JUS SCHOLAE E ITALIANI DA FARE, di Teodoro Klitsche de la Grange

JUS SCHOLAE E ITALIANI DA FARE

Qualche sera fa in televisione era invitato un parlamentare PD il quale strenuamente difendeva il d.d.l. sullo jus scholae ripetendo che i giovani cui sarebbe stato applicato (ove approvato) erano “italiani” ed avevano “diritto” alla cittadinanza.

È facile obiettare che un tale modo di ragionare ha il (doppio) difetto di dare per scontata e pacifica l’italianità (cioè il “presupposto di fatto” per la concessione della cittadinanza) ossia la cosa da provare, a realizzare la quale può concorrere (anche) la frequentazione scolastica; dall’altra che il tutto sarebbe un “diritto”. Ma se è un diritto (positivo) è inutile battersi per riconoscerlo; se invece è – com’è – una pretesa, occorre valutare se tale pretesa – promossa a diritto – sia legittima ed opportuna. Che è poi l’oggetto del dibattito nell’opinione pubblica e in Parlamento. Di fronte a tali argomentazioni strabiche e filiformi, la risposta acconcia è quella di Salvini: con tanti problemi che abbiamo dalla guerra al COVID, dalle macro-bollette alla crisi energetica e all’inflazione, è proprio così pressante e decisivo il riconoscimento di cittadinanza?

Ma invece di dare la consueta risposta dietrologica: che è importante per il PD il quale spera di trovare nei riconosciuti italiani un serbatoio elettorale sostitutivo di quello in gran parte perso (nonché una bandiera da sventolare), vediamo come sia stato considerato il problema da oltre due millenni fa.

Scrive Aristotele nella Politica esaminando le cause dei rivolgimenti politici e quindi (anche) dei cambiamenti costituzionali “Anche la differenza di razze è elemento di ribellione finché non si raggiunga concordia di spiriti, perché, come non si forma uno stato da una massa qualunque di uomini, così nemmeno in un qualunque momento del tempo. Per ciò (coloro che) hanno accolto uomini d’altra razza sia come compagni di colonizzazione sia come concittadini dopo la colonizzazione, la maggior parte sono caduti in preda alle fazioni” (1303b) e prosegue, per dimostrarlo, con un lungo elenco di “inclusioni” finite in guerre civili.

Anche i romani che della concessione della cittadinanza (a singoli o a collettività) fecero un efficace sistema d’integrazione, questa era normalmente uno dei benefici per i veterani non cittadini che avevano militato per 25 anni nell’esercito. Né i tempi erano granché solleciti: a parte l’editto di Caracalla (dopo oltre due secoli dalla costituzione dell’impero), la cittadinanza latina (e non romana) fu concessa a tutta la Spagna all’epoca dei Flavi (anche qua, oltre due secoli dalla conquista) e mentre la Spagna dava alla letteratura latina alcuni dei più suoi grandi scrittori. Ma a differenza dei politici italiani i romani non misuravano benefici del genere con i tempi delle campagne elettorali. Anche la storia successiva prova che, per fare una nazione da più etnie, occorrono secoli.

Renan sosteneva che una “nazione è un’anima, un principio spirituale”, e soprattutto due cose la costituiscono: il comune possesso di ricordi nel passato  e il consenso nel presente “Un passato eroico, grandi uomini e gloria (mi riferisco a quella vera), ecco il capitale sociale su cui poggia un’idea nazionale. Avere glorie comuni nel passato e una volontà comune nel presente: aver compiuto grandi cose insieme e volerne fare altre ancora; ecco le condizioni essenziali per essere un popolo”.  Ma qua di comune passato non se ne parla affatto, perché non c’è; l’altro è assai dubbio che esista (nel presente).

Quel che succede nella banlieu francesi o nei quartieri islamici belgi non lascia granché da sperare. Ma soprattutto appare un misto di furberia burocratica e utopia interessata credere che per fare un italiano basti farlo nascere nel Bel Paese ed assolvere l’obbligo scolastico. Era un compito che – per gli italiani, quindi assai facilitati rispetto agli immigrati – già toglieva il sonno ai governanti del Risorgimento consapevoli della necessità di fare gli italiani; e invece i nostri dem hanno trovato una soluzione così semplice e a portata di mano: un esame e passa la paura. Per una questione che, da Aristotele in poi, ha preoccupato statisti e pensatori, abituati a ragionare sulla realtà e sui precedenti storici (e giuridici). Se D’Azeglio lo avesse saputo…

Teodoro Klitsche de la Grange

Ius soli 3: come funziona la propaganda, di Roberto Buffagni

IUS SOLI, DI ROBERTO BUFFAGNI

http://italiaeilmondo.com/2017/12/30/ius-soli-2-di-roberto-buffagni/

Per concludere la serie sullo ius soli, una nota sullo schema di funzionamento della propaganda, il “frame”, come lo chiamano i tecnici dei media.

Per cominciare, vi presento il “Triangolo drammatico di Karpman”[1]. Stephen Karpman è un rispettato e mite psicologo, allievo di Eric Berne, fondatore dell’analisi transazionale. Nel 1968, da giovanissimo, ha inventato lo schema di relazione a cui ha dato il nome di “triangolo drammatico” perché è un appassionato di teatro e di cinema e un attore dilettante. Il “triangolo drammatico di Karpman” è ben noto nell’ambiente dello spettacolo internazionale, e viene spesso usato da insegnanti di recitazione, sceneggiatori, registi, drammaturghi, com’è naturale specie di scuola statunitense, ma non solo; perché in effetti è molto utile per strutturare e analizzare alcuni rapporti drammatici (io ne sono venuto a conoscenza così, per informazione professionale).

Per questo lavoro, nel 1972 Karpman ha ricevuto l’Eric Berne Memorial Award. Il nome di “triangolo drammatico” descrive correttamente il modello, perché il dramma è sempre una rappresentazione di conflitti (anche interiori) tra persone, ma siccome quest’ultimo fatto non è universalmente noto, vale la pena di segnalare che un altro nome può descrivere con esattezza il modello ideato da Karpman: “triangolo conflittuale”.

Il conflitto descritto dal triangolo di Karpman è un conflitto DISTRUTTIVO e IRRAZIONALE che può aver luogo in mille circostanze della vita: tra amanti o coniugi, tra datore di lavoro e dipendenti, tra genitori e figli, etc. L’utilità del triangolo di Karpman nella terapia psicologica è duplice: da un canto, il modello è un ausilio per l’analisi strutturale (definizione dei ruoli assunti dai membri del gruppo in esame), dall’altro per l’analisi transazionale (descrizione del passaggio da un ruolo all’altro dei  membri del gruppo nel quale si è acceso il conflitto). Qualche esempio di conflitto triangolare distruttivo e irrazionale tratti dal sito ufficiale dedicato al triangolo di Karpman:  1) Triangolo (coniugi)  “Non ho mai guardato un altro uomo”/”Sono andato a letto con tua sorella ma non significava niente” 2) Triangolo (famigliare) “Sono geloso perché tu sei il preferito e io no” 3) Triangolo (dipendenze): “Smetto quando voglio”. Eccetera, eccetera.

Questa non è una trattazione psicologica, e io non sono uno psicologo, quindi mi limito a riferire quanto segue, che il lettore potrà approfondire leggendo il sito ufficiale del triangolo di Karpman. Il conflitto descritto dal triangolo drammatico di Karpman è un conflitto distruttivo e irrazionale, in cui tutti i partecipanti perdono, ripeto: TUTTI PERDONO. L’unico modo per indirizzare le persone coinvolte nel conflitto triangolare verso un risultato più positivo (magari non ideale, ma non distruttivo) è farle uscire dal triangolo, ripeto: FARLE USCIRE DAL TRIANGOLO. Finché ci si rimane dentro, il risultato è distruttivo per tutti, ripeto TUTTI. Il terapeuta che si avvale del modello descritto dal triangolo di Karpman si propone esattamente questo scopo: sciogliere la relazione triangolare.

Com’è fatto, il triangolo drammatico di Karpman? Immaginate un triangolo rovesciato, con il culmine in basso. Al vertice inferiore si situa il ruolo di VITTIMA, sugli altri due vertici si situano i ruoli di PERSECUTORE e SALVATORE. Il ruolo di VITTIMA è il ruolo dominante, perché è in relazione alla vittima che si creano e si posizionano gli altri due ruoli di salvatore e persecutore.

Com’è la VITTIMA? La vittima è sempre indifesa e incolpevole. Nega di avere la minima responsabilità per la situazione in cui si trova, nega di avere la benché minima possibilità di uscire dalla sua condizione di vittima. Non fa mai la sua parte di lavoro, compiti, doveri. Esige di essere trattata con i guanti, è altamente suscettibile e permalosa, si dichiara (finge di essere) impotente e incompetente.

Com’è il SALVATORE? Il salvatore si affanna per portare soccorsi immediati alla vittima (gli dà il pesce, non la canna da pesca), e così affannandosi trascura le sue proprie necessità. Lavora sempre sodo “per aiutare gli altri”. E’ spesso irritabile, esausto; a volte accusa malanni fisici. In lui si osserva spesso parecchia rabbia repressa, adotta volentieri atteggiamenti da martire (martire che soffre in silenzio o che protesta a gran voce). Per ottenere i suoi scopi e avere ragione nelle discussioni il suo metodo privilegiato è: far leva sul senso di colpa.

Com’è il PERSECUTORE? Il persecutore incolpa la vittima e critica il salvatore che “gliele dà tutte vinte”, ma non fornisce indicazioni, guida, assistenza o soluzioni. E’ uno sgradevole criticone, bravissimo a dar la colpa agli altri e a trovare, negli altri, mancanze e difetti. Spesso, dentro di sé, il persecutore si sente inadeguato, non all’altezza della situazione. E’ rigido, controllante, fanatico dell’ordine, facile alla minaccia. Può adottare tanto uno stile pacato quanto il suo contrario. Può essere un prepotente, ma non è detto, può benissimo non esserlo.

Sintesi: la VITTIMA è dipendente (come si dice di un drogato) da un salvatore, il SALVATORE sempre alla ricerca di un caso disperato, il PERSECUTORE ha bisogno di un capro espiatorio. Nel corso del gioco triangolare, i giocatori possono cambiare ruolo: per esempio, un salvatore sottoposto a una pressione troppo forte può scivolare nel ruolo di vittima, o di contro-persecutore.

Il conflitto descritto dal triangolo drammatico di Karpman è irrazionale e distruttivo perché la sua configurazione attiva un CONFLITTO MIMETICO, cioè un conflitto speculare, tra salvatore e persecutore. Speculare significa speculare, cioè identico, nella dinamica, a quel che avviene nella boxe con l’ombra: quando il pugile porta il sinistro, il suo riflesso risponde con il destro, e viceversa, in una fuga all’infinito che ha senso nell’allenamento dei pugili, ma che fuori da una palestra di boxe non ha né scopo, né senso, né termine. Nella fuga all’infinito del conflitto mimetico, i confliggenti perdono molto rapidamente di vista l’oggetto reale del conflitto, e a maggior ragione le possibili vie d’uscita dalla situazione conflittuale.

L’unico modo di sfuggire alla distruttiva irrazionalità del conflitto triangolare è: comportarsi da adulto, e SMETTERE DI GIOCARE.

E con questo direi che la presentazione del triangolo drammatico di Karpman è conclusa. Ringraziamo il dr. Karpman, un benefattore dell’umanità nevrotica e un valido studioso che non porta la minima responsabilità per gli usi, ahimè nient’affatto benefici, ai quali è stato piegato il suo modello.

Perché come il lettore avrà già intuito, non solo gli psicoterapeuti o l’ambiente dello spettacolo hanno notato e apprezzato l’intelligente modello proposto dal dr. Karpman. Il triangolo drammatico ha infatti suscitato vasti ed entusiastici apprezzamenti anche tra i professionisti della guerra psicologica, o per dirla all’anglosassone, delle psyops (tra i quali psichiatri, psicologi e psicoanalisti sono legione).

Come lavora il professionista della guerra psicologica, quando vuole influenzare un conflitto (reale)? Anzitutto, adotta il principio della leva lunga. Per essere vantaggiosa, la forza applicata richiesta deve essere minore della forza resistente, e questo accade solo se il braccio-resistenza (quello su cui si applica la forza) è più corto del braccio-potenza (quello che solleva il peso). Terra terra: il professionista della guerra psicologica si serve di intermediari, che chiameremo “agenti di influenza”. Quanto più numerosi sono gli agenti di influenza, e quanto più lunga la catena di agenti che si diparte e distanzia dal tecnico della guerra psicologica, tanto più vantaggiosa sarà la leva, che riuscirà a sollevare un peso enorme con l’applicazione di una forza minima. Gli agenti di influenza possono essere consapevoli d’esser tali (qualcuno, di solito in posizione professionalmente elevata, lo è) ma possono anche essere del tutto inconsapevoli (e in maggior parte sono tali). Gli agenti di influenza inconsapevoli agiscono nella direzione voluta dal tecnico della guerra psicologica per un’infinità di motivi, ad es., per semplice subordinazione in una gerarchia professionale: il giornalista che scrive quel che gli ordina il direttore. O perché la loro cultura o ideologia condivide gli scopi apparenti del tecnico della guerra psicologica: il giornalista democratico che condivide l’obiettivo di rovesciare il malvagio dittatore fascista, senza riflettere che con la sua caduta il paese piomberà nel caos e nella guerra civile, e che i mandanti del tecnico della guerra psicologica vogliono rovesciare il dittatore per i loro interessi economici e/o politici, non per sconfiggere il fascismo o impiantare la democrazia e il regno del Bene.

Un altro principio che adotterà il tecnico della guerra psicologica è il principio del filo di ferro. Come si fa a spezzare un filo di ferro? Lo si torce in opposte direzioni. Dunque il tecnico della guerra psicologica, sempre impiegando il principio della leva lunga e degli agenti d’influenza, torcerà in opposte direzioni il fil di ferro da spezzare. Esempio: si vuole far cadere il dittatore fascista? Bene. Insieme alla campagna “abbasso il feroce dittatore, salviamo le vittime del genocidio, viva la democrazia!” si darà impulso a una campagna in senso esattamente opposto: “viva il feroce dittatore, la democrazia è una truffa ipocrita, se c’è un genocidio chi se ne frega, l’importante è la nostra digestione.”

A questo punto dell’illustrazione, dovrebbe esser chiaro ai lettori quale prezioso ausilio sia, per i tecnici della guerra psicologica, il triangolo drammatico di Karpman. Per applicare insieme il principio della leva lunga e del filo di ferro, il tecnico della guerra psicologica deve fare una cosa sola: piazzare nel ruolo di VITTIMA il personaggio adatto. I più adatti al ruolo di vittima, naturalmente, sono i bambini, che sono sul serio “indifesi e incolpevoli”. Seguono a ruota le ragazze (carine, con grandi occhioni da cerbiatta). Che poi la vittima sia realmente vittima di un’ingiustizia, di un sopruso, di una disgrazia oppure no, al tecnico della guerra psicologica non importa molto. Certo, meglio se lo è: si evita la seccatura delle smentite, comunque subito affogate nel rumore di fondo dei media; ma se non se ne trovano di vere, ci sono sempre le fasulle; e in certi casi, ad esempio quando si devono simulare attacchi con gas venefici mai avvenuti, è inevitabile ricorrere al falso: c’è un limite anche ai miracoli della psicologia.

Una volta piazzata la vittima adatta al vertice inferiore del Triangolo di Karpman, il tecnico della guerra psicologica può mettersi comodo in poltrona e osservare divertito, fumandosi una meritata sigaretta, l’automatica escalation del conflitto irrazionale e distruttivo. Perché immediatamente, senza alcun bisogno di suoi ulteriori interventi, si autocandideranno al ruolo e vi si posizioneranno sia i salvatori, sia i persecutori della vittima. I quali salvatori e persecutori ingaggeranno subito tra di loro la boxe con l’ombra del conflitto mimetico, alzeranno un enorme polverone di accuse reciproche e reciproca rivalità, e nel polverone forniranno – gratis – ai superiori del tecnico della guerra psicologica  un comodo riparo, all’ombra del quale perseguire i loro scopi, di solito distruttivi (per gli altri) ma tutt’altro che irrazionali, almeno nel senso della razionalità strumentale.

Nel ruolo di vittima si possono piazzare praticamente tutti i gruppi sociali: gli immigrati, gli autoctoni, gli omosessuali, gli eterosessuali, i poveri, i ricchi, gli orchi e i puffi. Naturale che per i candidati più improbabili ci voglia uno sforzo in più, ma se si lavora a regola d’arte il risultato è garantito. Basta un minimo appiglio: per esempio, una ricca e tosta dirigente di megabanca d’affari passerà facilmente per vittima “in quanto donna”, un politico cinico e feroce “in quanto nero/ebreo/omosessuale/molestato dai genitori”, eccetera.

Tutte le operazioni di guerra psicologica, anche le più innovative e sofisticate, hanno uno scopo semplice e antichissimo: dividere le forze dell’avversario, abbatterne il morale, disunire la sua catena di comando, destrutturare la sua coesione mentale e sociale, e fare l’esatto contrario nel proprio campo. Questi obiettivi li ha perseguiti anche Giulio Cesare per conquistare la Gallia. Unica differenza qualitativa tra oggi e ieri: oggi, nella condotta delle operazioni l’importanza relativa della guerra psicologica è molto maggiore di ieri, perché in presenza dell’armamento nucleare strategico le maggiori potenze non possono rischiare il conflitto diretto, e quindi privilegiano il conflitto indiretto, campo d’applicazione ideale della guerra psicologica. C’è poi la differenza quantitativa di un secolo e mezzo di scienze psicologiche applicate, di pubblicità, e di sistema dei media; ma non erano per niente stupidi o rozzi anche gli antichi, che anzi, quanto a propaganda, toccavano vertici di eccellenza qualitativa oggi ineguagliati: per esempio, il “De bello gallico” è – anche –una psyops diretta a manipolare il senatus populusque romanus.

Ma torniamo al triangolo drammatico di Karpman. I tecnici della guerra psicologica, gli addetti all’ingegneria sociale e alla manipolazione della percezione, che sono legione e di solito legione accademica, hanno preso questo come tanti altri ritrovati delle scienze psicologiche, antropologiche, sociologiche, cibernetiche, e li impiegano per influenzare i conflitti, soprattutto i conflitti cosiddetti “a bassa intensità”, ma non solo (N.B.: li influenzano per fare più guerra, non per fare più pace). Le “rivoluzioni colorate”, per esempio, si fanno così. Tu esamini quali sono le linee di faglia polemogene, e fai leva. La linea di faglia polemogena primordiale è la differenza. In un sistema, la pluralità di codici (codici = culture, etnie, religioni, lingue, ideologie, etc.) è sempre altamente polemogena. Da una soglia non esattamente prevedibile in poi, la pluralità di codici comincia a produrre il caos sistemico. Se tu influenzi i vari codici, e li disponi nel triangolo di Karpman, ottieni l’equivalente della faida, cioè una conflittualità che va oltre il suo oggetto, tendenzialmente infinita.

Direi che a questo punto, il lettore può tranquillamente disegnare da sé il triangolo drammatico di Karpman che si disegna intorno alla VITTIMA-MIGRANTE, assegnare nomi e cognomi tanto ai salvatori quanto ai persecutori, e se lo desidera anche agli agenti di influenza che dispiegano il conflitto distruttivo e irrazionale su grandissima scala (scala mondiale). Lo invito a ricordare che anche questa operazione di guerra psicologica agisce su un conflitto REALE, e su un REALE fenomeno, imponente e concretissimo: il presente fenomeno migratorio non è creato dal nulla da un megacomplotto di Soros + Lucifero, esiste per conto suo e per ragioni che si possono individuare con l’analisi razionale, storica, sociologica, economica, politica, etc.

Resta da dare un nome e un cognome ai mandanti dei tecnici della guerra psicologica che implementano l’operazione “Notte & Nebbia sulle Migrazioni”.

Qui, in assenza di informazioni privilegiate, vado per induzione e per pura ipotesi.

1) le dirigenze mondialiste hanno un progetto strategico molto chiaro: il reset, in vista della istituzione di un governo mondiale (non per domani, eh?). Importanti settori delle suddette dirigenze già individuano la capitale, Gerusalemme. Pregherei di non tirare in ballo il nazismo e il complotto demoplutogiudomassonico, perché lo scrive e lo dice apertamente Jacques Attali, uno che si è inventato l’attuale presidente della Repubblica francese, insomma non un marginale che sproloquia alla fermata della metro. Se non avete voglia di leggere i suoi libri usate internet e cercate le sue interviste dove dice esattamente questo, non mi invento niente.

2) per fare un reset di queste proporzioni utopiche o meglio distopiche bisogna eseguire una “demolizione controllata” (espressione usata dalle suddette direzioni mondialiste, cercate e troverete) delle attuali società occidentali.

3) per eseguire la “demolizione controllata” vanno bene sia la guerra civile su base etnico/religiosa in Europa, sia l’accoglienza tous azimuts degli immigrati in numero indefinito, sia un mix tra le due cose. Perché la metamorfosi demografica indotta dalla presenza su suolo europeo di grandi masse di immigrati con curva demografica molto più alta degli autoctoni non si limita a risultare nel pacifico aumento relativo di culle diversamente colorate rispetto alle culle bianche, ma è altamente polemogena (= provoca conflitti endemici ed enormi per le risorse, il potere politico, l’affermazione delle identità, e non si può “gestire” con metodi equi & solidali, si guardi Israele e i palestinesi e si vedrà che succede quando c’è un problemino di demografia relativa tra due popoli costretti a convivere).

4)per promuovere INSIEME guerra civile su base etnico-religiosa e accoglienza indiscriminata di numero indefinito di migranti bisogna fare anzitutto una cosa: dividere le popolazioni europee in due settori, una che dice “il nostro nemico è l’Islam” e l’altra che dice “dobbiamo accogliere tutti perché fuggono da guerra, fame, etc”.

5) Essendo entrambe posizioni totalmente irrazionali (è assurdo e autolesionista indicare come nemico principale una religione con 1 MLD e mezzo di seguaci che NON ha un centro direttivo politico unico, è assurdo e autolesionista farsi invadere da centinaia di milioni di stranieri) per impiantarle nelle teste degli europei bisogna manipolare le loro emozioni, e impedire che si attivino il buonsenso e la ragione.

6) E qui viene utile il triangolo drammatico di Karpman. Con una intelligente gestione dei media, i mondialisti piazzano gli immigrati nella posizione della “vittima”, e di conseguenza chi si oppone all’invasione si dispone nella posizione del “persecutore”, chi vuole salvare la vittima si dispone nella posizione del “salvatore”.

7) Però vittima, persecutore e salvatore NON sono categorie politiche, sociologiche o in genere razionali, sono categorie emotive o religiose. Così i “persecutori” si oppongono frontalmente ai “salvatori”, in uno schema a specchio tipico della rivalità mimetica (v. anche René Girard, già che ci siamo), e la rivalità mimetica tende SEMPRE a una escalation che perde rapidamente di vista l’oggetto del contendere (l’oggetto del contendere sarebbe, in teoria e secondo ragione, che politiche adottare nei confronti dell’immigrazione). L’escalation mimetica porta i persecutori a tifare per la guerra civile su base etnico-religiosa: “l’Islam è il nostro nemico”, il salvatore a tifare per l’invasione totale, la “metamorfosi demografica”, il multiculturalismo fino all’ultima molecola, il grand remplacement come pena del taglione delle colpe occidentali, etc.

8) Risultato: i persecutori e i salvatori abboccano all’amo dei mondialisti, e nessuna, ripeto NESSUNA politica ragionevole ed efficace nei riguardi dell’immigrazione viene MAI implementata.

9) (la politica razionale sull’immigrazione di massa dovrebbe assumere come premessa metodologica che l’immigrazione di massa e lo sradicamento di cui è sintomo e causa danneggia gravemente sia chi emigra sia chi riceve gli immigrati. Poi su tutto il resto si potrebbe e si dovrebbe discutere.)

Invece abbocchiamo. Per farci abboccare, i tecnici della guerra psicologica devono anzitutto impedire al buonsenso di funzionare, perché il buonsenso presenta alla mente di tutti alcune domande elementari, che non sono né una analisi storico-politica del problema migratorio, né tantomeno una base sufficiente per la sua soluzione; ma rappresentano il minimo indispensabile della presa di coscienza generale del problema, senza la quale analisi, per quanto acute, e proposte di soluzione, per quanto azzeccate, servono zero. Esempio:

Il problema immigrazione ha molte facce, ma la prima e più immediata è: quanti ce ne stanno? E’ una domanda rozza, ma è anche una domanda razionale. Come fai a evitare di dare una risposta? Dire che l’immigrazione è un fenomeno naturale inarrestabile come i monsoni per un po’ funziona, ma poi non funziona più, è troppo clamorosamente falso, e persino il fratello più scemo dello scemo qualche volta riesce a fare due + due.

Altra domanda rozza ma razionale: c’è disoccupazione, che gli facciamo fare a questi che vengono qui? La risposta “fanno i lavori che gli italiani non vogliono fare” per un po’ funziona, ma poi anche il fratello più scemo dello scemo si rende conto che gli italiani si rifiutano di fare alcuni lavori solo perché sono lavori di merda pagati una miseria, e si rifiutano solo finché materialmente lo possono (qualcun altro gli da una mano, hanno risparmi), ma quando saranno finiti i soldi faranno di tutto. E allora come si fa a non rispondere?

Altra domanda inevitabile: non c’è proprio nessun rapporto tra la presenza di immigrati mussulmani e gli attentati? Difficile rispondere di botto “no”. Come si fa a non rispondere?

Altra domanda inesorabile: “Questi accettano salari di fame perché ormai sono qui e non possono fare altro, non abbatteranno anche i salari nostri? Non ci sentiremo dire ‘o così o prendo un immigrato che c’è la fila?’ Come si fa a non rispondere?

Ulteriore domanda: “A chi conviene l’immigrazione? non converrà per caso a quelli che la sostengono, o perlomeno ai loro capi?” Come si fa a non rispondere?

Ecco come si fa a non rispondere, ragazzi: col triangolo drammatico dell’incolpevole dr. Stephen Karpman.

Buon anno a lui e a tutti, e chissà che nel 2018 non la smettiamo di abboccare.

[1] https://en.wikipedia.org/wiki/Karpman_drama_triangle . Non esiste una voce Wikipedia in italiano. Per chi non leggesse l’inglese, c’è una voce in francese. Il sito ufficiale del triangolo drammatico di Karpman è questo:  http://www.karpmandramatriangle.com/

IUS SOLI 2, di Roberto Buffagni

Ius soli 2: mi spiego meglio.
Che succederebbe nei prossimi tre-cinque anni, se venisse approvata la presente proposta di legge sull’estensione dello ius soli? Niente di che. Forse – non è detto – il partito promotore si prenderebbe qualche centinaio di migliaia di voti in più, e tutto il resto, salvo grossi imprevisti, resterebbe immutato.

L’analisi molto sintetica che ho proposto qui http://italiaeilmondo.com/…/26/ius-soli-di-roberto-buffagni/ non riguarda gli effetti immediati di questa legge, illustra in breve un fatto: che il regime politico nel quale viviamo, la democrazia rappresentativa a suffragio universale, NON è adatto per una società multiculturale. A una società multiculturale è invece adatto un altro regime politico, l’impero. Qui aggiungo che non si passa da un regime politico all’altro, dallo Stato nazionale a democrazia rappresentativa all’impero, spingendo un interruttore: se c’è un luogo e un tempo in cui non si profilano neanche le condizioni minime per la nascita di un impero, questo luogo e questo tempo sono proprio l’Europa e il 2017.
L’Italia e l’Europa, insomma, sono Stati-nazione, il cui regime politico è la democrazia rappresentativa a suffragio universale – credo impossibile che la UE si trasformi in un vero e proprio Stato federale, tipo Stati Uniti d’Europa – che devono fare i conti con una realtà, l’immigrazione di massa, per la quale NON sono predisposti. Quali sono i principali problemi che devono e soprattutto dovranno affrontare, e per quale ragione ritengo che l’estensione dello ius soli sia un provvedimento sbagliato e controproducente?
1) Premessa: nelle intenzioni dei promotori, questa proposta di estensione dello ius soli è il primo passo per ulteriori allargamenti e facilitazioni, tendenzialmente sino alla concessione automatica della cittadinanza a chiunque nasca su suolo italiano o europeo. Non dispongo di facoltà telepatiche, ma il metodo “dal dito al braccio” è carissimo alle classi dirigenti UE, e comunque la logica sottesa alla proposta di legge è quella.
2) Concedere con facilità e tendenzialmente a tutti gli stranieri regolarmente residenti in Italia i diritti politici ha alcuni effetti molto importanti sul lungo periodo (20-30 anni). Attualmente, risiedono regolarmente in Italia circa 6 MLN di stranieri, di varia nazionalità ed etnia. Nel loro insieme, gli stranieri presentano una curva demografica di molto superiore a quella, preagonica, degli italiani. Quanto più facilmente e rapidamente gli stranieri otterranno i diritti politici (la cittadinanza cambia questo, non il resto) tanto prima si ridisegneranno tutti i bacini elettorali dei partiti politici, e il profondo mutamento della domanda provocherà un profondo mutamento dell’offerta politica. Sintesi: la linea di frattura politica principale tenderà a divenire veteroitaliani/neoitaliani.
3) I motivi per cui questo avverrà sono molti. Uno è, paradossalmente, la necessità di integrare socialmente gli stranieri. La principale forma di integrazione (integrazione, non assimilazione) è l’integrazione sociale. Per integrare la massa crescente di stranieri, molto probabilmente si farà ricorso a forme di “affirmative action” sul tipo di quelle adottate a favore delle minoranze etniche negli USA, cioè a dire forme di accesso privilegiato all’assistenza, all’istruzione, al lavoro: la funzione economica degli immigrati è fornire forza lavoro a basso costo, e senza un congruo salario indiretto, un salario diretto molto basso non basta per vivere. Ce n’è già una forma embrionale oggi, ed è il metodo di calcolo dell’ISEE introdotto nel 2015, profilato per favorire un tipo di nucleo familiare (3 figli o più, non proprietario di casa o titolare di diritti reali come l’ usufrutto sull’abitazione) che NON corrisponde al tipico nucleo familiare italiano ma al tipico nucleo familiare straniero. La pura e semplice introduzione di misure di affirmative action provocherà un forte e crescente conflitto per l’appropriazione delle risorse-welfare tra vetero e neoitaliani. E’ già avvenuto negli USA, dove le ultime elezioni presidenziali hanno dimostrato plasticamente che il sistema politico si sta ridisegnando su base etnica.
4) L’integrazione sociale, pur necessaria, NON produce automaticamente l’integrazione culturale e antropologica. Sradicarsi e gettare nuove radici in nuovo suolo è un processo lungo e difficile, che spesse volte fallisce. Il passaggio più delicato e difficile è quello delle seconde e terze generazioni, che non si formano più nell’ambiente culturale di provenienza, e non si formano ancora nell’ambiente culturale di arrivo, patendo così una tensione esistenziale molto seria. Lo mostra con chiarezza la dinamica rilevata in Francia, dove a radicalizzarsi nel jihadismo sono quasi sempre neofrancesi arabi di seconda o terza generazione, che dopo essersi allontanati dalla religione e dai costumi familiari e aver assorbito, della cultura ospite, solo il peggiore individualismo, vanno in crisi esistenziale, e “mettono la testa a posto”, cioè riescono a conferire un senso alla loro vita alla deriva, solo radicalizzandosi nell’islamismo jihadista. Segnalo en passant che queste persone sono tutte scolarizzate nel sistema scolastico francese.
5) Uno spiritoso commentatore, dissentendo dal mio mio articolo ha scritto: “Varrebbe la pena di rimettere i piedi per terra e considerare ad esempio che per lo sport lo jus soli funziona già!” Il suo invito scherzoso è quanto mai opportuno per descrivere il problema che si presenterà all’Italia e all’Europa delle prossime generazioni, in presenza di importanti – e crescenti, a cagione della dinamica demografica – percentuali di stranieri immigrati titolari dei diritti politici. Nelle competizioni sportive, infatti, il conflitto NON degenera in conflitto a morte perché tutti i giocatori accettano, non in conformità a una decisione razionale ma dandole per scontate e avendole assimilate sin dall’infanzia, le regole del gioco; e perché c’è un arbitro che NON ha bisogno di una scorta armata per farsi obbedire. Nel conflitto politico, accettazione irriflessa delle regole del gioco e rispetto delle decisioni arbitrali sono manifestazione visibile dell’invisibile “idem sentire” tra i cittadini, che provando sentimenti, più o meno vivi, di lealtà verso la loro nazione e le istituzioni che la reggono, si astengono dallo spingere il conflitto politico oltre la soglia della sovversione (per esempio, non manifestano armati, se danneggiati da una decisione del governo non attentano alla vita dei ministri, etc.). Finché le cose vanno così, il conflitto politico resta conflitto tra avversari, che possono scontrarsi con durezza e anche odiarsi di cuore ma che non spingono la lotta sino al conflitto tra nemici, che è il conflitto a morte.
6) Non sempre va così. Vent’anni fa, alle porte di casa nostra, si è consumata una guerra civile terribile, nella quale uomini che sino a cinque minuti prima convivevano pacificamente, pur confliggendo politicamente come avversari per le più svariate ragioni, cinque minuti dopo hanno cominciato a massacrarsi, senza risparmiare donne, vecchi e bambini. I campi in conflitto si sono disegnati, guarda caso! lungo linee etniche e religiose: perché le differenze etniche e religiose sono le più profonde e incomponibili. Sino a cinque minuti prima, non sembrava proprio, ai futuri combattenti, che etnia e religione fossero così importanti: anzi, la comunità politica che da più generazioni riuniva i futuri nemici era ufficialmente atea e universalista, e le sue istanze autorevoli, a cominciare dalla scuola, insegnavano a tutti l’oscurantismo delle religioni, la malvagità del razzismo, l’eguaglianza tra gli uomini, la fraternità socialista, eccetera. C’erano matrimoni misti (pochi, è vero), c’era pacifica convivenza, c’era un buon livello di istruzione, pubblica e gratuita per tutti; non c’era ricchezza diffusa ma neanche miseria; c’era un’antica civiltà europea, e una piacevole vita quotidiana, come sa chiunque vi abbia trascorso qualche giorno di vacanza nei tempi beati precedenti il patatrac. Poi, tàc! Un urto dall’esterno – il crollo del sistema di alleanze sovietico – e la Jugoslavia si è trasformata in ex Jugoslavia. Il transito alla nuova e attuale versione è stato una passeggiata in un mare di sangue.
Mi sono spiegato meglio?

IUS SOLI, DI ROBERTO BUFFAGNI

Ius soli 3: come funziona la propaganda, di Roberto Buffagni

 

IUS SOLI 2, di Roberto Buffagni

Ius soli: prendiamolo un po’ sul serio, tanto per cambiare. Se si vuole fare una società multiculturale, multietnica, multireligiosa, ci vuole un Impero, cioè a dire una forma di civiltà dove a) le addizioni al nucleo originario vengono fatte, sempre o quasi, per conquista b) il centro imperiale è dominato, di fatto e di diritto, da una etnia e da una religione gerarchicamente superiori alle altre c) il sistema politico NON è una democrazia a suffragio universale d) il centro imperiale coopta progressivamente le classi dirigenti dei paesi conquistati, concede gradualmente alle altre etnie e alle altre religioni, in misura variabile, libertà (nel senso antico di franchigie), mai immediatamente eguaglianza di diritti politici con l’etnia e la religione centrale d) il centro imperiale divide per imperare, cioè gioca l’una contro l’altra le etnie e religioni subalterne per impedire che l’una o l’altra prenda il sopravvento o addirittura scalzi i dominanti. Solo dopo qualche secolo, in caso di effettiva assimilazione dei fondamentali culturali, il centro imperiale concede a tutti indistintamente i sudditi la cittadinanza politica piena (ma comunque NON introduce MAI la democrazia a suffragio universale).
Così sì che funziona, una società multitutto, e in effetti così hanno funzionato l’Impero romano, l’austriaco (poi austro-ungarico), l’ottomano, il cinese, il britannico, lo zarista, etc. Non che sia una cosetta facile farli funzionare, ci vuole una classe dirigente coi controfiocchi. Attualmente, c’è in corso d’opera l’edificazione o riedificazione dell’impero russo, che cerca di ricostruirsi by stealth pur in presenza di un regime di democrazia parlamentare a suffragio universale, ma corretta dalla presenza di fatto dell’impianto base imperiale: etnia dominante (russa) e religione dominante (cristiana ortodossa)+ solida primazia dei ministeri della forza nel governo (le FFAA intervengono con durezza in caso di sollevazioni centrifughe i etnie e/o religioni subalterne, v. le due guerre di Cecenia). Nella celebrazione per l’anniversario 2015 della Grande Guerra Patriottica, il ministro della difesa Shoigu è entrato sulla piazza Rossa del Cremlino per passare in rivista le truppe, e mentre passava, in piedi sull’auto di servizio, sotto la porta sovrastata dalla grande icona del Cristo Salvatore, si è scoperto il capo e si è fatto il segno della croce. N.B.: Shoigu è buddhista, ad attenderlo c’erano anche reparti mussulmani. Il significato del gesto mi pare chiaro.
NON funziona, invece, una società multitutto che sia uno Stato nazionale basato su un regime politico democratico a suffragio universale, 1 testa = 1 voto. NON funziona perchè gli Stati nazionali democratici, per funzionare, devono basarsi su quel che gli studiosi chiamano l’ “idem sentire” dei cittadini: “sentire”, non lavorare o andare al cine o pagare le tasse. Cioè a dire, che tutti i cittadini devono condividere sentimenti ed emozioni simili in merito all’oggetto cui va la loro lealtà primaria. Se va alla nazione, allo Stato che la rappresenta e la guida, alla patria che le dà vita storica, tutto ok. Se invece una parte cospicua della cittadinanza dà la sua lealtà primaria alla sua razza, alla sua religione, alla sua tribù, etc., avviene quanto segue: che il conflitto politico ed elettorale si disegnerà anzitutto lungo le linee di frattura più profonde, le differenze incomponibili e non mutabili a piacere in seguito a sola decisione razionale quali razza, religione, tribù, clan, etc. Rimarranno anche gli altri conflitti, ricchi/poveri, città/campagna, centro/periferia, etc.: ma mentre è relativamente facile mediare questi ultimi, se tutti i cittadini condividono un “idem sentire” nazionale, è molto difficile mediare conflitti come il razziale (ognuno porta la sua bandiera sulla pelle, e non può cambiarla) o il religioso (ognuno porta la sua bandiera nei costumi e nella sensibilità, ed è molto difficile fargliela cambiare).
Quindi, se per ragioni endogene o esogene in uno Stato nazione multitutto, dove l’idem sentire non c’è, i conflitti si inaspriscono, possono succedere tre cose: a) guerra civile su base etnico/religiosa b) una razza/religione/tribù giunge al potere per via elettorale, si impadronisce dello Stato che è per sua natura una macchina da guerra e opprime brutalmente/istituisce un regime di apartheid di fatto o di diritto/stermina le altre razze/religioni/tribù (esempi infiniti in Africa, v. anche l’insolubilità del problema palestinese in Israele) c) un misto tra a e b.
Ecco perchè estendere lo ius soli NON è una buona idea: perchè compito della politica è antivedere il peggio, e dotarsi della capacità di sventarlo (Julien Freund, “Sociologie du conflit”, cito a memoria).