sulla pretesa di individuare un dimorfismo ontologico su base naturalistica per evidenza più fondamentale, o radicale, delle divisioni di classe all’epoca oggetto della critica radicale. Il contesto culturale degli studi linguistici e strutturalisti (e, poco dopo, della penetrazione del post-strutturalismo), favorisce quindi una critica con toni estetici radicali che identifica l’esteriorità del conflitto “tra i sessi” come prioritario sul conflitto “di classe”. È uno spostamento decisivo di bersaglio: invece del capitalismo viene scelto, nel contesto giova ricordarlo del welfare compiuto e di una società affluente, come bersaglio il livello più ‘profondo’ della differenza sessuale. In alcune versioni si scivola verso la costruzione di una femminilità idealizzata, materna, e quindi per definizione non violenta, armonica, naturale. In questa teologia e cristologia trasposta il maschile prende il posto del diavolo. E quindi si veste del simmetrico male, anche esso naturale e quindi ineliminabile: violento sin nelle sue manifestazioni più essenziali, gerarchico, entropico. La costruzione concettuale del “patriarcato”, e la denuncia del “fallologocentrismo” come elemento essenziale ed ineliminabile di ogni cultura umana conosciuta (in particolare scritta) e di ogni forma di organizzazione sociale, induce la duplice mossa del ‘separatismo’ (seguendo il mito della ‘sorellanza’) e della ritirata dal pubblico-politico (in favore di un privato-politico che inconsapevolmente copiaincolla la classica divisione storica premoderna dei ruoli). Tutto questo avviene, giova ricordarlo, in un clima di scoraggiamento e riflusso seguito alla perdita di spinta egemonica, e poi al crollo, del ‘mondo nuovo’ socialista. Emerge quindi la lotta sull’ordine simbolico (Muraro) che rinuncia alla critica diretta dei rapporti sociali, immaginando che la liberazione di tutti emerga come effetto spontaneo dall’azione individuale per l’affermazione femminile (un’idea straordinariamente simile a quella della ‘mano invisibile’).

[24] – Questa ricostruzione storica è sostenuta nel libro sulla scorta di un libro di B. Chapais, “Primeval Kinship”, Cambridge 2008, e sulla base di “The Cambridge Encyclopedia of Hunters and Gatherers”, 1999, come anche di Marlowe “Hunting and Gathering. The human sexual division of foraging labor”, 2007, e un articolo di Dyle ed altri, “Sex equality can explain the unique social structure of hunter-gautherer bands”, “Science, 2015. Zhok, p.284.

[25] – La narrazione femminista, invece, proietta uniformemente l’esperienza media degli ultimi due secoli, interpretati solo in parte retrospettivamente (ma anche da una qualificata minoranza dei e delle contemporanee) come ‘oppressione’ a base sessuale, sull’intera storia dell’umanità nota e su tutti e cinque i continenti.

[26] – Emmanuel Todd, “Breve storia dell’umanità”, LEG 2020 (ed.or. 2017).

[27] – Todd, op.cit., p. 135

[28] – Sahra Pomeroy, “Families in Classical and Hellenistic Greece”, Oxford, 1997.

[29] – Partendo dalla forma familiare più semplice, che tuttavia permane come modello base nel mondo di lingua inglese, “nucleare pura” (coppia con figli che si allontanano e restano liberi di sperimentare, e senza vincoli di ripartizione ereditaria – non egualitaria -), si passa alla forma “stipite” (o “ceppo”), nel quale il figlio primogenito maschio eredita tutto e le giovani coppie coabitano con la famiglia del padre (patrilocalità). In questo modello le figlie sono trattate esattamente come i figli “cadetti” (si tratta del modello dominante tradizionale in Germania, Giappone, Corea, e Svezia). Quindi la forma “Comunitaria esogamica” nella quale i fratelli sono equivalenti, ma prevalgono sulle sorelle (modello Cinese e Russo). Poi ci sarebbe la famiglia “comunitaria endogamica” simile al precedente, ma con preferenza per matrimoni tra cugini (entro l’albero parentale), fino al 50% in Pakistan (è il modello arabo, con una patriliearità molto pronunciata).

[30] – Kate Millett, “La politica del sesso”, Rizzoli, ed.or. 1970

[31] – Per fare un breve promemoria, mentre negli anni che ancora risentono del grande shock della depressione degli anni trenta la questione politica essenziale era stabilizzare l’occupazione e metterla su una traiettoria crescente che coinvolgesse salari, stili di vita e capacità produttive, dalla metà degli anni settanta il clima muta radicalmente. La crisi fiscale del New Deal, in incubazione per tutti gli anni sessanta e tenuta sotto controllo dei paesi guida attraverso una continua rincorsa tra stimoli (di cui la corsa allo spazio e, soprattutto, la guerra fredda sono espressione) e deficit (nel senso di squilibri tra sistemi economici), e l’emersione dell’area dei “petrodollari”, e più in generale della ‘finanza ombra’, crea le condizioni per una inversione. Nel contesto della crescente paura per gli effetti distributivi dell’inflazione e di una stanchezza per i sistemi fortemente regolati, le classi medie occidentali si rivolgono verso un diverso schema legittimante: la questione politica diventa la libertà di scambio e di impresa. Questa nozione si ritrova, in numerose versioni, a tutte le scale. Anche l’individuo complessivamente estraneo all’accumulazione, e non dotato di capitale finanziario, ricerca ora principalmente la libertà di determinarsi e di intraprendere secondo il suo desiderio. Lo spostamento sull’enfasi per il cosiddetto “capitale culturale” ne è sia un effetto (perché questo fenomeno avviene nel contesto della maggiore istruzione provocata dall’espansione, in corso da un quindicennio e quindi giunta a maturazione, della istruzione di massa) sia una causa. In questo contesto la formazione del femminismo della ‘seconda ondata’, con la sua enfasi culturalista e l’attenzione per la liberazione individuale, ha una chiara riconoscibilità fisiognomica.

[32] – Jessa Crispin, “Perché non sono femminista. Un manifesto femminista”, SUR, 2018 (ed. or. 2017).

[33] – Crispin, op.cit., p.35

[34] – Judit Butler, “Questioni di genere”, Laterza, 2013 (ed.or. 1990); “Fare e disfare il genere”, Mimesis, 2104 /ed.or. 2004); “Parole che provocano. Per una politica del performativo”, Raffaello Cortina, 2010 (ed. or. 1997).

[35] – Mark Fischer, “Realismo capitalista”, Nero 2018 (ed. or. 2009).

[36] – Questo è un altro modo di porre la questione del populismo.

[37] – Zhok, p. 311

[38] – Zhok, p. 315

[39] – Il concetto di “proletariato” merita un appunto. Si tratta di un evidente costrutto politico e dal tempo della formulazione alla metà del secolo XIX deve essere ripensato in funzione della diversa organizzazione sociale. Per comprenderne il senso va traguardato insieme al concetto gramsciano di “blocco storico” e secondo il progetto di contendere l’egemonia nel sociale e nel politico. Il nucleo del potenziale “blocco storico” in grado di contendere l’egemonia nella sfera pubblica prima, nella società e nell’arena dello Stato poi, al quale bisogna riferirsi non può che essere il variegato e frammentato mondo delle classi lavoratrici, le più sacrificate dalla forma attuale del modo di produzione capitalista. Il concetto di “classe” che si adopera in questo contesto è quindi di natura espressamente funzionale. Non ha a che fare con la dotazione di risorse individualmente possedute, o l’accesso ai consumi, più o meno distintivi (ovvero dal “ceto”), quanto alla posizione della propria autoriproduzione rispetto al capitale. Non necessariamente, anche se principalmente, la posizione che determina l’appartenenza di classe, si cattura nell’esistenza o meno di “lavoro salariato”. Né, tanto meno, nella figura dell’operaio (ovvero del lavoratore addetto alla produzione di beni industriali).

Il punto è che la forma, storicamente determinata, del nesso tra ‘lavoro vivo’ e ‘lavoro morto’, ovvero tra attività lavorative subordinate a mezzi e oggetti del lavoro stesso, attraversa tutte le molteplici modalità della sua definizione. Riceve un salario come contropartita della sua relazione funzionale con “lavoro morto” (ovvero mezzi produttivi e forme totali della produzione dalle quali viene oggettivato) anche chi apparentemente lavora con partita Iva, è connesso ad una piattaforma, impegnato nelle varie forme di cottimo, anche iperspecializzate (anzi, soprattutto, se iperspecializzate). E la relazione funzionale implica sempre che il capitale (che si incarna nell’insieme dei mezzi produttivi e del nesso generale che li rende tali) si valorizzi. Questa relazione implica sempre dipendenza.

Fanno parte della “classe” lavoratrice, dunque, tutti coloro che si trovano connessi nella forma della remunerazione dietro prestazione a sistemi produttivi ad essi esterni e nei quali sono sussunti (e trasformati in oggetti). Ne fanno parte anche se le modalità cooperative che contraddistinguono il loro lavoro sono mediate da sistemi a maglia larga, invisibili, altamente tecnologici (è il caso delle cosiddette “piattaforme”, ma anche di tante modalità più o meno glamour di lavoro a cottimo o frammentato). Se la segmentazione dell’opera, anche nella iperspecializzazione apparentemente liberante o autonoma, rende impossibile controllare il proprio “valore” (o di “fare il proprio prezzo”). Se, infine, il senso complessivo dell’opera si perde.

Non ne fanno parte non tanto i “ceti medi” (dato che, come detto, non è questione di “ceto”), quanto coloro i quali traggono la propria autoriproduzione dal controllo di segmenti di capitale e quindi, nel nesso essenziale capitale/lavoro che costituisce la forma sociale del modo di produzione capitalistico, dipendono per la propria esistenza come soggetti economici dalla permanenza di tale nesso. Ciò anche se la frazione di capitale è piccola, periferica, subalterna (ad altre).

[40] – Zhok, p.341

[41] – Zhok, p.345

[42] – Zhok, p.352

[43] – Questa metafora riverbera le tesi “Sul concetto di storia” che Walter Benjamin compilò dalle parti del 1940. Qui è l’idea della rivoluzione come “freno di emergenza” di un mondo che, altrimenti, trascinato dall’angelo della storia andrebbe verso la distruzione. In questa idea è presente una complessa costituzione, elementi romantici, ovviamente, e anarchici, anche, ma soprattutto una forma anomala ed originalissima della tradizione ebraica (cui è, peraltro, legato anche Marx). Idea già presente in “Strada a senso unico”, del 1923-35, quando, dopo aver letto “Storia e coscienza di classe” di Lukacs, il critico tedesco si avvicina al marxismo. Nel capitolo “Segnalatore d’incendio”, scrive “se la liquidazione della borghesia non si sarà compiuta a un punto quasi esattamente calcolabile dello sviluppo economico e tecnico (lo segnalano inflazione e guerra chimica) tutto sarà perduto. Prima che la scintilla raggiunga la dinamite, la miccia accesa va tagliata”. La rivoluzione non è né il risultato inevitabile, e naturale, del progresso economico e tecnico, né la sua accelerazione e prosecuzione. Proprio il contrario, essa è la sua interruzione prima del disastro.

[44] – Walter Benjamin, “Sul concetto di storia”, 6, in Senza scopo finale. Scritti politici (1919-1940), Castelvecchi 2017 (p.242). Anche in “Angelus novus”, Einaudi, 1962, p. 77.

[45] – Michael Lowy, “La rivoluzione come freno d’emergenza”, Ombre corte, 2020 (ed. or. 2019), p. 47.

Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, II_di Alessandro Visalli

“Critica della Critica – il postmodernismo”

Questa è la seconda puntata di tre della lettura del libro di Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, uscito per l’editore Meltemi nel 2020.

  • Nella prima parte è stato trattato il processo di costruzione delle invarianti della ragione liberale e dei suoi caratteri tipici per come emergono dal testo in esame,
  •     In questa seconda parte proveremo a ricostruire la lettura che il libro compie dei “Regimi di ragione” che scaturiscono dalla struttura liberale e neoliberale di pensiero e pratica, quindi della ragione postmodernista,
  • Nella terza parte, i “Regimi di verità” della ragione liberale verranno mostrati nelle loro applicazioni politiche, ovvero nella particolare forma di politico impolitico che è generato dalla ferrea logica liberale (tanto più forte quando non si vede e ci si pensa avversari).

 

 

Venendo alle tendenze ideologiche che strutturano dall’interno il fenomeno neoliberale e cioè a quelle che Zhok chiama i “Regimi” della ragione liberale, ovvero i “Regimi di libertà” o “Regimi di ragione”, si può provare a dire in questo modo: si tratta di un sistema di motivazione o di giustificazioni, ma capaci di dare forma a pratiche sociali reali. Non si tratta meramente di sovrastrutture. Il liberalismo è, in altre parole, profondamente interconnesso con la linea di sviluppo emersa nel lungo periodo anche nel mutare delle condizioni economiche e di quelli che il marxismo chiama “modi di produzione” (‘schiavista’, ‘feudale’, ‘mercatista’, ‘capitalista’). Il testo dice, confermando la propria ambizione, che “affonda le proprie radici in tendenze storiche di lungo periodo”. Frase di enorme portata, a ben vedere, perché nella sua potente metafora naturalista (“radici” e “tendenze”, che rinviano nella loro associazione all’immagine di un seme dal quale scaturisce un albero) sembra confermare un destino. Inoltre, un destino dell’occidente (in quanto, come abbiamo visto, la ‘radice’ più profonda è posta nel linguaggio scritto). Anzi, nella struttura più intima di questo, la forma di scrittura alfabetica come “base di consolidamento dei tratti individuali nei soggetti umani”. La ‘nascita dell’individualismo’ sarebbe dunque una “specificità inizialmente europea” come scrive, e, da questa, scaturirebbe la forma della logica che determina il sorgere di alcune specifiche tradizioni letterarie come la filosofia, la storia, il diritto[1]. Delimiterei questa affermazione, che suona troppo larga, negli scopi del testo e dentro la decisione che lo apre e situa: individuare la linea evolutiva della nostra forma, per come si è materialmente data (ovvero quella che porta al liberalesimo). Bisogna intendersi, l’operazione è di enorme difficoltà, da una parte notare con che cosa si sia fatti è, a rigore, un’operazione impossibile. Siamo sempre dentro la nostra lingua, senza la quale non possiamo pensare, e siamo nell’abitare dei suoi concetti chiave, come, appunto “libertà”, “essere”, “trascendenza”, “immanenza”, “dio”, etc.  (ma possiamo parlarne, e aumentarne la comprensione). Dall’altra, l’idea guida secondo la quale ‘la chiave della fisiologia della scimmia è nell’uomo’, che pare implicata qui, presupporrebbe ciò che vuole dimostrare. Si appoggerebbe, cioè, su una sorta di ‘filosofia della storia’ determinista. Sarebbe, con ciò, pacificamente dimostrato che l’individualismo, che esita nella società moderna per effetto delle componenti che Zhok correttamente mette in mostra, sia presente già nella ‘scimmia’ e da questa si sia sviluppato secondo la sua potenza. Anzi, che capiamo la ‘scimmia’ poiché sappiamo come è fatto ‘l’uomo’. Propongo un’alternativa: ‘l’uomo’ è quel che è rimasto e risultato dalle ‘scimmie’ sopravvissute. Non è tanto la fisiologia della ‘scimmia’ che individuiamo, guardando ‘all’uomo’, quanto i tratti di questa che hanno vinto la lotta della vita. E l’hanno vinta magari per caso, per circostanze fortunate, per la fortuna di un giorno. E’ chiaro che l’alfabetizzazione produce un evidente vantaggio cognitivo, come scrive[2], ma che da ciò derivi la nascita ‘dell’uomo’ (ovvero, della autonomia mentale e della libertà individuale come valore centrale), pur essendo collateralmente relazionato al vantaggio citato, deriva dall’inibizione delle alternative che in altri luoghi hanno prevalso. Non è solo nella linea genealogica Grecia-Roma-Rinascimento-Europa moderna che il ceppo indoeuropeo del linguaggio si è propagato.

Prendiamo l’impresa tecnico-scientifica. Nel libro di Andrea è presente una sintetica[3] caratterizzazione della logica scientifica come componente essenziale della “grande convergenza”. In essa la ‘tecnoscienza’ è interpretata come la mira ad una forma di dominio causale (e quindi tecnico) sui processi naturali. Desiderio che si afferma a partire dal XVI secolo e induce una sempre più pronunciata svolta quantitativa ed un vasto processo di ‘razionalizzazione’. Facendo uso della lettura epocale di Koyré e di un testo recente collettaneo[4], individua nell’analiticità, nella manipolazione causale, la matematizzazione, l’obiettivismo (presenti già in Galileo), che nel loro insieme invertono la visione del mondo, lo snodo decisivo di questa svolta. Di qui si può assumere, nel mentre procede un colossale processo storico di secolarizzazione, e quindi di trasferimento della funzione socio-integrativa e di potere della religione, che la “natura” sia dotata di “leggi” le quali non sono presenti ai sensi, ma necessitano di un linguaggio (matematico) per essere comprese. Questa mossa attiva un trasferimento di autorità del quale la ragione liberale è perfetta espressione. Ma il sorgere, o meglio l’affermarsi, proprio in quel secolo e torno di paesi, dell’impresa scientifica è interconnesso strettamente con l’affermazione di una interconnessione tra produzione, scambi commerciali in estensione e correlato sviluppo finanziario che vede il dinamismo di nuovi ceti e lo spostamento progressivo del centro dinamizzante del nascente capitalismo internazionale dal Mediterraneo al Nord Europa. Non è per caso che il primo sviluppo della tecnoscienza sia intensamente presente in Italia, mentre un paio di generazioni dopo si sposti in Inghilterra e Paesi Bassi[5]. Anche qui la ‘scimmia’ che vince fa ‘l’uomo’.

Quel che conta è, alla fine, che di ciò stiamo parlando. Non del fatto che l’individuo altri non lo possano pensare, che non sia possibile storia, filosofia, letteratura, etc… Ma, qui, in questo testo, ci chiediamo noi come lo pensiamo. Tanto basta.

La ragione liberale è dunque connessa in primo luogo a forme di obiettivismo naturalistico, le quali sono da valutare insieme all’ascesa della tecnica e dei processi di ipostasi del mezzo. Nella riflessione filosofica del 900, ad esempio, ha rivestito un ruolo importante questa interpretazione dello sviluppo storico nel quale trova un punto centrale la questione della tecnica o della tecnologia. Interpretata come una sorta di ‘fattore destinale’, una sorta di fatto storico che definisce le forme di sviluppo ancorandole alla ‘volontà di potenza’ della specie umana. Questa interpretazione di grande successo si ritrova da una parte nella “Dialettica dell’illuminismo” di Adorno e Horkheimer, ma soprattutto è rintracciabile nel lavoro di Martin Heidegger e degli autori ispirati a lui, come Herbert Marcuse, Gunter Anders ed Emanuele Severino. Naturalmente l’elenco si può allungare a dismisura, questo è quello proposto a titolo di esempio nel testo. Questa interpretazione di grande successo non viene costruita per caso. Correttamente Zhok ricorda che se si assume questa prospettiva il capitalismo e tutti i suoi processi degenerativi, di tipo sociale e culturale, diventano solo un ‘effetto collaterale’, tutto sommato marginale, di un processo più profondo e molto più lungo nel tempo e lo spazio di progressiva dominazione tecnologica. Questo processo, che ad essere completamente esteso parte con le prime schegge e lance neolitiche e dunque avvolge la specie come tale, sarebbe ricostruito con straordinario abuso di proiezione come assoggettamento della volontà di dominio da parte del soggetto. Con questa ermeneutica novecentesca ‘la tecnica’ viene posta al centro della vicenda storica. Ne consegue quello che era probabilmente uno degli obiettivi politici sin dall’avvio (questi pensieri, all’origine sedimentati nei circoli della ‘rivoluzione conservatrice’ tedeschi[6], neutralizzano frontalmente la prospettiva marxiana). L’economia, per essa l’economia politica, e la società stessa sono poste in posizioni dipendenti da accessorie. Quest’interpretazione conduce per sua necessaria dinamica a spiacevoli implicazioni fataliste che, dal punto di vista sostenuto in questo libro, hanno anche seri limiti di analisi. La tecnica sembra, infatti, l’incarnazione principale di un impulso umano dominante, nominato come “volontà di potenza”, rispetto al quale ogni valore ogni preferenza e inclinazione devono necessariamente venire meno. L’unico motore dell’uomo è quindi la volontà di potenza, ovvero l’acquisizione di una capacità di fare non subordinata a nessun fine che non sia ad essa immanente, da perseguire e non vincolata dall’esterno. Se si segue questa interpretazione la pulsione all’acquisizione del dominio sarebbe propria dell’uomo (dove in alcune versioni femministe ‘uomo’ significa ‘esemplare maschio della specie’), e si incarnerebbe necessariamente nel sistema della tecnoscienza moderna. Ovvero nella grande macchina la quale, a sua volta, farebbe scaturire come prodotto necessario le forme dell’economia capitalistica.

Ma questa lettura è ben lontana da essere ovvia e necessaria. In essa si assumono sin dall’origine le forme dell’uomo hobbesiano: aggressivo, assoggettante, acquisitivo. Una forma di uomo che non è certo sovrastorica.

Se non per il dominio egemonico del pensiero liberale, nel senso situato ed al contempo esteso difeso in questo libro, non si capirebbe per quale motivo tra le diverse ragioni, le diverse pulsioni, i diversi desideri e tra le forme di vincolo ed ordinamento presenti nell’uomo, tra tutte le spinte di tipo gregario affettivo riproduttivo e religioso, proprio la volontà di potenza debba assumere un profilo così dominante e assolutizzante. Solo perché lo ha ora?

In effetti questa visione, che corrisponde alla trasformazione del mondo in una collezione di mezzi neutrali e presenta il mondo stesso come una sommatoria di cose, è strettamente connessa al dominio della scienza, e questa al sistema sociale dominante. La scienza mira ad isolare un sistema di relazioni causali determinate e quantitative, selezionate per poter essere calcolate, stagliate sullo sfondo di un mondo dove vigono leggi inderogabili. Questa visione naturalistica e la traduzione ontologica di questo approccio metodologico cosiddetto scientifico è, naturalmente, di grande efficacia. Ma questa visione è anche insostenibile sul piano fenomenologico. Pone una gerarchia vera e propria di autorevolezza, al cui vertice mette ciò che è prodotto secondo i criteri di accreditamento propri delle scienze della natura, e via via più in basso tutte le altre forme di sapere.

Si tratta, in effetti, di non altro che un’altra espressione della “Ragione liberale”, e secondo la tesi di Zhok insieme a tutto il postmodernismo filosofico che, per certi versi, gli si oppone. La stretta associazione tra liberalismo, ovvero capitalismo, e la tecnoscienza è un’opinione condivisa dalla prospettiva cosiddetta postmoderna in filosofia, ma essa stessa è fondata ideologicamente già a partire da Hobbes per poter escludere la contendibilità razionale di valori. Per derazionalizzare sin dall’inizio la dimensione del senso e del valore, riducendole questa volta a mero sentire e ponendolo nell’ambito dell’interiorità privata. Da questo punto in poi nasceranno le opposizioni tra “ragione” e “sentimento” nel quale la ragione viene isolata dalla sensibilità e dall’emozione dalla preferenza e dal valore e si riduce a una forma di calcolo. Simmetricamente la dimensione assiologica residua è ridotta a qualcosa di razionale e spesso in questa mossa riposa un particolare stile orgogliosamente irrazionale.

L’intera linea oppositiva è però funzionale all’edificio della Ragione liberale per il come è stato esaminato. I soggetti individuali vivono la sfera del valore come inattingibile alle ragioni pubbliche e strettamente privata, e ciò produce una società che non può essere niente più che non somma di individui isolati. Come sostiene Zhok:

“fondamentale per lo sviluppo della ragione liberale è leggere il mondo come risolto nel gioco positivo tra obiettivismo naturalista e soggettivismo emotivista, tra durezza della ragione tecno scientifica e mollezza della interiorità sensibile. La ragione liberale non è identificabile con la ragione contro il sentimento, né con la durezza delle hard sciences di contro la mollezza dell’intimismo emotivista, ma proprio con questa opposizione complementare. Tale opposizione astratta, lungi dall’essere onnicomprensiva, delegittima dati fenomenologici primari: essa cancella la continuità tra la sfera del ragionamento e sfera senziente, così come quella tra valore e realtà, e come la continuità fondamentale tra dimensione individuale e dimensione intersoggettiva”[7].

 

La riflessione di matrice analitica si è sviluppata in area anglosassone mentre il postmodernismo filosofico essenzialmente in area francese. Esso ha avuto successo e si è sviluppato nella particolare atmosfera culturale susseguente al maggio ’68. Infatti, solo Michel Foucault aveva già sviluppato i tratti di fondo della sua riflessione a quella data, tutti i maggiori rappresentanti del cosiddetto postmodernismo filosofico nascono nel ‘68. Esso incide quindi in maniera decisiva sulla loro elaborazione e determina la loro ricezione e successo. Come continua l’autore, però, per valutare correttamente il retroterra di questo vasto fenomeno bisogna considerare la figura, già durante i primi anni 60, di Sartre che dava a questo atteggiamento un’impronta soggettivistica, storicistica ma politicamente impegnata. Rispetto alla posizione di Sartre il ‘68 francese determina una cesura, in primo luogo, nei confronti del Partito Comunista Francese (che si dimostrò incapace di cogliere ed orientare i fermenti innovativi presenti nel movimento studentesco), in secondo luogo a seguito del riflusso dello stesso processo di mobilitazione. Ne seguì la disillusione della possibilità stessa di superare il capitalismo attraverso le chiavi interpretative fornite dal marxismo.

Queste condizioni generali storiche forniscono le motivazioni ed il movente per una teorizzazione che nonostante abbia molte caratteristiche diverse conserva un’omogeneità di base. Osservando il lavoro di Foucault, Deleuze, Lyotard, Derrida e Baudrillard il testo di Zhok ricostruisce come il soggettivismo e lo storicismo, che caratterizzavano la posizione sartriana, vennero destrutturati e abbandonati. Ciò che si ottenne, alla fine, fu una profonda destrutturazione e dissoluzione dello stesso soggetto (in primis del “soggetto rivoluzionario”) e una fondamentale sfiducia nel senso storico. L’antiscientismo, portato della ‘critica della tecnica’, nella tradizione avviata da questi studiosi si traduce quindi direttamente nel rigetto completo del razionalismo. Quello che viene meno è il tentativo stesso di descrivere lo sviluppo di ‘forme razionali della storia’ e di sostenere le proprie tesi producendo specifiche pretese di verità, sottoponendole alla discussione. Vengono derubricati tutti i concetti chiave: ‘storia’, ‘soggettività’, ‘verità’, ‘identità’, ‘umanità’, ‘stato’, ‘società’, ‘valore’ e da ultimo quello stesso che li radicava, ‘autenticità’. La dimensione soggettiva, che ovviamente rimane operativa, è reinterpretata come ‘soggettività negativa’, cioè come il rifiuto dell’oggettività, rifiuto dei suoi criteri, rifiuto della stabilità e appello alla relatività radicale. Si tratta, a tutta evidenza, di un segno dei tempi[8].

La forma più chiara di questa postura intellettuale è nell’opera di un filosofo abbastanza atipico, che è visto da Zhok come filologicamente leggero ma di grandissima potenza narrativa. Foucault in effetti ricerca nel suo lavoro ragioni profonde negli eventi storici, poste per così dire dietro gli eventi; ragioni irriducibili alle accidentalità. Sorge però una particolare e inaggirabile contraddizione interna, inerente al concetto di ‘verità’ e di ‘finalità immanente’, entrambi svalutati esplicitamente dalle sue opere teoriche ma utilizzati necessariamente nelle narrazioni storiche. Che, altrimenti, andrebbero interpretate come letteratura ed esercizi di stile (molto ben riusciti). È piuttosto curioso che sia possibile produrre, infatti, genealogie storiche con pretese di verità se si dichiara non esistere alcuna finalità immanente nella storia, o qualunque unità di coscienza che la possa individuare, a partire dall’idea stessa di umanità. In sostanza ogni giudizio, e quindi gli stessi giudizi espressi implicitamente ed esplicitamente dall’autore, non potrebbe che rappresentarsi come semplice esito di rapporti di potere. L’esercizio di potere esso stesso non sarebbe buono o cattivo, perché non c’è alcuna verità morale ed alcun senso umano cui questo giudizio possa appellarsi. Né esiste una collettività che lo fondi, perché questa, a sua volta, è solo un prodotto dell’esercizio narrativo stesso. Un effetto del suo “effetto di verità”. Ogni esercizio di potere, dunque, ogni categorizzazione che vi prelude sono ingiustificabili, legittimati in sostanza solo da ciò che eventualmente emerge. La propensione di fondo motivante l’azione di Foucault, persino sul piano biografico, è quindi spinta abbastanza naturalmente verso la rilegittimazione o l’emancipazione di tutte le forme di soggettività tradizionalmente emarginate, come il folle carcerato il pervertito. Se nessun potere si legittima per la maggiore razionalità, l’aderenza a valori, un qualche fondamento sociale dato e preesistente, allora nello scontro delle ‘volontà di potenza’, tutto sommato, non resta che dire che i marginali, i pochi e gli sconfitti hanno un vantaggio di legittimazione. O, almeno, lo possono pretendere più di altri. Al contempo non c’è in Foucault la possibilità di richiamarsi ad alcuna soggettività autentica, e questo sostanzialmente fornisce alle rivendicazioni solo il bersaglio negativo residuale di avversare il potere o le stesse categorizzazioni, ma non lascia nessuna aspirazione positiva.

Questo sforzo è, in altre parole, interamente volto alla distruzione ed ha, per Zhok, un carattere autenticamente critico, ma viene ulteriormente potenziato e portato a livelli ancora più radicali dai successori, a partire da Gilles Deleuze. Deleuze è contemporaneo di Foucault, ma gli sopravvive a lungo. Tuttavia, la sua produzione è tutta successiva al ‘68 ed è sviluppata in collaborazione con Felix Guattari. Per Deleuze l’ontologia non deve più occuparsi d’identità, ma solo di differenze, non deve più puntare a scoprire, ma a inventare. La filosofia è quindi l’arte di formare e di inventare, o di fabbricare, concetti. Per lui “la filosofia non consiste nel sapere, non c’è una verità che la ispiri; Ci sono piuttosto delle categorie come quella di interessante, di notevole o di importante, che decidono della riuscita dello scacco, non prima però di aver costruito”. Questa base che fondamentalmente sembra utile a un esercizio di finzione letteraria, più che per un’indagine filosofica, lo pone al tipo opposto dello stile analitico, evitando anche il confronto argomentativo. Le tesi di Deleuze colpiscono l’unitarietà del soggetto umano, la persona che viene disassemblata in gesti, parole, relazioni. Si determina una sorta di ‘filosofia della differenza’ che predilige il divenire all’essere, il suggerire al dire, la fluidità alla stasi, il nomadismo alla stanzialità.

Stranamente questa impostazione radicalmente fluidificante e piuttosto evidentemente connessa con lo spirito del capitalismo ad essa coeva, per non parlare della lotta ideologica ed imperialista tra i sistemi mondo, è immaginata dall’autore come antiliberale. L’antiliberalismo, immaginato e preteso da Deleuze, parte dall’idea per cui il liberalismo sarebbe in effetti una teoria politica che assume come fondamento l’esistenza di individui razionali, con una propria agenda di interessi e rappresentati da un governo. Secondo questa interpretazione la mossa di minare, danneggiare o distruggere la soggettività unitaria degli individui, la loro razionalità e poi tutte le realtà strutturali distrugge il liberalismo stesso. Ma in realtà, secondo la linea la ricostruzione genealogica prodotta in questo testo, Deleuze non fa con ciò che aderire a uno dei due poli dell’oscillazione liberale. Non fa altro che occupare, cioè, la casella opposta e complementare al razionalismo economico, interpretando le pulsioni anarcoidi ed individualiste di cui si nutre costantemente il sistema di mercato. In concreto, come dice Zhok “il principale contributo delle suggestioni deleuziane sul piano politico è quello di disarmare qualunque opposizione reale allo status quo capitalista, consegnando ogni ‘protesta’ ad una dimensione di ‘trasgressività’ privata, perfettamente compatibile con i più ordinari funzionamenti del capitale”[9].

 

Invece Lyotard pone sotto attacco quelle che chiama “le metanarrazioni”, ovvero tutti i tentativi di giustificazione e di fondazione del ‘sapere’, del ‘vero’ del ‘giusto’ (la prima “metanarrazione” è il marxismo, ovviamente). Concepisce la postmodernità come “guerra alla totalità” (ad Hegel). Anche qui ciò implica un appello alle ‘differenze’. Non esiste per Lyotard nessun modello autentico o più autentico di società da perseguire, compreso il modello che miri semplicemente alla autodeterminazione democratica. Quello che resta al centro della dimensione politica è lo scontro tra “generi di discorso” o tra “giochi linguistici” reciprocamente incompatibili. La nozione è ripresa da Wittgenstein, ma mutilandola del riferimento alle “forme di vita”, riconducendoli quindi a formulazioni verbali individuali. Se non c’è la società, e neppure il soggetto, restano forme di sfere autoreferenziali autistiche, senza vie di uscita razionali. Resta la minaccia del dissidio, dove per dissidio si intende la prevaricazione dell’uno sull’altro, o l’espressione puramente artistica, la provocazione.

Infine, Derrida che prende le mosse da uno studio della fenomenologia husserliana, ma a partire dal ‘67 prende una particolare strada che lo identificherà come padre del “decostruzionismo”. Al centro della sua riflessione quella forma particolare di segno che è il segno scritto. Partendo da una prospettiva fenomenologica dove “tutto ciò che si manifesta è ciò che è in quanto ha per noi un significato”, ogni manifestazione presente diventa per lui portatrice del suo significato in quanto rimando al non presente. Cioè in quanto rimando a un altro da sé, ad una traccia. Ma questa traccia viene concepita come una sorta di scrittura, che chiama archi- scrittura. Il richiamo alla scrittura essenziale, in quanto segno, rinvia alla negazione frontale di ciò che il più fondamentale degli aspetti della fenomenologia husserliana cioè l’identificazione di diversi livelli di Fondazione. Se si fa venir meno la gerarchia tra la percezione, il ricordo, la fantasia, la gerarchia dei segni, quella dei significati, quella delle evidenze, non c’è più alcun modo di distinguere un ‘significato’ da una ‘verità’. Una volta impostato il funzionamento dei significati in questo modo resta un panorama di un sistema di segni in perenne infinito rinvio, gli uni agli altri, ed ogni cosa diventa leggibile come un testo. Un testo che, però, rinvia solo ad altri testi. L’analisi filosofica diventa così un’indagine intra testuale senza meta e senza finalità. Secondo il punto di vista di Zhok l’opera di Derrida dopo il ‘67 non è interpretabile facilmente come filosofica, se si pensa che la filosofia ha qualche necessario riferimento alla conoscenza (e che la conoscenza rinvia necessariamente a qualche forma di verità). Si tratta, piuttosto, di un’attività intellettuale brillante ed affascinante, configurata come una serie di esercizi che rimangono all’interno del gioco semantico dell’analisi testuale, nel quale diversi concetti estratti dai testi vengono esposti nei loro contrasti e ne viene mostrata la natura relazionale. Un’opera acuta, utile per riflettere su assonanze, sulle associazioni, talvolta sull’origine tipologiche o con fini definitori, ma del tutto inadeguata “a trarre la benché minima conclusione di valore operativo”[10]. A volte Derrida si occupa di autori di peso politico come Marx[11] o di tematiche politiche come la democrazia e la sovranità, ma senza argomentazioni capaci di indirizzare un agente nel contesto di scelte concrete politiche o etiche. In questo senso l’operazione complessiva appare nichilistica.

 

Naturalmente per Zhok quello che conta non è tanto tentare di confutare autori che, per loro stessa natura e per il modo in cui sono costruiti i loro testi, si sottraggono alla possibilità di essere confutati, in quanto non mettono a disposizione delle tesi e non individuano specifiche pretese di verità argomentata, quanto comprenderne l’impatto etico politico in relazione agli sviluppi della “ragione liberale”. Questi autori sono sostanzialmente accettabili o rigettabili in blocco. A seconda se si condivide il loro spirito antiautoritario e la vocazione ribelle, tendenzialmente aristocratica.

In definitiva secondo il punto di vista di questo testo la riflessione del postmodernismo francese si colloca, ma del tutto inconsapevolmente, all’interno di uno dei due poli definitori della “Ragione liberale”, perché mentre rigetta l’obiettivismo e il razionalismo scientista, che ne è una forma, ricade nel polo complementare del soggettivismo antirazionalistico. Pur se gli autori postmoderni si concepiscono come politici e come militanti anticapitalistici (e sono impegnati nel riconoscimento dell’inadeguatezza del Partito Comunista Francese) giungono alla diagnosi di obsolescenza della intera lezione marxiana, finendo per leggere il capitalismo come un blocco istituzionale complessivo. Identificano la società borghese, lo Stato, i partiti e i sindacati come un’unica struttura unitaria da contestare nel suo insieme. Ogni ricerca dell’efficienza, della razionalità mezzi fini, della verità, sono percepiti come parte di un ordinamento oppressivo da contestare. Le stesse istanze di insofferenza individuale, espresse dalla loro provenienza di classe e dalla tensione di forze borghesi che si sentono escluse dall’accesso al loro ruolo sono trasfigurate come potenza emancipativa. L’intero spettro delle loro aspettative teoriche e politiche è spostato in direzione di un ribellismo soggettivista, che crede di fare qualcosa di politicamente progressivo nell’assumere atteggiamenti relativistici ed antirazionalisti. Questo carattere si traduce in pratica in una fuga da tutte le pretese di spiegazioni, da tutte le teorie di insieme da tutte quelle che chiamano le “grandi narrazioni”. Si traduce nel richiamo al pluralismo politico ed epistemico, che però diventa immediatamente soggettivismo individualista, impermeabile alle esigenze di ogni consenso razionale, ed impermeabile a ogni e qualsiasi teoria generale.

Questa tendenza centrifuga è, a ben vedere, una perfetta incarnazione dell’individualismo liberale classico ed è perfettamente metabolizzabile, e molto facilmente dal clima neoliberale incipiente nel quale si svolge la scena. Ciò anche a causa del capitale sociale di cui dispone la maggior parte degli autori, per provenienza di classe e dinamiche di mercato. Questo rifiuto antiautoritario, cioè il rifiuto di ogni pretesa di verità strutturata, di ogni pretesa universale, si ripercuote sul piano politico, anche al di là delle intenzioni, in un’operazione che disarma completamente la critica teorica. E lascia come solo spazio i meccanismi auto riproducenti del mercato. In sostanza è un’operazione che si pensa come anti-oppressiva, che si immagina come anticapitalistica, e finisce per infiacchire ogni possibilità di contestazione razionale e, dunque, finisce per favorire il potere inerziale dello status quo. Questa parabola siamo in grado di vederla davanti ai nostri occhi proprio ora che essa si è conclusa.

 

Tutte le analisi apparentemente radicali rivolte ad opzioni marginali, alla ricerca di differenze, al gioco delle frasi, alla decostruzione dei significati, si configurano, alla fine, come un’operazione in grande stile di sterilizzazione e privatizzazione del pensiero. Non consentono di trarre alcuna conclusione fondata che sia intersoggettivamente condivisa sul mondo reale e ostacolano ogni accordo rivolta a favorire una qualsiasi iniziativa collettiva. In sostanza si tratta “di una grande operazione di chiusura nel privato, travestita da razionalità filosofica[12] .

Apparentemente emerge, soprattutto con lo sguardo dell’oggi, un paradosso: “nell’intento di liberare l’individuo dall’oppressione del potere, delle istituzioni, dello Stato, della società, del capitale, del partito, del razionalismo e della tecnoscienza, questa tendenza culturale ha portato a una completa soggezione e dissoluzione dell’individuo stesso che pensava di liberare”. Nel momento in cui non si può più parlare infatti di autore, di agente razionale, e non si può più parlare neppure di umanità o di natura umana, allora viene a cadere e si dissolve la possibilità stessa di porre la questione circa forme di vita autentiche o inautentiche. Ovvero viene a cadere la possibilità di definire qualcosa come sfruttamento, alienazione, perché non esiste autenticità o alienazione se non il rapporto ad un’essenza umana. In linea di principio la rivendicazione della grande società multinazionale, o del suo management, e quella dei suoi lavoratori precari, sovrasfruttati e sottopagati (purché non parte di quale minoranza riconoscibile e vittimizzata) sono da considerare del tutto equivalenti. Si tratta di “narrazioni” in fondate, quella dell’efficienza comparata verso quella dello sfruttamento. Non esiste, e non può esistere, una teoria della natura umana, una rivendicazione di forme di vita appropriate, sulla quale fare leva per denunciare razionalmente le condizioni imposte.

Se si dissolve il soggetto agente con la sua ragione, la sua natura, allora l’intera dimensione storica scompare dal novero dei concetti rilevanti. Non ci sono più criteri per concepire entità storiche sovraindividuali (e quindi gli Stati, i popoli, le classi, l’umanità tutta) che siano mossi da progetti comuni o da valori comuni.

 

Il paradosso è, quindi, che il postmodernismo appare una teorizzazione antiautoritaria e libertaria ma, nel farlo, apre alla svolta neoliberale la quale andava nella stessa direzione (contro lo Stato e i corpi intermedi) e, con essa, anche alle sue compressioni della libertà che oggi vediamo ovunque intorno a noi.

 

Nella Terza Parte, e ultima, vedremo come questa linea genealogica di lunghissimo periodo si traduce, anche sulla scorta del clima postmoderno, in applicazioni politiche, ovvero in un particolarissimo, ed anche qui paradossale, forma di ‘politico impolitico’. Uno stile che è generato dalla ferrea logica liberale (tanto più forte quando non si vede e ci si pensa avversari).

[1] – Qui potrebbero essere rintracciati facilmente alcuni controesempi, ovviamente la filosofia greca ha la sua specificità, ma anche le sue relazioni e debiti con le forme di pensiero antecedenti in regioni nelle quali la scrittura era completamente diversa, come l’Egitto, per dirne uno. O l’oriente medio, nel quale civiltà di grande complessità (e altamente stimate) antecedono di millenni il ‘miracolo greco’. Ma potrebbe essere anche messo in questione la specificità del racconto storico, come proprio dell’occidente. Un esempio di questa diversa interpretazione in Sanjay Subramanyam, “Mondi connessi. La storia oltre l’eurocentrismo (secoli XVI- XVIII)”, Carocci, 2014, ma potrebbe anche essere ricordata la protesta di Amartya Sen, “L’altra India. La tradizione razionalista e scettica alle radici della cultura indiana”, Oscar Mondadori, 2005. O, infine, il lavoro di Francois Jullien sulla filosofia orientale (es. “Trattato sull’efficacia”, Einaudi 1998, ed. or. 1996). Certo, anche il sanscrito in effetti appartiene alle lingue indoeuropee e il mondo arabo, direttamente e dopo per suo tramite quello delle grandi terre di mezzo dei due fiumi, sono talmente intrecciati con la nostra linea evolutiva da poter assumere che il termine posto nel libro sia, in fondo, solo una espressione semplificante. Ma l’antico Egitto, e le lingue dell’estremo oriente, il cinese in specie, non sono affatto del nostro ceppo. Infatti, sono esattamente prese per contrasto (sinteticamente, la tesi è che lingue che si fondano su ideogrammi invece che sulla scrittura fonetica nella quale con pochissimi segni e regole si può creare infiniti nuovi concetti, parole, frasi e testi. Dunque, c’è anche un altro quadro, un’altra filiazione.

[2] – “La mente alfabetizzata si diffonde in quanto consente al soggetto un accesso potenziato all’esperienza, accesso che si converte in una potenziale superiorità cognitiva”. Zhok, p.38

[3] – Alexander Koyré, “Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione”, Einaudi 2000.

[4] – G.Gorham, B.Hill, E.Slowik, C.K.Waters (a cura di), “The language of nature”, London 2016.

[5] – L’analisi dell’impresa scientifica tra 1600 e 1700, prima centrata nel mediterraneo italiano e francese e poi spostata, quale baricentro, al nord, in particolare in Inghilterra, mostra i suoi stretti legami interni con lo sviluppo economico (cosa che non prefigura la direzione causale, ovviamente). Ovvero con lo sviluppo delle classi e degli interessi dell’emergente borghesia commerciale e poi proto-industriale. Laboratori, riviste scientifiche, accademie, sono finanziate da potenti forze private (in Italia) o pubbliche (in Francia). In altre parole, la ricerca scientifica non è affatto, come vorrebbe la retorica dominante, astratta e disinteressata ricerca della “verità”, non è una teologia (anche se in parte lo è, con gli effetti di legittimazione e potere che ne conseguono). La ricerca scientifica è sforzo organizzato di risolvere problemi emergenti e concreti. Nel 1400 e 1500 era stata connessa, in una fase di espansione, con i consumi delle élite: l’astronomia aveva un legame ben rintracciabile con l’arte della astrologia (che durerà fino a Newton); la botanica si connetteva con la farmacologia che offriva i suoi servigi esclusivamente alle classi dominanti, le uniche che potevano pagarne i rimedi; la matematica si sviluppa per gli interessi della contabilità, connessa con l’accumulazione del denaro in mano a banchieri e commerci di lunga percorrenza, in una fase di monetizzazione e finanziarizzazione; a partire dalla “Nova scienza” di Tartaglia (1537) si sviluppa la balistica e poi la cantieristica navale e i connessi problemi di fisica applicata in cui si impegna Galilei. Dalla seconda metà del seicento la scienza mostra la sua efficacia concreta in campi di interesse degli Stati nazione in via di consolidamento e della borghesia commerciale, impegnata ad estendere le rotte e porre le premesse per il dominio coloniale del mondo. Navigazione, costruzione di navi, artiglieria; orologeria, e di qui meccanica, studi sulla velocità della luce per determinare la longitudine in mare aperto, navigazione a vela e calcolo vettoriale, fluidodinamica per rimodellare gli scafi, le analisi di Eulero sulla meccanica dei corpi rigidi per risolvere il problema del beccheggio delle navi, cannocchiale e telescopio, la “aritmetica politica” (ovvero la statistica matematica), sviluppata per le crescenti esigenze di controllo degli Stati e la cartografia… Si veda, ad esempio, Lucio Russo, E. Santoni, “Ingegni minuti. Una storia della scienza in Italia”, Feltrinelli 2010.

[6] – Indubbiamente un così vasto movimento di pensiero ha provenienze molteplici e profondamente radicate, si può fare a lungo l’esercizio di trovarne diramazioni nazionali (es. francesi) o antecedenti. Gli stessi padri della sociologia lo sono in certo senso (in primis Sombart e Max Weber). Alcune di queste relazioni possono essere rintracciate in un contesto di risposta e reazione alla sfida marxiana, e del movimento che ne scaturisce. Anzi, alla doppia sfida del liberalismo politico e del marxismo. Quindi alla concezione lineare della storia, alla critica della Zivilisation, del progresso ed all’americanismo in alcuni esponenti. Gli scritti di Spengler, ad esempio, sulla tecnica ed ovviamente Carl Schmitt ed Ernst Junger.

[7] – Zhok, p.236.

[8] – Il particolare clima nel quale avvengono queste avventure di pensiero è posto al termine di un ventennio di espansione economica e di trasformazione della società uscita dalla seconda guerra. Un ventennio nel quale l’Europa recupera una posizione economica salda, sviluppando enormemente la propria industria che comincia a competere con quella americana, ma, al contempo, subendo la crescita dei settori intermedi che spingono per avere una risposta all’altezza delle proprie ambizioni. L’influenza delle lotte anticoloniali, da una parte, e delle rivendicazioni delle minoranze di colore nelle periferie (non solo americane), dall’altra, nel contesto di una forte lotta redistributiva, ma anche in qualche frangia radicalizzata, del comunismo cubano e delle repressioni sovietiche nell’Est Europeo, creano un particolare clima antiautoritario che si dirige contro ogni espressione di potere. L’insieme delle ambizioni di ceti intermedi scolarizzati (si è anche in un quindicennio di enorme espansione dell’offerta di istruzione superiore) che premono per non ripetere la ‘noiosa’ e lenta esperienza dei padri e madri, delle lotte operaie, delle suggestioni internazionali in un decennio esaltante, si fonde nel rendere dominante, e intuitivamente ‘giusto’, ogni pensiero che si presenti come ‘nuovo e radicale’ e voglia farla finita con le grigie burocrazie, siano esse dell’Est come dell’Ovest.

[9] – Zhok, p. 242

[10] – Zhok, p. 246

[11] – Jacques Derrida, “Spettri di Marx”, Raffaello Cortina Editore, 1994 (ed. or. 1993).

[12] – Zhok, p. 250

Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, I _di Alessandro Visalli

“La costruzione del liberalesimo – Invarianti e variazioni”

 

 

L’importante ed ambizioso libro di Andrea Zhok è uscito nel 2020 per l’editore Meltemi nella collana diretta da Carlo Formenti, “Visioni eretiche”, e di questa collana rappresenta sicuramente una delle pietre miliari. È da lungo tempo che condivido il punto di vista di Andrea e quindi questa lettura che farò, oltre ad essere come sempre influenzata dalle mie idiosincrasie ed orientamenti, ne risentirà. Inoltre, risentirà delle accentuazioni tematiche e delle priorità che reputo (non necessariamente in accordo con l’autore) attuali.

Detto in altre parole, vuole essere, anche qui come sempre, un invito a leggere direttamente il libro e trarne ciò che interessa e non alla sua sostituzione con questo pallido fantasma.

Per la sua complessità ed ampiezza compiremo la lettura di questo testo in tre parti:

  • La prima, questa, tratta del processo di costruzione delle invarianti della ragione liberale e dei suoi caratteri tipici,
  • La seconda, individuerà i “Regimi di ragione” che scaturiscono dalla struttura liberale e neoliberale di pensiero e pratica, quindi della ragione postmodernista,
  • Nella terza parte, i “Regimi di verità” della ragione liberale verranno mostrati nelle loro applicazioni politiche, ovvero nella particolare forma di politico impolitico che è generato dalla ferrea logica liberale (tanto più forte quando non si vede e ci si pensa avversari).

 

Zhok compie un’operazione ambiziosa, come detto, in quanto cerca niente di meno che di comprendere le tendenze di fondo del processo storico nel quale siamo tutti immersi. E lo fa praticando consapevolmente un approccio ricostruttivo che identifica come “filosofia della storia”. Ovvero attribuendo al movimento storico reale un’essenza ricondotta al modello liberal-capitalista che cerca di individuare sul piano della provenienza e delle caratteristiche invarianti. Con le parole di Andrea, intende esaminare il senso del movimento storico come “quel nucleo storico del ‘liberalismo reale’ che ha rappresentato la cellula generativa e il propellente delle maggiori trasformazioni degli ultimi secoli”[1]. Precisamente, “una linea di sviluppo centrale che si è tradotta gradualmente in istituzioni, pratiche sociali, costumi, sistemi economici, manifestando sempre più nettamente il proprio carattere di fondo”. Un carattere che è nominato nel testo come “ragione liberale”.

Due espressioni chiave emergono in questo frammento: “gradualmente” e “sempre più nettamente”. La “ragione liberale”, impegnata in una battaglia mortale con le forme di “ragione” ad essa preesistenti, man mano che vince finisce infatti per eccedere, al fondo distruggendo se stessa come “ragione”. I suoi meccanismi di difesa finiscono per diventare, nel momento in cui si positivizzano, autocontraddittori e mostrano in piena vista il loro carattere ‘negativo’. Questi meccanismi sono: il naturalismo scientifico, il postmodernismo filosofico, il discorso sui ‘diritti umani’, la second-wave femminista, il ‘politicamente corretto’, l’immoralismo postumanistico. Tutte tendenze, è la tesi centrale del libro, che sono “abitate inconsapevolmente dalla ragione liberale”.

Due sono le linee genealogiche che portano alla sedimentazione di questa “ragione” (certo ricostruita con il senno del poi e le urgenze del presente, ovvero politicamente): l’evoluzione del diritto pubblico e dei diritti; la nuova ragione utilitarista e scientifica. Ed uno è il criterio dirimente: il principio di limitazione del governo (cioè la limitazione delle forme di sovranità statuale) senza per questo rifarsi a concetti di giustizia trascendenti, o di verità. Il liberalismo si appoggia piuttosto ad un principio di efficienza immanente, una sorta di iato irrazionale che, in quanto paradossale “regime di verità” finisce per essere una sorte di sotto-prodotto del sistema produttivo che si impone nello stesso arco di tempo. È giusto perché esiste e funziona. Questa teoria è identificata da Zhok come una tendenza, come la trasposizione sistematica delle categorie dell’efficienza economica al campo delle pratiche di governo. Una trasposizione che si autorappresenta come razionalizzazione, ma che è in sostanza vaga e senza fondatori (e coerentizzatori).

Con il senno del poi ne fanno parte (o, meglio, ne costituiscono il profilo):

  • un manifesto individualismo normativo e assiologico,
  • una visione delle relazioni sociali strutturata interamente all’interno dell’idea dello scambio economico. Per dirlo meglio dell’idea che dello scambio economico lo stesso liberalismo ha (e che è molto lontana dalla sostanza di esso[2]).

 

Il primo suppone l’esistenza di diritti soggettivi e concepisce la libertà personale come un’esenzione, ovvero come “non interferenza rispetto a coazioni gerarchiche o condizioni sociali”[3]. Certo, la costituzione degli individui come portatori di autonomia e piena dignità, con una almeno parziale indipendenza dalla comunità di riferimento (nella quale esso, l’individuo, non è completamente immerso ma può concepirsi isolatamente) è un processo che si è dispiegato nella storia dell’occidente, ed è un processo cruciale. Zhok segnala in proposito una sorta di movimento ad onda, la crescita con la cultura greco-romana, la ritirata nel medioevo e poi la riemersione nel rinascimento con continua accelerazione da allora. Essere un individuo significa, in questa tradizione e forma di vita, essere consapevoli di sé come distinti dal mondo circostante, avere introiettato forme dialogiche comuni le quali sedimentano concettualità ed un intero spettro di ragioni socialmente accettabili. Nella ricostruzione prodotta nel libro ciò che fa la differenza, che è questione di gradi, è la scrittura alfabetica (in specie nell’alfabeto greco), che, diversamente dalle scritture logografiche precedenti, o sillabiche, è economica ed enormemente flessibile. Tutto viene infatti costruito a partire da pochissimi segni ed infinite combinazioni. Quindi, mentre la produzione di un nuovo concetto in una scrittura logografica richiede una complessa riforma della lingua ed una nuova convenzione, in una scrittura sillabica esso può emergere dal basso e farsi strada direttamente nell’uso. Tutto ciò amplia enormemente i margini di autonomia:

 

“sul piano dello sviluppo e del riconoscimento dell’individualità cioè, ciò significa che ora la componente di innovazione ed iniziativa individuale acquisisce margini di autonomia straordinari. Anche l’individuo relativamente isolato, relativamente minoritario, può diventare portatore di valore sociale. In certo modo la vicenda della condanna di Socrate appare come l’emblema di questa trasformazione. Socrate, portatore di forme di pensiero innovativo eterodosso, entra in collisione con il senso comune del periodo e con le autorità che lo costituiscono tradizionalmente. Ciò gli costa la condanna come ‘corruttore dei giovani’, condanna che in epoche passate e sarebbe valsa l’oblio, ma che ora, grazie alla scrittura del suo allievo Platone, diviene la mossa inaugurale di una nuova epoca. Socrate, il pensatore che conosce la scrittura, ma che non lascia nulla di scritto, diviene il ‘Santo protettore’ del pensiero critico nei millenni a venire”.[4]

 

Tale condizione ritorna socialmente determinante con l’espansione della forma scritta a stampa. E subisce un ulteriore salto con la riforma protestante. Tuttavia l’individualità, pur promossa dal linguaggio stesso, non può che essere e rimanere strutturalmente intersoggettiva, è una funzione relazionale che dipende dal riconoscimento altrui sia in riferimento alla sua genesi come alla sua persistenza.

 

Il secondo fattore storico è la tecnoscienza. Essa deriva da una svolta che avviene nei secoli del mercantilismo, dell’umanesimo e dello spirito antiautoritario che ne consegue. I quattro snodi sono l’analiticità, la manipolazione causale, la matematizzazione e l’obiettivismo. La natura viene concepita come “cosa”, il mondo reale autentico come matematizzabile e compare l’idea di “legge di natura”.

Infine, un terzo ruolo decisivo lo svolge l’espansione della funzione del denaro come riserva di valore[5], medio di scambio e unità di conto. Di qui il testo si concentra sul mito delle origini del mercato e del denaro stesso, cioè sull’idea che nasca dal baratto senza cornice istituzionale e comunitaria (ovvero senza strutture socialmente determinate e dense di riconoscimento).

 

Tutti questi fattori si addensano tra seicento e settecento, in particolare nella cornice statuale inglese, dove l’individualismo eticamente orientato della riforma protestante, una circolazione monetaria intensa ed i successi crescenti della razionalità tecnico-scientifica (connessi molto più di quanto si pensi con la messa a punto dell’arte della navigazione di lungo corso e con il correlato sviluppo militare) finiscono per portare alla luce, come dice, contemporaneamente la ragione liberale e il correlato operativo dell’economia capitalistica.

 

La lettura della nascita della “ragione liberale” è quindi abbastanza tradizionale. Procede per schematizzazioni delle innovazioni concettuali di eminenti filosofi e studiosi. Thomas Hobbes (1588- 1679) per primo, ovviamente. Per il suo giusnaturalismo la natura non è altro che il luogo delle relazioni meccaniche tra i corpi in moto e il pensiero è calcolo. Ne deriva che la libertà è concepita come assenza di coazioni e la condizione di natura come guerra di tutti contro tutti. Anche il diritto è principalmente la facoltà di seguire le proprie pulsioni e non è sovrapponibile con la nozione di giustizia. La scuola di pensiero che trova una prima sistemazione visibile nel lavoro del grande filosofo seicentesco inglese è “polimorfa”, si nutre di una discrasia che non risolve mai tra le teorizzazioni a vario titolo identificabili come ‘liberali’ e lo sviluppo simmetrico di pratiche sociali, scientifiche ed economiche. Quell’immane processo che nel secolo si può riconoscere tra monetizzazione progressiva, riforme ed indebolimenti della ‘ragione religiosa’ (o sue translitterazioni[6]), emergere del dominio occidentale e del ‘dolce commercio’ come suo centro[7], razionalizzazione operativa e addensamento del paradigma scientifico come nuova verità del mondo, e che Andrea chiama sinteticamente “grande convergenza”, è percepito e quindi teorizzato da alcuni pensatori allo scopo di renderlo intellegibile e legittimo. I poteri verso cui questa operazione scopertamente ideologica e di imprinting giustificativo si oppone sono quelli del passato.

La ragione liberale, dunque, nasce nell’autore dominante di confine tra i due mondi, Hobbes, poi si consolida nelle pagine militanti di John Locke (1632-1704) e, infine, trova una sintesi operativa nel lavoro di Adam Smith (1723-1790).

 

In uno dei passaggi più interessanti del libro Andrea mette a confronto l’idea di diritto naturale del mondo classico con quello del mondo contemporaneo. Per il mondo classico anche nei suoi esempi più eminenti non è la legge a essere scritta nella natura ma sono le idee, i valori, che poi si devono applicare in obblighi specifici negli specifici contesti normativi. L’idea liberale di diritti individuali iscritti nella natura è estranea, quindi, sia al mondo greco, come a quello romano e anche al cristianesimo, nel quale la dignità di ogni singola anima individuale è conferita da Dio e dunque vale solo in relazione alla volontà divina. Invece in Hobbes, e nel successivo pensiero liberale, emerge la pretesa che concetti e regole siano dati nella natura e che da essi debbano essere dedotti o estratti. Questo punto conferisce particolare autorevolezza alle pretese politiche che vengono utilizzate per opporsi al legittimismo monarchico, ma creano anche un problema logico. Come sostiene Zhok un diritto può esistere soltanto come complemento concettuale di un dovere. Se io ho diritto a adottare un certo comportamento o a svolgere una certa azione, sostiene l’autore, “questo implica che qualcun altro ha il dovere di consentirmi quel comportamento e quella azione”. Ma il diritto come libertà dei liberali è solo un impulso individuale dominante che ha poco a che fare con la sfera del dover essere. Invece un diritto come controparte di un dovere ha un carattere essenzialmente relazionale e sociale, non può essere attribuito a un soggetto di principio isolato. Questo tipo di diritto è soggettivo ma può esistere solo in concomitanza con un simmetrico dovere e può esistere soltanto in rapporto con altri individui; dunque, può esistere soltanto nella società e dalla società scaturisce, non dalla natura.

La stessa libertà nel mondo classico era concepibile soltanto in relazione all’ autodeterminazione della città. L’idea di fondo era che la libertà fosse autonomia e autogoverno, capacità di progetto e realizzazione nel contesto della partecipazione alla vita pubblica. L’individuo isolato non era in grado di portare nulla di significativo. Questo concetto di libertà repubblicana è lo stesso di Machiavelli dei “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio”, che ispireranno sia il suo concetto di cittadinanza come quello di nazione. Ma a partire da Hobbes tutto il nucleo principale del pensiero liberale intravede un concetto del tutto diverso di libertà. Viene rigettata esplicitamente la concezione di libertà repubblicana, sostenendo che essa concerne solo le comunità e non gli uomini. Al suo posto subentra la nozione di “libertà negativa” che da allora in poi verrà considerata sempre come la nozione fondamentale. Libertà come non interferenza come assenza di ostacoli, come assenza di coazioni. In realtà la nozione di libertà come autogoverno e autonomia cioè come “libertà positiva” include l’idea dell’assenza di coazione ma la percepisce come insignificante la “libertà positiva” in altre parole incorpora la libertà negativa non vi si oppone.

E’ John Locke il pensatore che viene identificato normalmente come il padre del liberalismo. Anche se tutti i concetti fondamentali sono già presenti e sviluppati in Hobbes. La ragione è che in questi si determina un esito assolutistico del pensiero che lo rende poco adatto ad essere padre fondatore del liberalismo. Il Locke tutti gli uomini sono uguali e indipendenti, e “nessuno deve danneggiare nessun altro quanto alla vita, salute, libertà o proprietà”. La ragione che viene fornita per questa affermazione è che gli esseri umani sono inviolabili perché, in quanto essendo creati da Dio, sono di proprietà divina. Dunque fa capolino il riferimento a Dio ma come appello esteriore ad un’autorità che non svolge un ruolo effettivamente fondativo. Questa posizione non argomentata lascia trasparire ciò che il Locke è in realtà la pietra angolare di ogni diritto di natura: ovvero la proprietà.

 

E’ la teoria della proprietà ad essere il centro della filosofia politica di Locke e questa subisce il passaggio cruciale che connette la teoria dei diritti naturali soggettivi con l’approdo economico della ragione liberale. La proprietà originale della libertà attribuita dall’esclusività della proprietà attraverso il lavoro si trasferisce alle cose. Le quali diventano di sua legittima proprietà. Sembrerebbe che su questa linea di ragionamento nessuno possa legittimamente avere pretese di proprietà eccedenti, rispetto a ciò che può adoperare personalmente. Ma immediatamente questa nozione scivola, a causa dell’esistenza del denaro che estende la possibilità di godere di cose anche lontane nel tempo nello spazio e non direttamente prodotte da sé. Il fatto stesso che il denaro funzioni come qualcosa a cui altri attribuiscono valore fa sì che esso legittimi per “tacito e volontario senso” anche uno sproporzionato e diseguale possesso di terra e beni. In questo modo con due passaggi eleganti la giustificazione della società commerciale esistente è compiuta.

Un’argomentazione che lascia molto perplessi sia per la coerenza interna che per la tenuta complessiva. Nel testo di Zhok c’è uno sforzo di mostrare come già il primo assunto (che il proprio corpo rappresenti una proprietà) è un abuso concettuale, in quanto una proprietà come diritto è qualcosa che deve essere riconosciuto da altri mentre il mio corpo è mio in un senso che non ha niente a che fare con la proprietà come diritto. Se avere a disposizione un corpo dalla nascita fondasse diritto in quanto tale non si capirebbe perché non lo fondi per animali e piante, e tutto ciò che con cui loro uniscono la loro attività. In sostanza questa nozione confonde la proprietà come sanzione reale legale, reclamabile di fronte a terzi, con proprietà biologiche che sono solo predicati di un soggetto. Ma questa confusione fa decollare l’intero argomento, perché permette al Locke di concepire il diritto che sussiste in natura senza passare per alcun giudizio sociale. In realtà nel seguito dell’argomento si sovrappone e confonde un piano di giustificazione del tutto diverso. In ultima istanza l’argomento si appoggia sul fatto che la proprietà in forma monetaria garantisce una maggiore ricchezza e un minore spreco per tutti. Questo argomento è di tipo utilitaristico si fonda su un beneficio economico che si presume generalizzato e perciò idoneo ad essere accettato da tutti.

Sarà Adam Smith nella “Ricchezza delle nazioni” a fare il passo decisivo e in esso si trovano alcune concezioni che saranno il cuore dell’economia neoclassica: una concezione molto particolare dello scambio individuale auto interessato, il quale sarebbe di per sé capace di condurre il benessere comune; una concezione minimale dello Stato, il quale deve tendere sostanzialmente al limitare il proprio intervento alla difesa della giustizia; una visione storica progressiva, in cui il processo di incremento delle libertà economiche è visto come un orizzonte necessario. In quanto tale fonte di emancipazione. Il benessere comune in Smith emerge quindi come effetto collaterale non voluto da nessuno dell’interazione tra individui auto interessati, ovvero come esito della propensione umana in un passaggio molto famoso a “trafficare, barattare, scambiare una cosa per l’altra”. Un processo spontaneo che poi genera la tendenza alla divisione del lavoro. Si tratta di un’idea semplice ma potente: in uno scambio volontario tra individui è chiaro che ciascuno dei due contraenti intenda e voglia uscire dallo scambio più soddisfatto di come vi era entrato, sennò non lo farebbe, ma questo mutuo beneficio spinge gli scambi volontari ad espandersi. Quanti più scambi quanto maggiore soddisfacimento avrai. Questo determina la divisione del lavoro dove gli argenti si specializzano nel produrre qualcosa, sapendo che poi potranno ottenere ciò che manca dallo scambio con altri. Lo scambio è dunque naturale ed è fondato sulla cooperazione e comunicazione empatica. Oggetto come si sa della “Teoria dei sentimenti morali”. Ma immediatamente l’interazione cooperativa fondata sull’empatia si trasforma in appello all’interesse personale, il quale a sua volta è fondato sulla naturalità dello scambio. Questo passaggio fondativo dell’intera economia liberale indica per Zhok un nesso ambiguo che rimane sottotraccia cioè “l’idea che lo scambio economico sia la prosecuzione naturale delle interazioni cooperative degli scambi umani, culturali, affettivi eccetera. Questa idea che concepisce lo scambio economico come la torre di pace e conciliazione la si ritroverà ancora due secoli dopo in Hayek. La cooperazione si trasforma senza apparente soluzione di continuità in competizione, senza che di questa metamorfosi sia necessario discutere. In realtà, sul piano antropologico e storico si potrebbe agevolmente mostrare come questo passaggio sia uno stravolgimento che coincide con la trasformazione di economie del dono come quelle arcaiche in economia dello scambio”[8].

In sostanza, secondo la ricostruzione del libro, dall’idea hobbesiana e lockiana di un individuo naturale isolato e autofondato si passa prima alla dimensione dell’interazione sociale storica, nel porre l’individuo come portatore di diritti naturali pre politici e pre sociali, e poi nel porre una forma di socialità sui generis, a partire da quel tipo di individuo nello scambio auto interessato che, contro ogni intenzione esplicita, genera spontaneamente benessere comune. Il vantaggio è che non c’è più bisogno di pensare che un accordo sui valori o la definizione di progetti in comune sia alla radice della collettività, ma basta affidarsi al perseguimento del profitto privato e ne scaturirà automaticamente il benessere collettivo.

Le forme della libertà per la ragione liberale sono dunque:

  • libertà negativa,
  • tutela della proprietà,
  • società come composizione di meri individui preesistenti,
  • Stato come regolatore minimo.

Un secolo dopo Smith, in Menger, Walras, Jevons, Marshall, avviene quella che è normalmente concepita come la nascita della scienza economica. Questo passaggio interviene nel contesto dell’ambiente positivista, dunque sulla base della ricerca delle leggi esatte.

Nella rinascita neoclassica abbiamo una nuova scienza sociale che imita le scienze della natura e un modello assiomatico imperniato sul cosiddetto soggetto economico. Sul valore come utilità e sulla relazione come essenzialmente scambio e mercato. Quindi lo spostamento dell’analisi storico-induttiva a quella ipotetico-deduttiva e quindi matematizzabile. Questa svolta nasce sin dall’inizio come una teoria politica in cerca di egemonia e non come una teoria scientifica, quale dichiara invece di essere.

Alla base dell’edificio della scienza economica moderna sta uno schema che è tanto suggestivo quanto forviante, una visione idealizzata antropologicamente fittizia dello scambio volontario tra individui. Il concetto più elementare basilare della scienza economica, infatti, è lo scambio tra agenti economici individuali perfettamente indipendenti che si trovano a interagire liberamente in una transazione per mutuo beneficio, per così dire nel vuoto. Se si assume che i due soggetti pervengano uno scambio volontario per definizione questo è vantaggioso per ciascuno (in quanto altrimenti non acconsentirebbero). Questo vantaggio, che si presenta come appropriazione soggettiva, è concepito sul piano economico come scambio di uguale quantità di valore, ovvero di utilità, e si immagina quindi che dopo ogni scambio volontario la quantità totale di utilità di valore sia accresciuta. Ne segue una importantissima conseguenza: in linea di principio ogni accrescimento o intensificazione degli scambi volontari all’interno di una società promuove un aumento generalizzato del benessere. È questa la “buona novella” incorporata nel pensiero neoclassico e liberale, la promessa di una autoregolazione immanente e per il maggiore bene di tutti. Gli espliciti presupposti teologici dei classici (sia dei giuristi e filosofi, sia dei teologi ed economisti) vengono, per così dire, immersi in una veste scientifica positivistica. Questo schema iniziale viene sviluppato e complicato, raffinato, ma rimane fondamentalmente sempre lo stesso. In Von Mises troveremo l’azione individuale del singolo come una specie di scambio tra sé e sé, dove il soggetto, per esempio, può scambiare il piacere del riposo a quello di un appagamento futuro e quindi impegnarsi nel lavoro attuale. Ogni cosa, ogni rapporto interumano, è letto secondo una chiave di lettura autoreferenziale in cui è sempre in gioco uno scambio nel quale ognuno cerca sempre di ottimizzare essenzialmente il proprio vantaggio. Ogni momento relazionale è reinterpretato come uno schema di incentivi e disincentivi economici soggetti a leggi del tutto simili a quelle del comportamento del consumatore. Così si pone la base concettuale per la teoria microeconomica, costituita da principi che definiscono forme ideali della scelta razionale nei processi di scambio. Assiomi delle preferenze del consumatore che sono essenzialmente quattro: completezza, transitività, non sazietà, utilità marginale decrescente. Struttura minima che garantirebbe il requisito di razionalità di una scelta. Si tratta, tuttavia, di principi manifestamente falsi. Non è vero che per ogni bene economico un soggetto preferirà averne sempre di più piuttosto che di meno; non è sempre vero che il principio di utilità marginale sia decrescente, né un esempio l’accumulazione monetaria; non è sempre vero che ogni coppia di scelte può essere ordinata in termini di utilità, ovvero che ogni scelta è sempre commensurabile in base a un suo contenuto di valore analogo e quindi è sempre anche misurabile.

Questo è uno dei passaggi essenziali e che ha, come dice Andrea, ampie ripercussioni “un conto infatti è dire che in qualunque circostanza noi possiamo comunque operare una scelta senza rimanere in stallo (tra indecidibili potremmo, ad esempio, tirare a sorte). Tutt’altra cosa è affermare che la nostra scelta è stata prodotta sulla scorta di una comparazione quantitativa di una stessa entità (utilità)”.

In realtà, spostandosi sul piano di una descrizione fenomenologica della natura delle scelte reali, si nota come queste non avvengano mai in forma di una comparazione tra piaceri e dolori strettamente intesi oppure genericamente tra sentimenti. Le nostre scelte valutano sempre comparativamente scenari dinamici dotati di senso, cioè sviluppi narrativi di storie possibili. Anche le eventuali componenti di agio e disagio sono definite alla luce di potenziali orizzonti di conseguenze. Ovvero di storie alternative. Il calcolo non ha a che fare mai con comparare pesi diversi, o con computare, ma è una valutazione comparativa immaginaria di situazioni alternative e di opzioni che queste alternative aprono o chiudono. Già nei più elementari assiomi che definiscono la razionalità di una scelta economica sono quindi presenti astrazioni che non sono innocue approssimazioni ma problematiche distorsioni. Come corollario dell’esistenza del mercato, e del modello monetario di valore come effettiva radice dell’impostazione liberale, si ha che la priorità dello scambio auto interessato mette al centro la divisione del lavoro e questo si traduce, dentro la logica dell’impostazione liberale (anzi dell’assiomatica liberale), nella definizione dei principi della concorrenza perfetta. Quelli nei quali un sistema di liberi scambi troverebbe da sé un equilibrio capace di ottimizzare sia l’allocazione delle risorse come l’utilizzo dei fattori produttivi, ovvero la più efficiente divisione del lavoro. Questa idea di mercato perfetto non è solo un’ideale portante della teoria economica neoclassica ma è un modello relazionale generale per tutto il settore del liberalismo politico che concepisce l’intera società essenzialmente come luogo di scambi tra individui. Luogo dove avviene il mutuo vantaggio come esito di ogni scambio che si vorrebbe generalizzato alla totalità delle relazioni sociali nella misura in cui gli scambi possono essere esercitati nelle condizioni del mercato perfetto.

Mercato perfetto significa:

  • massimizzazione, gli agenti economici cercano di massimizzare i propri guadagni;
  • mutua indipendenza delle decisioni, ciascuna decisione è presa da ciascuno indipendentemente da ciò che decidono gli altri;
  • debolezza degli agenti economici, nessun singolo agente è in grado di esercitare una influenza significativa sui prezzi, né come acquirente né come venditore; ci sono sempre una pluralità di agenti economici compratori e venditori;
  • informazione perfetta, ogni agente sul mercato ha informazioni esaurienti circa la natura di sia dei prodotti che dei prezzi;
  • libero accesso, non devono esistere barriere di alcun tipo né all’entrata nel mercato di nuovi produttori o di nuovi consumatori né all’uscita degli stessi;
  • mobilità dei fattori di produzione, i fattori di produzione in un mercato perfetto devono poter essere liberamente riallocati dove forniscono i profitti maggiori;
  • nessuna esternalità, (un’esternalità è un costo generato un’attività economica imposto su soggetti che non hanno scelto di entrare in quell’attività economica, ad esempio l’inquinamento) nel sistema delle libere transazioni sul mercato non ci sono situazioni in cui le esternalità vengono fatte ricadere su soggetti diversi dai produttori o dagli scambiatori volontari;
  • nessun costo di transazione, (i costi di transazione sono tutti i costi necessari per pervenire allo scambio volontario, per esempio il tempo l’impegno adottato per svolgere la trattativa) in un mercato perfetto non ci sono.

Si tratta ovviamente di riconosciute idealizzazioni, tuttavia sono assolutamente determinanti. Nel seguito Andrea si impegna ad analizzarle una ad una, contestando ad esempio rispetto alla massimizzazione l’ideale olimpico di piena calcolabilità e ottimizzazione, opponendovi il lavoro di Herbert Simon sulla razionalità limitata, ma anche, nuovamente, l’idea che la forma delle scelte umane è sempre di essere percorse in una storia; dall’altra parte contestando la mutua indipendenza delle decisioni, che naturalmente non sono individuali e non sono separate le une dalle altre, ma sono sempre intrecciate da componenti relazionali come ‘imitazione’, ‘emulazione’, ‘invidia’, ‘competizione’. La normatività del mercato perfetto che naturalmente il fenomeno dei monopoli contesta in radice. L’importanza delle istituzioni come messo in evidenza dalla scuola di North per il quale vincoli morali le lealtà interpersonali, il senso del dovere sono da intendere come espedienti necessari per consentire alle relazioni di mercato di funzionare.

In sostanza l’economia neoclassica che pretende scientificità ha creato una nuova visione del mondo la quale riduce alla propria concettualità normativa intere aree che prima erano analizzate con strumenti diversi.

 

Questo processo di estensione delle categorie dell’economica ad ogni campo dell’agire umano è una forma di imperialismo. Entità tipicamente extra economiche, come la morale, i costumi e lo Stato, sono rilette in modo da concepirle come soluzioni a problemi definiti da imperfezioni del mercato, immaginato come originario. Il fatto che questa evoluzione sia totalmente falsa sul piano storico antropologico è ritenuto irrilevante. Il fatto che un mercato possa esistere solo in presenza di una preesistente cornice di tutela legale e quindi in uno Stato e in presenza di soggetti rispettosi della legge e delle norme sociali, oltre che delle norme sociali connesse, è considerato irrilevante. A causa di tutti questi slittamenti interpretativi le idealizzazioni che definiscono la cornice dello scambio del mercato si trasformano tacitamente in forme utopiche da perseguire, producendo una metamorfosi dell’esperienza primaria di ciò che ci si presenta come dotato di senso ed alimentando una prospettiva nichilistica di svuotamento di tutto ciò che ha valore.

Nella prospettiva citata il denaro e il piacere sono entità strutturalmente indifferenti al modo in cui sono ottenute, indipendenti da buone o cattive ragioni, e funzionano in modo indifferente alla sfera dei significati condivisi o alle prospettive di senso comuni. Si tratta di un impoverimento etico che lascia tracce visibili già nello stesso modo di pensare di chi viene addestrato agli studi economici. Una forma mentis che consentiva, ad esempio, a Gary Becker di parlare senza alcuna ironia dei figli come di “beni durevoli del consumatore”. In sostanza, seguendo questa logica non è affatto incomprensibile supporre che le motivazioni autentiche non possono che essere quelle egoistiche. Questa tradizione capovolge il senso vissuto delle esperienze umane, invertendo sistematicamente i mezzi con i fini. Il capitale stesso come mezzo universale, che può essere impiegato a qualunque cosa senza per determinarne alcuna, diventa il fine ultimo. “La prospettiva esistenziale aperta dall’imperialismo concettuale della teoria economica neoclassica è dunque quella distopica di un rigoroso nichilismo: una visione del mondo dove il calcolo ottimizzata riempito ogni interstizio, mentre la riflessione sulle buone, o meno buone, ragioni del perché calcolare e perché ottimizzare sono lasciate a una landa desolata di idiosincrasie private ed arbitrarietà”[9].

 

Nela Sezione Quarta, che riveste significativo interesse ma per ragioni di economia dello spazio non può essere ripercorsa analiticamente, il testo si concentra nel racconto del quadro storico nel quale la caratterizzazione del liberalismo (nella Seconda e Terza) trova forma. Nel passaggio dal medioevo all’età moderna il collante sociale determinato dalla religione e dall’ordine feudale (o meglio dagli ordinamenti del feudalesimo) viene sostituito e integrato entro la forma vincente dello Stato-nazione (emerso in un lungo periodo che va dal XII secolo al XV e XVI). La pace di Westfalia (1648), punto di condensazione tardo di questo processo, vede infine venire meno la coincidenza tra Stato e proprietà individuale del sovrano e dei suoi lignaggi. Fino alla rivoluzione francese che lo recide con un atto di simbolica (ed effettiva) nettezza. In questo lunghissimo processo emerge la necessità di un collante alternativo nella “nazione”. Ovvero nell’esistenza di confini e di omogeneità culturale.

Le istanze delle cosiddette “rivoluzioni”[10] settecentesche, note come “borghesi”, spostano la sovranità verso il “popolo”[11], aprendo la questione sulla quale l’intero ottocento si impegna (e buona parte del novecento, in effetti fino ad oggi) su “cosa precisamente conti come popolo, e come debba esprimersi istituzionalmente”. Nascono due istanze simultanee, ma non coincidenti, l’idea di popolo-nazione e quella di sovranità popolare, da una parte (con il potenziale di democratizzazione, o l’arena della democrazia), e, dall’altra, l’idea liberale di una società interamente coordinata dai principi della libertà personale e del libero scambio. Due prospettive, e questo è politicamente sia importante sia fonte di equivoci, “storicamente alleate nell’opporsi ai poteri tradizionali basati sulle legittimità dinastiche”[12]. Nel secolo seguente si assiste al consolidarsi prima dello Stato nazione e poi dello Stato imperialista, a seguito della crisi economica del 1870, sempre più aggressivamente orientato versi i rivali. Il successivo collasso dello Stato liberale (a seguito di un settantennio di grandi guerre) porta alla soluzione mista ed al trentennio di crescita che ne segue. Il neoliberismo, infine, è riassunto sulla scorta della lettura di Dardot e Laval[13] e la ripresa trasformante delle vecchie idee liberali.

 

La “Ragione liberale” è organizzata quindi da alcune tendenze strutturali e ideologiche le quali producono nel loro complesso il dispiegarsi dell’ordinamento neoliberale (che Zhok considera completamente e logicamente connesso alla linea interna di sviluppo storico del liberalesimo).

In primo luogo, come abbiamo visto, si può dire che per la ragione liberale lo scambio volontario è di per sé stesso fonte di benefici e che perciò la sua intensificazione diventa un’ideale normativo. Questo ideale normativo è il tratto fondante dell’odierna scienza economica e pone il mezzo dello scambiare come fine. Nel momento in cui si pone lo scambio come punto fermo e cardine intorno al quale tutto gira, tutto diventa in linea di principio mobile o negoziabile. Da questo ideale normativo discendono tantissime conseguenze. La più importante è che il modello incoraggia sistematicamente la flessibilità e ovviamente rende ottimale per il datore di lavoro pagare il lavoratore solo nel momento in cui produce qualcosa di vendibile. Questa idea di flessibilità lavorativa, però, è anche concepita dal liberalismo come fattore di emancipazione individuale, in quanto anche il lavoratore si sente “più libero” in queste circostanze. L’emancipazione individuale come libertà dalla costrizione esterna è, come visto in precedenza, parte integrante dell’ideologia del “Nuovo spirito del capitalismo[14] descritto da Boltanski e Chiappello, nel quale libro viene presentato come una forma nuova, più dinamica, più moderna di concepire il lavoro. Una forma che celebra la libertà individuale di tutti gli attori economici che è proposta a partire dagli anni 70, in esplicita contrapposizione al vecchio modello welfarista, interpretato come gerarchico, padronale, taylorista. Il piano di fondo è che i contraenti hanno, però, livelli molto diversi di potere contrattuale e, quindi, il guadagno reciproco è una mera finzione. Solo per alcuni molto richiesti e molto qualificati, le star, la conservazione di un’ampia autonomia contrattuale può determinare un rapporto di forza favorevole (pensiamo ai calciatori dopo la sentenza Bosman) ma per altri, ovvero per la grandissima maggioranza dei lavoratori, questo sistema relazionale fluido e libero diventa perenne mantenimento sotto ricatto. Inoltre, la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro comporta discontinuità di risorse economiche, ma comporta anche una discontinuità territoriale, cioè mobilità che, essa stessa, ostacola il radicamento in un territorio. Ostacola la formazione di una famiglia, ostacola la costruzione di reti di mutuo soccorso basate sulla consuetudine e sulla frequentazione. Inoltre, il processo di flessibilizzazione, come ricorda Sennett, produce una profonda erosione dello stesso carattere degli agenti coinvolti, cui è preclusa la possibilità di percepire forme stabili di appartenenza, di consolidare abilità o competenze, di stabilire lealtà di lungo periodo. I soggetti umani si percepiscono sempre più essi stessi come mezzi intercambiabili a disposizione di un meccanismo esterno ad essi, sul quale non possono agire, che funziona per la riproduzione del capitale. Il centro della scena lo prende il denaro. Dunque, in questo senso, la flessibilizzazione, la finanziarizzazione sono processi sia paralleli come complementari. La flessibilizzazione impegna le società, le aziende, le persone, che riducono la durata e la continuità dei rapporti di lavoro. Favorisce il ricorso all’estrazione di servizi, diluisce le responsabilità ed estende le reti di relazioni funzionali al capitale su territori molto ampi. Questa caratteristica rende centrale l’aumento del peso del capitale liquido finanziario, rispetto a ogni forma di proprietà reale. Il capitale finanziario può entrare ed uscire agilmente da ogni situazione produttiva, può estrarre il massimo profitto, può evitare ogni impegno a lungo termine. Questa forma di capitale è espressione di uno spostamento massivo dei profitti dalla produzione di beni alla finanza che è avvenuto a partire dagli anni 80. La mobilità del lavoro si esprime sia come l’abilità delle condizioni di lavoro, cioè come flessibilità, che come spostamento fisico alla ricerca dei posti di lavoro, cioè dei luoghi in cui il capitale ha investito. Dunque, i processi migratori internazionali, e i processi migratori internazionali, sono un fenomeno strutturale spontaneo del dominio del capitale finanziario e sono l’immagine allo specchio della sua capacità di spostarsi liberamente.

Più in profondità, il testo sottolinea come non abbia tanta importanza stabilire di quali valori si tratta, quando si consideri che nel mondo contemporaneo l’azione di valore e il potere sugli altri sono strutturalmente disaccoppiati, ma che l’ordinario funzionamento del denaro in un sistema di mercato mina qualunque criterio etico si voglia considerare giustificato. Se, ad esempio, assumo come valida un’etica cristiana, o la vecchia etica eroica, una kantiana o comunista, o qualunque altro sistema normativo che sia in grado di valutare, discernere, distinguere, le azioni buone dalle azioni cattive, in tutti questi casi il funzionamento normale dei meccanismi di arricchimento in un sistema di mercato ne prescinderà. Il potere interpersonale verrà attribuito dallo stesso possesso del denaro, indipendentemente dalla legittimazione ad averlo. Si tratta di una dinamica profonda e consolidata che spezza una delle dimensioni etiche fondanti la società, quella che Andrea Zhok chiama “la continuità temporale delle azioni”: “il denaro, in quanto potere su altri, distacca il passato dal futuro, cioè distacca i ‘meriti’, gli ‘sforzi’, le ‘intenzioni’, le ‘regole’, le ‘promesse’ dalla disponibilità di potere e di status futuro. L’origine del denaro posseduto è irrilevante quanto alla sua capacità di esercitare potere. Il denaro è potere indipendentemente dalla sua legittimazione”[15].

In altre parole, se il denaro conferisce un potere significativo sugli altri, e lo fa tanto più quanto maggiore il suo potere, ogni azione che veicoli successo economico, ovvero che generi successo economico diventa neutra, è sdoganata, neutralizzata. Si può ottenere denaro tramite la corruzione, la prostituzione, il furto, l’omicidio, oppure l’opportunismo, tutto è giustificabile in vista del riconoscimento socialmente conferito dal potere del denaro. Chi è in possesso di molto denaro ottiene, di per sé, uno status sociale e, se proprio necessario, si può sempre spostare dove non è noto che l’ha ottenuto in modo fraudolento. Ciò determina particolare importanza all’apparenza, all’immagine. E queste dinamiche determinano uno strutturale ‘presentismo’, il disseccamento di ogni prospettiva di lungo periodo sul piano sia economico, sia sociale, come antropologico. Infatti, nel momento in cui il potere presente, cioè la disponibilità economica di fatto in questo momento a mia disposizione, può esercitarsi in modo efficace senza tener conto della provenienza dello stesso, cioè del passato, allora anche l’investimento sul futuro è scarsamente motivato. Dopo tutto, come sottolinea acutamente Zhok, nel futuro anche il mio presente sarà un passato. O, dicendolo diversamente, qualunque impegno presente non conta nel futuro. Ciò produce un tendenziale disgregamento del senso temporale delle azioni.

Né aiutano, fondamentalmente, i molti e diversi tentativi per fondare su una base antropologica, o etica, più solida le prospettive liberali. Se anche si volesse superare l’apparentamento all’ utilitarismo, come in molti casi si è tentato a partire dagli anni 70, non muta la prospettiva di fondo. I tentativi illustri da John Stuart Mill a Busanquet, o T.H. Green, a Rawls, di produrre un’etica perfezionista si sono scontrati e si scontrano sistematicamente con la realtà sociale che la ragione liberale promuove. Che la ragione liberale, cioè, promuove tacitamente e instancabilmente. Ogni auspicio di forma di vita all’altezza delle proprie potenzialità, capace di libero sviluppo e di perfezionamento, rimane in sostanza un vagheggiamento se inserito in un sistema affidato al dominio delle transazioni autointeressate e quindi sfociante per logica interna nell’imperialismo economico.

Ma se durante le prime fasi del lungo percorso storico che precede l’emergere delle ragione liberale si può dire che l’autonomia, l’autocontrollo, la responsabilità e le capacità degli individui si siano davvero rafforzate questo processo di autonomizzazione individuale, legato in varia forma al ruolo sociale di alcune pratiche di scrittura, a partire dall’ottocento inizia a mostrare alcune criticità. Queste si manifestano, in primo luogo, negli ambienti più avanzati delle realtà urbane dell’Europa alla fine del secolo, anzi dalla metà del secolo, che anticipano il quadro che osserveremo un’epoca neoliberale. Qui fanno sistema le varie forme di sradicamento e d’isolamento implicite nella logica liberale perché, portano oltre il limite quell’illusione tipica dell’individualismo la quale porta a ritenere che l’identità del soggetto sussista in modo indipendente dalle relazioni in cui sono emerse le relazioni di riconoscimento personale, le relazioni di adesione culturale e dedizione. Quel che avviene in realtà è il contrario: ognuno di noi si identifica spontaneamente in varia misura con la propria collocazione intersoggettiva occupazionale e culturale, noi ci sentiamo sempre qualcosa. Italiani o francesi, commercianti o professori, cittadini o uomini della campagna, talvolta più di queste cose insieme. Anzi in genere più di queste cose insieme. E’ questo che ci orienta le nostre scelte, non è la mera e fredda logica del calcolo razionale. Chiedersi, e questo è molto importante, che cosa penserei o che cosa vorrei, a cosa darei valore, se fossi un’abitante dell’Africa interna, oppure un guerriero giapponese del sedicesimo secolo, o un crociato medievale, è semplicemente una domanda oziosa. In totale assenza dei retroterra esperenziali, sociali, operativi, culturali, della traiettoria di crescita della personalità e delle esperienze nel loro sedimentarsi narrativo non posso avere la più pallida idea di cosa sarei, e quindi di cosa mi potrebbe passare per la testa. Il mero fatto di avere il medesimo corpo o di essere capace di ragione non determinerebbe come utilizzerei quel corpo o quella ragione. Dunque, anche sotto questo profilo, il sistema di relazioni che è alimentato dall’estendersi delle relazioni di mercato in ogni ambito della vita finisce per essere un fattore patogeno dal punto di vista psicologico. Invece di rafforzare le personalità le destabilizza. Finisce per attivare una sorta di individualismo senza individualità, fondato su precarietà, ricattabilità, insicurezza, isolamento. Un individualismo nel quale la formazione è sistematicamente svalutata e nel quale ogni relazione solida e sistematicamente disciolta. L’individualità neoliberale è, come dice Zhok, “insicura, superficiale fino all’inconsistenza, organicamente sfruttata, incapace di azioni collettive, e di iniziative di ampio respiro, ma anche rabbiosamente gelosa della propria presunta indipendenza rispetto a ragioni esterne, vissute come invasive”.

Svolge particolare rilevanza in questo contesto e stile di vita il consumismo, cioè la funzione di controllo ed esercizio di potere fornita dal momento dell’acquisto. Esso diventa una sorta di protesi dell’anima, un esoscheletro che sostiene una personalità debole la quale ha bisogno, profondamente bisogno, di essere sempre e compulsivamente confermata nell’esercizio del potere. Precisamente nell’esercizio di quella forma di potere pervasivamente presente, e organizzante il sociale, dato dal denaro.

Ma questo finisce per tradursi nella disgregazione delle comunità umane. Una disgregazione che avviene sia verso l’alto come verso il basso; più esattamente i vincenti escono dall’alto e i perdenti escono dal basso. Domina comunque ovunque lo sfruttamento. L’esito è la perdita dell’unità sociale l’impoverimento del tessuto morale, il dominio di dinamiche desocializzanti e la valorizzazione sistematica dei comportamenti da freerider che sono un necessario correlato della personalità neoliberale.

Deriva anche da tutto ciò il degrado della funzione pubblica ed infine il degrado ambientale.

 

Con l’insieme della grande convergenza da Hobbes agli ultimi esiti contemporanei lo Stato neoliberale è divenuto ormai solo una funzione accessoria e accudente il mercato. Contemporaneamente viene delegittimata ogni pretesa normativa e aumenta la necessità di controllo, si attivano meccanismi di pressione selettiva e di svuotamento democratico. La questione fondamentale è che nel processo di distruzione dei valori dell’essere, delle identità, del limite, la ragione liberale non possiede al proprio interno alcun fattore di contenimento, non è in grado di esercitare alcuna misura.

 

Nella seconda parte di questa lettura vedremo come, su questa base, si affermano e vengono imposti dei veri e propri “regimi di ragione” altamente pervasivi.

 

[1] – Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, Meltemi 2020, p. 10

[2] – Vedi Polanyi e Mauss

[3] – Zhok, p.23

[4] – Zhok, p. 32

[5] – Si veda, dello stesso autore, Andrea Zhok, “Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo”, Jaca Book, 2006.

[6] – Hugo Assmann, Franz Hinkelammert, “Idolatria del mercato. Saggio su economia e teologia”,

[7] – Fase mercantilista dello sviluppo del capitalismo.

[8] – Zhok, cit, p. 79.

[9] – Zhok, p.122

[10] – Sulla imprecisione nel definire “rivoluzione” quella americana, o nel definirla al singolare, si veda Alan Taylor, “Rivoluzioni americane”, Einaudi 2017 (ed.or. 2016).

[11] – Né nell’una, né nell’altra si chiama “popolo” la generalità della popolazione, ed in particolare in nessun caso ciò avviene in quella americana. Si veda, ad esempio, Bernard Manin, “Principi del governo rappresentativo”, Il Mulino, 2010 (ed. or. 1997).

[12] – Zhok, p.128, si veda Jean-Claude Michea, “L’impero del male minore”, Ore, Milano, 2008 (ed. or. 2007).

[13] – Pierre Dardot e Christian Laval, “La nuova ragione del mondo”, Derive e Approdi 2013 (ed. or. 2009)

[14] – Luc Boltanski, Eve Chiappello, “Il nuovo spirito del capitalismo”, Mimesis, 2014 (ed.or. 1999).

[15] – Zhok, p. 166

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LIBERALI SENZA NEMICO?, di Teodoro Klitsche de la Grange

LIBERALI SENZA NEMICO?

Se qualche (politologo) marziano sbarcasse oggi sulla terra avrebbe l’impressione dal dibattito pubblico, che liberale significa: a) essere cosmopoliti; b) non volere – o rendere permeabili – le frontiere; c) essere individualisti, ma soprattutto anticomunitari; d) essere egualitari, indipendentemente dai (specifici) caratteri naturali; e) operare perché siano promossi a diritti e tutelati dal potere pubblico desideri e pulsioni individuali. Ciò, in aggiunta – ma non sempre – che i suddetti liberali sarebbero anche neo – liberisti (spesso è vero). E anche altro di minor rilievo. Tale giudizio è, in negativo, condiviso anche da coloro che ai liberali si oppongono. Orban ad esempio si oppone ad un “liberalismo” cui attribuisce – in gran parte – i connotati sopra ricordati.

  1. Ma è corretto qualificare liberale e movimento politico (in senso proprio) chi pensa così?

Ad esaminare cosa si intendeva per liberale (con la e finale) si deve rispondere che tale nuovo concetto ha alcuni tratti – e non sempre i più qualificanti – del liberalismo, ma gliene mancano altri.

Tra i primi indubbiamente i nuovi liberali hanno in comune con i “vecchi” l’individualismo (ma solo fino a un certo punto l’anticomunitarismo); in qualche misura anche l’egualitarismo, ma con la differenza essenziale che è un egualitarismo (quello dei “vecchi”) che tratta realtà eguali in modo uguale, mentre quello dei “nuovi” quasi sempre realtà diverse allo stesso modo. Quanto a cosmopolitismo e frontiere, se è vera l’avversione (tendenziale) dei liberali all’”ésprit de conquéte” è pur vera che, storicamente, non hanno difeso la comunità nazionale meno di governanti di diverso orientamento.

Relativamente ai “diritti” è il caso di ricordare che, spesso, per i liberali classici questi hanno il carattere di “libertà da”, ossia di protezione della sfera individuale dall’invadenza pubblica (in primo luogo) ma anche privata. Mentre per i “liberali” odierni hanno spesso le strutture di “libertà di” e spesso comportano la compressione (e talvolta la penalizzazione) d’opinioni diverse.

Ad esempio il matrimonio tra omosessuali, che significa conferire una facoltà (lo jus connubi) tutelato e riconosciuto a creare un nuovo status, secondo molti un’istituzione (la famiglia).

Peraltro tali diritti sono spesso soggetti ad interpretazioni quanto mai estensive, equivocando sulla rubrica della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (del 1789), confondendo “uomo” e “cittadino” ed attribuendo anche al primo i diritti del secondo. Per loro natura i diritti spettanti al civis sono libertà di, ossia di partecipazione alla vita, alla decisione ed alla funzione pubblica (voto, accesso, partecipazione – v. art. 6-11-14); ancora più spesso, si facilita l’acquisizione della cittadinanza agli immigrati, basandola sulla durata di residenza, su quella del lavoro, sullo jus soli (e così via), facendo acquisire così lo status per esercitarli.

È evidente inoltre che nella narrazione dei “nuovi” liberali, la tutela di diritti cui i “vecchi” tenevano molto è (largamente) depotenziata; se un tempo ciò che era tipico della constitution sociale era la garanzia della “libertà e proprietà”, ora spesso libertà (nel senso dei vecchi) e proprietà viene sottovaluta dai nuovi. Basti ricordare la diffusione di norme contro opinioni culturali: dal revisionismo storico alle fake-news, ossia la libertà di dire anche sciocchezze sulla rete. Il che, tenuto conto del ruolo che la libertà di opinione ha nel sistema delle libertà liberali – è storicamente la prima ad emergere nel mondo moderno nella libertà di coscienza e la tolleranza religiosa  – è un vulnus niente male. E cui le èlite dirigenti peraltro non sono affatto estranee, data la mole (quantitativa ma anche qualitativa) delle bufale (fake-news) dalle stesse diffuse, anche nell’ultimo trentennio. O la scarso interesse delle stesse per il diritto di proprietà, specie se lo si confronta con l’attenzione riservata alla libertà di commercio e a quella d’iniziativa economica.

Sul piano istituzionale non danno grande attenzione né al principio di distinzione dei poteri (né alle garanzie dei diritti), che richiede istituzioni apposite, pensate e realizzate dai “vecchi” liberali. E che negli ultimi decenni almeno in Italia, hanno fatto consistenti passi indietro[1]; e quel che parimenti conta, nella generale indifferenza.

Quanto all’altro caposaldo del costituzionalismo liberale, cioè la tutela dei diritti fondamentali e con ciò del principio di separazione tra Stato e società civile (Schmitt) ha anch’esso fatto passi indietro, un po’ perché alcuni diritti fondamentali sono più belli di altri (v. sopra), e, in genere, perché le limitazioni alle istituzioni di garanzia li riducono tutti.

  1. Se si dovesse cercare il “punto d’Archimede” del liberalismo, ovvero ciò che lo distingue essenzialmente e fa si che sia quello che è e non qualcosa di diverso (come Lassalle sosteneva per le costituzioni) è che il liberalismo, o più limitatamente la concezione liberale dello Stato, non è una concezione che istituisce un potere, ma i controlli al potere stesso. Un sistema di valori, d’interesse, d’idee, nel linguaggio di “recente” modernità un’ideologia, legittima il potere. Così è legittimata una monarchia tradizionale, una democrazia, un’aristocrazia, anche un regime tirannico o totalitario, o uno status mixtus. Ma tuttavia le forme di Stato e di governo possono essere liberali o no – forse l’unica che non può esserlo, tra quelle praticate nella storia del cristianesimo occidentale è, per incompatibilità totale, il totalitarismo comunista o nazista. Se hanno tutela dei diritti fondamentali, separazione dei poteri, possono essere qualificate come liberali, se no, non lo sono. Scrive Schmitt “Il moderno Stato costituzionale nella sua struttura è composto di due diversi elementi: di una serie di intralci al potere statale propri dello Stato borghese di diritto e di un sistema sia esso monocratico o democratico di attività politica[2].

Riprendendo la nota espressione del “Federalista”, perché vi sia uno Stato liberale è necessario che, oltre ai governi, esistano anche i controlli sui governi. Per cui il punto essenziale del liberalismo è che il potere politico sia limitato (almeno nello stato normale e, in qualche misura anche nella situazione eccezionale); così d’altra parte, come sostiene Schmitt, non esiste uno Stato liberale “puro” ma solo delle forme politiche limitate da un sistema liberale di garanzie e controlli.

Una monarchia rappresentativa del XIX secolo, in cui il potere monarchico richiedeva, per alcuni atti, la deliberazione di parlamenti eletti da un elettorato assai ristretto (nell’Italia appena unita circa il 5% degli uomini maggiorenni) era qualificato liberale sia perché era prevista la tutela dei diritti fondamentali sia la separazione dei poteri. Questo pur essendo un regime riconducibile ad uno Status mixtus aristo-monarchico. Così come la democrazia “compiuta” del XX secolo, col suo apparato di garanzie, controllo di costituzionalità compreso. e l’elettorato universale, è una democrazia liberale.

  1. Se essenziale è la tutela dei diritti, in primo luogo dell’individuo, e delle istituzioni che consentono di farlo, ne deriva che è nemico chi impedisce di esercitare tali diritti e conformare conseguentemente l’ordinamento.

Indipendentemente dall’insorgere di un nemico per altre ragioni (controversie territoriali, economiche, giuridiche e così via) questo può essere configurato hegelianamente, anche come differenza etica, ossia come negazione dei principi fondamentali dell’ethos condiviso nella comunità (come durante il XX secolo uno Stato borghese per i comunisti e viceversa) e conformato nelle sue istituzioni[3].

Quindi tra i tanti nemici possibili e reali ce n’è uno – o qualcuno – che è tale perché è una “differenza etica”; è la stessa identificazione di tale nemico a chiarire connotati essenziali (e fini) del liberalismo.

È indubbio che il nemico “etico” per un liberale “classico” era così colui che non accetta (o riduce) limiti e controlli all’esercizio del potere. Già col periodo rivoluzionario la palma passò dai sostenitori dell’ancien regime agli estremisti giacobini. Durante la restaurazione divenne nuovamente la Santa Alleanza. Dopo la comune il movimento socialista, e poi i bolscevichi. La caduta del “socialismo” reale ha privato i liberali del nemico dichiarato (ma una nuova antitesi è andata emergendo).

Tuttavia in tale disorientamento, è cresciuto un “nemico” (poco credibile e) poco o punto simile a quello “classico”. Se il “nemico” dei (sedicenti) liberali post-moderni è l’omofobo, il “razzista” (declinato in tutte le sue gradazioni, da quella seria, ma fortunatamente consegnata alla storia, dei campi di sterminio, via via scendendo fino alle troppe contravvenzioni stradali inflitte ai rom dai vigili di un comune ungherese – UE.dixit); il creatore di fake-news e via salendo (ma non troppo) in politicità, l’inquinatore e soprattutto il sovran-populista, allora i nemici (nuovi) non hanno la grandezza demoniaca dei nemici di un tempo. Da Robespierre a Stalin, da Hitler a Metternich, da Lenin a Mao.

Si potrebbe osservare che ognuno ha  il nemico che si merita: la vittoria sul “grande” nemico garantisce una fama grande e imperitura, quella su un nemico piccolo piccolo assicura al vincitore solo di poter dominare qualche anno di più.

  1. Nel nemico depotenziato e ridotto a misura di contendente, c’è comunque un pericolo: di spoliticizzare, più ancor di quanto sia già, il liberalismo. La cui funzione principale era di creare istituzioni limitative del potere. Se i liberali sono quelli che difendono le scelte (privatissime) di preferenze sessuali, e così via, chi difenderà gli uomini dagli abusi del potere? Se poi perché un potere sia “liberale” basta che assicuri la libertà di consumo, di scelta del partner, di migrazione, allora accettabilmente liberale è anche il PC cinese (che di strada dai tempi di Mao ne ha fatta, tuttavia, tanta) malgrado Tien-a-men e i Lao-gai (tuttora, si dice, esistenti, almeno nel Xin-Iang). In effetti in Cina c’è libertà di consumo, Xi-in.ping difende a ogni piè sospinto la libertà di mercato, non risultano discriminazioni nei confronti di omosessuali. Che sia comunque un regime a partito unico, con minoranze (spesso religiose) represse, diritti umani poco protetti, separazione dei poteri poco trascurata (a dir poco) tutte cose che avrebbero indotto un “vecchio” liberale ad essere critico e circospetto, non pare muovano granché un liberale post-moderno.

Ma così il liberalismo perde la propria politicità (e funzione) che nell’età moderna è stata (anche) quella di neutralizzare le antitesi del politico, e così di permettere una convivenza pacifica all’interno delle comunità politiche, oltre allo sviluppo delle libertà fondamentali. Per far questo occorreva politicamente identificare il nemico in colui che conculcava quella libertà e i principi dello Stato borghese di diritto cioè nel contrapporvisi. Ma ora che i “liberali” si occupano d’altro, chi ci salverà da quel nemico?

Teodoro Klitsche de la Grange

 

[1] Rinvio per un’analisi più articolata al mio lavoro Temi e Dike nel tramonto della Repubblica in Rivoluzione liberale on.line 17/07/2018)

[2] v. C. Schmitt Verfassungslehre, trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1984, p. 154 (il corsivo è mio).

[3] Scriveva Hegel a tale proposito “Una differenza siffatta è il nemico; e la differenza, posta in relazione, sussiste nel contempo come  il proprio contrario, come il contrario dell’essere degli opposti, come il nulla del nemico, e questo nulla equivalente da entrambi i lati è il pericolo della lotta. Questo nemico può essere, per l’elemento etico, soltanto un nemico del popolo ed esso stesso un popolo. Presentandosi qui la singolarità, è per il popolo che il singolo si espone al pericolo della morte” ora in Scritti politici, Roma…., p. 174.

CONTRO IL LIBERALISMO 2 – RISPOSTA A GAMBESCIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

CONTRO IL LIBERALISMO 2 – RISPOSTA A GAMBESCIA

Caro Carlo,

rispondo al cortese intervento sul tuo blog del 6 marzo u.s..

In primo luogo quando scrivo nella mia recensione di “usuali deprecazioni, anatemi ed esorcismi, come capitato (in Italia da ultimo circa un anno fa)” mi riferivo al noto episodio dell’invito (rivolto se, ben ricordo, dalla Feltrinelli) a De Benoist, poi annullato per le “contestazioni” di insegnanti di sinistra, e non alla Tua recensione, dotta e ragionata, non come quelle dei contestatori “a prescindere”.

Quanto al resto, ritengo di essere da sempre un seguace del liberalismo “triste”, che a me piace chiamare “forte”: ossia quello che non dimentica né la realtà e la storia, né i presupposti del politico, cioè le regolarità, le leggi sociologiche che non solo Miglio ma, come puoi leggere dalla mia recensione, anche il giovane V. E. Orlando (nel 1881) riteneva ineluttabili, che (anche) il giurista non può accantonare.

E venendo ad Orban, Ti posso rimandare per un’analisi più dettagliata al mio articolo “Costituzione ungherese e Stato di diritto” pubblicato da “Italia e il mondo” nel gennaio 2019 e mesi dopo, col titolo: “Attacco alla costituzione ungherese” su stampa da Nova Historica, in cui analizzavo la risoluzione del parlamento UE per la procedura d’infrazione all’Ungheria per violazioni dello “Stato di diritto” (ecc. ecc.).

Da tale risoluzione risulta che lo Stato di diritto ungherese era messo in pericolo da:

  1. a) l’assenza nei sussidiari ungheresi di immagini di famiglie omosessuali (del tipo Tognazzi e Serrault nel “Vizietto”).
  2. b) Dal fatto che i vigili urbani di un paese ungherese elevavano troppe contravvenzioni ai rom.
  3. c) Dal fatto che la Corte EDU avesse condannato l’Ungheria per la brutalità della polizia nel respingere i migranti.
  4. d) Dall’abolizione del ricorso diretto alla Corte Costituzionale (mentre nel ventennio circa – dopo il crollo del comunismo –era stato in vigore). Ma anche in Italia ai cittadini non è dato adire direttamente la Corte Costituzionale (come avviene per il TAR, p.es.) e all’UE nessuno ne mena scandalo; come neppure del fatto che l’Italia sia stata condannata dalla Corte EDU per la brutalità nella repressione e le torture poliziesche a Genova nel 2001 (e perché non aprono la procedura d’infrazione?). Peraltro, non è stato notato che la Costituzione ungherese prevede oltre a quelle “classiche” un’istituzione di garanzia che manca in quella italiana: il difensore civico.

Penso che risoluzioni come questa non colgono l’obiettivo esternato, ma servono più che altro alla guerra (psicologica) delle elite decadenti.

Più meritatamente una procedura d’infrazione spetterebbe all’Italia della Seconda Repubblica che, tante volte sanzionata dalle Corti europee (sia la Corte EDU che la Corte di Giustizia) ha poco o punto cambiato l’abitudine di conculcare i diritti, anche quelli più elementari, dei cittadini.

Per questi, e altri fatti e i correlativi comportamenti strabici della UE mi chiedevo se quello che dispiaceva tanto della Costituzione Ungherese fosse invece che, nella stessa, era ben chiaro e solennemente affermato la centralità del popolo e ancor più la continuità storica della comunità nazionale, a partire da Santo Stefano d’Ungheria.

Dichiarazioni che, specie la seconda, difficilmente si trovano in documenti analoghi, ma sono nient’altro che l’enunciazione di un fatto: che l’esistenza di una comunità è il presupposto dello Stato, anche quello “borghese di diritto”. Spesso attualmente dimenticato. E che, aimè, contribuisce a spoliticizzare ed emasculare il liberalismo. È esatta, a mio avviso, la critica di Schmitt che questo non fonda un potere, ma lo limita; per cui il liberalismo forte è quello che riconosce il nemico nell’oppressore delle libertà (politica, in primo luogo) e delle garanzie di queste. Ma se il nemico dei liberali non è più chi conculca la libertà ma diventa chi difende la famiglia tradizionale, i rapporti comunitari e la comunità, ciò non significa altro se de-politicizzare il liberalismo (chi difenderà la libertà politica, se neppure i liberali lo fanno?), e, ancor più, compiere l’errore più grave in politica: quello di identificare il nemico sbagliato. Quanto alla mafiosità di Orlando ritengo che la Sicilia abbia dato alla cultura tre dei maggiori esponenti del diritto e della scienza politica a cavallo del XIX e XX secolo: Gaetano Mosca, V.E. Orlando e Santi Romano. Sono orgoglioso che fossero italiani e non mi interessa cosa nelle loro azioni o scritti può essere valutato prossimo all’ “onorata società” (anche qualche affermazione di Santi Romano è imputata di “mafiosità”).

Ricambio i saluti, con immutata stima ed amicizia.

Teodoro Klitsche de la Grange

In calce il testo di riferimento di Carlo Gambescia

https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2020/03/storie-di-liberalismo-e-di-amicizia-una.html?spref=fb&fbclid=IwAR2_qadultF2O4tJ9h5qt8k31lOLjqJpJIIM0Vr3sl4l_LAyEP-vbt8AbNg

la fine della storia o l’inizio del liberalismo, di Teodoro Klitsche de la Grange

Questo breve saggio comparve su “Opinione-Mese” di dicembre 1990. Era da poco stato pubblicato il notissimo articolo di F. Fukuyama sulla “Fine della storia”. Lo ripropongo ai lettori di “Italia e il mondo”! perché alcuni spunti, in particolare la “regolarità” (o il presupposto) del politico, tra cui quella dell’amico-nemico, sono connaturali all’uomo, e non possono essere rimossi come pensava Fukuyama. Cosa che i quasi trent’anni decorsi dal crollo del comunismo con le tante guerre (vario tipo) successive hanno confermato. E che il nuovo contenuto della scriminante amico-nemico principale conforta ulteriormente: alla scriminante borghesia/proletariato è succeduta ormai quella popoli/globalizzazione. Oltre a tutte quelle scriminanti meno “universali”, conseguenti al “pluriverso” delle sintesi politiche. Teodoro Klitsche de la Grange

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La fine della storia o l’inizio del liberalismo