Industria e diritto di fronte allo smantellamento delle catene del valore_Intervista a Fabio Londero

Una intervista significativa che offre diversi spunti importanti che toccano alcune chiavi importanti di interpretazione che informano la produzione di questo sito. Intanto l’estensione del concetto di profitto, non solo nelle sue modalità di calcolo, anche esse discrezionali, ma anche dei criteri legati alla efficienza, alla solidità, alla possibilità di esistenza e, quindi, di mantenimento e perpetuazione del comando e del potere dei dirigenti. Figure, quindi, impegnate nel perseguimento di strategie politiche. Un altro aspetto riguarda il legame necessario che le aziende, il loro staff manageriale, devono mantenere, essendone anche l’espressione, con il proprio contesto sociale/culturale e, soprattutto, con i centri decisori nello Stato. Qui occorre fare una distinzione, del resto adombrata dallo stesso intervistato. Quella del legame originario con uno Stato egemone o, quantomeno, in possesso delle piene prerogative sovrane oppure con uno Stato dai centri decisori subordinati e sottomessi. Paradossalmente, l’autonomia strategica e decisionale delle aziende radicate in questi ultimi risulta spesso essere maggiore rispetto alle prime, anche se di fatto, in proporzione alla strategicità e peso delle loro attività, finiscono progressivamente per essere risucchiate dalla volontà egemonica dei centri decisori degli stati dominanti o da assumere questi come riferimento. La stessa esigenza di uniformazione dei principi etici, organizzativi e giuridici delle multinazionali deve appoggiarsi al tentativo degli stati egemoni di imporre la propria giurisdizione, il proprio intervento ed il proprio diritto nell’agone internazionale. L’insistenza sulle crescenti difficoltà delle multinazionali a mantenere coerenza ed unitarietà, operatività in un contesto geopolitico sempre più frammentato espressa nell’intervista è di per sé eloquente. A parere dello scrivente l’autore mette di fatto in discussione diversi punti fermi che vincolano e distorcono il dibattito oltre che in parte della corrente di pensiero dominante, soprattutto nell’area contestatrice dell’attuale assetto geopolitico/geoeconomico sino a rendere quest’ultima sterile e impotente. Tra questi il tema della cosiddetta crisi sistemica del capitalismo, del suo sistema unitario, tema per altro ricorrente almeno negli ultimi due secoli; la contrapposizione tra sistemi a dominio capitalistico da una parte, nella fattispecie il mondo occidentale a predominio anglo-statunitense, e sistemi a controllo politico; l’asserito predominio assoluto nei primi dei “nani della finanza” e della natura parassitaria del loro predominio e della predazione, anch’esso un tema ricorrente, almeno dalla fine del ‘800, nella narrazione antagonista. Si tratta, certamente, di una narrazione che “facilita” enormemente l’individuazione di un avversario perfettamente circoscritto, nella figura e nella dimensione, surdeterminato e, quindi, facilmente additabile al ludibrio delle “moltitudini”. Facili, però, quanto distorcenti di una realtà, esattamente come i mulini a vento del don Chisciotte.

Tocca ai Sancio Panza di turno introdurre qualche elemento di realtà più complesso, più scomodo, ma forse più proficuo alla costruzione di un disegno politico più impervio, ma più praticabile e meno fallimentare:

  • il modo di produzione capitalistico, in quanto rapporto sociale di produzione, è ormai da tempo presente nell’universo mondo e, devo dire, ambìto, pur in diverse modalità e intensità, da tutti i centri decisori delle varie formazioni sociali e statuali
  • una presenza diffusa che deve quindi pagare lo scotto di un adattamento ai contesti storici, culturali e territoriali, agli assetti di potere delle varie formazioni sociali; contribuendo quindi a plasmarli, ma anche ad essere plasmati e ad essere differenziati. Più che di capitalismo, si dovrebbe parlare, quindi, di capitalismi, per meglio dire di centri decisori capitalisti in cooperazione e conflitto tra loro, ma facenti parte, comunque, di centri decisori politici e strategici dagli interessi e da punti di vista più ampi rispetto alle mire di mero conseguimento di profitto
  • rispetto alle dinamiche capitalistiche interne, più che di crisi sistemica, parlerei di crisi cicliche o di crisi sistemiche propedeutiche alla formazione di nuovi assetti… appunto capitalistici
  • quanto al carattere finanziario e parassitario del capitalismo occidentale e al predominio politico assoluto delle sue figure occorre precisare e delimitare numerosi aspetti. Osservando il percorso dei flussi e il loro utilizzo si può facilmente osservare che anche quelli a carattere più speculativo, pur favorendo e alimentando in parte singoli protagonisti di natura parassitaria, assolvono in ultima istanza ad una funzione di drenaggio a fini di esercizio di potenza politica e di strategie politiche e di conformazione più o meno funzionale e coesa delle formazioni sociali-statuali dominanti; lo stesso ambito finanziario è molto articolato ed è riconducibile solo in parte ad attività speculative puramente parassitarie; nelle stesse attività finanziarie sono implicate quelle stesse imprese multinazionali che non sono avulse dalla produzione dei beni, ma che ne controllano le filiere e le catene globali di produzione con l’azione e il sostegno fondamentale degli stati egemonici

Per concludere un ragionamento che meriterebbe altri spazi ed altra profondità, più che di centri decisori finanziari egemonici nel mondo occidentale, parlerei di “strateghi del capitale” (Gianfranco La Grassa), non solo finanziari, facenti parte a pieno titolo, ma con peso più o meno relativo, di centri decisori strategici politici in competizione e conflitto tra di essi a fini di potere e di conformazione delle formazioni sociali, quindi anche di costruzione di identità e collettività e di obbligo e necessità di costruzione di una qualsivoglia coesione sociale, delle quali sono espressione. Nell’azione dei quali l’aspetto economico è solo parte ed è intriso dell’azione politica e delle finalità politiche di potere. Ambito, quello economico, che, con l’affermazione del modo capitalistico, ha assunto forme sempre più sofisticate e pervasive e, nei periodi di affermazione egemonica, carattere di apparente neutralità ed oggettività. Può assumere un interesse predominante tuttalpiù nelle periferie dei sistemi imperiali. Questo vale, pur in diversa misura e in diverse fasi storiche per tutte le formazioni sociali e per tutti i poli in via di formazione.

Possono sembrare sottigliezze fini a se stesse. In realtà hanno implicazioni particolarmente pesanti nel dibattito e nell’azione politica. Nella fattispecie nella caratterizzazione “neomedievale” delle future società, con annessa debilitazione del potere statale ridotto e conteso da altre figure, tese a generalizzare, secondo le tesi di importanti centri di pensiero (Rand), una condizione di crisi dello Stato altrimenti propria invece di alcune formazioni sociali declinanti in particolare del mondo occidentale, squassate da conflitti interni distruttivi; nella visione “populistica” del rapporto assolutamente determinante tra centri decisori, élites tout court e strati bassi della società; nel rapporto tra “moltitudini” e cupole ristrette di potere. In altre parole in una riduzione semplicistica delle stratificazioni sociali, delle gerarchie, della funzione delle élites e delle dinamiche del conflitto politico e sociale, di quelle geopolitiche e di conflitto orizzontale tra centri. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Industria e diritto di fronte allo smantellamento delle catene del valore

FABIO LONDERO — “Non c’è un’etica condivisa lungo la supply chain”: stiamo per far deragliare le catene del valore con i nostri valori?

In un mondo rotto e sempre più regolamentato, le multinazionali che avevano puntato su una crescita globalizzata e su un diritto uniforme rischiano di disgregarsi. Per Fabio Londero, General Counsel del gruppo siderurgico friulano Danieli, le conseguenze negative dell'”effetto Bruxelles” potrebbero essere fatali.

Fabio Londero è un giurista d’impresa, Group General Counsel della multinazionale friulana Danieli, tra i leader mondiali nella produzione di impianti siderurgici.

Fare impresa in un mondo, allo stesso tempo, globalizzato e frammentato, costringe a confrontarsi con notevoli rischi, di carattere economico, politico e giuridico. Negli ultimi anni si è sviluppata un’altra tipologia di rischio, che concerne, più che altro, l’immagine di una impresa di fronte all’opinione pubblica. Trattasi del cosiddetto rischio reputazionale, strettamente legato al concetto di etica d’impresa. In cosa consiste e quanto rileva all’interno della vita di una multinazionale?

Penso sia utile ripartire dall’insegnamento, che oggi sembra così sorpassato, di Milton Friedman, secondo cui l’impresa deve perseguire gli interessi degli azionisti, nel rispetto della legge. Tale massima, e in particolare la sua seconda parte, ossia la mera conformità dell’attività di impresa rispetto all’ordinamento giuridico vigente, rimane per me un canone fondamentale. È chiaro poi che tale approccio debba essere senz’altro rimodulato alla luce del contesto. Ho sempre avuto dubbi, però, sull’agire etico dell’azienda. John Locke, qualche secolo fa, evidenziava come l’etica fosse passata dalla religione allo Stato. Ora sembra che sia passata, in parte, dallo Stato alle aziende. Solo che l’impresa, e in particolare la multinazionale, è composta da un insieme di valori spesso differenti, non comprimibili in una scelta politica del consiglio di amministrazione. Una multinazionale, pure se occidentale, lavora in decine e decine di paesi e contesti giuridici e culturali profondamente diversi: è impossibile, se non proprio controproducente, trascurare idee e valori estranei ai nostri, così come non è possibile ignorare i quadri giuridici dei paesi in cui si opera, che sono dettati dai più svariati fattori di carattere politico, economico e culturale. Il principio di realtà per affrontare questo mondo frammentato dovrebbe essere informato da logiche che permettano all’impresa di rimanere efficiente, senza una adesione totale agli scontri politici e valoriali in atto. Anche perché, quando dico che l’impresa dovrebbe limitarsi a perseguire i profitti nel rispetto della legge, non intendo solo il cosiddetto lucro; profitto deriva dal latino proficĕre, che significa innovare, perfezionare, essere efficienti. Questo deve essere secondo me il paradigma dominante, specie in un contesto geopolitico così turbolento.

Spesso un’attività, seppure lecita secondo leggi e consuetudini in vigore, ciononostante subisce un vaglio di tipo etico. Da qui il dilemma: agire semplicemente in conformità delle leggi, assumendosi il rischio del danno reputazionale, o rinunciare a determinate attività e affari in via preventiva, per evitare possibili condanne morali? Trattasi, in ultima istanza, di una analisi costi-benefici? 

Molto spesso, la prima domanda che si pone un manager di una multinazionale è: tale azione è legale o illegale? Se è legale, la decisione è quasi già presa. Questo è – e secondo me dovrebbe pure rimanere – il paradigma tradizionale. È chiaro poi che quando si opera nei mercati globali vi sono certi rischi di carattere reputazionale. Credo però che spesso questa dimensione del danno da immagine sia eccessivamente sopravvalutata: se il prodotto è valido, l’eventuale danno da immagine lascerà il tempo che trova. Dopodiché, mi chiedo: si può dire che il danno reputazionale è lo stesso per le decine di paesi in cui la multinazionale opera? O è solo quello occidentale? La catena del valore è anche una catena dei valori, che passa per molteplici sistemi, tradizioni, culture. Non c’è un’etica condivisa lungo la supply chain. Per questo insisto sul fatto che l’unico imperativo da seguire, ulteriore rispetto ai profitti, sia quello legale: il limite e lo spazio dell’agire di impresa è e deve essere solo quello tratteggiato dai diversi legislatori.

John Locke, qualche secolo fa, evidenziava come l’etica fosse passata dalla religione allo Stato. Ora sembra che sia passata, in parte, dallo Stato alle aziende.

FABIO LONDERO

In merito al rischio reputazionale, sempre più centrale è il tema ambientale. Da qui, i vari criteri ESG, norme e direttive comunitarie, codici di condotta, raccomandazioni e soft law. Si richiede all’impresa, insomma, di essere il più possibile sostenibile, specie in Europa. Quanto incide o potrà incidere il tema ambientale nell’attività di impresa?

La decisione di perseguire una politica ambientale, sul fronte, ad esempio, della produzione di beni industriali, molto spesso non deriva da una decisione di carattere ideologico-politico assunta in qualche consiglio di amministrazione sotto la spinta delle raccomandazioni di Bruxelles. È molto più probabile, invece, riscontrare scelte aziendali che hanno origini nel tempo e che nascono da intuizioni, sviluppo di nuove competenze tecniche e, soprattutto, esigenze della clientela. Mi permetto di fare un esempio riferito all’azienda per cui lavoro, la Danieli & C. Officine Meccaniche S.p.A. Negli anni ci siamo ritagliati un ruolo leader nel cosiddetto green steel, ma questo perché? Non si tratta di una mera decisione di essere sostenibili, ma di un insieme di dinamiche di impresa, come i clienti che vogliono prodotti più efficienti, l’individuazione di soluzioni tecnologiche e competenze, l’intuizione di nuovi mercati. Grazie a questa combinazione di fattori, anni fa si è deciso di andare oltre al paradigma dei grandi impianti tipico degli anni ’60, investendo invece nella maggiore efficienza dei micro-impianti, di dimensioni più contenute e più localizzati (in prossimità dei clienti), con impatti positivi in termini di minore inquinamento, minore spesa energetica e via dicendo. Un passo avanti verso la sostenibilità, ma guidato da logiche decisamente più complesse – e, mi si permetta, capitalistiche – della mera decisione dall’alto di darsi un volto verde.

Un classico esempio dell’approccio dell’Unione europea è quello attuale della Direttiva sulla Corporate sustainability due diligence (CS3D), che impone diversi accorgimenti alle multinazionali sul fronte della sostenibilità lungo la supply chain. Cosa ne pensi?

Penso che stiamo assistendo ad una bulimia di normative, parametri, direttive, raccomandazioni di soft law. Il che ha implicazioni non solo in relazione ai maggiori rischi giuridici, ma anche sul fronte dei costi, tanto che a volte mi chiedo provocatoriamente quanto sia sostenibile la sostenibilità. Peraltro, oltre al tema dei costi, vi è un discorso di fattibilità. Pensiamo proprio alla Direttiva CS3D: identificare nuovi oneri e adempimenti è facile, ma chi si ritrova a doverli applicare deve fare fronte alla complessità della supply chain. Andare a ritroso nella catena per verificare se uno delle centinaia di fornitori rispetta o meno determinati principi non solo è piuttosto complicato (oltre ad ulteriori accorgimenti di compliance, nel concreto cosa deve fare l’impresa? Ispezioni tra decine e decine di paesi?), ma riporta anche a quanto già detto sulla catena, che non è solo del valore, ma dei valori: questi principi possono valere per noi occidentali, ma non per altre realtà, che rispondono a differenti sistemi culturali e giuridici. Un uso eccessivo di tali strumenti rischia di tradursi in quello che chiamo “imperialismo dei valori”: ossia l’errore di assumere la nostra prospettiva come universale, mentre il mondo – e lo vediamo ogni giorno – è eterogeneo, “particolare”. Da cittadino italiano o europeo posso anche essere d’accordo sull’attenzione verso certi valori, ma per un’impresa conta anche il principio di realtà.

Vi sono poi le implicazioni giuridiche di tali politiche e legislazioni o para-legislazioni ambientali. Uno dei rischi più concreti è che a livello giudiziario inizino ad essere adottate decisioni basate su principi che non si fondano su normative cogenti e certe, bensì su parametri, standard e best practices di soft law. Se i tribunali, nonostante l’assenza di vere e proprie leggi vincolanti, cominciassero ad applicare tale apparato di soft law alla stregua di un principio generale dell’ordinamento, questo si tradurrebbe in un panorama di profonda incertezza, ove alla fine l’attività di impresa finirebbe per dipendere dalla sensibilità del singolo giudice. Mancherebbero la prevedibilità e la calcolabilità del rischio giuridico. E il soft law rischierebbe di tramutarsi in hard law, non per opera del legislatore, bensì di un giudice.

La catena del valore è anche una catena dei valori, che passa per molteplici sistemi, tradizioni, culture. Non c’è un’etica condivisa lungo la supply chain.

FABIO LONDERO

Quali possono essere le implicazioni di queste fratture, anche valoriali e non solo politiche, all’interno delle catene del valore?

Se la divisione politica e valoriale dovesse essere perseguita in modo netto, nella direzione di un sempre minore dialogo tra sistemi giuridici e culturali differenti, il rischio concreto è quello di una frammentazione dell’attività aziendale, nell’ottica di una divisione per aree: così, per fare un esempio, la multinazionale Alpha si scinderebbe, di fatto, in un ramo con un brand occidentale, uno orientale e via dicendo, secondo regimi valoriali e legislativi diversi e, dunque, separandone i destini e la comunicabilità, come avvenuto in parte nel caso Sequoia riportato da Jeremy Ghez in un articolo su Grand Continent. Il punto è che una multinazionale è, dalla prospettiva economico-produttiva, un tutt’uno organico. È impossibile dividerla senza romperla, ad esempio creando Alpha Cina, Alpha Usa e Alpha Italia e pretendendo logiche, politiche e decisioni radicalmente diverse a seconda del contesto. L’azienda è interconnessa, vi è un flusso di conoscenze, competenze e rapporti che non si può scindere, a mio parere. La tecnologia, ad esempio, è una, attraverso la quale si progetta, si realizza, si produce. Come si può suddividere il patrimonio in entità separate e tra loro non comunicanti? Significherebbe, di fatto, privare la multinazionale della sua ragion d’essere organizzativa, economica e aziendale.

© Danieli Corus

Negli ultimi anni, le tensioni che percorrono il panorama internazionale hanno sollevato un ulteriore interrogativo per le imprese. Come muoversi rispetto alla politica estera dello Stato di riferimento? E, soprattutto, si può dire che pure le multinazionali, in ultima istanza, non prescindono dalla frammentazione del panorama in Stati nazionali e dalla singola bandiera che, nonostante le numerose filiali e sussidiarie, le identifica?

Dal mio punto di vista, non si può ignorare il fatto che ogni impresa ha un’origine, che per forza di cose è in un certo paese e secondo la sua legge. L’importanza del nesso tra impresa controllante e Stato di origine, e relativa politica estera, è pacifica. Detto questo, ribadisco – rifacendomi soprattutto all’esperienza delle aziende produttive, che è la realtà che conosco meglio – un punto fondamentale: una multinazionale che produce determinati beni opera in diversi paesi e siti produttivi. Ciò significa che, il più delle volte, ci sono migliaia di dipendenti in giro per il mondo, in percentuali maggiori di quelle presenti nello Stato d’origine. Se il cuore è in un posto, vi sono tante altre parti del corpo dislocate per decine e decine di paesi, che hanno altrettanta rilevanza. Peraltro, il tema secondo me si complica quando si va a discutere di filiali aperte in un altro Stato. Queste filiali sono disciplinate dal diritto dello Stato in cui sono costituite, non da quello dello Stato d’origine della controllante. Penso al tema delle sanzioni, la cui complessità deriva anche e soprattutto dalla diversità dei sistemi giuridici che informano le filiali lungo la catena. Spesso, il diritto che le regola non è quello occidentale che ha imposto le sanzioni, pur considerando la portata extraterritoriale che questo intende assumere. Nel momento in cui un soggetto opera all’estero, accetta anche le normative locali di riferimento. Questo rende meno scontata l’implementazione di certe politiche.

La catena non è solo del valore ma dei valori: questi principi possono valere per noi occidentali, ma non per altre realtà, che rispondono a differenti sistemi culturali e giuridici.

FABIO LONDERO

In uno scacchiere globale così anarchico, paiono paralizzati i vari sistemi sovranazionali di risoluzione delle dispute, dagli arbitrati internazionali al WTO, mentre proliferano misure protezionistiche di carattere unilaterale: cosa significa questo nel concreto? Ci troviamo di fronte ad una rivincita, ammesso abbia mai perso, della diversità, tra molteplici Stati nazionali, giurisdizioni, culture, confini e interessi contrapposti, rispetto alle pretese unificatrici del mercato?

Nelle dinamiche politiche, così come in quelle economiche, a partire soprattutto dall’entrata della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001, ci si è illusi sull’esistenza di un mondo pacifico e globalizzato, paradigma che oggi si scontra con un contesto geopolitico radicalmente cambiato. Certo, per una multinazionale il mondo piatto e unificato dal mercato sarebbe il contesto più auspicabile, ma la realtà non è più questa, ammesso sia mai stato veramente così.

Uno degli indici più concreti e interessanti per registrare tali cambi di paradigma è proprio quello delle controversie internazionali, che le multinazionali affrontano ogni giorno. Pensiamo all’arbitrato internazionale: anche in presenza di lodi arbitrali favorevoli, che ad esempio riconoscono il diritto ad ottenere dei beni di una impresa estera, nel concreto la possibilità di enforcement, ossia di eseguire questi lodi nello specifico paese per ottenere tali asset, è spesso impedita da una serie di misure protezionistiche delle singole realtà statuali. Tale tendenza sconfessa, da un certo punto di vista, l’idea del mercato globale regolato da un regime giuridico universale e uniforme. Nonostante le Convenzioni sottoscritte, di fatto risulta sempre più difficile vedersi riconosciuta la sentenza internazionale, a causa di barriere più o meno surrettizie che vengono innalzate dai singoli Stati. Così, anche se si ottiene un lodo favorevole contro un’impresa cinese, o egiziana o brasiliana e via dicendo, poi nel momento in cui si va ad eseguire tale lodo nei rispettivi paesi ove si trovano gli asset, ci si vede opporre una qualche eccezione di ordine pubblico interno che impedisce il riconoscimento del credito. E a cosa serve un lodo arbitrale internazionale che non si riesce a eseguire nel concreto? L’arbitrato internazionale è nato proprio come modello ideale di risoluzione delle controversie a livello sovranazionale, per evitare di affidarsi a sistemi giuridici statali di paesi problematici, ma ciò non è stato sufficiente a svincolare la realtà dalla concreta geografia degli asset, ossia dalla giurisdizione del singolo Stato in cui bisogna poi eseguire i lodi. Questo diventa un problema soprattutto con i soggetti locali, che hanno beni localizzati solo nel proprio Stato di riferimento, mentre le multinazionali hanno quantomeno asset più dislocati.

Trattasi di un altro fattore che può indurre alla frammentazione delle imprese in sezioni tra loro separate. Isole produttive, economiche e giuridiche sempre più indipendenti l’una dall’altra, in modo da ridurre i rischi di essere aggrediti e avvalersi, al caso, delle protezioni domestiche dello Stato. Un mondo che si frammenta in un arcipelago di isole la cui comunicazione è sempre più ridotta. Dai mercati globali ai mercati interni, con una separazione di fatto della capogruppo dalle proprie ramificazioni nei singoli paesi, con minore, se non nullo, trasferimento di ricchezze, competenze e tecnologie. Il problema, però, è che, come dicevo, la multinazionale è un tutt’uno organico, che necessita di scambi, interconnessioni. Ho dei dubbi sulla fattibilità, in concreto, di questo sistema ad arcipelago. Il rischio è che a forza di frammentare si finisca, sostanzialmente, per rovesciare le fondamenta su cui poggia una multinazionale contemporanea.

Una multinazionale è, dalla prospettiva economico-produttiva, un tutt’uno organico. È impossibile dividerla senza romperla

FABIO LONDERO

Rinnovata centralità dello Stato e della politica estera da un lato, maggiore sensibilità delle opinioni pubbliche, specie occidentali, dall’altro. È ormai impossibile per un’impresa emanciparsi dalla tenaglia composta da queste due dimensioni? Ogni fase di transizione comporta rischi, opportunità, cambi di paradigma. Quale può essere secondo te il ruolo della multinazionale al termine, se mai vi sarà un termine, di questo interregno?

Sono dell’idea che in questo mondo frammentato le aziende dovrebbero adottare una politica di basso profilo. Non bisogna ignorare la tenaglia di cui parli, ma proprio perché vi sono plurime e spesso eterogenee pressioni, l’obiettivo potrebbe essere quello tradizionale di perseguire il profitto, inteso come innovazione, efficienza, valore dell’azienda. In questo contesto non si può ignorare il quadro geopolitico, né quello dell’opinione pubblica, ma l’impresa ha una sua dimensione e deve fare i conti con i continui rapporti con le proprie ramificazioni. Quando mi confronto con un manager di un paese straniero, con valori diversi da miei, cosa devo fare? Chi ha ragione? Magari dal mio punto di vista occidentale ho ragione io, però non credo sia nell’interesse dell’impresa alzare un muro per tale mancata condivisione di un’etica comune. Per questo l’azienda dovrebbe fare un passo indietro: alla fine, cosa unisce i diversi manager? Degli scambi efficienti che portino ricchezza. Anche perché le imprese, come soggetti, non hanno alternativa, salvo perdere mercati o dividersi.

Poi certo, c’è chi potrebbe dire che proprio per le turbolenze geopolitiche di questa fase storica le imprese dovrebbero partecipare attivamente alla politica estera dei propri Stati. Questo però dipende dal contesto. Negli Stati Uniti si è sempre registrato, storicamente, un dialogo tra dimensione pubblica e privata, pensiamo alla nascita di Internet, ma stiamo parlando di un mercato enorme e di un paese con una politica estera piuttosto definita, centrale nella sua proiezione. Ma noi italiani? O noi europei? Possiamo avere buoni rapporti con le istituzioni di riferimento, certo. Ma pensiamo all’Europa: al momento è ancora percorsa da diverse geografie politiche, non è una nazione. Esiste veramente una politica industriale europea? Esiste una politica antitrust. O ambientale tuttalpiù. Ma qual è la politica estera e di sovranità europea? Se non si diventa un soggetto politico, si rimane, sostanzialmente, dei mercanti.

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RUSSIA E CINA: L’EMERGERE DEGLI STATI ASSOLUTI , di Stefano d’Andrea

Un testo breve, ma intenso e attuale. A mio avviso, però, è proprio la definizione di “stato capitalista” che andrebbe ridimensionata anche storicamente. Il diverso peso che hanno ed hanno avuto nei centri decisori la componente manageriale ed imprenditoriale capitalista non è sufficiente a definire “capitalista” o meno uno stato e un regime. Il “politico” e le espressioni fisiche del politico seguono logiche proprie. Buona lettura, Giuseppe Germinario

RUSSIA E CINA: L’EMERGERE DEGLI STATI ASSOLUTI

Russia e Cina sono ordinamenti giuridici statali, che rappresentano una novità assoluta nella storia.
Sono indubbiamente ordinamenti capitalistici, perché il rapporto di lavoro subordinato capitale-lavoro è la forma giuridico-economica prevalente.
E tuttavia il potere politico non è nelle mani alla classe capitalista.
Il potere politico non è semplicemente autonomo dal potere economico e dotato di una relativa forza propria, che gli consenta di “venire a patti” con il partito della grande impresa (come accadde in molti Stati per 20 o 30 anni dopo la seconda guerra mondiale) ma è sovraordinato al potere economico dei capitalisti, che, appunto, è un potere puramente economico.
Ciò è vero sicuramente in Cina, dove il partito comunista ha escluso dagli organi di vertice del partito e dagli organi costituzionali finanche i boiardi di Stato, perché fanno una vita simile ai grandi imprenditori e introiettano e diffondono una mentalità analoga a quella dei grandi capitalisti e dei CEO delle imprese private, ma, dopo la guerra in Ucraina, come testimonia il discorso di Putin del 22 febbraio 2023, anche in Russia.
Gli Stati assoluti hanno più potere politico di quanto ne avessero i monarchi assoluti, perché più di questi ultimi sono di fatto e di diritto indipendenti dal potere economico della classe capitalista, anche e soprattutto in ragione dell’esistenza della moneta fiat.
Gli emergenti Stati assoluti non sono una fase di transizione destinata a portare allo stato costituzionale “borghese”, che meglio avrebbe dovuto essere definito (fino al secondo dopoguerra) stato costituzionale “capitalista”, come furono le monarchie assolute. Sono, invece, o una recente reazione vincente a quest’ultimo (Russia), o una resistenza di più lunga durata e di grandissimo successo (Cina).
La radice storica dei due Stati assoluti è l’esperienza del comunismo reale, che mostra di aver lasciato tracce indelebili nella storia.
Negli Stati assoluti il potere politico è nelle mani del “partito dello Stato” e la classe capitalista non possiede, se non in minima è insignificante parte, il potere di conformare l’opinione pubblica (indispensabile per contrastare e poi vincere l’egemonia del partito dello Stato), potere che in Russia è detenuto più dall’opposizione comunista che dalla quasi inesistente opposizione capitalista (gli oligarchi) e in Cina più dall’opposizione maoista che da CEO e grandi imprenditori.
Viene meno, con questi Stati assoluti, un caposaldo del marxismo, che vedeva nel potere politico degli ordinamenti capitalisti, un potere direttamente o indirettamente (tramite il “comitato d’affari”) esercitato dalla classe dei capitalisti.

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La metamorfosi dell’Impero e le sue vittime_di Andrea Zhok

1. Il riflusso dell’imperialismo globalista USA

 

Nella frenesia angosciosa degli ultimi due anni, prima con la pandemia e ora con la guerra russo-ucraina, molti processi stanno accelerando e prendendo forme inedite.

Per comprendere gli eventi recenti bisogna partire da una constatazione, ovvero dall’esaurimento della spinta globalizzante dell’economia capitalistica mondiale. Come noto, il sistema capitalistico si conserva in equilibrio soltanto se e nella misura in cui può garantire ai detentori di capitale (investitori) una crescita futura del proprio capitale. Uno stato stazionario perdurante equivale senza resti ad un collasso per il sistema capitalistico, a partire dal fallimento degli istituti finanziari, che possono esistere soltanto sulla base di questo assunto di crescita.

La globalizzazione è stata la forma principale della crescita capitalistica (e delle promesse di crescita) a partire dagli anni ’70 del XX secolo. Dopo la caduta dell’URSS l’espansione globalizzante ha iniziato ad accelerare.

La globalizzazione tuttavia non è semplicemente un moto acefalo del capitale, per quanto essa esprima tendenze strutturali del capitalismo in quanto tale. Nell’ultimo mezzo secolo la globalizzazione è stata la forma presa dall’espansionismo “imperiale” americano.

La narrazione liberista per cui l’ampliamento e l’intensificazione degli scambi creerebbero automaticamente benessere per tutti i transattori è soltanto una fiaba per gonzi, che nasconde un punto cruciale: in ogni scambio è sempre decisivo il rapporto tra i poteri contrattuali dei contraenti. Chi ha maggior potere contrattuale è in grado di estrarre dallo scambio un profitto molto maggiore; chi estrae maggior profitto rafforza ulteriormente il proprio potere contrattuale futuro; e ciò che conta nel sistema è la gerarchia di potere che ne emerge (il capitale è potere).

Quando l’asimmetria di potere contrattuale conferito dalla capitalizzazione è grande, la parte “perdente” nello scambio è di fatto in condizioni di dipendenza totale, non dissimile da quella di uno schiavo nei confronti del padrone. Ciò accade negli scambi tra individui non meno che in quelli tra nazioni. In uno scambio tra poteri contrattuali massivamente asimmetrici la parte debole è disponibile a fornire qualunque servizio pur di evitare il collasso. Nel sistema mondiale degli scambi, all’indomani della caduta dell’URSS c’era un solo paese in cima alla piramide alimentare: gli USA, mentre un gran numero di paesi, soprattutto africani, in parte asiatici e sudamericani, fornivano la base della piramide, in condizioni di dipendenza totale.

In questa fase gli USA hanno alimentato la globalizzazione attraverso istituzioni internazionali (World Bank, International Monetary Fund, World Trade Organization) e hanno controllato il rispetto dei patti, dei contratti internazionali, e delle proprie aspettative, con l’esercito più forte del mondo.

Con il nuovo millennio è iniziata una fase caratterizzata da due principali fenomeni.

Il primo fenomeno è la comparsa sulla scena mondiale di un protagonista capace di sfruttare le occasioni offerte dalla globalizzazione in modo più efficace degli USA, battendoli proprio sul punto che la teoria predicava come qualificante: la capacità di produrre meglio a costi minori. La Cina, diversamente da altri paesi, aveva caratteristiche politiche, geografiche e demografiche tali da non essere senz’altro ricattabile e assoggettabile da parte americana. E sotto queste condizioni peculiari, invero uniche al mondo, il libero commercio ha operato effettivamente come capacità di trasferimento di capitali verso il produttore migliore. La Cina ha inoltre anche iniziato a fare affari con le parti più sfruttate del mondo, fornendo condizioni di scambio migliori, e così ha esteso la propria influenza insieme economica e geopolitica.

Il secondo fenomeno, parzialmente legato al primo, è stata la crescente fragilità di catene produttive sempre più estese e complesse. Quanto più estese e complesse, tanto maggiore la possibilità che eventi locali, guerre, epidemie, rivolgimenti politici, bolle finanziarie, ecc. creassero bruschi crolli delle aspettative di profitto.

La crisi subprime del 2007-2008 ha segnato qui la svolta, coinvolgendo l’intero pianeta, ma in maniera particolarmente dura l’Occidente a guida americana e i suoi satelliti. Dal 2008 il sistema finanziario e produttivo occidentale è stato tenuto artificialmente in vita con somministrazioni massive di denaro. Queste somministrazioni non hanno però avuto carattere “keynesiano”, anticiclico. Il denaro “stampato” dalle banche centrali è stato destinato direttamente o indirettamente allo stesso sistema finanziario che aveva creato la crisi, entrando solo in minima percentuale nell’economia reale. Dopo il 2008, a causa di queste politiche di trasferimento dalle banche centrali al sistema finanziario, il rischio di una bolla inflattiva senza crescita (stagflazione) era sempre più forte. Questo processo non poteva durare indefinitivamente e ha dato ripetuti segni di essere sulla strada di un nuovo tracollo (l’ultimo grave segno fu la crisi di liquidità bancaria del settembre 2019).

La fase in cui siamo entrati è quella in cui la “globalizzazione imperiale” americana è entrata in fase di riflusso. I vertici del complesso politico-finanziario-militare americano devono ripensare il proprio ruolo, modificando il modello propagandato negli ultimi decenni e riposizionando il proprio potere, mentre le catene produttive si accorciano.

Tutto ciò che ci sta succedendo da due anni a questa parte ricade nella cornice definita da questa inversione di una tendenza storica, inversione che ha una portata storica simile a quella della ritrazione dell’Impero romano dalla propria fase di massima espansione dopo il II secolo d.C. Un sistema come quello romano sul piano militare, o come quello americano sul piano economico, che può prosperare solo crescendo, quando inizia a decrescere deve cambiare pelle e, nel lungo periodo, natura.

Questa fase di transizione può essere lunga o breve, ma in ogni caso non può non essere traumatica.

 

2. Il ruolo della pandemia di Covid-19

 

Che la pandemia di Covid sia stata scatenata appositamente, o che sia stato invece un accidente, questo probabilmente non lo sapremo mai con certezza. Quello che è certo è che una volta avviata, le sue opportunità di manipolazione di sistema sono state prontamente colte.

Da anni si facevano simulazioni intorno a cosa sarebbe potuto e dovuto accadere in presenza di un grave evento pandemico (le più note simulazioni: Clade-X, del 2017-2018, e Event 201 del settembre 2019, entrambe a guida americana). Queste simulazioni consideravano sia le ripercussioni economiche, sia le esigenze di “indirizzo mediatico”, cioè di controllo del messaggio da rivolgere alla popolazione.

Quale che ne sia stata l’origine, dunque, quando la pandemia si è presentata, esistevano indicazioni operative e previsioni circa gli effetti, ed esisteva un dominus della vicenda, ovvero gli USA, che avevano tutte le conoscenze e tutti i mezzi per orientare le scelte, se non del mondo, almeno di tutti i paesi da essi direttamente dipendenti sul piano politico-militare.

E in effetti, la prima cosa da osservare è che i paesi che hanno adottato, con piccole variazioni, il medesimo modello basato sulla vaccinazione a tappeto, con vari livelli di pressione sui renitenti, coincidono con l’area di influenza geopolitica e militare diretta degli USA: questo modello è stato adottato da tutta l’Europa inclusa nella Nato, da Canada, Israele, Australia e Nuova Zelanda.

Il modello di gestione della pandemia è stato sin dall’inizio di tipo militare, e militare è stata la retorica della “guerra al virus”, dei “no vax” come disertori, ecc.

Gli obiettivi di questa manipolazione sono stati due: l’incremento di controllo interno sulla popolazione e il compattamento internazionale delle catene di comando del blocco a guida americana.

Ben prima dello scoppio della pandemia c’erano stati tumulti e proteste diffuse in molti paesi europei, visto che dai postumi della crisi del 2008 non si era mai davvero usciti. I tumulti più tenaci e minacciosi sono stati quelli promossi dai gilets jaunes in Francia, ma le proteste avevano punteggiato tutti i paesi. In Italia le proteste erano state contenute, trovando un’apparente valvola di sfogo elettorale, con la nascita di un governo “atipico” e apparentemente “antisistema” (che inizialmente suscitava alcune preoccupazioni a livello UE).

Con la pandemia tutti i margini di protesta, contestazione e rivendicazione sono stati messi a tacere per “cause di forza maggiore”. Questo è un desideratum di chiunque gestisca il potere, e ha un significato di lungo periodo. Infatti, che circostanze di stagnazione, inflazione, contrazione economica, disoccupazione, ecc. conducano a tumulti e proteste potenzialmente esplosive è ovvio. In una fase di massiva contrazione e riflusso, come quella avviata, questo rischio è previsto, e perciò il potere si premunisce, procedendo a restrizioni, con incremento di controlli, limitazioni agli spostamenti, controllo intensivo sulle espressioni d’opinione, ecc.

Il secondo obiettivo ha carattere internazionale e geopolitico. La pandemia si presenta come un’occasione per addomesticare e “normalizzare” il contrarsi della globalizzazione, specificamente in rapporto al grande concorrente cinese. Con lo scoppio della pandemia la Cina venne immediatamente presentata (lo era invero già in precedenza) come il grande untore mondiale. Questo fatto ha iniziato una spinta a riportare la produzione in una sfera di nuovo direttamente controllabile da parte della potenza imperiale americana. È un processo costoso, lungo e faticoso, che non si sarebbe potuto mai avviare se non grazie a qualcosa che venisse percepito come una inesorabile e fatale “causa di forza maggiore”.

 

3. Il ruolo della guerra russo-ucraina

 

Mentre nel caso della pandemia attribuirne l’avvio ad un’iniziativa volontaria da parte americana è solo una congettura, nel caso della guerra attualmente in corso individuare un’intenzione americana diretta di innescare il conflitto è piuttosto facile.

Nessuno, che non sia uno sfortunato lettore dei gemelli diversi Corriere-Repubblica, può avere dubbi sul fatto che gli USA hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per provocare questo conflitto. Ci sono le prove che il golpe in Ucraina del 2014 sia stato, almeno in parte, finanziato dagli USA e che questi abbiano deciso unilateralmente (alla faccia della sovranità ucraina) chi sarebbe succeduto a Yanukovich. Ci sono le prove di attività di armamento e addestramento militare americano delle forze armate ucraine ben prima del 2022. E c’è, come evidenza macroscopica, l’intero processo di espansione della Nato verso Est, in corso da oltre vent’anni, rispetto a cui i conflitti diplomatici con la Russia sono stati ripetuti e crescenti. Dunque, che gli USA abbiano lavorato per creare la condizioni di tale conflitto è certo. Questo, naturalmente, non significa che Putin sia stato costretto ad agire, visto che nessuna azione umana è mai obbligata: Putin porta la responsabilità delle scelte fatte, scelte che, nella propria ottica di una potenza internazionale che vuole rimanere tale, erano non obbligate, ma solo fortemente motivate.

Nell’ottica dell’impero americano la guerra perfeziona il processo avviato con la pandemia: questa volta l’operazione di ritrazione delle dipendenza globali si rivolge all’altro grande protagonista mondiale dopo la Cina, ovvero la Russia. La Russia non è economicamente comparabile con la superpotenza produttiva cinese, ma è l’unico vero competitore militare degli USA, oltre ad essere il paese con la maggiori risorse naturali del mondo; dunque, dopo gli anni del declino con Eltsin, la Russia è nuovamente di diritto una potenza capace di tenere testa all’impero americano.

Anche qui, come nel caso della pandemia, non bisogna mai cadere nell’errore di pensare che sia il fatto in sé, nella sua oggettività a creare certi esiti politici. Decisiva è la specifica orchestrazione interpretativa che ne viene data. Non è la pandemia ad aver causato i lockdown, né ad aver bloccato i consumi, né ad aver prodotto il Green Pass, ecc., parimenti, non è la guerra a causare automaticamente il distacco economico e politico dell’Europa dalla Russia.

Cruciale è invece il modo in cui la guerra è stata interpretata e continua ad essere letta dai principali media europei, modo che nutre una narrazione volta a creare una barriera di filo spinato tra l’“Occidente liberale” e l’“Impero del Male russo”. La demonizzazione di Putin, e dei russi in toto, è funzionale a creare una barriera durevole nel sentire popolare, che induca nel lungo periodo a separare Russia ed Europa, riconducendo economicamente l’Europa pienamente sotto l’ala americana.

L’Europa, cui gli USA avevano allentato la catena negli ultimi trent’anni, lasciando che dopo il trattato di Maastricht essa divenisse un polo neoliberale autonomo, viene ora richiamata all’ordine.

L’idea, cullata da molti europeisti, che l’UE fosse il nucleo di una forza mondiale autonoma viene riportata alla dura realtà: salvo i fratelli minori degli USA nel Regno Unito, l’Europa dal 1945 non è mai stata altro che una colonia americana, territorio occupato. L’americanizzazione culturale ha proceduto in maniera capillare a tutti i livelli, sempre però all’ombra silente di una dipendenza militare e politica assoluta (cui solo la Francia ha occasionalmente opposto qualche mugugno).

 

4. Chi guida il vascello?

 

Veniamo alla domanda più difficile. Chi è l’agente di tutto questo processo? Chi sya ai posti di comando della nave su cui siamo nostro malgrado imbarcati? La domanda è importante perché è proprio l’idea che il processo non sia nelle mani di nessuno, che sia qualcosa di “spontaneo”, a creare le condizioni della sua percezione pubblica come qualcosa di naturale, inevitabile, fatale.

Purtroppo non essendo di fronte ad istituzioni ufficiali, le possibilità di fornire una sorta di “elenco esaustivo di congiurati” è altamente improbabile. Ma forse una tale risposta, una risposta che desse i nomi e i piani di una sorta di “loggia segreta mondiale” non è richiesta, e non è nemmeno necessario che davvero una tale entità esista (per quanto non lo si possa escludere).

Forse invece di un tale “club di congiurati” è più sensato nominare ciò che li lega, prima e a prescindere dall’entrare in tale (eventuale) club. La migliore risposta che si può dare riecheggia la celebre espressione di Eisenhower, quando parlava del “complesso militare-industriale” americano.

Oggi come quando parlava Eisenhower, gli USA rimangono alla guida dell’impero globale, tuttavia la forma delle strutture di potere centrale ha subito una metamorfosi. La finanza ha una dimensione meno nazionalmente definita rispetto alla tradizionale economia industriale. E la dimensione militare negli USA è riassorbita nella politica neoliberale americana, che ha imparato da tempo a usare la sfera militare come il proprio più utile strumento. Lo stato neoliberale infatti non si affida al “libero scambio”, ma agisce energicamente per controllare gli approvvigionamenti di materie prime, usa l’esercito come strumento di pressione nei “trattati di libero scambio”, e usa le spese militari come mezzo di “intervento anticiclico”. Dunque invece che parlare di un “complesso militare-industriale” americano possiamo parlare di un “complesso politico-finanziario” a guida americana.

Questo complesso ha capacità e moventi per gestire la situazione mondiale nelle forme attuali. Se non è un’entità statutaria, sul modello di una “società segreta”, è probabile che si tratti di un nucleo flessibile dove ideologia e potere convergono. L’interesse primario è la conservazione del potere dell’attuale concentrazione finanziaria. Gli strumenti principali per implementare questo intento sono due: 1) la capacità di spostare i capitali internazionali (promuovendo politici graditi, condizionando gli apparati mediatici, ecc.) e 2) la minaccia militare rappresentata dall’esercito americano e dai suoi “alleati” (Nato in primis).

Al livello di questi gestori apicali del potere non c’è qui bisogno che “tutti siano d’accordo”, perché per ottenere spostamenti decisivi bastano accordi di minoranza di un gruppo compatto, capace di spostare i pesi nelle decisioni politiche e finanziarie che contano. Questo complesso è sì accomunato dall’interesse primario nel mantenimento del potere (la supremazia mondiale relativa), ma è anche accomunato da un’ideologia liberale in cui si identifica senza resti. Questo gruppo di comando non richiede una struttura istituzionale, né una distribuzione di compiti, come avviene nelle organizzazioni formalizzate, essendo unito dalla coincidenza tra il proprio potere, da preservare, e la visione del mondo liberale che sostiene e giustifica tale potere.

Queste caratteristiche di relativa indefinitezza rendono l’imputabilità dei responsabili delle odierne vicende ardua. Nominare questo o quel personaggio della finanza internazionale (Bill Gates, George Soros, ecc.), questo o quell’intellettuale di riferimento (Klaus Schwab, Bernard-Henry Levy, ecc.), questo o quel leader politico (Hilary Clinton, Emmanuel Macron, ecc.) non presenta mai un quadro di sufficiente distinzione, perché i confini di questo gruppo apicale del capitalismo liberale non sono netti ed è improbabile che ci sia un club specifico la cui tessera tutti debbano necessariamente avere in tasca. Esistono numerose associazioni che coltivano questo campo ideologico e operativo (World Economic Forum, Gruppo Bilderberg, ecc.), ma probabilmente non esiste alcuna “cupola” cui tutti facciano riferimento. Ciò che conta è la comune ideologia e la comune posizione apicale nella distribuzione del potere politico-finanziario a guida americana.

 

5. Apocalypse Now

 

Concludendo, oggi ci troviamo in una fase di ritrazione della fase globalista dell’impero americano, che sta richiamando una parte dei propri tentacoli, per consolidarsi ed arroccarsi sulle posizioni per gli USA più facilmente difendibili dell’Occidente egemonizzato o colonizzato.

Questa fase ha, ed avrà, costi economici e sociali spaventosi. Essi devono venir fatti pagare alla periferia dell’impero, in proporzione al potere contrattuale delle varie parti.

Ne saranno esentati i gruppi apicali USA e minoranze scelte delle province dell’impero. I costi interni agli USA dovranno essere tenuti bassi, perché, come per la Roma imperiale, non ci si può permettere di avere eccessivi tassi di malcontento sotto casa. Via via che ci si allontana dal centro dell’impero verso le sue propaggini meno integrate i costi saliranno esponenzialmente, e alcuni paesi verranno semplicemente sacrificati.

In questa fase, che durerà certamente per diversi anni, il potenziale esplosivo delle proteste e dei moti di ribellione verrà tenuto a bada con la duplice leva di “alte ragioni morali” e “doverose strette repressive”.

Da un lato, grazie al controllo dei media, la propaganda promuove un “bene superiore” che esprime l’adesione ideologica positiva, quella che identifica i “buoni” e i “cattivi”. Nella cornice liberale il “bene superiore” ha tipicamente la forma di “solidarietà con le vittime”, quali che siano (recentemente siamo passati dai morti per Covid alle vittime ucraine, ma la lista è lunga). Una volta inventata mediaticamente una vittima acconcia, e suscitati i gridolini di sdegno della plebe telecomandata, si può chiedere ogni sacrificio, fiduciosi nella malleabilità del pubblico.

Simultaneamente, delle vittime reali di questa catastrofica trasformazione, delle popolazioni schiacciate, delle culture cancellate, dei nuovi schiavi, delle plebi emarginate e ricattate né oggi né domani sentirà parlare nessuno.

Se questa dimensione “positiva” non basta come motivante, per gli altri, per i reprobi, per quelli che non si lasciano commuovere dai peana su commissione per le “vittime” col bollino, per questi bruti si ricorre, e si ricorrerà sempre di più, a forme repressive: minacce, rappresaglie lavorative, sanzioni, censure, divieti di manifestazione, sistemi di controllo e ricatto, ecc.

Il punto d’arrivo di questo processo, se riuscirà a dispiegare i propri effetti senza un’opposizione dura ed efficace, sarà l’abbandono integrale, anche formale, del paradigma democratico (già svuotato di fatto) e l’avvento di un neo-feudalesimo a base tecnocratica e plutocratica.

https://sfero.me/article/la-metamorfosi-impero-e-le-sue-vittime

Cronache del crollo: Green Pass, sorveglianza e sicurezza, di Alessandro Visalli

Cronache del crollo: Green Pass, sorveglianza e sicurezza

 

Shoshana Zuboff, nel suo noto “Il capitalismo della sorveglianza[1], racconta come il news feed[2] di Facebook sia il frutto di ricerche ed applicazioni di data science costate ciclopici investimenti che hanno finito per produrre algoritmi predittivi in grado di selezionare ed elaborare istantaneamente, e per ogni utente, oltre 100.000 elementi. Scansionando e raccogliendo, ogni volta, qualunque cosa sia stata postata nell’ultima settimana da ciascuno degli amici, quindi da chiunque venga seguito, da qualunque gruppo frequentato, e da ogni pagina con il like. Per cui il software crea e modifica costantemente un “indice di rilevanza personale” per tutti i post candidabili ad essere inseriti nel feed scelti tra migliaia per individuare e proporre nel feed solo quello che più probabilmente, scrive Will Oremus, “vi darà piangere, sorridere, cliccare, premere like, condividere o commentare”[3]. È come un guanto stretto intorno a noi, che dà sistematicamente la precedenza ai post delle persone con le quali abbiamo interagito e quelli che hanno coinvolto persone simili a quelle con le quali interagiamo.

Ogni utente ha dunque uno “specchio sociale” che provoca del tutto intenzionalmente una sorta di fusione tra noi e l’ambiente sociale modellato dal software. Si tratta, in altre parole, di un effetto espressamente progettato per ottenere, come sostiene la Zuboff, “un loop chiuso in grado di alimentare, rinforzare e amplificare le inclinazioni di un utente, per farlo fondere con il gruppo e aumentare la sua tendenza a condividere informazioni personali”. Ciò che queste meccaniche sfruttano è semplicemente la difficoltà a formarsi un sé autonomo in parte connaturato alle meccaniche sociali umane, ma in parte rafforzato enormemente in questi tempi di grande incertezza. L’ingegnerizzazione di questa forma di meccanica della sorveglianza sfrutta l’esigenza di sentirsi come altri (e quindi diversi da altri ancora), migliori di alcuni, e consente di gonfiare il proprio io alla ricerca di indispensabili forme di popolarità, autostima e quindi felicità. I social media sono perciò descrivibili come contesti artificiali pensati espressamente per indurre ed incentivare la tendenza del ritorno al branco; ci attirano in uno specchio sociale e catturano la nostra attenzione sfruttando il fascino del confronto sociale, ma nel fare ciò massimizzano la pressione sociale e la conformità (oppositiva).

 

Ci sono alcune cose rilevanti in questa terrificante descrizione:

  • Spiega perché sui social media, divenuti così centrali nella vita di tanti e quindi nella formazione del dibattito pubblico, si crei una crescente polarizzazione tra branchi reciprocamente non solo ostili, quanto proprio non comunicanti (in quanto basato sulla conoscenza di fatti ed interpretazioni del tutto diverse);
  • Spiega perché di volta in volta alcuni temi emergano con la forza di una valanga e si impongano, ricreando sempre nuovi branchi e nuove partizioni sociali (altrettanto incomunicabili delle precedenti);
  • Rende chiaro come mai vediamo sempre conferme a quel che ‘riteniamo’ di pensare (ma che è un costrutto sociale indotto dall’algoritmo).

 

Scrive il mio amico Maurizio Denaro (che conosco nella vita ‘reale’ e con il quale ho pranzato, questo antico rito che una volta definiva la vera conoscenza):

“mi piace, di tanto in tanto, ricordare quanto siano fugaci i dibattiti, di questi tempi, e di come argomenti che sembravano tali da far crollare il mondo, tornano nel dimenticatoio:

  • chi si ricorda del MES? anche quello sanitario, che senza il nostro SSN sarebbe crollato e non si sarebbe potuta affrontare la pandemia?
  • chi si può dimenticare dello spread, indice di tutti i mali del nostro paese e maestro di direzione, verso riforme salvifiche e fondamentali.
  • ed il debito pubblico? quello ogni tanto ce lo ricordano, ma non troppo, che ad oggi ne devono far debito per uscire dalla loro crisi, ma adesso far debito non è male, e non sono le prossime generazioni a doverlo ripagare, chi non lo dicono, ma tanto fa niente.
  • la legge elettorale, fondamentale, senza quella la riduzione dei parlamentari rischia di essere una puttanata, niente, non è prevista tra le riforme che ci chiede l’UE, quindi non serve, tanto della democrazia ce ne siamo dimenticati.

Allora forse non vale più neanche il tempo di litigare, che sò, sulla pandemia, che quando decideranno non sarà più rilevante, che sò, sull’Afghanistan, che ce lo eravamo dimenticati, e così sarà tra qualche settimana.

Buon fine settimana”.

 

Questo post non raccoglierà “like” da nessuno dei due branchi.

 

Fatti: la pandemia.

Questi ultimi mesi sono stati investiti da un evento straordinario, in qualunque modo lo si voglia vedere, che impatta la vita di tutti noi, ma lo fa in modo molto diverso per ciascuno. All’inizio del 2020 si è presentata infatti una pandemia subdolamente simile alle malattie polmonari alle quali siamo abituati. In essa il tasso di mortalità è abbastanza basso (anche se superiore all’operazione al cuore che subì mio padre anni fa), ma la contagiosità molto alta (e ancora più con alcune delle varianti che si sono prodotte). Da un sito che controllo talvolta[4] leggo che nel mondo ci sono stati ad ora 220 milioni di casi registrati e 4,5 milioni di morti (2% dei casi). Per fare un esempio, l’influenza “asiatica”, diffusa in tutto il mondo nel 1957, provocò un milione di morti e spinse la creazione di vaccini antinfluenzali annuali. Simile fu l’impatto della “influenza di Hong Kong”, nel 1968.

L’Italia è al nono posto per morti (ma al sedicesimo per milione di abitanti con i suoi 2.145 morti per milione di abitanti). Nel 2020 ha visto i morti per tutte le cause aumentare di centomila unità, rispetto alla media dei cinque anni precedenti, ciò su 4.035.000 casi diagnosticati[5]; si tratta del più alto livello di mortalità dal dopoguerra, con un aumento del 9%. È da segnalare che i dati anomali di mortalità in Italia, rispetto alla media dei cinque anni precedenti (ed in effetti a tutto il dopoguerra), sono limitati a poche regioni: Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia e Trento. Le altre regioni non registrano mortalità più alte della media. Inoltre è molto sbilanciata per età, nella classe 65-79 anni il 20% dei decessi è stato da connettere al Covid; infine per sesso, in quanto colpisce in particolare gli uomini.

L’epidemia, come noto, si è svolta per “ondate” (come è quasi sempre accaduto), dove la prima (che colse impreparato l’intero sistema) fu apparentemente più piccola, anche se la rilevazione era molto meno efficace, ma provocò molti morti a causa del semi-collasso del sistema sanitario nazionale.

Il confronto con il numero dei decessi restituisce, infatti, una curva del tutto diversa.

Per terminare questa analisi dei principali fatti, la distribuzione dei decessi attribuiti al Covid è enormemente sbilanciata verso le coorti di età più grandi. Il 60% circa dei morti è attribuibile a quella degli ultra ottantenni (che è normale abbiano anche altre patologie), mentre il 30 % a quella degli ultra sessantacinquenni. Solo l’8% alla classe tra cinquanta e sessantacinque anni, e solo il 1% a quella sotto i cinquanta anni.

Come si vede dal grafico i picchi di mortalità sono stati vicini ai 1.000 morti al giorno, e la campana della fase acuta superiore ai 500. Per dare un’idea in Italia muoiono normalmente circa 650.000 persone all’anno, quindi poco meno di 2.000 al giorno. Ma questo dato, di per sé rilevante, è accentuato dal fatto che le morti (e le ospedalizzazioni gravi) sono concentrate in poche regioni e province.

 

A partire dal 2021 sono disponibili alcuni vaccini, sviluppati a tempo di record ed approvati in emergenza dalle autorità sanitarie mondiali[6], somministrati[7] ormai in Italia a 38 milioni di persone, con una incidenza delle dosi somministrate molto alta (circa 90%), ed un numero di dosi per centomila abitanti di centotrentatremila che ci colloca al 35° posto nel mondo. per fasce di età gli ultranovantenni sono vicini al cento per cento (95%), gli ottantenni al 93%, i settantenni al 90%, i sessantenni al 85% ed i cinquantenni al 77%. Le coorti meno a rischio di morte dei quarantenni al 67% e via via di meno (ventenni e trentenni al 60%, sotto al 40%). La stima è che al 22 settembre si raggiungerà la soglia dell’80% dei vaccinati. Questa soglia era stata considerata nei modelli epidemiologici sufficiente per spezzare le catene di contagio e rendere la malattia tollerabile per il sistema sanitario nazionale, ma la variante “delta” che è molto più contagiosa rende questo calcolo incerto. Su questa dimensione tecnica della valutazione c’è una incomprensibile mancanza di trasparenza.

 

Divagazione: decisioni e fratture comunicative

Come capita normalmente in tutti i campi i decisori tendono alla logica DAD (Decidi, Annuncia, Difendi), invece di offrire alla discussione pubblica i motivi razionali e l’analisi delle priorità delle scelte.

Ogni politica, e soprattutto ogni azione conseguente, comporta infatti sempre la distribuzione di oneri per alcuni e spesso immediati a fronte di benefici distribuiti diversamente nel tempo e nello spazio; questa è la ragione per la quale non manca mai di sollevare ostilità e spesso reazioni organizzate. Spesso queste si organizzano in un vero e proprio conflitto che, grazie anche all’interessata infrastruttura dei social, subisce un processo di “escalazione”. Dalla divergenza di opinioni si passa all’identificazione di un “nemico”, per cui si alza una insuperabile barriera comunicativa. Ogni azione, ed ogni tentativo di comunicazione, sarà immediatamente distorto in uno schema amico-nemico e visto come tattica, inganno, menzogna etc.

Questo processo di verifica da entrambi i lati della frattura comunicativa.

Tra i fattori che rendono sempre più forte il processo di “escalazione” (cioè l’escalation del conflitto) ci sono alcuni che conviene focalizzare:

  • la riduzione della complessità cognitiva; progressivamente gli attori, per una pulsione psicologica di base alla semplificazione di quadri complessi e stressanti (difficilmente si può immaginare qualcosa di più complesso e stressante di una pandemia), tendono a farsi un’immagine sempre più sintetica del conflitto e delle sue motivazioni. Tendono a darne spiegazioni univoche ed a ricercare un colpevole ben definito. Si cercano “complotti”.
  • il cambiamento dello status dell’avversario; quando l’escalazione è arrivata ad un livello alto l’avversario viene deumanizzato e gli viene negato ogni aspetto positivo, attribuendogli solo un profilo astratto di “nemico”.
  • si attivano fenomeni di “anticipazione pessimistica” in base ai quali ognuno si attende il peggio dall’altro e con ciò lo provoca effettivamente.
  • gli attori sociali restano intrappolati dalla quantità di risorse (economiche, tecniche, sociali e politiche) che hanno investiti via via nel conflitto; ne segue che non possono più ritirarsi senza perderle (tipica è la paura di “perdere la faccia”, ovvero i follower, ma anche il tempo impegnato nella controversia).

 

Il processo stesso di “escalazione” può essere ricondotto ad alcune fasi tipiche:

  • in una prima fase gli attori pensano ancora che la controversia possa risolversi in una soluzione di mutuo beneficio (vince-vince) e quindi rimane in primo piano l’oggetto stesso di divergenza; tale fase può essere subarticolata come segue:
    • un primo momento di irrigidimento, nel quale si entra nel conflitto, si iniziano a creare le identità collettive e, conseguentemente, le percezioni si fanno sempre più selettive;
    • in un secondo, i dibattiti in corso tra le parti ed al loro interno generano polarizzazione (inizia a distinguersi tra leader, membri dei gruppi, simpatizzanti e spettatori); la comunicazione inizia ad essere usata più che per cercare soluzioni al problema per acquisire un vantaggio simbolico, inizia il duello verbale;
    • se il dibattito non porta effetti, gli attori possono passare alla politica del fatto compiuto, ovvero agire indipendentemente dalla controparte cercando di forzarle la mano; si tratta di una violazione dei rapporti di dialogo comunque esistenti nella fase precedente e del superamento di una soglia psicologica che provoca un’ulteriore escalazione; il conflitto diventa di ostacolamento.
  • in una seconda fase gli attori entrano nella prospettiva di chi pensa che la sua vittoria deve comportare la sconfitta dell’avversario (vince-perde), ad esempio non si consente più all’avversario di “salvare la faccia”; tale fase può essere subarticolata come segue:
    • ogni attore crea una propria immagine del “nemico” e simmetricamente si fa un’immagine eroica di sé; in tale fase si manifestano le anticipazioni pessimistiche e si chiudono i canali di comunicazione reale; le azioni diventano rivolte a cercare alleati ed a colpire l’avversario, non più la sua azione;
    • se il conflitto passa sul piano di azioni rivolte a far “perdere la faccia” all’avversario (cioè a colpire la sua identità sociale) si è superata una soglia psicologica fondamentale e un punto di non ritorno; da questo momento in poi è un conflitto di valori e di appartenenza che non prevede comunicazione;
    • a questo punto normalmente si passa alle minacce ed agli ultimatum che vincolano entrambe le parti a passare altre soglie di scontro o a cedere e ritirarsi (su questo passaggio si può collocare il Green Pass sotto il profilo della sua funzione nel conflitto);
  • la terza fase è quella dell’azione fisica, in essa sono possibili atti di violenza mirata o generalizzata (naturalmente non nei casi che sono qui oggetto di analisi); il conflitto entra in una fase terminale in cui gli attori ammettono di poter subire danni pur di farne di più all’avversario (perde-perde).

 

La strategia di “de-escalazione” dovrebbe passare a questo punto per il ridimensionamento dei fini degli attori (il decisore dovrebbe accettare di contenere e non eradicare il virus, rimuovendo gli eventuali fini eterogenei, e i ‘ribelli’ non vedere la cosa come un conflitto per la rivoluzione – liberale o socialista -, ma solo come una politica sanitaria complessa). Quindi per la “depolarizzazione”, che passa per la ricomplessificazione della materia (fornire da entrambe le parti descrizioni meno manichee). Tipicamente questo può passare per l’ampliamento delle soluzioni ammissibili (per cui, come vedremo al termine, la centralità vaccinale può essere attenuata e affiancata da più flessibili procedure di distanziamento, da ristrutturazione e potenziamento graduali delle capacità di cura e di trattamento anche emergenziale, di riarticolazione dei luoghi e tempi di lavoro e vita, risolvendo i nodi di sovraffollamento) anche al prezzo di forzare alcuni vincoli sistemici (la principale ragione per cui l’elenco sopra indicato non si implementa adeguatamente, e soprattutto strutturalmente, è che ci sono vincoli obiettivi di tipo europeo, sui quali torneremo dopo) e di modificare la mentalizzazione del problema (non pensare alla pandemia come un ‘cigno nero’, che passerà tornando al business-as-usual, ma come un segnale sistemico di disfunzionalità che vanno affrontate e risolte).

 

Fatti: vaccini ed effetti

Torniamo, dopo questa divagazione, alla descrizione. L’impatto positivo principale dei vaccini (e quello per il quale sono stati progettati) è di aver modificato drasticamente l’incidenza delle ospedalizzazioni, e soprattutto della mortalità, più incerto l’impatto sulle diagnosi ovvero sulla diffusione della malattia. I dati[8] direbbero comunque che si è registrata una riduzione dell’80% per il rischio di infezione (che ora impatta molto più sulle classi degli under quaranta e giovani), e del 90% e 95%, rispettivamente, per il rischio ricovero e decesso. Si tratta, ovviamente, di elaborazioni non semplici ed elaborate con il modello statistico di Poisson. Molte ricerche sembrano affermare che le persone vaccinate con successo, ovviamente non tutte, mediamente se vengono in contatto con il virus ostacolano la sua replicazione e quindi serbano una minore carica virale e per meno tempo. Qui ci sono numerosi fraintendimenti e difetti di lettura degli stessi paper scientifici (i quali non sono scritti per essere compresi da tutti, ma solo dalla comunità scientifica). È chiaro che nei grandi numeri ci siano casi di contagio da parte di vaccinati, ciò sia perché il vaccino non funziona per tutti ed in ogni caso (a grandi linee c’è un 10% di casi in cui fallisce, e che sale man mano che ci si allontana dal momento della somministrazione) sia perché le condizioni di contagio sono diverse (è molto diverso se una persona con bassa carica virale, nel quale il virus non riesce a replicarsi o lo fa poco, entra in contatto con un’altra per pochi secondi in un’area semiaperta, come un bar mentre si prende un caffè, o sta due ore in un pub affollato). Tuttavia quel che è rilevante per l’impostazione di una politica pubblica di sicurezza sanitaria non è il singolo caso, che si può tollerare, quanto l’effetto aggregato. Per cui se abbasso la probabilità di contagio, vaccinando, e riduco le occasioni di stare in contatto tra persone a diverso grado di vulnerabilità, complessivamente avrò una circolazione del virus meno rapida e quindi avrò meno pressione sul sistema sanitario. Ciò significa che potrò gestire i malati e ridurre al minimo la mortalità.

Questa è, mi pare, la base razionale delle misure di confinamento selettivo (il fatto che sia la base razionale non significa che sia la ragione dell’adozione, o che sia tutta la ragione). Né, tantomeno, che giustifichi il modo in cui è stato promosso. In effetti sembra giustificarlo molto poco (ma non abbiamo esatta contezza del grado di fragilità del sistema sanitario né delle stime dei modelli, e questa assenza di trasparenza è una delle cose più gravi della situazione).

 

Questi i fatti, per come sono descritti dalle fonti ufficiali e sulla base delle tecniche di raccolta ed elaborazione statistica normalmente adoperate.

 

Ora proviamo a raccontarli in una diversa cornice.

Il 2019 era terminato con la formazione del governo ‘bianco-giallo’ (PD e M5S) e con la riduzione dell’anomalia delle elezioni del ciclo 2016-18 (ciclo populista) un poco ovunque. Questa è una circostanza di sfondo molto importante, come proveremo a dire dopo, perché parte della rivalsa che si intravede nelle decisioni governative ne risente. In un generale clima di normalizzazione all’inizio del 2020 è cominciata a circolare la notizia di una malattia classificata inizialmente come ‘polmonite atipica’ che si diffondeva in oriente (dove si era avuta l’esperienza della Sars e della Mers), ed in particolare in Cina, in un’area di grande densità ed importanza come la regione di Wuhan (circa la dimensione demografica dell’Italia).

Con qualche sconcerto, e un malcelato e divertito senso di superiorità, i nostri media riportarono che, dopo un’esitazione iniziale, il governo centrale cinese (Pcc) rispose con misure senza precedenti di blocco assoluto delle attività nell’intera regione. Si riportava di persone chiuse in casa, distribuzione di viveri, severissimi blocchi alla circolazione, immediata chiusura di tutte le attività non indispensabili. Ma anche di un immediato supporto dal resto del paese e costruzione a tempo di record (singoli giorni) di enormi, nuovi, ospedali. Il blocco durò un paio di mesi ed fu accettato disciplinatamente dalla popolazione. Rientrata l’epidemia seguì, in tutti i paesi orientali, un maniacale tracciamento di tutto e tutti per prevenire altri focolai. Quando si sono presentati sono stati immediatamente ripristinati i blocchi (anche per milioni di persone, anche nei porti della costa), fino ad ora.

Dopo un paio di mesi la cosa, però, si presentò improvvisamente e brutalmente nel bergamasco e poi in buona parte della Lombardia. Il governo italiano, politicamente debole e con una forte opposizione (Lega e Fratelli d’Italia) dotata di un fortissimo consenso (ed al governo in quelle regioni), esitò per alcune settimane (promuovendo anche brindisi pubblici ai “navigli” di Milano), terrorizzato dal dover interrompere le attività connesse al tempo libero ed alla produzione. Come ricordiamo la Confindustria (come fa tutt’ora) si mobilitò immediatamente per scongiurare il blocco delle attività produttive. Lentamente però il progresso dell’epidemia, e l’impennata dei casi ospedalizzati in modo grave (che saturarono subito le pochissime terapie intensive sopravvissute a decenni di tagli alla sanità) costrinse il governo a dichiarare, con la costante e ferma opposizione del governo lombardo, il lock down. Un lock down, si intende, all’acqua di rose e limitato a più o meno la metà dei lavoratori e delle attività. Tuttavia, per la scala geografica totale (mal giustificata dai numeri, dato che interessava poche regioni) e l’impatto sulle vite dei cittadini si trattava di una misura senza precedenti noti (durante la spagnola ci furono lock down, ma per lo più in singole città).

 

Divagazione: impatti sociali e sociointegrazione liberale

Questo lock down parziale mise in evidenza drasticamente l’enorme differenza creata dal capitalismo contemporaneo tra coloro che sono impegnati in attività produttive, godendo di qualche protezione e garanzia residuale (alla deregolazione degli ultimi trenta anni) e l’enorme massa di coloro che sono precari, saltuari, impegnati in attività ‘deboli’ come il turismo, la ristorazione, il tempo libero (attività che l’analisi marxista, e l’economia ‘classica’, individuava come “improduttive”). Attività nelle quali, accelerando negli anni della ristrutturazione post 2007, si erano in effetti rifugiati i capitali deboli ed era proliferata una grande massa di lavoro senza garanzie e protezioni, debolissimo, supersfruttato, o al limite tra lavoro autonomo, imprenditoria e semi-dipendenza. Una costellazione che è stata colpita come da un ciclone dal dissimmetrico impatto del virus e delle misure di emergenza[9].

Una vastissima area, quindi, includendo anche il piccolo commercio fermato dal lock down, che è stata sostanzialmente abbandonata a se stessa (a causa delle esitazioni e dei vincoli imposti dal combinato della Ue e della Tesoreria). Pochi fondi e in grande ritardo sono stati destinati in un momento in cui la nuova politica della Bce avrebbe potuto consentire di accedere senza limiti all’emissione di debito (se in tale direzione non fosse operante un divieto non palese ma molto concreto)[10].

È difficile sottovalutare questa circostanza. Il tremendo colpo subito dalle parti più deboli della società del lavoro rappresenta un enorme acceleratore della crisi della democrazia. Come mostravano Durkheim e Marx (sul piano della denuncia), tra gli altri, la qualità della partecipazione dipendono in modo sostanziale dal presupposto dell’esistenza di una corretta, trasparente ed inclusiva del lavoro, non dalla sola presenza di possibilità di discussione pubblica. La coesione sociale dipende e deriva dalla società del lavoro non alienato, e da questo la possibilità di sentirsi membro della società e partecipe politico di essa. Non è la comunicazione (peraltro distrutta in radice dal medium verticistico dei luoghi ufficiali – televisione e giornali – e da quello alternativo dominato dagli algoritmi “della sorveglianza”) ad essere fonte di integrazione, che in genere nelle condizioni sociali attuali diventa piuttosto fonte di “escalazione” di conflitti, quanto la pratica nella quale membri paritari si riconoscono nella reciproca indipendenza, sviluppando un senso comune di appartenenza attraverso la cooperazione nella produzione di qualcosa nel mondo. Ovvero nell’esperienza di lavorare gli uni per gli altri. Ovviamente questa, prima di Marx, è stata la lezione di Hegel. È in questo modo che si crea il presupposto per raggiungere il senso del proprio valore. E, cosa molto importante, non è qui tanto una questione dell’entità delle entrate monetarie, ma proprio delle condizioni sociali di un lavoro che determinano la sensazione che il proprio contributo abbia un peso. La sensazione di non stare costruendo qualcosa di intellegibile nel mondo, di non produrre o farlo non comprendendo il proprio ruolo e contributo, è ciò che espelle l’individuo dal senso di essere nella società. In altre parole, più i membri di una società hanno la possibilità di svolgere compiti complessi, cooperativi, più alta è la partecipazione e più si attivano anche politicamente.

La disattivazione politica che si vede ovunque, l’indifferenza e l’individualismo dominante, l’assoluta incomprensione del sacrificio per gli altri, derivano da questo. Da una cattiva divisione del lavoro e da una società del lavoro male ordinata. Qui la critica di Marx, che reputava non a torto che il capitalismo fosse inadatto a organizzare una divisione del lavoro idonea a creare coesione ed attivazione, è centrale.

Ciò significa che la ristrutturazione necessaria delle strutture sociali di formazione della personalità e della politica dovrebbe passare per l’idea durkheimana che la società dovrebbe sforzarsi di selezionare i lavori più significati e cooperativi in modo che il singolo lavoratore sia messo in condizione di comprendere il modo in cui il proprio ruolo si incastri nell’insieme delle attività interconnesse e nella generale divisione del lavoro, trovandovi il suo posto. Dovrebbe anche significare il contrasto, cosa che è decisamente contro lo spirito del capitalismo neoliberale (e del capitalismo in generale), di tutte le forme di lavoro precario, intermittente, flessibile e umiliante, sottopagato, frammentato e svuotato di senso, monotono, routinario. Giungendo fino a potenziare il lavoro cooperativo autogestito o, al capo opposto, il servizio pubblico obbligatorio indipendente da censo o posizione sociale.

 

Reazioni

Tornando ancora al racconto, si deve ricordare che successivamente l’epidemia si attenuò e nell’anno successivo (tra l’ottobre 2020 e l’inizio del 2021) si ripresentò più forte, ed anche al sud, inducendo un altro lock down per le regioni più colpite (fu introdotta la classifica “rosso-arancio-giallo” e limitata la circolazione interna).

Nel frattempo il governo Conte negoziò l’accesso al nuovo meccanismo (New Generation Eu[11]) di sostegno per la ristrutturazione del sistema economico e sociale europeo e, immediatamente, è stato sostituito dal governo Draghi che ha l’appoggio anche della Lega.

 

In questa condizione di grande stress e di paura, la prima pienamente comprensibile reazione di molti (e di alcuni ancora oggi), veicolata e rafforzata dalla creazione di branchi che abbiamo prima descritto, è stata di dire che il Covid non esiste. Di fronte all’evidenza (ed al moltiplicarsi di casi noti nel proprio ambito di conoscenze personali) dopo settantamila morti e riscontrato che gli ospedali buttavano per strada tutti quelli che non avevano covid, una parte si è impegnata a dire che la malattia esisterà pure ma comunque non bisogna fermare la vita (che, se no, diventa “nuda”[12]) e quindi non si dovevano fare Lock Down. Uno degli argomenti, comprensibile se pure egoistico, era che chi è giovane (la grande maggioranza dei lavoratori deboli nei settori prima descritti), in fondo, non si ammala in modo grave. Nella versione più brutale, chiaramente favorita dalla ricerca ossessiva dei ‘like’ nei social, si trattava di lasciare che la natura facesse il suo corso. Alla fine nella vita si muore (ovviamente chi lo scriveva, senza vergogna, sapeva di essere al sicuro).

Qui ha fatto capolino l’idea, nella dinamica dei gruppi in fusione che progressivamente si staccavano dal generale ambiente di discorso, creando una propria rete di fonti, di rimandi, di teorie e di fatti, che in effetti c’erano (ci dovevano essere necessariamente) cure nascoste e che qualche progetto doveva (quindi) essere in corso.

Peraltro, dopo i primi settantamila morti, quando i lock down ridussero i casi (soprattutto dipendenti delle aziende private ospedaliere del nord, nelle regioni leghiste), molti operatori in cerca di visibilità mediatica cominciarono a dire che a quel punto “il virus era morto”, con poca coerenza con la precedente affermazione sull’inutilità dei blocchi. Dunque, coerentemente, se il virus era “clinicamente” morto, allora non bisognava tracciare nulla, che questo era un’insopportabile violazione della privacy (anche se brutta copia e non funzionante delle app di controllo orientali). E, ovviamente, non doveva essere imposto nessun presidio, o profilassi, come le mascherine. Ricordiamo, infatti, che di volta in volta sono state difese, nelle aree di discussione che sempre più si rafforzavano, linee di conflitto noi/loro intorno a qualunque politica di contrasto venisse avanzata. I Lock down, ovviamente, ma anche le mascherine, l’app immuni, etc.

 

Quando purtroppo è ripresa la malattia, ma nel frattempo sono stati approvati a tempo di record (data la situazione che stava, niente di meno, che mettendo a rischio l’egemonia bisecolare dell’occidente e facendo collassare il suo strumento principe: la globalizzazione) alcuni vaccini (in occidente, perché cinesi, cubani e russi avevano fatto prima e con tecniche più tradizionali), allora il repertorio si è allargato a questi: inutili, dannosi, non sperimentati, prodotto di business (cosa vera). Una parte rilevante della critica si è concentrata sulle cosiddette “cure precoci”[13]. In effetti arrivando, con poca coerenza, ad osteggiare vaccini da 20 euro una volta all’anno in favore di cure altamente complesse e costose, ad esempio a base di sieri derivati dal sangue (che, per essere affidabili richiedono lavorazioni altamente specialistiche) che, ovviamente, nel sistema capitalista in cui viviamo sarebbero comunque offerte dalle medesime ditte a costi enormemente superiori.

Ma ormai ci sono intere biblioteche di dati ed elaborazioni, ognuna con i suoi riferimenti più o meno condivisi nella ‘comunità scientifica’ (che fortunatamente genera sempre ipotesi di minoranza, anche per la spinta a differenziarsi[14]), che non comunicano. Ogni gruppo autorafforzato dagli algoritmi e dalla spinta umana ad avere riscontro, fama, conformità, ha i suoi.

 

Mentre questa polemica continua (si spera che in autunno-inverno arrivino finalmente le prime cure approvate, ma sono per lo più delle stesse ditte che producono i vaccini[15]) e viene dimostrato dai numeri che i vaccini almeno eliminano sostanzialmente le terapie intensive e i morti, è cominciata la battaglia degli esperti di statistica e degli analisti autopromossi (per lo più con formazione umanistica). Si registra quindi un profluvio di analisi su paper complessi in inglese e sui database israeliani, inglesi, svedesi, etc. senza adeguata comprensione dei dati e capacità (che è tecnicamente non banale e occorre apprenderla) di disaggregarli. Una piena applicazione del paradosso di Simpson[16].

 

In questa dinamica di progressiva distruzione del terreno comune e sociale alla fine è emersa la grande battaglia di “libertà” del Green Pass.

 

Fermiamoci qui, perché si tratta in effetti di una questione molto complessa.

 

Logica dell’argomento dei no-Green Pass

La logica dell’argomento opposto dall’area di discussione ‘ribelle’ alla confusionaria e contraddittoria politica pubblica del Green Pass si può riassumere come segue:

  1. Fatto 1. Il vaccino protegge dai casi gravi della malattia,
  2. Fatto 2. Il vaccino non impedisce il contagio,
  3. Fatto 3. I giovani non si ammalano in modo grave.
  4. Conseguenza 1. E’ ingiustificato vaccinare i giovani (under 40 anni).

Quindi:

  1. Conseguenza Costringerli in modo surrettizio è un abuso non necessario.

Infatti (argomento complementare, ma necessario):

  1. Fatto 4. I vaccini danneggiano e/o possono provocare reazioni avverse anche nei giovani,

Quindi:

  1. Conseguenza 1 (versione b). Il bilancio costi/benefici è negativo e non c’è neppure un beneficio collettivo compensativo.

e

  1. Conclusione La politica del Green Pass è quindi irrazionale e illogica

Ne consegue logicamente che:

  1. Conclusione 2. Non servendo alla lotta pandemica essa deve quindi servire a qualcosa di altro. E questo altro è da rintracciare nei suoi effetti di potere (questione “Grand Reset”[17] e questione “Dittatura sanitaria” o “tecnocratica”[18]).

 

Questa filiera logica conduce al dominio delle posizioni libertarie (e complottiste, C2) nella mobilitazione. La quale non si attiva a partire dalla obiettiva e gravissima carenza del servizio pubblico e mancanza di ristrutturazione del sistema economico (che rende tanti, ed in particolare giovani, in condizioni di debolezza tale da non poter sopportare due o tre mesi di arresto di attività) o, sui vincoli finanziari (che impediscono il supporto che in Cina è stato garantito dal primo giorno), bensì intorno a parole d’ordine coerenti con il sottostante senso comune sedimentato in questi ultimi decenni:

  • <libertà>
  • <sfiducia> (nel pubblico, si intende, ben meritata).

A questo senso comune si trovano uniti sul piano sociologico:

  • marginali (resi tali dall’organizzazione economica),
  • fortemente abbienti (spesso in posizione di imprenditori e/o di rentier che non vogliono sopportare limitazioni).

Sul piano culturale:

  • liberisti conseguenti,
  • libertari di destra e sinistra.

 

Divaricazioni ed egemonia neoliberale

Come avevo già scritto, di fronte a questa sfida si è quindi manifestata una profonda divaricazione. Una lacerazione ha attraversato diagonalmente la società e tutte quelle che sembravano, ante la crisi, delle comunità politiche in formazione. La sfida della sicurezza ha lacerato il corpo dei “contenitori dell’ira”[19], portando allo scoperto la loro matrice e cultura neoliberale. In particolare, quella che si potrebbe chiamare ‘l’area della sovranità costituzionale’, di ispirazione marcatamente euroscettica e di pratica politica -in varie forme- populista, si è lacerata ed è entrata in una fase di pronunciata “asfissia politica”. In grandissime linee l’ipotesi politica che l’aveva ispirata era di tentare un compromesso tra forze di diversa ispirazione e cultura politica intorno all’ipotesi che l’oggettivo interesse per l’espansione della “domanda interna” potesse essere punto di convergenza di una nuova maggioranza politica dalla periferia e dal basso. Ovvero che un accorto esercizio della logica oppositiva del populismo (inteso al senso di Laclau) potesse ripoliticizzare le forze sparpagliate dalla rivoluzione neoliberale intorno al “programma minimo” di una ripresa di capacità sovrana a base popolare. Il tentativo di mettere tra parentesi tante vecchie fratture, quella tra “riformisti” e “rivoluzionari”, ad esempio, per iniziare almeno di uscire dall’angolo e riprendere il cammino verso una società più decente. Secondo l’idea che un passo produce forza per fare il successivo. Una ipotesi, per intendersi, interclassista e caratterizzata da un riformismo ‘forte’ (o strutturale).

Tuttavia, nella seconda fase della crisi, già dalla metà del 2020, sotto la spinta delle conseguenze diseguali delle misure di protezione sanitaria su un sistema economico e sociale reso fortemente frammentato dal trentennio neoliberale, abbiamo assistito alle mobilitazioni delle frazioni più precarizzate e di quelle più deboli del lavoro autonomo o professionale/imprenditoriale. E questa mobilitazione si è spontaneamente rivolta contro lo Stato, accusato di esercitare un potere “biopolitico” eccedente, e contro i ceti “protetti” dei lavoratori dipendenti. Ha inseguito le più stravaganti ipotesi, ha assunto toni di aspra difesa della libertà offesa. L’ipotesi di “alleanza della domanda interna” è andata in frantumi.

 

Quel che è emerso alla luce è che buona parte dell’area si muoveva sotto la ferma egemonia di quei ceti intermedi indeboliti, attori della svolta neoliberale degli anni seguenti al riflusso ma oggi traditi nel loro affidamento ad essa. La reazione emersa ha opposto, non senza una sua quale coerenza, la risposta di protezione difensiva delle macchine statuali alla violazione della libertà individuale, identificandola quale profonda violazione dell’ordine liberale[20]. Dimentica di ogni sbandierato orientamento al socialismo sono riemersi tutti i temi libertari profondamente radicati nella società italiana e nelle sue medie borghesie, siano esse orientate a sinistra, destra o centro.

Sono esplose quelle precarie “catene di equivalenza” che, sotto l’astratto slogan della “domanda interna” facevano sembrare simili le domande di chi in effetti odia lo Stato (e specificamente lo Stato fiscale e disciplinatore) e chi al contrario lo vuole potenziare dopo un quarantennio di indebolimento; chi vuole solo ascendere alla posizione dalla quale può nuovamente, e finalmente, sfruttare il lavoro debole (di commessi, impiegati, operai) per vincere la lotta della vita e raggiungere il proprio posto in essa, e chi, magari, vorrebbe ridurre all’opposto il proprio grado di sfruttamento e guadagnare condizioni di lavoro più dignitose; chi ha bisogno di indebolire il lavoro per sfruttarlo e chi questo lavoro lo presta; chi abita le periferie e chi ne fugge disperatamente, o non vuole scivolarvi; chi si sente in basso e chi in alto.

Nei mesi tra la metà del 20 e del 21 il sistema dei media, ed in parte il frastuono dei social, hanno restituito un’immagine per la quale a mobilitarsi ‘contro’ sono micro e piccoli imprenditori, autonomi, commercianti, più che insegnanti, impiegati, operai e funzionari pubblici. In parte è una percezione deformata dai media (i quali sistematicamente hanno sovrarappresentato alcune manifestazioni ed ignorato altre), in parte dipende dal fatto che alcuni strati dei primi soffrono maggiormente le misure di protezione prese. Le subiscono senza le protezioni residuali il trentennio di espansione del welfare di cui i secondi ancora godono. Ma si muovono anche perché su di essi la cultura neoliberale ha maggiore presa. Si muovono perché per loro è più aspro lo scollamento tra la promessa di autopromozione o di elevamento nella quale sono stati formati e la realtà di scivolamento e stagnazione in cui vivono. Promessa sulla quale contano per ancorare l’autoriconoscimento in una logica di competizione verticale propria della loro soggettivazione come classe.

Insomma, in questi mesi, è riemersa una frattura strutturale che ha anche un suo versante culturale e cognitivo. La “alleanza per la domanda interna” è una astratta necessità politica, ma anche nelle condizioni odierne una concreta impossibilità. Questi ceti e gruppi, quelli che Wright Mills chiamava in mezzo al trentennio “un’insalata di occupazioni”, fatta di dirigenti, professionisti, addetti alle vendite, impiegati, artigiani, piccoli e medi imprenditori, accomunati da molto poco oltre a certi parametri di reddito rilevati ex post e il desiderio di un certo status sociale, vogliono ascendere. Vogliono staccarsi dai ceti popolari e dai lavoratori, e vogliono, anzi che questi gli servano per farlo.

 

Conclusioni sul Green Pass

Dunque:

  1. allo stato il GP è un dispositivo di distrazione a bassa efficacia e non sicura necessità (ma la distrazione è andata perfettamente a segno anche a causa della reazione), ma in linea di principio la circostanza che chi non si vaccina (e non dimostra in altro modo di non essere portatore del virus) possa essere oggetto di qualche precauzione non è sbagliata.
  2. Mentre il Fatto 1 prima descritto è sostanzialmente vero, i Fatti 2 e 3, in diversa misura, non sono correttamente espressi. In questa forma lavorano con una logica binaria troppo semplificata tipica di un processo di “escalazione” indotto dai social sul fondo della sfiducia e della disgregazione della personalità sociale. E’ illogico, oltre che non sufficientemente dimostrato, che chi è vaccinato ed ha avuto una normale reazione contagi nello stesso modo, e questa considerazione pesa nella forma aggregata che devono prendere le politiche di pianificazione pubblica. I giovani e molto giovani potrebbero essere esposti alle controindicazioni di lungo periodo, anche gravi, la scelta di vaccinarli va quindi ponderata in modo molto attento (inclino a pensare che non sia opportuno, l’unico argomento solido è che potrebbero contagiare gli over 50 non ancora vaccinati che sono molti).
  3. Naturalmente ciò non implica che tutte le misure siano logiche ed appropriate (non lo sono mai, in quanto esito di una logica ibrida come quella politica). Ad esempio, non mi sembrano necessarie le mascherine per i professori vaccinati, andrebbe evitata qualsiasi stigmatizzazione dei lavoratori non vaccinati e moltissime delle misure disciplinari che si propongono non sono affatto giustificate e mostrano altre “agende” all’opera (ci sono forze, cioè, che stanno cercando di cogliere l’occasione per aumentare il disciplinamento sociale dei lavoratori, e non solo).
  4. E’ grave la costruzione di una simbolica e di una separazione tra ‘puri’ ed ‘impuri’ che va combattuta aspramente evidente, infatti, la decisione di vaccinare è sempre una scelta dalla potente funzione mistica, esibisce i simboli della competenza, distingue tra buoni e cattivi (o tra puri ed impuri), e divide. Ma soprattutto unisce. Ovvero funge da dispositivo di potere e creazione di coesione, indicando un nemico interno sul quale concentrare il male. Si tratta di un dispositivo tipico del politico[21].
  5. Dunque, il vaccino è un dispositivo tecnico efficace, necessario, compatibile con le nostre ‘libertà’ (anzi volte a salvaguardale nella misura del possibile), ma ANCHE un regolatore sociale e un produttore di potere.

 

Come si reagisce? Non urlando <libertà> (perché questa è sempre, nella sua più intima essenza sociale) e immaginandosi come ‘ribelli’ che combattono lo Stato (il quale in sostanza non fa nulla di diverso da quel che deve fare, anche se lo dovrebbe fare diversamente e soprattutto con altre forme di comunicazione e mobilitazione). Svolgendo una critica razionale, ordinata, non reattiva (rispondendo dichiarando ‘impuro’ quel che altri chiamano ‘puro’ e viceversa), e cercando di mettere il potere di fronte alle proprie reali contraddizioni che sono:

  • la mancanza di investimenti strutturali,
  • la conservazione di aree di privilegio intoccabili come le imprese,
  • il rifiuto di riorganizzare la produzione e riproduzione sociale per rendere più capace il mondo di affrontare le crisi, non solo sanitarie.

 

La necessaria ristrutturazione: dal calice di cristallo alla coppa di ferro

Infatti il nostro problema essenziale non è che abbiamo incontrato il “cigno nero” della pandemia, quello è solo il fattore scatenante finale. Il nostro problema è che l’intero sistema produttivo e riproduttivo nel quale viviamo, altamente finanziarizzato e interconnesso, è come un calice di cristallo. È esile, elegante, sottile, durissimo e fragile.  È stato lasciato crescere per decenni sulla base della ricerca costante, sotto la spinta di una concorrenza più o meno manipolata e secondo il principio della massima accumulazione a brevissimo termine. Il sistema di premi e punizioni che il sistema ha elargito ai suoi attori (a partire dai manager fino all’ultimo lavoratore) puntava parossisticamente sul rendimento a brevissimo termine, come se mai potesse arrivare una crisi.

È bastata la minaccia (resa credibile non solo da astratti modelli matematici, che spesso hanno sbagliato per difetto o per eccesso, quanto dallo spettacolo di alcuni sistemi sanitari di ‘eccellenza’ messi in ginocchio in poche settimane) di una malattia infettiva che, se ben curata, uccide pochi, ma capace in potenza di mettere contemporaneamente nella necessità di avere bisogno di cure rare e costose per sopravvivere (un posto in terapia intensiva costa circa millecinquecento euro al giorno e all’avvio della crisi ne erano disponibili poco più di tremila), per mettere davanti all’evidenza di non avere margini. Nell’antico Egitto le ricorrenti carestie avevano insegnato ad una casta sacerdotale e politica avveduta la necessità di mettere da parte, anno su anno, ingenti scorte per affrontarle. Limitavano la crescita, certo, ma rappresentavano l’assicurazione che la carestia, con il correlato di epidemie, invasioni, sommosse, rivoluzioni, non sarebbe arrivata un brutto giorno a distruggere tutto.

La nostra furbissima economia neoliberale, e i governi di quegli Stati che per decenni abbiamo descritto come residui di epoche passate e sostanzialmente inutili e dannosi, hanno pensato che pagare il costo assicurativo di avere una robusta sanità ed efficienti servizi territoriali di prevenzione fosse uno spreco. Li abbiamo quindi lentamente smantellati. Tenere ospedali di riserva per quando sarebbe giunta una emergenza, formare più medici, potenziare la rete dei medici di prossimità, creare ambulatori, avere industrie strategiche, anche se leggermente meno competitive, che potessero garantire le forniture di ciò che sarebbe stato necessario, è sembrato un lusso superfluo. Come in ogni altro settore.

E, sotto la pressione del sistema di vincoli in parte autoinflitto che ci sovrasta, ancora lo pensiamo. Altrimenti gli investimenti andrebbero in altra direzione e il numero chiuso a medicina sarebbe stato rimosso.

 

Il calice di cristallo si sta dunque rompendo, piccole fessure si intravedono, ma i nostri decisori (ovvero il complesso sistema d’azione costituito dalle élite nazionali e da quelle internazionali connesse e dominanti, dalle tecnostrutture specializzate non solo sanitarie, dai gruppi di pressione e partiti politici) cercano di guardare altrove.

E, soprattutto, cercano di distrarci.

A questo serve il modesto dispositivo tecnico del Green Pass. Viene esacerbato e accompagnato da dichiarazioni fuori luogo e polarizzanti, in un gioco tra opposti che si sostengono a vicenda, allo scopo di non farci guardare che i nodi giungono al pettine.

 

Da decenni ogni fabbrica produce i suoi beni utilizzando prodotti intermedi di terzi e appoggiandosi su una rete di servizi che è spesso estesa su più nazioni e continenti, e che è condivisa con tante altre, di settori merceologici del tutto diversi. Ogni azienda, inoltre, si appoggia su servizi finanziari condivisi con tante altre. Non è sempre stato così, una volta le aziende erano più integrate verticalmente, poi si è detto che dovevano concentrarsi sul “core business”; una volta investivano con risorse proprie, poi si è detto che la liquidità andava impiegata nella finanza che rendeva di più, e tanto per tutto il resto c’era la “leva”; una volta si privilegiavano gli investimenti sul territorio, o comunque nella stessa area amministrativa, poi si è detto che la frontiera era la delocalizzazione; una volta i lavoratori erano trattenuti e ci si investiva, poi si è detto che l’organizzazione flessibile ed il lavoro agile erano il futuro. Tutta questa interconnessione è servita a porre il mondo del lavoro sotto costante ricatto di delocalizzazione, a cercare di ottenere ovunque le condizioni migliori, a guadagnare sempre di più, inseguendo il più marginale sconto di prezzo ovunque fosse.

Ma, al contempo, tutta questa interconnessione fa sì che se oggi chiudo un settore economico (quello metallurgico come quello dei mobili) potrei assistere all’imprevista chiusura anche di quelli che ho lasciato aperti, perché l’intero ecosistema produttivo collasserebbe. Ad esempio, la fonderia che chiudo d’autorità potrebbe essere indebitata con una banca la quale per reagire alla perdita potrebbe stringere il credito anche alla fabbrica tessile che non ho chiuso, o potrebbe essere il cliente fondamentale di un fornitore anche dell’impianto tessile. Quando questo fornitore dovesse chiudere, costringerebbe il nostro tessile a sostituirlo d’urgenza, in un momento in cui gli scambi internazionali faticano a riprendersi ed il costo di molte materie prime e semilavorati è aumentato.

 

Quel che dovremmo fare è sostituire il calice di cristallo con un coppa di ferro.

 

E’ per non farlo vedere che si stimola l’istinto individuale, colpendo i suoi luoghi simbolici e compensativi, con misure ad alto impatto simbolico come il Green Pass.

Dovremmo imparare che un sistema economico deve avere una parziale indipendenza, per non subire le conseguenze di interruzioni per i più diversi motivi di beni o servizi essenziali. L’organizzazione a rete leggera delle imprese dovrebbe essere vista come un lusso che non ci possiamo sempre permettere. I magazzini semivuoti egualmente. La mondializzazione senza limiti deve essere inquadrata come un errore di percorso (o meglio, un progetto sbagliato).

Quel di cui avremmo bisogno, ben oltre le misere e spesso sbagliate misure del Pnrr, è che le attività produttive vengano irrobustite, le catene logistiche radicalmente accorciate o comunque rese ridondanti, i magazzini rinforzati. Bisognerà affrontare la tendenza, intrinseca alla traiettoria di sviluppo tecnologico, di potenziare le tecnologie di controllo cosiddette “industria 4.0” e di sostituzione del lavoro, di erogare i servizi in remoto, di smantellare l’inefficiente ma cruciale per il tessuto civile e urbano piccola distribuzione. Farsi carico dell’enorme problema del ripensamento e riqualificazione della città e del territorio[22].

 

La via di uscita è una profonda razionalizzazione degli apparati produttivi, riducendo l’inutile differenziazione dei prodotti e le tante fonti di lavoro improduttivo, ampliando l’indipendenza del paese e la sua robustezza, garantendo la partecipazione di tutti alla produzione, alla sua organizzazione, ai suoi frutti.

 

La posizione politica: oltre il populismo

Per questo, al di là della polarizzazione in corso, che leggo essenzialmente come rivelatore e come cortina fumogena ad un tempo (rivela la vera natura di molte forze che sembravano agire per il cambiamento, mentre cercavano solo di tornare ai tempi d’oro e dal lato dell’intenzionalità dei promotori nasconde le necessità di reale cambiamento), il punto dirimente deve essere inquadrato come politico. E deve partire dalla percezione della frattura che la crisi pandemica ha aperto.

Una frattura che si è manifestata anche sul piano della tattica politica. Abbiamo visto esaurire il ciclo del “neopopulismo” ad immediato ridosso della crisi. Si trattava di potenti tecniche per aggregare in poco tempo “contenitori dell’ira” capaci di effetti elettorali significativi e anche, in alcuni casi irripetibili[23], vincenti. Ma al fine di una reale politica antisistemica sono esempi inservibili. Se hanno fallito la trasformazione in “contenitori di potere” è per ragioni interne e inaggirabili. Il potere non è contenuto nella figura organizzativa formalmente apicale, in nessun caso e tanto meno nella macchina pubblica statuale. Il potere, quello effettivo, ovvero quello di cambiare, è contenuto nelle relazioni circolanti in un molto più vasto sistema ed ha carattere continuo, non discontinuo. Nessuna “catena equivalenziale” può quindi fare il miracolo di evitare il duro lavoro della “guerra di posizione” e della costruzione di effettiva egemonia[24].

 

Molti seguono sistematicamente ogni e qualsiasi mobilitazione, pensando di appropriarsene, ma è un errore grave e molto noto. Lenin, in “Che fare?” lo chiamò “codismo”[25].

La questione è piuttosto di capire, in una situazione dinamica, non tanto chi si muove oggi, ma chi è nella posizione di fare leva per agire nel vero conflitto in essere contrastandone la forza motrice. Contrastandola per indurre l’avvio di un riequilibrio dei rapporti di forze che possa indurre degli elementi di socialismo, dei quali c’è assoluto bisogno. Senza i quali nessuna soluzione potrà essere trovata neppure ai dilemmi sistemici sommariamente descritti. Per fare questo non si deve partire dalla mera fotografia dell’esistente, immaginando che chi oggi è attivo o inattivo lo resti sempre, e non bisogna immaginare la questione del potere come un episodio singolo. Una “presa”. Bisogna comprendere, e bene, cosa è per noi il popolo e cosa sono i suoi nemici. Sapendo che verso i nemici si combatte, verso il popolo si lavora a creare unità di interesse e sentire.

E bisogna aver fermo e compreso che in sé la contraddizione tra chi intende elevarsi abbassando gli altri, ovvero aumentando il saggio di sfruttamento a proprio vantaggio, e chi ne subisce l’azione sistemica è una contraddizione antagonista. Che può sia scivolare in una relazione con nemici, sia essere ricondotta ad una dimensione organicamente equilibrata, ma solo se viene trattata espressamente. Inserendo i desideri, le pulsioni, e le ambizioni delle diverse soggettività sociali in un quadro non competitivo, socialista, appunto. Si tratta allora di distinguere tra inimicizia e divergenza (di rappresentazione, teoria delle funzioni sociali, prospettiva temporale). Tra la lotta e la discussione.

 

Per emergere dunque dalle contraddizioni e dai conflitti che questi due anni hanno fatto venire allo scoperto, bisogna liberarsi dell’idea che l’assetto sociale postmoderno, creato dalle specifiche forze introdotte dall’equilibrio del dopoguerra su generazioni che questa avevano subito e consolidato in cultura appresa dalle nuove generazioni, sia di fatto irreversibile. Ma non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, è più vero il contrario, l’essere sociale determina la loro coscienza. C’è infatti una contraddizione inscritta profondamente, nelle ossa stesse, che lavora a scalzare la coscienza postmoderna la quale paralizza l’azione sociale: l’individualismo edonista ha perso le condizioni di sicurezza ed affidamento che lo rendevano possibile. Nelle condizioni del lavoro contemporaneo ed in quelle della vita della grandissima parte della popolazione, in particolare di coloro che non possono scaricare su altri, o sperare di farlo, i propri pesi, si affaccia la semplice logica che solo l’azione collettiva, nuovamente, può o potrà rimettere in questione i rapporti di forza.

È tutta, sempre questione di rapporti di forza. E ciò nel paese, non al suo esterno. Altrimenti si resta prigionieri del gattopardo neoliberale, nei suoi numerosi travestimenti (uno dei quali, lo ribadisco, è la mobilitazione sul Green Pass). Mentre si giocherella con la pietra filosofale, sperando di essere finalmente l’avanguardia rivoluzionaria tanto attesa, il senso comune neoliberale, la coscienza data, lavorerà a riprodursi travestito. La cosa non potrebbe essere più seria.

 

Abbiamo passato alcuni anni ad indicare nella struttura di nessi e dominazione dei trattati europei il punto archimedeo da scalzare per rimettere in gioco e rendere contendibile le istanze di giustizia civile e popolare in Europa. Su questa parola d’ordine, o con il linguaggio di Laclau, intorno a questa “catena equivalenziale” abbiamo aggregato forze eterogenee. L’esperienza mostra che si è trattato di un effimero consenso.

Ora alcuni pensano di ripetere la mossa del “neopopulismo”, raccogliendolo intorno al significante vuoto <libertà>. Ma non è vuoto, è occupato dal nemico.

Inoltre la coscienza postmoderna è ormai scalzata dalle sue contraddizioni interne, e permane solo come zombie. Ci vorrà tempo perché produca i suoi effetti, e bisognerà restare forse a lungo nelle trincee, ma l’unica strada feconda è quella che si sforza di oltrepassare l’impolitico neoliberale e tutti i suoi travestimenti e recepire il nuovo bisogno di collettivo e di umanità, dandogli forma. Che ha pazienza di lavorare sulle fratture che si aprono, giorno dopo giorno. Tessendo e cucendo, senza perdere il filo dell’interesse da difendere. Ovvero del miglior interesse del paese, che è sempre quello dei suoi lavoratori. Che si sforza di identificare i luoghi ed i temi nei quali, intorno agli assi ordinatori centro/periferia ed alto/basso si stanno comunque polarizzando estetiche, linguaggi, priorità e valori, quindi soggettività di gruppo incompatibili con lo stato delle cose presenti. È capace di non farsi ingolosire da immediate traduzioni elettorali, ma di lavorare alla cultura politica, ovvero alla creazione di una struttura sociale densa e ad una rete di impegni e riconoscimenti con la necessaria decisione e passo. Conquistando una piazzaforte dopo l’altra e fidando che l’essere sociale ha ricominciato a lavorare a nostro favore.

 

Questo resta dunque il punto politico da porre (cosa che non significa sia l’unico)[26]. Tutte le mobilitazioni reattive, guidate dalle forze sociali che sono state cresciute e coltivate dalla svolta neoliberale, e da questa ora tradite, sembrano essere nuove e ‘ribelli’, ma accrescono solo l’egemonia neoliberale nelle sue fondamenta più intime. Quando il sistema potrà erogare qualche spicciolo, riattivando un anche piccolo ciclo di crescita tale da far gocciolare qualcosa, rientreranno immediatamente. E di questo svezzamento alla politica gli resterà solo l’ostilità per ogni iniziativa pubblica, per ogni politica collettiva, per lo Stato. Ostilità che sono proprie della egemonia neoliberale, la costituiscono.

Gli resterà l’idea di essere portatori di diritti inalienabili a fronte di qualunque interesse collettivo di qualsiasi genere, di essere i possessori unici di un concetto e pratica di ‘libertà’ che termina esattamente ai confini del proprio corpo e non si interessa di altro. “Libertà” secondo la classica nozione liberale.

La prima esperienza di mobilitazione sarà anche l’ultima, a meno che non si imponga una prospettiva socialista nel paese. Allora li ritroveremo dall’altra parte della barricata, ma non saranno loro ad essere cambiati, saremo noi a non aver mai capito per cosa si battevano.

 

 

 

[1] – Shoshana Zuboff, “Il capitalismo della sorveglianza”, Luiss 2019.

[2] – La pagina che si apre quando si clicca sul simbolo a sinistra in alto e mostra i post selezionati dall’algoritmo.

[3] – Zuboff, p. 475.

[4]https://www.worldometers.info/coronavirus/

[5] – Dati istat. https://www.istat.it/it/files//2021/06/Report_ISS_Istat_2021_10_giugno.pdf

[6] – La cosa è oggetto di furiose polemiche, in parte per la comprensibile paura dei vaccini (costante, dato che si tratta di farmaci che si prendono quando si è sani, mentre se si ha, ad esempio, mal di testa non ci si preoccupa di prendere farmaci come l’Aulin dalle controindicazioni note ed attestate), in parte per una latente tecnofobia (si tratta di vaccini elaborati, almeno alcuni, con una tecnica a Rna – che molti confondono con una tecnica che manipola il Dna non avendo fatto biologia al liceo – in sperimentazione da 30 anni ma sinora applicata per cure contro il cancro etc.), in parte per ostilità anticapitalista e antimonopolista (la quale, tuttavia, se applicata in questo modo porterebbe per coerenza a dover tornare nei boschi con l’arco a cacciare), infine per sfiducia nelle procedure pubbliche (accentuata dalla urgenza ben comprensibile con la quale sono state esperite).

[7]https://lab24.ilsole24ore.com/numeri-vaccini-italia-mondo/

[8]https://www.epicentro.iss.it/

[9] – Richard Sennett, con le sue note ricerche sul lavoro evidenzia il potere erosivo per la personalità del lavoro debole, intermittente, senza prospettive e senza capacità di un racconto sensato e continuo, nel quale sono intrappolati con la società neoliberale la maggioranza dei lavoratori contemporanei (quando non sono disoccupati). Le persone che svolgono solo lavori temporanei, sottolinea il sociologo, si sentono svalutati e non possono integrare il proprio lavoro nella propria storia di vita. Come ricorda anche Honneth questa circostanza distrugge anche la capacità di sentirsi membri solidali ed attivi della società politica. Produce un senso potente di “deragliamento personale” e rende impossibile, questo è importante, provare senso di solidarietà per gli altri. Il lavoro senza scopo produce quindi una personalità chiusa, difensiva, interamente individualista, e, Honneth dirà, anche impolitica. Storie troppo brevi, e le tattiche del moderno management (volte a creare disciplinamento interno di gruppo e mascherare il potere del capo) che spesso creano e distruggono gruppi di lavoro, punendoli collettivamente per i fallimenti individuali, rendono impossibile sentirsi solidali e creare unità sociali coese e immersive. Il lavoro mobile, flessibile e temporaneo “sospende la realtà” e induce a pensare solo al presente, in modo strettamente individuale. Si veda Axel Honnett, Richard Sennett, Alain Supiot, “Perché lavoro?”, 2020.

[10] – E’ evidente che l’Italia è sotto una tutela particolarmente stretta, per cui l’accesso alle risorse economiche aggiuntive che i programmi di acquisto di titoli pubblici (che, nella sostanza, li annullano) della Bce è soggetto a strettissimi vincoli negoziali. Negoziati che si svolgono sotto traccia, tenuti nascosti anche al Parlamento, e che impediscono a tutta evidenza di destinare risorse alla ristrutturazione sistemica (della sanità, ma non solo) di cui ci sarebbe bisogno. Si veda, per una ricognizione generale dei temi connessi, “Spartiacque, il 2020”.

[11] – Si veda “Bastone e carota”.

[12] – Faccio riferimento, ovviamente, alle esternazioni di Agamben.

[13] – Mi spiego meglio. Una cura precoce implica che sia erogata fuori degli ospedali, a chiunque sia positivo, prima dei sintomi, e sostanzialmente ‘fai da te’ (se va bene sotto la guida di un medico generico che non ha le necessarie specializzazioni ed esperienza). Talvolta sono cure erogate con farmaci ad alto impatto, alcuni dalle gravissime controindicazioni, persone che magari potrebbero cavarsela con due giorni di febbre. Il rischio è che il mix di farmaci produca nel suo complesso danni notevolmente maggiori (per la platea di applicazione) dell’evoluzione della malattia dei pochi. Si ricorda che si tratta di una malattia che normalmente conduce all’ospedalizzazione il 3,5% ca. dei contagiati (https://www.agenas.gov.it/covid19/web/index.php?r=site%2Fgraph1) e che quindi per il 96,5% dei casi si risolverebbe comunque con pochi giorni di febbre o poco più.

[14] – Anche se il presupposto del dibattito alternativo (che è stato soggetto al processo di “escalazione”) è che le voci di minoranza nel dibattito scientifico, essendo non “mainstream”, sono per definizione più libere, il clima competitivo entro la comunità scientifica potrebbe anche indurre alcuni ad esasperare la propria posizione per semplice tattica opportunista. Non, quindi, per convinzione quanto per emergere e trovare un ‘seguito’ (amplificato da social e media) in grado di promuoverlo e farlo emergere dall’anonimato.

[15] – Pfizer e Astra Zeneca, ad esempio.

[16]https://it.wikipedia.org/wiki/Paradosso_di_Simpson

[17] – Si veda Klaus Schwab, Thierry Malleret, “Covid 19: The Great reset”, 2020.

[18] – Tema molto ampio, sul quale dovremo tornare. Uno dei modi di affrontarlo è cercare di comprendere quale oggetto, soggetto e processo sia qualificabile come democratico in una società reale e complessa (non nel modello implicito e ipersemplificato che ce ne facciamo sulla base dell’esperienza saltuaria di qualche episodio deliberativo a piccola scala). Se è vero che una ragione procedurale in grado di essere qualificata come democratica deve essere in linea di principio capace di procedere in giudizio contro se stessa restando permeabile alle critiche, tuttavia nelle condizioni delle nostre società nazionali complesse ed inserite in tecnomacchine altamente delicate ciò che si autoorganizza è in prima battuta la comunità giuridica e non una qualche omogenea fusione di senso, di scopo o di sangue. Una simile comunità vive di due piani di legittimità: del sistema normativo nel suo insieme e delle singole norme. La riscattabilità di principio delle pretese di validità normativa delle norme è quindi articolata su entrambi i piani. Quando avviene (ed avviene di rado) si unisce validità di fatto e legittimità e quindi si attiva una funzione socio-integrativa che dovrebbe essere una delle prestazioni essenziali della democrazia giuridicamente istituita. Cosa è essenziale, a questo riguardo? Parecchie cose, tra queste che le ragioni valide non siano ristrette in modo pregiudiziale. Tuttavia ciò non significa che tutto possa essere detto ed ogni enunciato valga per argomento in ogni contesto. Le ragioni in grado di contare restano relative alla logica del problema da affrontare. Ecco che fa capolino la questione che, frettolosamente, si iscrive come “tecnocrazia” (quando si staglia sul modello implicito dell’assemblea). Ciò che bisogna ottenere per sviluppare una dinamica all’altezza della necessità di gestione di una società sia democratica sia complessa è di chiarire di volta in volta criteri ed interessi legittimi e accordarsi circa gli aspetti rilevanti per trattare l’eguale in modo eguale ed il diseguale in modo diseguale. Dunque articolare intorno al singolo problema, e coerentemente con la natura di questo, il nesso tra diritto e politica. In altre parole, quando si dà una produzione normativa (leggi o regolamenti) la sua legittimità non si deve commisurare solo alla giustezza dei giudizi morali, ma anche (tra l’altro) alla disponibilità, alla pertinenza, rilevanza e completezza delle informazioni fornite; quindi all’adeguatezza con cui si propone che queste interpretino correttamente le diverse situazioni e prospettino i problemi e soprattutto all’equità dei compromessi raggiunti. Chiaramente l’autodeterminazione democratica dei cittadini che si consultano supera, sul piano della capacità sociointegrativa e della legittimazione etica, la mera prestazione data dalla normazione costituzionale d’una società mercantile che – aspirando a soddisfare semplicemente le aspettative di felicità d’individui privati economicamente attivi – tenti di garantire (fallendo) un bene comune minimale, sostanzialmente inteso come non politico. Al contrario l’autodeterminazione si sostanzia e dipende dalla capacità di istituzionalizzare e rendersi permeabile a quelle che si potrebbero descrivere come procedure e presupposti comunicativi, e quindi dall’interazione delle consultazioni istituzionalizzate e non con le opinioni pubbliche informali. Si potrebbe dire che essa punta ad una sorta di intersoggettività di livello superiore, ma, attenzione, che resta incorporata nelle procedure democratiche nella misura in cui contengono in forma implicita processi d’intesa e/o nella rete comunicativa delle sfere pubbliche politiche. Si tratta di non farsi catturare né dal modello mercantile liberale, né dal modello anarcoide (al fondo anche esso liberale) dell’assemblea. Cosa che implica prestare attenzione alla necessaria, ineliminabile, interazione tra il sistema politico istituzionalizzato, che è l’unico in grado davvero di agire, e le strutture comunicative della sfera pubblica che sono rappresentabili come una diffusa rete di “sensori” i quali reagiscono alla pressione delle situazioni problematiche complessive con il sollecitare opinioni influenti.

Ora, la questione di democrazia e tecnocrazia sta in questa delicata relazione, che non si risolve con un taglio secco, tra due sfere d’azione tra le quali agisce una sorta di “chiusa idraulica” (l’immagine è di Habermas, 1996) rappresentata dai presupposti e dai procedimenti comunicativi per la formazione democratica dell’opinione e della volontà. La questione della “tecnocrazia” non si risolve tutta d’un pezzo, bisogna spenderla nella moneta di piccolo taglio di una discussione di merito ed adeguatezza.

[19] – Si veda il post “Dai contenitori dell’ira ai contenitori di potere”.

[20] – Si veda Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, Meltemi 2020

[21] – Altro punto su cui si dovrebbe tornare. Una decisione pubblica non è mai solo un calcolo. Non è, nella sua essenza, l’espressione di una volontà. Non è il risultato di un voto. In una decisione pubblica c’è sempre l’attivazione di un’arena di conflitto e lo spegnimento di qualche altra. Ci sono sempre attori valorizzati ed altri oscurati. C’è sempre una posta palese ed altre invisibili; ogni attore ne ha, e non sempre collimano. Una decisione pubblica non è mai logica. Ha sempre un contenuto emotivo ed un significato politico. Produce, riproduce e celebra dei valori sociali, e dunque è il risultato (e la matrice) di una società esistente o nascente. Ogni decisione interpreta il flusso della storia dell’organizzazione o del milieu che è stato attivato per strutturarla e giustificarla, essa crea sempre alleanze (e non sarebbe concepibile senza di esse), nasce nel conflitto e lo delimita. Articola una sua legittimità e dispiega i simboli della competenza e della reputazione. Per arrivare a definire una decisione strutturante (ad esempio, come quella di entrare o uscire dall’Euro) bisogna accedere ai problemi, definirli, riconoscerli tali, traguardarne l’esito. Il “setting decisionale” inquadra le identità valide nel campo decisionale, i soggetti riconoscibili e gli attori, le Istituzioni attivate e quelle inibite. Per arrivarci bisogna selezionare l’informazione pertinente e le tecniche “valide”. Il punto è che ogni decisione viene presa in condizioni di scarsità di tempo, di attenzione, di chiarezza ed è un processo sociale e politico importante in sé. Una sorta di “rituale sacro”, come scriveva James March (“Decisioni e organizzazioni”, Il Mulino 1993). Ogni decisione è in parte mera applicazione di routine e norme, in parte attivazione di memoria selettiva, in parte intuizione di nuove possibilità, in parte imitazione, in parte tradizione e fede. Lavora con scopi, conseguenze future, preferenze future (che sono sempre gestite strategicamente), con l’informazione (che è fonte di potere, di garanzia ritualistica, oggetto di strategie, riserva di senso, …). Ci sono due principali “finzioni” (che svolgono una fondamentale funzione di legittimazione sociale) che vanno considerate per non immaginare che sia questione solo di definire una buona e razionale “soluzione”: che le scelte siano ricondotte ai decisori; che i problemi siano ricondotti alle scelte.

Il processo decisionale è essenzialmente un confronto-scontro che fa uso dei materiali disponibili (tra cui, sia bene inteso, hanno grande importanza le “riserve di senso” incorporate nelle norme e nei discorsi normativi) per attivare impulsi di forza, contrattare, formare coalizioni, stimolare lealtà, riscuotere crediti. I risultati dipendono dalle preferenze di partenza degli attori e dal potere che può essere mobilitato da ognuno. Le scelte sono quindi piuttosto da ricondurre alla sedimentazione (o agglomerazione) di un “sistema d’azione” efficace (più dei concorrenti) e non ai “decisori”. I problemi sono definiti insieme alle scelte (non di rado sono le scelte a individuare i “loro” problemi. Un ottimo esempio è la stringa <l’offerta crea la domanda>, nel momento in cui chi la propone “decide” implicitamente di includere nel suo “sistema d’azione” l’organizzazione degli industriali ed escludere altri). Il significato della decisione assunta, o che si predilige, incorpora quindi sempre l’informazione solo se questa è collegabile a storie coerenti e raccontabili. Se fa sistema.

Informazioni e processo decisionale consolidano una struttura di significati nella quale si collocano; che le sostiene e le crea. In questo senso l’attività decisionale pubblica (ma anche quella privata) è una sorta di “rituale sacro” e comporta attività “altamente simboliche”. Come scrive March, “essa esalta i valori fondamentali di una società, in particolare il concetto che l’esistenza è alla mercé della volontà umana e che tale controllo si esercita mediante scelte, individuali e collettive, fondate su un’esplicita previsione di alternative e sui loro probabili effetti”. Decisione e potere sono indissolubilmente uniti per via di questa caratteristica simbolica ineliminabile.

Allora il processo decisionale non è un luogo “tecnico” (molto spesso, nella lunga polemica sulla Moneta Unica ed il processo di costruzione europeo, abbiamo sentito la lamentazione circa l’irrazionalità tecnica-economica della decisione “politica” assunta), è più la palestra per esercitarsi in valori sociali, far mostra di autorità, esibire comportamenti distintivi rispetto al costrutto ideologico centrale (nella nostra cultura occidentale) di <scelta intelligente e consapevole>. La decisione è politica in questo senso.

Interagire con questa complessa dinamica richiede saggezza ed intuito, richiede percezione ed empatia per le forze in campo e quelle mobilitabili (che in campo possono entrare), richiede una strategia rivolta a spingere l’intero apparato di dati informativi, aspettative ed opzioni disponibili in una direzione nella quale si dimostri produttiva. Cercando di sviluppare in una sola mossa ciò che è produttivo e gli strumenti per conseguirlo (insieme agli attori).

Dunque si potrebbe argomentare, che la crisi che attraversiamo non è solo un malfunzionamento essenziale della finanza nel suo ruolo di mediazione tra risparmio ed impieghi produttivi, che ha avuto sin dal medioevo; non è solo uno scollamento tra la crescita della produttività e l’occupabilità o la rendita del lavoro; non è solo lo spaccamento della società in enclave incomunicanti ed il rifiuto della parte fortunata di condividere le sue ricchezze tornate a livelli ottocenteschi; non è solo prevalenza della competizione e dell’egoismo sulla cooperazione e solidarietà, senza la quale la società precipita nel caos e nell’odio. La crisi è soprattutto una rottura di razionalità nel capitalismo a rete. E’ la dimostrazione che le routine e le soluzioni consolidate nella tradizione sono ormai spiazzate, che anche le nuove non funzionano più.

[22] – In questa direzione la Iot territoriale e le smart cities, della cui ambiguità ho parlato in “Le città intelligenti e la distopia del lavoro perduto”.

[23] – Il riferimento è, ovviamente, alla parabola del Movimento 5 Stelle.

[24] – Si veda “Guerre di movimento e guerre di posizione”.

[25] – Scrive in “L’inizio dell’ascesa del movimento spontaneo”: “vi è spontaneità e spontaneità. Anche negli anni sessanta e settanta (e persino nella prima metà del secolo) vi furono in Russia degli scioperi accompagnati da distruzioni “spontanee” di macchine e simili. In confronto con queste “rivolte”, gli scioperi avvenuti dopo il 1890 potrebbero perfino essere chiamati “coscienti”, tanto è importante il passo in avanti fatto nel frattempo dal movimento operaio. Ciò prova che in fondo l'”elemento spontaneo” non è che la forma embrionale della coscienza. Anche le rivolte primitive esprimevano già un certo risveglio di coscienza: gli operai perdevano la loro fede secolare nella solidità assoluta del regime che li schiacciava; cominciavano… non dirò a comprendere, ma a sentire la necessità di una resistenza collettiva e rompevano risolutamente con la sottomissione servile all’autorità. E tuttavia questa era ben più una manifestazione di disperazione e di vendetta che una lotta. Gli scioperi della fine del secolo, invece, rivelano bagliori di coscienza molto più numerosi: si pongono rivendicazioni precise, si cerca di prevedere il momento più favorevole, si discutono i casi e gli esempi noti delle altre località, ecc. Mentre prima si trattava semplicemente di una rivolta di gente oppressa, gli scioperi sistematici rappresentavano già degli embrioni – ma soltanto degli embrioni – di lotta di classe. […] Abbiamo detto che gli operai non potevano ancora possedere una coscienza socialdemocratica. Essa poteva essere loro apportata soltanto dall’esterno.” Viceversa “lo sviluppo spontaneo del movimento operaio fa sì che esso si subordini all’ideologia borghese […] In ogni caso, la funzione della socialdemocrazia non è di trascinarsi alla coda del movimento: cosa che nel migliore dei casi è inutile, e, nel peggiore, estremamente nociva per il movimento stesso. Il Raboceie Dielo, da parte sua, non si limita a seguire questa «tattica-processo», ma la erige a principio, sicché la sua tendenza deve essere definita non tanto opportunismo quanto (dalla parola: coda) codismo.” Vladimir Ilic Lenin, “Che fare?”, 1902.

[26] – Trovo, ad esempio rilevante e ben scelto il punto posto da Roberto Buffagni in un recente post su Facebook. “Alla radice del conflitto sui vaccini: liofilizzo una ipotesi. Perché è così aspro il conflitto sui vaccini? È un conflitto importante, anzi decisivo, oppure una diversione rispetto ai conflitti reali? Benvenute le critiche anche radicali purché cortesi, è una cosa difficile e mi manca la preparazione adeguata. Diciamo che ci provo. Ecco l’ipotesi liofilizzata: Fatta la tara (una grossa tara) della forza d’inerzia mediatica e della consueta dinamica della polarizzazione politica, il conflitto sui vaccini è aspro e importante, anzi decisivo, perché è un conflitto in merito alla legittimazione dell’ordine sociale e ideologico. La posta in gioco del conflitto sui vaccini è: chi ha il diritto di stabilire che cos’è la verità, anzi la Verità con la maiuscola? (In forma degradata e comico-grottesca, è una replica, a parti rovesciate, del conflitto tra Bellarmino e Galilei). Scrivo “Verità con la maiuscola” perché nel senso comune confusamente relativista oggi egemone, unica fonte della Verità è “la scienza”. Epistemologicamente è una sciocchezza, ma tant’è, è una sciocchezza che ce l’ha fatta. Ora, però, “la scienza” non solo non è in grado di fornire alcuna “Verità”, che è un concetto filosofico o religioso, ma è una pratica sociale in cui la formazione del consenso della comunità scientifica è laboriosa, difficile, influenzabile, e sempre soggetta a possibili revisioni anche radicali, come esige appunto il metodo scientifico. In breve, “la scienza” vera e propria non è per nulla adatta a sfornare Verità su ordinazione, come maritozzi. Invece, i powers that be hanno bisogno, molto bisogno di Verità su ordinazione (beninteso, ordinazione loro), perché è molto difficile esercitare un minimo di controllo sociale su masse di persone che: a) hanno introiettato il principio liberale, inaugurato contro le religioni, che “non esistono verità assolute”, l’altro principio liberale che “la mia libertà finisce dove comincia la tua”, ossia non si sa dove, e in attesa di capirlo io faccio quel cazzo che mi pare; e, ciliegina sul gelato, danno per scontato che il principio di autorità valga solo per gli stupidi e gli arretrati; b) vivono in una condizione ossimorica di permanente precarietà senza precedenti storici, per quanto attiene il proprio ruolo sociale, la propria identità personale, insomma sono tutti, chi più chi meno, degli sradicati; c) nonostante a) e b), devono contribuire, ciascuno per la propria parte grande o piccola, a garantire il funzionamento di una macchina sociale – di una Zivilisation – quanto mai complicata, delicata, interconnessa a livello mondiale.

In persone cosiffatte, la nascita, lo sviluppo organico, la stabilizzazione della norma interiore, insomma la Bildung, sono, inevitabilmente, assai problematici. In qualsiasi società, il controllo sociale viene garantito al 90% dalla norma interiore, e solo per il 10% dalla norma esteriore (polizia, tribunali, etc.). La necessità aguzza l’ingegno. Nel corso della pandemia da Covid19, i powers that be sono stati sospinti, anche dalla logica dell’ideologia da loro universalmente condivisa, lo scientismo, a fare un vero e proprio grande reset. No, non è il Grande Reset dei novax. È il grande reset della legittimazione dell’ordine sociale, oggi in corso d’opera; ossia la fondazione di una teologia civile fotocopiata – credo inconsapevolmente – dal programma politico, sociale e teologico positivista di Auguste Comte (vedere Wikipedia, c’è tutto il necessario). Per impiantare questa nuova teologia civile, c’è un requisito indispensabile: l’accordo reciproco preliminare del potere spirituale, la Scienza, e del potere temporale, l’Autorità Politica Positiva Tecnica). Profetico, Comte ha previsto tutto un secolo e mezzo fa, delegando il potere spirituale a un Consiglio degli Scienziati, e il potere temporale a un Consiglio degli Industriali (il programma comtiano è una parodia scientista del cattolicesimo).

Se la scienza continua ad essere quel che è nata per essere, questo accordo reciproco preliminare tra Scienza e Autorità Politica Positiva (Tecnica) semplicemente non c’è: per la banale ragione che a) l’accordo scientifico unanime in merito a qualcosa che sia immediatamente rilevante per la decisione politica è molto raro o addirittura inesistente b) dunque, quando si tratta di decidere politicamente qualcosa, ciascuna delle parti in conflitto pesca i pareri scientifici che più le convengono, e/o paga e promuove pareri scientifici a sé favorevoli, trovandoli sempre.

Quindi, si ritorna alla casella di partenza, in cui le decisioni politiche rilevanti si prendono per ragioni che certo tengono conto della “scienza” (nessun decisore prende misure che ignorano la legge di gravitazione universale) ma che la scienza mai potrà garantire come certe e “Vere” al 100%. Insomma, nella realtà effettuale il decisore decide con uno sforzo previsionale, nell’incertezza, e si assume la responsabilità di conseguenze che non sono mai, ripeto mai, interamente prevedibili. Ma l’accordo preliminare tra “Scienza” e Autorità Politica Positiva (Tecnica), tra potere spirituale e temporale è necessario per garantire il controllo e la coesione sociale, e la performatività del sistema. Si assiste dunque, oggi, a una grottesca riedizione della “lotta per le investiture” tra scienza (potere spirituale) e autorità politica (potere temporale), in cui paradossalmente il potere spirituale – la scienza – per come la rappresenta la grande maggioranza della comunità scientifica, NON combatte, e anzi esulta e festeggia l’aggressione dell’avversario: perché di vera e propria minaccia esistenziale alla scienza si tratta, quando il potere politico pretende di stabilire “Verità scientifiche” ufficiali, di farle oggetto di “fede” [sic] e di sanzionare chi non vi aderisca.

Le ragioni di questa paradossale esultanza, di questa sindrome di Stoccolma della comunità scientifica sono tante. Salto le più facilmente identificabili (vanità, timore, interessi) e mi concentro sulle meno visibili. Secondo me le ragioni meno visibili della sindrome di Stoccolma della comunità scientifica sono: a) NON si sono accorti che l’autorità politica sta trasformando la scienza in una religione, sia perché sono scientisti non pochi scienziati, specie ai livelli meno avanzati della ricerca, sia perché, lavorando sul serio come scienziati, sanno benissimo che la scienza effettualmente esistente è tutt’altra e incompatibile cosa rispetto a qualsivoglia religione, e non li sfiora il pensiero che qualcuno possa provarci sul serio b) non essendosene accorti, non ne hanno dedotto le possibili, anzi probabili conseguenze, che per la scienza effettualmente esistente sono devastanti: se alla pressione degli interessi economici e politici tradizionali si aggiunge la pressione del ruolo di garante ideologico dell’intero sistema sociale, la libertà di ricerca si riduce al lumicino e lo scienziato può venir chiamato di colpo a fare l’eroe, se vuole continuare ad essere scienziato c) l’opposizione all’insediamento della nuova teologia civile scientista, come si manifesta nel presente conflitto sivax/novax, è a dir poco, anzi a dir pochissimo, molto confusa.

Tralasciando i veri e propri mattoidi irrazionali (non pochi) l’asse ideologico principale conforme al quale gli oppositori combattono le autorità politiche è “la libertà”, come la intende il senso comune liberale (v. sopra). Ora, questo è un errore colossale, perché è evidente a chiunque non sia irrazionale che qualora ve ne sia un fondato motivo, l’autorità politica ha non solo il diritto, ma il preciso dovere di limitare, anche molto più gravemente di come oggi accada, la libertà dei cittadini. Il problema è se ve ne sia il fondato motivo, e il calcolo previsionale rischi/benefici in ordine al quale si giustifica la limitazione di libertà. Per capire se ve ne sia il fondato motivo, e per fare un calcolo rischi/benefici della limitazione di libertà da imporre, è indispensabile che la scienza, e ovviamente la comunità scientifica senza la quale la scienza non esiste, siano libere, ossia che siano liberi di argomentare il proprio fondato parere, e sottoporlo al dibattito tra pari, tutti i membri della comunità scientifica che operano in settori rilevanti per la decisione. Essi però non possono farlo, sennò si compromette la legittimazione dell’autorità politica. Dunque, in un mondo migliore, l’asse ideologico principale del conflitto con l’autorità politica in merito ai vaccini dovrebbe essere proprio la difesa della scienza e della libertà di ricerca + la difesa delle forme legali e sostanziali in cui deve avvenire ogni decisione politica. Noi però non siamo in un mondo migliore, siamo in questo qui.

Che cosa succede dopo? Succede che i powers that be vincono a mani basse, perché in un conflitto politico tra sicurezza e libertà, comunque intese (anche nel modo più stupido) la sicurezza vince sempre; e perché “per il solo fatto di esserlo, il ribelle perde metà della sua forza” (Richelieu): specie poi se il ribelle sbaglia di grosso la ribellione. Il processo di insediamento della teologia civile scientista continuerà, integrandosi agevolmente con la legittimazione dell’ordine sociale sinora in vigore (fascismo/antifascismo, progressismo/reazione, UE-mondialismo/nazionalismo-populismo). Tranne errori catastrofici immediatamente evidenti (es., e Deus avertat, se fra un anno o due si scopre che i vaccini provocano effetti imprevisti gravi in quote importanti dei vaccinati) anche le peggiori sciocchezze dette e fatte sinora dalle autorità passeranno in cavalleria.

Succederà però anche un’altra cosa, ominosa; e succederà per così dire automaticamente, di default, perché l’imposizione di una Verità Ufficiale a cui si deve prestare fede, pena sanzioni legali, la produce sempre: produrrà eretici, produrrà esclusioni, produrrà condanne implicite o esplicite alla morte civile, produrrà insomma tutti gli effetti collaterali sgradevoli e “medievali” ai quali il liberalismo classico s’era giustamente vantato di aver posto fine. E poi, ovviamente, produrrà retroazioni cibernetiche a catena nella comunità scientifica e nella scienza, nessuna favorevole. Le scienze più direttamente esposte alla pressione dell’autorità politica, quelle a cui più spesso e urgentemente sarà chiesto di fornire legittimazione al potere temporale, ossia le scienze sociali, saranno esposte a una pressione da fondere il granito. In bocca al lupo a chi vi opera, arrivano tempi interessanti”.

https://tempofertile.blogspot.com/2021/09/cronache-del-crollo-green-pass.html?fbclid=IwAR1Q4XjlGEdQCNRHTt-I6ijyWJ9C6JcBelzNW80jZtb3gJ-93ZaKYK6lgmM

CENNI SU CAPITALISMO E POLITICA, di Teodoro Klitsche de la Grange

CENNI SU CAPITALISMO E POLITICA

Paolo Becchi in un articolo su “Libero” rileva l’enorme aumento di ricchezza che la pandemia ha portato a qualche (gigantesca) azienda – e il sicuro impoverimento di tanti altri imprenditori e lavoratori autonomi – e ripropone la questione – talvolta e senza entusiasmo né enfasi particolare affrontata nei media mainstream – dell’aumento del divario tra ricchi e poveri nell’ultimo trentennio: i primi sempre più ricchi e i secondi in grande aumento. Marx sottolineava come questa fosse la logica del capitalismo. Scriveva che il tutto più che all’avidità del capitalista era dovuto alla logica del sistema. Nel capitolo (libro I, VII Sezione, cap. XXII) lo argomenta1 e lo ribadisce altrove.

Per cui che la tendenza del capitale sia quella dell’ “impulso assoluto verso l’arricchimento”, è stato affermato da (quasi) due secoli. Che comunque vi fossero altri riflessi e conseguenze (correttive) in questa logica, già lo aveva sostenuto Bernstein oltre un secolo orsono. Ma non è questo l’argomento che intendo cennare; piuttosto come tale tendenza all’accumulazione incida sul rapporto tra politica ed economia; o meglio tra politico ed economico.

L’anno che nasceva Marx, de Bonald scriveva un saggio, in forma di lunga recensione all’opera allora appena uscita (postuma) di M.me de Stael Observations sul l’ouvrage de M.me la baronee de Stael ayant pour titre “Considerations sur les principauz evenementes de la révolution française”.

Il saggio è una delle prime valutazioni del liberalismo sotto l’aspetto del realismo politico, in particolare sotto il profilo costituzionale. La polemica di De Bonald contro il liberalismo della de Stael si basava sulla incongruità di questo rispetto ai presupposti necessari dell’azione (e del pensiero) politico.

Particolarmente interessante ai fini della questione esaminata è che l’effetto del costituzionalismo liberale è, secondo de Bonald, la promozione di una classe essenzialmente dedita ad attività economiche, a patriziato politico. Con due conseguenze: la prima che si finisse così col confondere istituzionalmente l’interesse pubblico con quello privato. E così pubblico e privato. La seconda, che anticipa in una certa misura la considerazione di Marx (v. sopra nota 1) che così si crea una “classe” dal potere enorme. Diversamente dall’aristocrazia d’ancien régime il cui potere era economicamente fondato essenzialmente sulla proprietà fondiaria – per sua natura limitata – quella del patriziato del capitale era, trattandosi di ricchezza mobiliare, sempre per natura illimitata: “una contraddizione di cui è toccato a noi dare l’esempio, veder gli stessi uomini che chiedono a gran voce lo spezzettamento illimitato della proprietà immobiliare, favorire con tutti i mezzi la concentrazione senza freni della proprietà mobiliare o dei capitali. L’appropriazione di terre ha per forza termine. Quella del capitale immobiliare non ce l’ha, e lo stesso affarista può far commercio di tutto il mondo” (i corsivi sono miei); la conseguenza di questa concentrazione di potere economico e della commistione con quello politico era che “questa è una delle ragioni del rialzo dei prezzi delle derrate in Inghilterra, nei Paesi Bassi e anche in Francia, e dovunque il commercio non ha altro fine che il commercio e dove milioni chiamano e producono altri milioni.

I grandi patrimoni immobiliari fanno inclinare lo Stato verso l’aristocrazia, ma le grandi ricchezze mobiliari lo portano alla democrazia; e gli arricchiti, divenuti padroni dello stato, comprano il potere a buon mercato da coloro cui vendono assai cari zucchero e caffè2. De Bonald aveva visto giusto: “far commercio di tutto il mondo” è ancora quanto con più sintesi ed efficacia descrive l’ethos del capitalismo attuale, finanziarizzato, informatizzato e meno vincolato del “vecchio”, da mezzi “solidi” (la fabbrica, la macchina, il negozio).

Così come il controrivoluzionario aveva previsto la crescita d’influenza che la ricchezza globale avrebbe avuto sui regimi democratico-parlamentari (la plutocrazia), e quindi sul potere politico.

Secondo Wittfogel, l’opposizione tra classi (o ceti) esercenti il potere politico e quello economico è antica. Peculiare è, del suo pensiero sottolineare come (i vari tipi di) dispotismo idraulico avevano regolato la proprietà (e l’accesso alla stessa), anche senza arrivare – come quasi sempre non erano arrivati – a sopprimere la proprietà dei mezzi di produzione e l’iniziativa economica privata “Le leggi idrauliche di successione determinano la frammentazione della terra di proprietà privata”; al contrario la “proprietà” feudale, caratterizzata da succcessione limitata o dal maggiorascato e dall’indivisibilità del feudo favoriva la perpetuazione (e l’instaurazione) di (un altro) potere politico “Invece, la terra della classe possidente feudale (occidentale) implicava la perpetuazione del potere politico organizzato, indipendente dal (e talvolta in aperto conflitto col) potere statale. Diversamente dalla proprietà idraulica (burocratica e non-burocratica), la proprietà feudale, oltre ad essere fonte di reddito, era, in maniera rilevante ed evidente, anche fonte di potere”.

Il regime proprietario dei dispotismi idraulici favorisce una proprietà di reddito “essa non consente ai suoi detentori di controllare il potere statale attraverso l’azione e l’organizzazione fondata sulla proprietà. In ogni caso, essa non è proprietà di potere, ma proprietà di reddito”.

Nelle società idrauliche (id est di dispotismo orientale) la disciplina della proprietà e dell’appropriazione è rivolta così al duplice scopo sia di evitare concentrazioni di ricchezza tali da poter insidiare il potere politico sia di favorire la frammentazione della ricchezza (della proprietà). L’esistenza di divieti d’appropriazione, di restrizioni alla circolazione dei beni, di vaste proprietà demaniali e di servizio, come la regolazione della proprietà privata trovano in quel fine la loro (principale) ragione. Così la classe politica impediva la crescita di un’opposizione evitando la concentrazione di potere economico; da cui sarebbe probabilmente derivata una nuova (totalmente o parzialmente) élite dirigente.

Secondo Marx ed Engels la tendenza della borghesia è di assicurarsi (anche) il potere politico; come è scritto nel Manifesto la borghesia si serve dei governi; lo Stato è “una giunta amministrativa degli affari comuni di tutta la classe borghese”3. Lenin sostiene ripetutamente “La salvezza sta nei monopoli – dicevano i capitalisti – e formavano cartelli, sindacati e trusts; la salvezza sta nei monopoli, tenevano bordone i capi politici della borghesia, e si affrettavano ad arraffare le parti del mondo non ancora divise”.

Fino agli anni ’80 era – com’è noto – opinione condivisa almeno nella sinistra comunista e “gruppettara” che lo Stato fosse lo strumento con cui la borghesia capitalista esercitava il proprio potere. Dopo il crollo del comunismo (com’è altrettanto noto) la rappresentazione dello Stato e del Capitale come compagni necessari di strada si è ribaltata: il politico non è più la sovrastruttura della struttura del capitale, ma il limite, l’impedimento, l’ostacolo alla governance tecno-capitalista.

Politica ed economia hanno divorziato (così sembra); o meglio il politico è un limite, tollerabile in quanto non ostacola, o meglio collabora al dispiegarsi del potere economico globalizzato e globalizzante. Tutti gli attributi e le istituzioni politiche hanno subito la stessa sorte. Lo Stato è tollerato come gendarme notturno, in particolare se (molto) miope nel percepire le attività capitaliste; la democrazia perde i caratteri tradizionali (politici) e diventa la palestra della discussione pubblica (sulla tutela dei diritti dell’uomo, più che del cittadino); il bene comune, l’interesse generale non sono più riferiti alla comunità, come in altri campi, ma a tutto concedere all’umanità. Non senza qualche ragione, se è vero come è vero che la stagnazione che colpisce i paesi più sviluppati (Italia in primo luogo) ne ha ridotto la crescita, ma nel contempo è aumentata quella dei paesi in via di sviluppo (Cina, in primis, e tanti altri a seguito)4. Quindi se il bene comune è quello dell’umanità, l’obiettivo è stato centrato. Peraltro a crescere sono stati i paesi più poveri: anche quello della giustizia pare raggiunto. I dati sulla crescita del capitale delle grandi imprese, pure. Resta da vedere quanto tali successi possano rallegrare i popoli più sviluppati e in particolare i di essi “ceti medi”.

Dato che, a prescindere da altre cause concorrenti, ciò che ha determinato (principalmente) questi risultati è stato che le grandi imprese producono dove i costi (specie la manodopera) sono più bassi, vendono dove la domanda è più ricca (i paesi sviluppati) e pagano le imposte dove si pagano meno (i paradisi fiscali),la globalizzazione (contemporanea) è probabilmente la più fedele rappresentazione di quanto si legge nel Manifesto del partito comunista: sul carattere cosmopolitico e dirompente in termini sociali e politici, dell’accumulazione del capitale. Dato però che il risultato è che “Quelle che furono fino ad ora le piccole classi medie dei piccoli industriali, negozianti e rentiers, degli artigiani e dei contadini proprietarii, finiscono per discendere al livello del proletariato”5 ha generato la propria opposizione. Se questa ha le ragioni (anche) culturali e politiche trova in quella la causa economica.

Insieme allo Stato deperisce (nei paesi sviluppati) lo “Stato sociale” data la riduzione – in Italia – delle prestazioni che colpiscono ceti medi e ceti popolari – e l’aumento delle imposte (come quelle sulle proprietà immobiliari e sui consumi), che colpiscono gli stessi gruppi a causa della minor ricchezza prodotta e dalla necessità (conseguente) di sostentare l’apparato pubblico (in certa misura peraltro parassitario) cui le grandi imprese contribuiscono sempre meno. Così ha creato la propria alternativa, il nuovo “contenuto” del criterio del politico.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 “Il capitalista non è rispettabile che come personificazione del capitale. Come tale condivide con il tesaurizzatore l’impulso assoluto verso l’arricchimento: Ma quanto nel tesaurizzatore appare come mania individuale, nel capitalista è effetto del meccanismo sociale, in seno al quale egli è solo una ruota dell’ingranaggio. D’altro lato lo sviluppo della produzione capitalistica comporta di necessità un costante aumento del capitale investito in una impresa industriale, e la concorrenza impone a ogni singolo capitalista come leggi coercitive esterne le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico. Lo obbliga ad allargare continuamente il suo capitale per conservarlo, e lo può allargare solo tramite un’accumulazione progressiva”

2 Op. cit., trad it. La Costituzione come esistenza, Settimo Sigillo, Roma 1985, pp. 43-44 (il corsivo è mio).

3 E notavano anche che “il progresso dell’industria precipita nel proletariato intere sezioni della classe dominante o per lo meno, ne minaccia le condizioni di esistenza per cui “gli ordini medi, il piccolo industriale, il piccolo commerciante, l’artigiano, il contadino, combattono tutti la borghesia, per premunire della scomparsa la propria esistenza come ordini medi”. Dopo Marx, con l’avvio della fase imperialistica, è ripetutamente sostenuto che questo può realizzarsi (principalmente) per l’influenza della borghesia sul potere politico e quindi il procedere d’intesa tra Stato e capitalismo. Hobson scrive “La finanza manipola le forze patriottiche di politici, soldati, filantropi e agenti di commercio” le forze che sostengono l’imperialismo “sono essenzialmente parassiti del patriottismo e trovano protezione dietro la sua bandiera. In bocca ai loro rappresentanti vi sono nobili frasi, che esprimono il desiderio di estendere l’area della civiltà, stabilire il buon governo, convertire alla cristianità… Uno statista ambizioso, un soldato di frontiera… possono collaborare per istruire l’opinione pubblica patriottica sull’urgente bisogno di un nuovo avanzamento; ma la decisione finale rimane al potere finanziario… Mentre i giornali finanziari specializzati impongono fatti e opinioni alla comunità degli affari, la maggior parte della stampa passa sempre di più sotto il dominio consapevole o inconsapevole dei finanzieri” (v. Imperialism a study, trad. it. di L. Meldolesi e N. Stame, Milano 1974, pp. 54-55).

4 Negli anni dal 1999 al 2019 il PIL mondiale è cresciuto di circa un 3% per anno; i due paesi più popolosi del Mondo, Cina ed India, di percentuale tra il 5% e il 10% (abbondante) annuo; inutile ricordare i tassi modesti dei paesi sviluppati a quelli da prefisso telefonico – spesso negativo – del Bel Paese (fonte Indexmundis).

5 v. Manifesto

Trasposizioni improbabili, di Pierluigi Fagan

NON DISPONIAMO DI TERMINI ADATTI. [Post impegnativo ma -credo- succoso] Leggevo un libro nel quale dovendo dare descrizione di un sistema di credenze di popoli di alcune isole del Pacifico, si constatava quanto al titolo del post. Il nostro linguaggio è parte di una immagine di mondo (idm), se con questa idm dobbiamo parlare delle credenze inscritta in una radicalmente diversa idm, è facile non corrispondano categorie e concetti, giù, giù, fino alla “parole per dirlo”. La questione è in parte discussa in Parola ed oggetto (1960) di W.O.Quine, conosciuta anche come “indeterminatezza della traduzione”, ma non volevamo trattare la questione in via filosofica. Volevamo invece usare l’assunto per parlare del delicato statuto significante del termine “capitalismo”.
Nel libro segnalato, B. Milanovic (a lungo capo economista World Bank ed oggi considerato il principale esperto economico sulle diseguaglianze, a partire da un famoso grafico – detto “elefante di Milanovic”- che mostra in chiara evidenza ascesa della classe media orientale, super ascesa del famoso 1% di ultraricchi occidentali e stasi o discesa delle classi medie occidentali, negli ultimi venti anni di “globalizzazione”), compara il capitalismo occidentale (di mercato) con quello cinese (politico). Ne traiamo notizie dall’intervista che gli ha fatto F. Rampini, pubblicata oggi su Repubblica, che qui riassumiamo (abbiamo letto l’intervista non ancora il libro).
Milanovic sostiene che la versione cinese, che è in buona parte quella asiatico-orientale (Giappone, Corea, ASEAN), performa decisamente meglio. Secondo il serbo-americano, ciò è influito dal retaggio ideologico “comunista”. Se il modello strettamente economico “comunista” non si è dimostrato adeguato (caso URSS-Russia), la sua positiva influenza nei processi di de-colonizzazione, favorendo l’uscita da sistemi feudali di produzione, promuovendo istruzione di massa (per le donne in particolare) e sistemi sanitari universali, ha mostrato un ruolo positivamente attivo dello Stato. Poiché storicamente, ogni modello economico collegato al successo di una determinata parte di mondo (dalla Rivoluzione industriale britannica, alla Germania post unificazione prussiana, dall’URSS per l’area social-comunista-liberazione coloniale a gli Stati Uniti d’America post bellici), è diventato modello di riferimento, l’attuale modello cinese risulta oggi molto attraente (sexy), molto più attraente del modello occidentale che performa decisamente peggio.
Milanovic ne trae tre punti di ispirazione per consigliare al modello occidentale una sua auto-riforma. Il primo è il ruolo dello Stato che già da qualche tempo (a partire dalle revisioni teoriche iniziate all’IMF) è invocato a curare i fallimenti del mercato. Il secondo ed il terzo sono strettamente legati alla cura delle diseguaglianze che nell’ambito della teoria economica macro non sono malgiudicate dal punto di vista della giustizia sociale, ma dal più concreto punto di vista funzionale. Addensare tutto il capitale in pochissime mani porta ricchezza inutile a pochi che non la fanno circolare o la fanno circolare solo nel circuito finanziario, privando molti di potere d’acquisto con relativa sclerosi di tutti il sistema. A riguardo, Milanovic indica gli altri due punti d’azione riformatrice. Rivedere a fondo i sistemi di istruzione (in favore del pubblico vs privato) permettendo l’emergere di una vera meritocrazia socialmente neutrale al posto dei meccanismi di eredità aristocratica della ricchezza (da tassare pesantemente, vedi Piketty) che stanno producendo élite sempre più inadeguate, l’uno. L’altro è diffondere le possibilità di partecipazione all’incremento della ricchezza finanziaria, portando le classi medie a condividere i benefici della “financial turn” del capitalismo occidentale.
Su quest’ultimo punto, aggiungo che l’idea era invero presente a giustificazione della stessa “svolta finanziaria” già negli anni ’80. Le varie forme di Offerta Pubblica di Vendita con cui si sono fatte molte “privatizzazioni”, avevano di mira proprio l’istituzione di “public company” in mano a manager da una parte e azionisti popolari dall’altra. L’idea, da vedere quanto in “buona fede”, puntava a portare nel mercato dei titoli, la ricchezza della classe media che, se da una parte perdeva in salario, dall’altra avrebbe compensato con nuovi introiti di utili. Buona fede o meno, il progetto è fallito. Effettivamente, il numero di “azionisti” è molto aumentato almeno inizialmente, ma dopo vari tipi di meccanismo hanno espropriato dolcemente questo capitale diffuso, riportandolo nelle mani di chi sa e può.
Fattovi il riassunto delle tesi di Milanovic, torno al titolo del post. A premessa, si dovrebbe giustificare come possano esistere “modelli” astratti dai contesti geo-storici. Gli stessi occidentali sono stati e sono forse ancora convinti che il sistema che chiamano “democrazia”, possa e debba essere esportato, quindi in senso inverso ora pensano si possa importare un “modello” economico, se più performante. Ciò è possibile? Non credo. “Modello” è una nostra estrazione stilizzata in logica di funzionamenti di sistema, ma la natura “storia e contesto” che connota i vari sistemi, non permette di credere esistano davvero “modelli” estraibili dalla diversa natura dei sistemi. I sistemi cioè, sono degli “olon”, dei “tutto-Uno”, come notava lo stesso Quine a proposito dei sistemi linguistico-concettuali che non permettono traduzioni precise di singoli termini. In metafora, una lisca non giustifica tutto l’essere pesce, non esistono “trapianti di colonne vertebrali”, ogni colonna vertebrale è un di cui di quell’organismo specifico. Di contro, possiamo astrarre alcuni punti di logica di funzionamento delle cose e chiamarle “modelli” ma si dovrebbero trattare con gli occhi socchiusi, all’incirca, per lo più, non certo precisamente.
Abbiamo in questi mesi trattato la questione con i fan del “modello svedese” sul come gestire la pandemia. Ammesso ci sia del buono nel caso svedese (e qui non ci interessa approfondire il punto), sono molte le variabili che fanno “gli svedesi”, ad esempio demografia, età media, densità abitativa, modelli sociali, mentalità, sistema sanitario, auto-gestione dei comportamenti e molto altro. Per avere il “modello” svedese o cinese o coreano o li trattiamo a grana molto grossa o dobbiamo considerare che occorre essere svedesi in Svezia o cinesi in Cina o coreani in Corea per ottenere simili risultati. “Relativismo” qui, non significa “va bene tutto ed il suo contrario”, ma ciò che va bene lì è perché relativo a quel contesto lì. Questo è l’autentico significato di “relativismo”, significato incomprensibile a mentalità ordinate dal presupposto del “vero assoluto” che infatti mis-interpretano il concetto facendolo diventare un folle principio di “non c’è alcun principio” o “un principio vale l’altro”. Einstein non ha mai detto che il tempo non esiste o il tempo terrestre vale il tempo nel sistema di Orione, ha detto che ogni spazio determina il suo tempo locale, ogni metrica di tempo è “relativa” al suo spazio. Il “relativismo” non esiste, esiste semmai il “relazionismo”, il tempo è in relazione allo spazio, il termine al sistema linguistico, il sistema linguistico all’immagine di mondo, l’immagine di mondo alla geo-storia di quel popolo.
Allora, sulle migliori performance del sistema cinese che però poi scopriamo essere asiatico, lì dove non si può certo dire che fuori della Cina ci sia effettivamente un retaggio positivo di precedenti sistemi di pensiero “comunisti”, tant’è che si ripiega sul “confuciano”, che modello possiamo estrarre a giustificazione? Nessuno. Dovremmo cioè uscire dall’immagine di mondo economicista (che portò dei dissennati a teorizzare possibile l’esportazione della democrazia) e quindi modellistica e dire che l’Asia si trova all’inizio della curva di sviluppo, mentre noi siamo alla fine. Lo sviluppo non è un infinito (per altro “infinito” è un concetto della mente umana, non se ne potrà mai dimostrare l’esistenza, ammesso ne esista un concreto), è un curva nel tempo, storica, per la quale all’inizio hai mille positive condizioni di possibilità, in cima ne hai centinaia, poi decine, poi sempre meno. Come nello schema biologico della nascita-vita-morte.
Ciò non toglie che a grana grossa i consigli di Milanovic sul ruolo dello Stato o una riforma pesante di ruolo e funzione dei sistemi di istruzione o molti altri interventi possibili non siano utili per mettere un po’ più in sesto il nostro modo economico occidentale. C’è però da dubitare che il profondo del problema occidentale sia nelle diadi “capitalismo di mercato vs capitalismo politico”, ma neanche “capitalismo vs altro sistema economico”. Se, come credo, siamo da tempo inoltrati nella fase discendente della curva di sviluppo, al di là dei necessari interventi di riforma assolutamente utili e necessari (sia delle forme come propone Milanovic, sia nei contenuti come propongono altri –green economy o trasformazione ecologica, nuove tecnologie o altro), credo dovremmo pensare ad una società (che è un “olon”) non post-capitalista, ma post-economica.
Ma cosa significhi “post-economica” non possiamo qui dirlo, perché ci mancano le parole, i concetti, dovremmo produrli facendo una nuovo discorso con una nuova immagine di mondo.
[L’intervista a Milanovic che però è a pagamento: https://rep.repubblica.it/…/come_e_sexy_il…/…]
NB tratto da facebook

TORNARE INDIETRO PER ANDARE AVANTI, di Pierluigi Fagan

TORNARE INDIETRO PER ANDARE AVANTI. Nel 1486, il filosofo autodidatta Pico della Mirandola, scrive l’Oratio de homini dignitate, ritenuto da molti il “manifesto” di quel Umanesimo fiorentino che prelude al Rinascimento. Nell’Oratio, Pico sostiene che mentre ogni altro ente di natura è stato creato da Dio in forma determinata, l’uomo è condensato di potenzialità di potersi liberamente dare definizione da sé: “Tu determinerai la tua natura secondo il tuo arbitrio al cui potere io ti ho consegnato. […] …affinché tu stesso quasi come un libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avevi prescelto”. L’Umanesimo faceva perno su questa nuova antropologia in cui lo scarto dalla precedente convinzione stava tutta in questa sottrazione dalla determinazione che dava all’uomo libertà e responsabilità. L’operazione intellettuale era quella di sottrarre l’Uomo dalle rigide determinazioni del Dio artefice di ogni cosa, sostenendo che proprio Dio aveva donato all’Uomo la libertà dalla determinazioni donandogli la sovranità su se stesso. Ma allora, cosa fare di questa libertà all’autodeterminazione?

In questo scorcio di seconda metà del XV secolo in Italia, si combatte la riforma del pensiero che vuole emanciparsi dal totalitarismo della Chiesa recuperando gli Antichi, testimoni di un “pensiero altro”e per altro, molto più esteso e sofisticato di quello tipicamente medioevale. Il XV col XVI e XVII secolo sono il periodo di lunga dissolvenza incrociata nel quale il Medioevo lentamente dissolve mentre assolve il Moderno, sia nel mondo dei fatti che in quello dei pensieri.

Nel mondo dei fatti, è questo il periodo in cui dissolve un certo tipo di società ed assolve un’altra. Questa seconda sarà poi quella che oggi sta finendo ponendo di nuovo la domanda: … cosa fare di questa libertà all’autodeterminazione? In breve, l’Uomo occidentale, si è liberato da una gabbia mentale riflessa poi in una precisa struttura del sociale in cui gli intermediari della credenza in Dio usavano tale diffusa e profondamente introiettata credenza per garantirsi il ruolo di primi tra pari. Nel farlo, ha liberato la sua potenza intenzionale e produttrice facendo del lavoro e del suo profitto, il senso del suo stare al mondo. La nuova struttura del potere sociale perdeva il concetto di “primi tra pari” in quanto eclissando Dio come vertice della piramide dell’Essere si perdeva la parità umana, si perdeva quindi il ruolo e la funzione di intermediario, si apriva ad una nuova credenza in cui il mondo umano era fatto dall’uomo stesso. Questo “uomo produttore di mondo” s’ingaggiava sempre più a “risolvere problemi”, che lo facesse col lavoro, col commercio, con la tecnica, con le prime esplorazioni scientifiche o nautiche. Prima di giudicare idealmente il senso di questa svolta, il giudicante dovrebbe esser ben consapevole dell’aspettativa di vita, del tasso di mortalità per fame o malattie, del tasso medio di ingiustizia di allora comparati a quelli di oggi.

Il grande studioso dell’economia antica Moses Finley, raccontava di un signore dell’antica Atene che finanziava diverse navi commerciali del Pireo che riempiva di merci e beni. Le navi, periodicamente, andavano sulle coste libiche e lasciavano merci e beni sulla spiaggia al limitare della foresta. Poi tornavano un po’ al largo, aspettavano ed infine riattraccavano. Il “popolo della foresta” aveva preso merci e beni ed aveva lasciato in controvalore schiavi secondo proprio giudizio di equivalenza. Gli schiavi venivano portati al signore di Atene finanziatore della spedizione. Il signore aveva così accumulato circa duecento schiavi che però non vendeva, affittava. Li affittava ai possessori miniere o di campi da coltivare fuori Atene, piuttosto che come servi casalinghi o addirittura affittandoli alla città come opliti. Il signore possedeva quindi i mezzi di produzione essendo questi, al tempo, lavoro umano ed aveva realizzato il ciclo marxiano del denaro (per finanziare la spedizione) che serviva a comprare merce (gli schiavi) che producevano più denaro (profitto) di quanto erano costati (investimento), il fatidico D-M-D1. Il signore era quindi un “capitalista”.

Se questa è la formula di un fare economico capitalista, sarà bene sapere che di questo fare economico, la storia ne è piena e da molti più secoli che non quelli che chiamiamo propriamente “capitalistici”. Ma con due differenze tra gli esempi reperibili nella storia lunga ed il sistema imperante nei secoli propriamente detti moderni o “capitalistici”. La prima differenza è che questi modi -in passato- erano frammisti a molti altri, non erano l’unico modo. La seconda è che nessuna società si ordinava esclusivamente col fare economico che a sua volta si ordinava con solo questo modo. L’epoca in cui inizia la transizione ad una “società capitalistica” è proprio il XV secolo dove precedenti modi economici già lungamente basati sul ciclo “investimento-trasformazione-profitto” sin dal XII secolo diventano sempre più diffusi e perfezionati, per poi dalla fine del XVII secolo, diventare l’unico modo del fare economico e con la Gloriosa rivoluzione inglese, il modo stesso in cui si ordina l’intera società nonché quello che esprime il potere politico riunito nel “parlamento dei produttori e dei dotati di capitale”.

Cosa intendiamo quindi con “capitalismo”? Un modo economico tra gli altri, passibile quindi di diversa forma o il sistema sociale in cui la società è ordinata dal fare economico e questo dall’unica versione basata sul ciclo “investimento-trasformazione-profitto”? Nel primo caso c’è chi ipotizzò che imponendo una diversa forma economica previa conquista del potere politico e giuridico (come?) si giungerà ad una nuova forma sociale. Nel secondo caso si nota che non è tanto la forma del ciclo “I-T-P” che è antica quanto l’uomo, ma la sua presunta unicità e soprattutto la sua pretesa di ordinare l’intera società ed il suo potere ultimo che è sempre politico-giuridico.

Eccovi quindi gli “accelerazionisti”. Costoro sono convinti che piuttosto che resistere alle dinamiche evolutive (o involutive) del capitalismo contemporaneo, tanto vale accelerarle fino alle estreme conseguenze di una società liberata dal mito del lavoro. Non del lavoro in quanto tale che sarà sempre necessario entro certi limiti, ma del suo mito come essenza della società umana e realizzazione stessa dell’uomo. La chiave di volta è il progresso tecnologico che tende a sostituire lavoro umano con lavoro macchina o algoritmo. Alle sue estreme conseguenze, se il lavoro non sarà più il perno del fare umano e sociale, la società si cercherà un nuovo ordinatore. E potrà liberamente farlo laddove s’imporrà (come?) il principio di dare sussistenza minima garantita a tutti, liberando tempo ed energie intellettuali e sociali, infine politiche, per discutere e decidere assieme quale altro ordinatore darsi. Tornare cioè alla domanda di Pico su cosa fare di questa libertà all’autodeterminazione e provare a dare un’altra risposta da quella che poi venne storicamente data. Non solo provare a dare un’altra risposta rispetto a quella data, ma anche rispetto alla contro-risposta data da coloro che volevano superare nel XIX secolo questo stato di cose e che poi, purtroppo, non sono riusciti ad alimentare un vero e sostanziale cambiamento.

E’ un argomento complesso da discutere quindi ve lo sottopongo a libera discussione.

nb tratto da facebook