Lo Stato delle Cose della Geopolitica Italiana nei Conflitti Mazzini/Garibaldi. Intervista a Massimo Morigi, a cura del prof Umberto Marsilio

UN CONVEGNO SU ANTONIO DE MARTINI PER LA  NASCITA DI UNA NUOVA GEOPOLITICA MAZZINIANA 

Alcune domande dello storico Umberto Marsilio al prof. Massimo  Morigi, filosofo politico e cultore della storia risorgimentale e del  repubblicanesimo. Le domande sono state poste a seguito della  visione di Marsilio della conferenza Lo Stato delle Cose della  Geopolitica Italiana nei Conflitti Mazzini/Garibaldi, conferenza tenuta  da Morigi presso la Società degli Uomini della Casa Matha di  Ravenna e disponibile su YouTube all’URL https://www.youtube.com/watch?v=KwA00IOPCsM&t=4693s . Più  l’annuncio di un prossimo convegno di studi per onorare la memoria  del geopolitico mazziniano Antonio De Martini 

 In seguito alla visione su YouTube della mia conferenza Lo Stato  delle Cose della Geopolitica Italiana nei Conflitti Mazzini/Garibaldi, lo  storico Umberto Marsilio ha ritenuto opportuno pormi alcune  domande alle quali ben volentieri rispondo, premettendo che per  alcune, che riguardano più prettamente l’ histoire événementielle, sarò  necessariamente laconico (ciò dovuto allo stato della ricerca  storiografica che non consente maggiore precisione), per altre, che  investono direttamente la storia delle idee sarò forse ridondante, e  questo dipende indubbiamente dalla mia specifica competenza nello  studio ed insegnamento della filosofia politica.  

qui il testo in formato pdf

MAZZINI DE MARTINI MORIGI MARSILIO INTERVISTA

 Rispondo quindi alla domanda che mi pone Marsilio in merito  alle somiglianze e differenze caratteriali e politiche fra Mazzini e  Garibaldi. È sempre difficile, se non impossibile, indagare la  psicologia intima delle persone, siano queste nostre dirette conoscenze o personaggi storici. I personaggi storici, tuttavia, hanno sulle persone  che non hanno svolto vita pubblica, una via privilegiata per  scandagliare la loro psicologia perché essi dovettero per ragioni  “professionali” rapportarsi con vasti aggregati umani al fine di  indirizzarne non solo il presente o il futuro da qui ad una generazione,  come possono o si illudono di fare le persone non pubbliche ma con  più ristrette cerchie familiari e/o amicali, ma di determinare il futuro  di numerose successive generazioni e per svolgere questa missione essi  dovettero costruirsi non solo una maschera personale e/o familiare ma anche una maschera pubblica.  

 Ora dal punto della maschera pubblica, non si potrebbero  concepire due personaggi più diversi di Mazzini e Garibaldi. Molto  appropriatamente lo storico del movimento repubblicano e del  Risorgimento Roberto Balzani ha affermato che Garibaldi costruì il  suo carisma sulla presenza e sul riconoscimento ictu oculi della sua persona e sul contatto diretto col suo stesso corpo (i Mille potevano  vedere e, se volevano o le circostanze glielo consentivano, addirittura toccare l’oggetto del loro mito, e, in generale, tutto il mito di Garibaldi  fu costruito su stereotipi che rimandavano ad un paradigma di  sacralità – e quindi di carisma politico – di stampo cattolico cristologico dove la visione dell’immagine è fondamentale  nell’adorazione della divinità), mentre Giuseppe Mazzini, sostiene  sempre Balzani ed io concordo in pieno, fu l’eroe dell’assenza, voglio  dire dell’assenza della sua immagine e del suo contatto diretto presso i  suoi seguaci, fra i quali pochissimi ebbero modo di vederlo e  riscuotendo, nonostante questo, fortissimi sentimenti di ammirazione e  folte schiere di seguaci (una intensità di sentimenti e foltezza di  seguaci che però dopo ogni sommossa mazziniana regolarmente fallita  andarono mano a mano scemando e dopo ogni rovescio dei moti da  lui suscitati molti dei suoi seguaci lo abbandonavano per abbracciare  percorsi più realistici e moderati per il loro patriottismo). Plastico in questo senso di leadership per assenza, il caso dei fratelli Bandiera che  si immolarono per gli ideali mazziniani senza mai avere visto una sola  volta il Maestro di Genova.  

 Per quanto riguarda gli ideali che accomunavano Mazzini e  Garibaldi, facile rispondere. Entrambi volevano l’unificazione del  nostro paese, solo che Mazzini voleva che l’Italia fosse unificata e al  tempo stesso fosse retta da una forma di governo repubblicana mentre  per Garibaldi l’unica cosa importante era l’unificazione e la forma di  governo, in fin dei conti, non era così importante perché egli si  acconciò ben volentieri al fatto che a dirigere l’unificazione del paese  fosse il Piemonte retto dalla monarchia sabauda.  

 È assolutamente indispensabile a questo punto fare però una  precisazione. E non tanto su Garibaldi e sul suo pragmatismo  nell’azione ma su Mazzini e sul suo ideale repubblicano e questo mi  consente fra l’altro di rispondere ad un’altra domanda che Marsilio  mi ponte e che è la seguente «per quali motivi oggi Mazzini è ritenuto  un Pater Patriae sebbene la sua visione e la sua azione politiche non  sono state determinanti nel processo di unificazione?». Ora ad un  livello superficiale di risposta si potrebbe dire perché infine la  monarchia che Mazzini tanto detestava ha cessato di esistere e al suo posto abbiamo oggi una “bella” repubblica, nata, si dice sempre, dalla  resistenza che su di sé seppe accogliere i migliori empiti anche del  risorgimento, dei quali Mazzini seppe dare espressione non solo per la  sua lotta per l’unificazione del paese e per la forma di governo  repubblicana ma anche per la sua visione sociale, di cui la Repubblica  fondata sul lavoro avrebbe saputo cogliere le sue idealità ed i  propositi. 

 

 Ma, purtroppo, qui siamo in piena costruzione non tanto di un  mito mazziniano (se studiato a fondo, uno dei rischi che corre anche lo  storico più smaliziato ed arcigno è di mitizzare Mazzini, vedi  Salvemini con i suoi giudizi sempre altalenanti fra l’ipercritico e  l’ammirato su Giuseppe Mazzini) ma in pieno mito regressivo sui  quarti di nobiltà che dovrebbe vantare la nostra repubblica, o meglio, siamo in pieno mito regressivo e di rimozione sulla realtà effettuale 

della genesi e natura reale della sua costituzione materiale che anche  oggi, ancor dopo più di settant’anni dalla sua nascita, anche a livello  non meramente pubblicistico e/o giornalistico ma anche in sede  scientifica o pseudotale, continua ad essere rappresentata come una  repubblica nata dalla resistenza contro il totalitarismo fascista e  quindi in virtù di questo mitologico inizio incontestabilmente  democratica (in realtà nacque dalla sconfitta ed occupazione militare  anche se, dobbiamo pure dirlo, non c’è storia di fondazione di nessuna  nazione che non sia intrisa di mitologia e/o di false e ridicole  rappresentazioni della stessa, da questo punto di vista paese che vai  mito di fondazione che trovi), mentre nella realtà effettuale della sua  costituzione materiale la nostra repubblica solo con molta fantasia può  essere definita, qualsiasi cosa si intenda col termine, come una  democrazia, manifestandosi essa come una cristallina e tetragona oligarchia elettiva seppur a suffragio universale e sul significato di  questa definizione non penso sia necessario dilungarsi se non  addentrandoci su un “piccolo” dettaglio in merito al pensiero di  Giuseppe Mazzini.  

 Ora se si va a leggere a fondo e per esteso Mazzini, ci accorgiamo  che egli impiega assai di rado il termine ‘democrazia’ e gli preferisce il  termine ‘repubblica’, intendendo con repubblica non solo il dato  puramente istituzionale (e qui siamo in piena banalizzazione del  pensiero di Mazzini così come oggi lo intendono i suoi attuali stanchi  emuli), ma proprio una forma di Stato che fosse finalizzata all’insegna della tutela e sempre maggiore valorizzazione della Res Publica,  intendendo quindi Mazzini la Repubblica come quell’insieme di  valori materiali e spirituali verso i quali era dovere di tutti i cittadini  agire in vicendevole collaborazione al fine di ottenerne un sempre  maggior accrescimento e potenziamento di generazione in  generazione.  

 A ciò si potrebbe obiettare che anche la nostra repubblica e in  Costituzione ed anche nelle sue politiche concrete si pone questi  obiettivi mazziniani ma qui io non voglio sindacare sull’efficacia nel  raggiungimento di questi buoni propositi (penso non sia necessario un  mio giudizio al riguardo…) ma su un fatto che riguardo a Mazzini non  viene mai messo in rilievo e si tratta del seguente punto: Mazzini  aveva una visione olistica della società che era radicalmente nemica  della visione atomistica della società così come la vede e disegna il  liberalismo e così come è strutturata nella reale filosofia di impianto e  nell’azione delle forze politiche che agiscono nella repubblica italiana.  

 Questo atomismo di fondo nella visione della società è  solidalmente condiviso sia dalla attuale “destra” politica che dalla  attuale “sinistra” politica, da questo punto di vista non ci sono  differenze ma, ancor peggio (o ancor meglio, lo studioso  weberianamente deve segnalare i valori in gioco ma dopo, per quali  prender parte, è la coscienza di ognuno di noi che deve assumersi  l’onere decisione finale), bisogna dire che il male (o il bene, lo ripeto,  dipenda dal carattere di ognuno di noi decidere per quali valori  propendere) proviene dalle origini di questa repubblica, che non  nacque su un patto costruttivo e condiviso di valori basato sulla  tradizione storico-morale della nazione ma su una finzione valoriale nata dal compromesso politico fra i valori delle forze comuniste e  quelli delle forze cattoliche e che celava una terribile sconfitta militare e la conseguente umiliante sottomissione “democratica” verso i  vincitori (Art. 11 della Costituzione: «L’Italia ripudia la guerra come  strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di  risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di  parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un  ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni;  promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale  scopo.», non ha altro significato effettuale che stabilire che l’Italia  rinuncia alla guerra perché impossibile da muovere solo con le sue  deboli forze ma vi partecipa se quelle potenze anticomuniste che  hanno vinto la seconda guerra mondiale ritengono necessario che lo  faccia. Ogni riferimento alle odierne vicende è puramente casuale… ). 

 E quindi rispondo alla domanda: se Mazzini viene preso sul serio  non può essere considerato un padre nobile di questa patria perché il  suo pensiero, e riprendo qui una definizione di Costanzo Preve impiegata dal filosofo pensando ad una rifondazione in senso  umanistico del marxismo, imporrebbe tutto un ‘riorientamento  gestaltico’ della nostra vita politico-sociale, riorientamento gestaltico  all’insegna di una visione olistica della società e assolutamente nemico  della impostazione liberale anomica ed atomistica della stessa, in  questa impostazione anomica ed atomistica, fra l’altro, la democrazia  rappresentativa italiana (ma parlando in sede di analisi politologica,  lo ripeto, si dovrebbe dire al posto di ‘democrazia rappresentativa’ ‘oligarchia elettiva a suffragio universale’) in assoluta buona  compagnia con tutte le forme di democrazia rappresentativa (cioè di  oligarchia elettiva) di tutti quei paesi che oggigiorno, definizione nata  in seguito alla guerra russo-ucraina, vengono definiti presi nel loro  insieme come “occidente collettivo” (definizione coniata da Putin per  designare le potenze occidentali che gli si contrappongono nella guerra  russo-ucraina ma ormai fatta propria, per una sorta di eterogenesi dei  fini, anche dallo stesso occidente che muove guerra, seppur non dichiarata e per procura, alla Russia. Prima della caduta del muro di  Berlino, aveva corso legale il termine ‘mondo libero’, libero, cioè, dal  comunismo e per questo comprendente anche le liberissime dittature  militari latino-americane; oggi che il comunismo è sepolto e quindi  non si può più lottare per difendersi da un morto, per combattere la  Russia e la Cina in un mondo sempre più multipolare ed  imprevedibile, è meglio richiamarsi all’idea di un mitico occidente che  si contrapporrebbe alle autocrazie asiatiche russe e cinesi. In  conclusione, quello di ‘occidente’ termine dal nobilissimo orizzonte valoriale e dalle profondissime radici storico-filosofiche ma in questa  fase storica prostituito dagli italici ed esteri pennivendoli agli interessi  della Nato…).  

 È noto come Gramsci non amasse Mazzini e su questo fatto è  stato in passato sottolineato che se sullo specifico Gramsci imputava a  Mazzini di non aver affrontato, e con lui tutto il risorgimento, la  questione contadina, su un piano più generale ciò sarebbe dovuto  perché l’uno, Gramsci, era portatore di un pensiero totalitario mentre  Mazzini può essere considerato l’alfiere di un pensiero democratico,  dando all’aggettivo una semantica del tutto sovrapponibile a quella  conferitagli dalla versione liberal-atomistico-anomica anzi descritta.  

 E qui siamo in presenza di un vero e proprio travisamento del  pensiero mazziniano: Mazzini nei suoi scritti con molta parsimonia  impiega il lemma ‘democrazia’ preferendogli il termine ‘repubblica’ e  questa non è una casualità lessicale perché, come ho cercato di  illustrare, la repubblica mazziniana intende agire nell’ambito e  forgiando una società olistico-organica nella quale certo, le libertà  politiche ed individuali non sono assolutamente conculcate ma nella  quale il termine ultimo di riferimento e legittimità non è mai il singolo  individuo anonimicamente ed atomisticamente inteso ma il popolo olisticamente inteso (dalla maggior parte dei suoi attuali sfiancati  emuli, lo scritto più rappresentativo del pensiero di Giuseppe Mazzini,  i Doveri dell’Uomo, con la sua idea della primazia dei doveri sui diritti,  altro non significherebbe altro, sic et simpliciter, che prima di  reclamare un diritto bisogna aver ottemperato al complementare  dovere senza porsi, questi tristi emuli, troppe domande del perché di  questa gerarchia, se non affermando la fuorviante banalità che per  Mazzini la morale veniva prima della politica – o, tradotto in maniera  ancora più banale, che il mio diritto finisce dove comincia quello del  mio vicino –, mentre quello che voleva far emergere Mazzini con la  sua teoria della prevalenza dei doveri sui diritti è che la società è un  tutto organico e che l’individuo è sì importante ma è solo concepibile  all’interno di questa società verso la quale, proprio in virtù della sua  totalità organica, si ha il dovere di concepirla sovraordinata rispetto  all’individuo che pur giustamente reclama i diritti). 

 Possiamo quindi dire che fra Gramsci e Mazzini sussistono, certo, profonde differenze, l’uno guardava alla classe operaia e  contadina come base di manovra per la sua azione politica mentre  Mazzini guardava al popolo italiano ma se la classe operaia e la classe  contadina costitituiscono per Gramsci la totalità politica sulla quale  doveva agire il nuovo principe partito comunista per portare queste  due classi all’autocoscienza della propria totalità organica, per  Mazzini, non classista ma in un certo senso ugualmente “totalitario” 

(totalitario ma non autoritario-dittariale e penso sia meglio per questa  comunicazione risparmiarci la ricostruzione dell’origine del termine e  del suo impiego da parte di Mussolini, del fascismo e poi anche, se non  soprattutto, da parte della pubblicistica di stampo liberal democratico: ad altra puntata…), la totalità sulla quale svolgere  l’azione politica era il popolo italiano nella sua interezza e l’agente che  doveva portare il popolo italiano alla consapevolezza della sua totalità  organica doveva essere sempre un partito politico, ma repubblicano, da lui guidato che, tramite sommosse e financo azioni che noi oggi  definiremmo terroristiche, avrebbe cercato di far sorgere questa  autocoscienza di totalità organica nel popolo italiano.  

 Quindi sia Mazzini che Gramsci nella storia del pensiero politico  italiano possiamo dire che fossero entrambi portatori di una linea di  azione che possiamo dire ‘olistico-culturalista’ perché in assenza del  suscitamento politico e pedagogico da parte dell’avanguardia politica  dell’autoscoscienza della propria natura olistica sulle rispettive masse di riferimento (classe operaia e contadina in Gramsci, popolo italiano  in Mazzini) nessuna azione politica sarebbe stata né possibile né di  alcun valore (i moti mazziniani che Mazzini sapeva votati ad un  probabilissimo fallimento nell’immediato sono da Mazzini stesso  indicati come fenomenale strumento pedagogico e i Quaderni del  Carcere di Gramsci, oltre che testimoniare una incrollabile fede di  stampo veramente mazziniano nel trionfo finale della causa  rivoluzionaria, sono intesi dal rivoluzionario sardo come strumento  per portare le sue due classi di riferimento alla propria autocoscienza  organica, premessa indispensabile questa autocoscienza per il trionfo  della rivoluzione comunista). L’antipatia di Gramsci verso Mazzini  può quindi anche essere considerata come la percezione da parte del  rivoluzionario sardo di avere avuto una sorta di precursore nella metodologia ed impostazione valoriale da parte di un personaggio il  quale, però, non guardava esclusivamente al proletariato e alla massa  contadina come base di azione politica, mentre di tutt’altro segno,  giusto per fare un esempio che ci aiuti a rendere più chiaro il concetto,  era l’avversione di Gobetti verso Mazzini: in questo caso il campione  della rivoluzione liberale, quindi una rivoluzione sì ma una rivoluzione  che avrebbe ancor più accentuato i tratti atomistici e anomici del già allora esistente regime liberale, non poteva che considerare un vuoto  filosofema tutta l’impostazione olistico-organica mazziniana. 

 

 Vengo ora velocemente a rispondere alle altre domande tenendomi per ultima la domanda di Marsilio relativa allo “stato delle  cose” sui vizi e le virtù della odierna geopolitica italiana. Per quanto  riguarda la domanda se l’epilogo della Repubblica Romana sia il  segno delle divergenze politiche e di azione che già si potevano  intravvedere fra Mazzini e Garibaldi, rispondo che rispetto a quanto  fin qui affermato sulle loro differenze, nella Repubblica Romana  rifulse il genio politico di Mazzini mentre Garibaldi, anche se efficace  sul piano militare, non riuscì nella maniera più assoluta a concepire 

un percorso politico per cercare di salvare la Repubblica Romana  (Mazzini cercò sempre una trattativa col corpo di spedizione francese venuto per sopprimere la Repubblica Romana giocando sulle  ambiguità politiche e sulla tradizione rivoluzionaria della Repubblica  francese mentre Garibaldi voleva semplicemente rigettarla manu  militari a mare, un progetto assolutamente impossibile da realizzare).  Quindi anche se alla fine il progetto mazziniano di trascinare a fianco 

– o in posizione di neutralità – della Repubblica Romana la repubblica  francese fu un fallimento, esso dimostra che in questo caso il vero  pragmatico della politica era Mazzini mentre Garibaldi, in fondo,  altro non si comportò e connotò che come un validissimo militare ma  sprovvisto di alcuna visione politica, e questo contrariamente a quanto  si dice tuttoggi anche a livello storiografico che Garibaldi fosse un  concreto uomo d’azione mentre Mazzini sarebbe stato una sorta di  generoso acchiappanuvole. Se vogliamo usare queste usurate categorie, è semmai vero il contrario. Mazzini il concreto uomo  politico, Garibaldi il generoso, efficace uomo d’azione, ma in fin dei  conti, politicamente ingenuo acchiappanuvole.  

 E sulla base di questo ribaltamento degli stereotipi pubblico caratteriali dei due personaggi mi avvicino alla domanda di Marsilio  sul perché la guerra di Crimea vide la contrarietà di Mazzini alla  partecipazione piemontese e rispondo affermando che Mazzini aveva capito benissimo che il monarchico regno di Sardegna tramite questa  partecipazione avrebbe avuto ascolto fra le grandi potenze europee e  questo, oltre a dare una svolta moderata e monarchica a tutto il  movimento rivoluzionario italiano, celava anche un altro rischio che la  storiografia non ha mai a sufficienza sottolineato: mentre Mazzini e  Garibaldi intendevano per unificazione italiana tutta la penisola più le  isole principali, intendevano cioè un’Italia con un territorio più o  meno sovrapponibile a quello odierno, il regno di Sardegna e  segnatamente Cavour non pensavano assolutamente a questo tipo di  assetto territoriale, volendo Cavour ingrandire il Piemonte a spese  del dominio diretto dell’Austria nell’Italia del nord e forse  aggiungendo, se proprio si vuole esagerare, qualche propaggine  dell’Italia centrale. Cavour definiva l’idea di una unificazione di tutta  la penisola una autentica corbelleria e mi preme sottolineare che se la  spedizione dei Mille fu segretamente appoggiata da Vittorio Emanuele  II e dalla Gran Bretagna dovette affrontare la contrarietà di Cavour.  Comunque, per farla breve: il sognatore Mazzini era ben al corrente  di tutti questi rischi qualora l’iniziativa della rivoluzione italiana fosse  passata al Regno di Sardegna, Garibaldi bellamente li ignorava o  fingeva di ignorarli.  

 In merito alla domanda quanto Mazzini stimasse Garibaldi e se  la stima di Garibaldi verso Mazzini fosse superiore a quella che  Mazzini aveva per Garibaldi, rispondo molto semplicemente che allo  stato degli atti si può affermare che ad un’iniziale vicendevole e  profonda stima, a partire dalla Repubblica Romana in poi mai  nessuno dei due mise in dubbio la buona fede dell’altro ma le accuse  che entrambi vicendevolmente si scagliarono riguardarono l’altrui  l’ingenuità politica e la conseguente facilità di manipolazione: nel caso delle accuse di Mazzini contro Garibaldi, ad opera della monarchia  sabauda e nel caso delle accuse rivolte a Mazzini, secondo Garibaldi in  una sorta di automanipolazione mazziniana dovuta alle proprie elucubrazioni ideologiche e dalla sua intransigenza repubblicana che  non avrebbero lasciato alcuno spazio di manovra politica con chi  repubblicano non era ma intendeva comunque lottare per  l’unificazione del paese. Sull’intensità intima di questi vicendevoli  sentimenti di apprezzamento e di ridimensionamento delle rispettive figure, confesso che non so pronunciarmi, in quanto i due personaggi  furono due figure pubbliche e quando si scrive e si agisce per la storia  c’è sempre, in positivo come in negativo, un non detto, sul quale è  sempre molto difficile esprimerci.  

 In merito alla domanda di Marsilio sulle potenze che i due eroi  del Risorgimento stimavano di più, per Garibaldi è facile rispondere:  Garibaldi stimava moltissimo la Gran Bretagna (vedi la mia  conferenza e anche i lavori Eugenio Di Rienzo) e da questa fu anche 

decisamente aiutato nella sua Spedizione dei Mille mentre Mazzini  pur avendoci vissuto molti anni non espresse mai sentimenti di così  forte amicizia pur non arrivando mai direttamene ad accusare  l’Inghilterra di una politica imperialista (veramente, come ho detto  nella mia conferenza, Mazzini era ben consapevole che l’Inghilterra  faceva i suoi comodi a danno di coloro che si mostravano più deboli e  meno resistenti all’avanzata dell’uomo bianco, solo che questa aperta sincerità Mazzini la riteneva dannosa, alla luce del suo realismo  politico, per tessere alleanze per una futura unificazione dell’Italia e  dall’altro lato, Mazzini non era del tutto contrario al colonialismo  europeo, perché, non molto originalmente rispetto alla sua epoca, da  lui ritenuto propedeutico alla diffusione della civiltà). Ma per essere  veramente sintetici, Mazzini amava profondamente solamente una  nazione e questa era l’Italia che nei disegni mazziniani doveva costituire il fulcro del futuro concerto europeo costituto dalle nazioni  liberate dal giogo delle potenze continentali di allora, l’Austria e la  Russia, ed affratellate in seguito all’abbattimento della Santa  Alleanza, all’insegna di una egemonia italiana meritata sul campo della distruzione di queste potenze prevaricatrici dei diritti dei popoli  europei.  

 Alla domanda cosa pensavano Cavour e Vittorio Emanuele di  Mazzini, rispondo molto semplicemente che se fosse loro capitato fra  le mani e avessero potuto decidere unicamente alla luce delle loro  convinzioni personali, lo avrebbero impiccato. Non so quindi cosa gli  avrebbero fatto se fosse effettivamente capitato fra le loro mani, i due  personaggi in questione erano sempre uomini politici e in politica non  sempre, anzi quasi mai, si fa quello che si vorrebbe, ma sicuramente  dare seguito alla condanna a morte che il Regno di Sardegna aveva  posto sul suo capo, certamente rispondeva alla loro più sentita convinzione.  

 Infine rispondo alle forse più importante domanda di Marsilio  in merito alle virtù e manchevolezze della geopolitica italiana. Senza  voler fare l’elenco delle più o meno commendevoli iniziative di  pubblicistica geopolitica che in seguito alla guerra russo-ucraina  hanno preso vigore e che sono sorte principalmente sul Web (e in  questo generale movimento di rinnovamento di queste varie iniziative  di pubblicistica geopolitica anch’io ho dato, soprattutto sul piano della  riflessione teorica attraverso l’elaborazione del paradigma del  Repubblicanesimo Geopolitico, il mio modesto contributo; ma di esso  non parlerò oltre perché altro è l’argomento dell’intervista. Una cosa  è però assolutamente necessaria dirla: i primi vagiti del  Repubblicanesimo Geopolitico furono ospitati dalle colonne on line del  blog di geopolitica “Il Corriere della Collera”, ora cessato nelle sue  pubblicazioni – ma ancora in Rete – per la morte del suo fondatore, lo  studioso di politica internazionale, il mazziniano, pacciardiano e  quindi fautore ante litteram della repubblica presidenziale Antonio De Martini, al cui impareggiabile magistero politico, scientifico e morale dovrà necessariamente ispirarsi la geopolitica italiana per la sua  auspicabile rifondazione ab imis ma, in conclusione, del succitato  movimento di rinnovamento della geopolitica italiana non mi dilungo  oltre in quanto, proprio per la sua carica innovativa, eccentrico  rispetto al mainstream della geopolitica italiana e quindi lodevolmente  con scarso valore di rappresentatività della stessa e, comunque, chi si  ritenga incuriosito da questa mia affermazione può benissimo andarsi  ad ascoltare la mia conferenza, nella quale viene elencata, oltre alle  lodevoli nuove iniziative di riflessione geopolitica, anche una nutrita  schiera di “esperti” geopolitici, molto esperti nel realismo politico ma  solo pro domo loro…), parlerò solo di “Limes” e del suo valente  direttore e deus ex machina Lucio Caracciolo.  

 Ora uno dei suoi ultimi editoriali su YouTube si intitola Stiamo  perdendo la guerra. Medio Oriente e Ucraina in fiamme. L’Italia paga il  conto ma non conta, ed io ho già definito questo titolo e il contenuto del  video «disperazione ed ingenue illusioni di un geopolitico à la  recherche du temps perdu.». In estrema sintesi l’illusione: la Nato  nella guerra russo-ucraina si è dimostrata inefficace, l’Italia non può  però lasciare andare questo quadro di riferimento e deve quindi  rafforzare i legami con gli Stati Uniti tramite un trattato bilaterale che  rimedi alle problematiche messe in luce dalla crisi della Nato. Come si  dice: auguri e figli maschi. Necessità quindi di un riorientamento  gestaltico della politica e delle geopolitica italiane in senso mazziniano  come, appunto, avrebbe voluto De Martini. À suivre 

Massimo Morigi, nell’anno 2024 e nel mese della nascita della  Repubblica Romana del 1849 

P.S. dell’intervistatore. Il professor Massimo Morigi mi aveva concesso l’intervista pochi giorni dopo il IX febbraio, ricorrenza  mazziniana della nascita della Repubblica Romana del 1849. Più che  una coincidenza. E, inoltre. L’intervista era stata pubblicata originariamente in data 11 marzo 2024, il giorno dopo l’anniversario  della morte di Giuseppe Mazzini (altra coincidenza…) sulla rivista on  line “Nazione Futura” (Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20240313160712/https://www.nazi 

onefuturarivista.it/2024/03/11/mazzini-e-garibaldi-nelle diatribe-geopolitiche-risorgimentali/ ) ma si è ora ritenuto  opportuno ripubblicarla sul blog di geopolitica “L’Italia e il Mondo” (forse l’iniziativa on line che Morigi sente talmente vicina e propria  che egli, per una sorta di pudore, non aveva nominato nell’intervista) perché egli mi ha comunicato che è intervenuto un fatto nuovo e  questo fatto nuovo consiste nel fatto che Morigi e “L’Italia e il  Mondo” hanno deciso di organizzare a Ravenna un convegno per  onorare la memoria del geopolitico mazziniano Antonio De Martini. Il  seguito all’insegna, ci auguriamo tutti, del motto mazziniano ‘Pensiero  e Azione’, che fu anche la stella polare dell’operato politico, scientifico  e morale di Antonio De Martini. Ora e sempre. 

Umberto Marsilio, Pasqua di Risurrezione 2024

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Democrazia, stile russo_di SCOTT RITTER

Vladimir Putin esprime il suo voto online alle elezioni presidenziali russe del 2024

La Russia ha appena concluso tre giorni di processi elettorali che definiranno la direzione interna di quella nazione per i prossimi sei anni e, così facendo, fungeranno da forza trainante della trasformazione globale per i decenni a venire. La Russia ha circa 112,3 milioni di elettori registrati. Dal 15 al 17 marzo, poco più del 77% di loro è uscito allo scoperto e ha votato per chi sarebbe stato il loro presidente per i prossimi sei anni. Una percentuale schiacciante – oltre l’88% – ha votato per il presidente in carica, Vladimir Putin.

Non c’erano dubbi: non c’erano dubbi su quale sarebbe stato l’esito di queste elezioni: Vladimir Putin avrebbe sempre vinto la rielezione.

Non vi sono dubbi: le elezioni presidenziali del 2024 in Russia sono l’evento politico più importante dell’era post-Guerra Fredda, il sottoprodotto di una delle più grandi espressioni di volontà democratica che il mondo vedrà nei tempi moderni.

Guarda la prima ora in diretta su Rumble , X , Facebook , Twitch o Locals . La seconda ora (a partire dalle 21:00 ET) sarà trasmessa in streaming solo su Rumble, X e Locals e conterrà la musica di Bob Dylan. I nostri ospiti speciali venerdì sera sono Malcolm Burn, conduttore di The Long Way Around , che ha registrato e mixato l’album Oh Mercy di Dylan , e Hank Rosenfeld , autore di The Jive 95 .

L’elezione è stata molto più di un voto di fiducia nei confronti di un individuo: Vladimir Putin è stata la forza politica dominante in Russia dall’inizio del secolo, un uomo che, con la sola forza di volontà, ha guidato la Russia fuori dall’oscura catastrofe del negli anni ’90, posizionando la Russia come una delle nazioni più potenti e influenti dell’era moderna.

Le elezioni non rappresentavano un mandato sulla guerra in Ucraina: la questione era stata decisa nell’autunno del 2022, quando la Russia fu costretta a mobilitare la propria manodopera e la propria capacità industriale militare in quella che era stata concepita come una breve campagna militare contro l’Ucraina trasformata in una una lotta militare più ampia e prolungata contro l’Occidente collettivo.

In poche parole, il conflitto in Ucraina non era in ballottaggio nel 2024.

In ballottaggio c’era il futuro della Russia.

Vladimir Putin ha 71 anni. La sua vittoria gli assicura un altro mandato di sei anni. Al termine di questo mandato, nel 2030, Putin avrà 77 anni.

Leonid Brezhnev, ex premier dell’Unione Sovietica

I russi sono studiosi di storia e conoscono fin troppo bene la triste eredità del periodo di stagnazione sovietica, iniziato a metà degli anni ’60 sotto la guida di Leonid Brezhnev. Breznev aveva 75 anni quando morì mentre era in carica, un uomo mentalmente e fisicamente debole. Fu sostituito da Yuri Andropov, che morì due anni dopo all’età di 69 anni, per poi essere sostituito da Konstantin Chernenko, che morì nel 1985 all’età di 73 anni.

Non c’è motivo di credere che Vladimir Putin non manterrà il suo attuale livello di salute fisica e acutezza mentale per il resto del suo nuovo mandato. Ma tutti gli uomini, alla fine, sono stati creati uguali, e le ingiurie del tempo gravano pesantemente su tutti, anche su qualcuno eccezionale come Vladimir Putin.

Nell’ultimo quarto di secolo, Vladimir Putin ha fatto affidamento su un gruppo ristretto di consulenti e funzionari per aiutarlo a guidare la Russia nel suo percorso di ripresa. Sebbene questa squadra abbia dimostrato di essere molto capace, anch’essa è soggetta alle stesse leggi della natura che governano l’esistenza umana come tutti gli altri: cenere alla cenere, polvere alla polvere.

Nessun uomo può vivere per sempre.

La Russia, tuttavia, è eterna nella mente delle persone che costituiscono la nazione russa.

Dopo aver salvato la Russia dalle privazioni degli anni ’90, quando l’Occidente collettivo, guidato dagli Stati Uniti, cospirò per tenere sotto controllo la Russia facendola a pezzi, Vladimir Putin è consapevole delle lezioni della storia che hanno visto cosa succede quando un’élite al potere resiste. al potere per troppo tempo senza pensare a chi prenderà il loro posto.

Mikhail Gorbaciov cercò di far uscire la Russia (l’Unione Sovietica) dal periodo di stagnazione sovietica. Lo fece in modo reattivo, senza un piano ben congegnato, e il risultato fu il crollo dell’Unione Sovietica e l’orribile decennio degli anni ’90.

Se Vladimir Putin dovesse affrontare i prossimi sei anni come una semplice continuazione del suo impressionante mandato in carica, guiderebbe la Russia lungo un percorso in cui si scontrerebbe con la dura amante che costituisce un precedente storico: un uomo anziano, a capo del un sistema di governo che invecchia, senza un piano chiaro su come procedere quando arriverà l’inevitabile appuntamento con il destino.

In breve, se dovesse verificarsi la situazione in cui Vladimir Putin si sentisse obbligato a cercare un ulteriore mandato di sei anni come presidente della Russia nel 2030, allora la Russia si troverebbe molto probabilmente in pericolo di sprofondare in un nuovo periodo di stagnazione in cui i guadagni che sono stati ottenuti fatto nel corso di tre decenni di governo di Putin sarà sprecato, e il potenziale di un collasso sociale paragonabile a quello degli anni ’90 sarà una realtà distinta.

Questo è il motivo per cui il dato statistico importante che emerge dalle elezioni presidenziali russe del 2024 non è l’88% degli elettori che hanno votato a sostegno di Vladimir Putin, ma piuttosto il 77% degli elettori aventi diritto che sono usciti per esprimere il loro sostegno all’elezione presidenziale russa del 2024. Stato russo. I livelli di partecipazione degli elettori sono sempre stati visti come un riflesso della fiducia che un particolare elettorato aveva che il sistema di governo che stavano sostenendo attraverso il loro voto riflettesse al meglio la visione che loro stessi avevano della nazione in cui vivevano.

A titolo di confronto, le elezioni presidenziali del 2020 negli Stati Uniti hanno registrato un tasso di partecipazione record del 66% da parte degli elettori aventi diritto.

Le elezioni presidenziali del 2024 in Russia hanno superato tale soglia di 11 punti percentuali.

Ciò significa che il popolo russo è fiducioso che il 71enne Vladimir Putin non lo condurrà lungo un percorso di inevitabilità storica in cui sarà destinato a ripetere gli errori del passato. Piuttosto, il popolo russo, fiducioso nella direzione in cui Vladimir Putin lo ha portato fino ad oggi, crede che egli sia l’uomo che posizionerà meglio la Russia per poter sostenere questi guadagni, e continuare a prosperare, in un’eventuale Russia post-Putin.

Le elezioni presidenziali russe del 2024 non sono state un voto per mantenere lo status quo.

È stato un voto per il cambiamento.

L’uomo che supervisionerà questo cambiamento è Vladimir Putin.

Manifestazione post-elettorale sulla Piazza Rossa dopo la vittoria di Vladimir Putin alle elezioni presidenziali del 2024

Nei prossimi mesi si prevede l’inizio di un cambio della guardia. I leader russi che hanno aiutato Putin a portare la Russia dove è oggi verranno messi da parte, per essere sostituiti da una generazione più giovane di leader russi che, sotto la guida e la leadership di Vladimir Putin, preparerà la Russia per qualunque sfida la attenderà una volta Vladimir Putin. Putin non è più presidente.

Come si manifesterà questo cambiamento – forse una transizione da un’élite politica incentrata su Mosca a una derivata dalle varie regioni della Russia – è ancora sconosciuto. Ma ci sarà un cambiamento, perché deve esserci un cambiamento.

E questo cambiamento era sulla scheda elettorale.

L’Occidente ha deriso le elezioni presidenziali russe del 2024 definendole una farsa.

Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità.

Le elezioni presidenziali russe del 2024 sono state la manifestazione di una democrazia fiorente, ma una democrazia definita dai russi.

L’Occidente si concentra sull’88% dei russi che hanno votato per Vladimir Putin e deride il risultato considerandolo poco più che una conclusione scontata in un sistema che offriva al popolo una sola vera scelta.

La democrazia russa, tuttavia, è definita dal livello di partecipazione elettorale del 77% e riflette la fiducia del popolo nella capacità dello Stato russo di sottrarlo alla forte posizione che Vladimir Putin ha portato loro e di sostenere questa forza in un periodo post-Putin. era.

Non si è trattato di un voto definito ricertificando il passato, ma piuttosto di un voto che ha dato potere al governo di intraprendere i cambiamenti cruciali necessari per il futuro della nazione russa.

Era la perfetta espressione della democrazia, in stile russo.

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Luigi Mazzella, Critica della follia pura, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Luigi Mazzella, Critica della follia pura (a cura di Ylva Mazzella), Genesi Editrice, pp. 421, € 18,00.

A cura della moglie Ylva sono raccolti nel volume tanti scritti di Luigi Mazzella che, quasi quotidianamente afferra l’occasione per esercitare una intensa e serrata critica agli idola contemporanei; usiamo il termine di Bacone perché quello moderno, cioè fake news è stato affibbiato dai padroni della parola alle esternazioni dei loro oppositori. Il filo conduttore dei quali è la critica a convinzioni e idee che sotto l’apparenza di una razionalità (ma anche di bontà, di compassione, di umanità, ecc. ecc.) compiono le più profonde rotture col pensiero razionale e ragionevole. Scrive l’autore «la “follia” di cui io intendo parlare è quella racchiusa nelle fandonie utopiche e nei sogni irrealizzabili in questo o in altri mondi, diffusa dai “fratelli” cristiani di Erasmo e, dall’Ottocento, dai “camerati” e dai “compagni” figli del post-platonico Hegel. Più che una follia è una caligine (mediorientale e teutonica) che annebbia la ragione e induce gli Occidentali a fare scelte sbagliate». E l’autore non pensa che attualmente le ideologie se la passino tanto male, ad onta del fatto che nel secolo scorso hanno esaurito, con due colossali sconfitte rapidamente il proprio “ciclo”. Questo perché i fideismi hanno soltanto cambiato le derivazioni (scriverebbe Pareto).

Al posto della società senza classi (Marx) e del Reich millenario (Hitler) hanno innalzato idoli (e idola) nuovi: dall’ambiente (e il clima) ai diritti umani, a quelli degli animali. E questi nuovi idola vengono usati essenzialmente per indicare il nemico da combattere, caricandolo di negatività ed anche di crimini, spesso di cui non è neppure responsabile. E dietro i quali si intravede una delle regolarità del politico: quella, tucididea della lotta per il potere e il dominio dell’uomo sull’uomo.

Oltretutto con ragionamenti spesso ingenuamente (ma occultamente) irrazionali, quelli che Freund  chiamava “razioidì”. Ad esempio il cambiamento climatico che tanto preoccupa (anche) l’UE, attribuito al consumo di combustibili fossili. Ma i dati dicono che il più inquinante dei quali, cioè il carbone, è utilizzato, per circa un terzo della produzione mondiale, dalla Cina, e per un altro 15% dall’India, mentre l’UE ne brucia neanche il 7%.

C’è da chiedersi perché Greta (e gretini al seguito) non vadano a manifestare da Xi o da Modi, invece che a Bruxelles. Forse se convincessero i leaders cinesi ed indiani il pianeta ne avrebbe un beneficio superiore.

La scarsa congruità allo scopo dichiarato della transizine climatica limitata all’Europa fa pensare che gli interessi sottostanti siano tutt’altri.

A questo punto tre considerazioni, per non gravare il lettore di una recensione che seppur meritata dal libro, sarebbe troppo lunga.

La prima: è vero che le religioni monoteistiche sono connotate da una intolleranza strutturale, perché se Dio è unico, vuol dire che gli dei degli altri non sono tali o meglio sono creature infernali, per cui il politeismo greco-romano, apprezzato da Mazzella, è per sua natura tollerante (vedi il Pantheon). Solo che anche per il politeisti – e per qualsiasi altra comunità umana, c’è un  nemico. Quello che nega la tolleranza del politeismo. Così ai tempi nostri, i nemici dei liberali, anche di quelli classici, erano coloro che negavano la libertà: cioè i vari totalitarismi. I regimi liberali, nazisti e comunisti erano largamente secolarizzati, onde la regolarità amico-nemico funziona in assenza di Dio. Perché in ogni sintesi politica c’è sempre qualcosa di assoluto: nel caso più “laico”, quello dell’esistenza della comunità.

La seconda è che le derivazioni (anche) dei totalitarismo erano costituite da mete superiori, mai raggiunte dall’umanità: che richiedevano uno sforzo prometeico. Le odierne paiono alla portata di qualsiasi frequentatore di internet e delle di esso limitate (e private) aspirazioni. Quelle erano ideali di società in  ascesa, queste di decadenti.

Non a caso (e siamo a tre) Mazzella ci ricorda le ciminiere europee che scompaiono e il capitalismo che qui è diventato essenzialmente finanziario.

Le conseguenze, ci ha ricordato qualche anno fa un generale, uno dei più influenti teorici militari cinesi è che il potere militare (e quindi politico) è quello di coloro che producano più beni reali, cioè, già da oggi, della Cina. E chi ha più potere, finisce sempre col comandare a chi ne ha di meno.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Gli Hawks spingono per un tour di reunion dell’asse del male, di DANIEL LARISON

Hawks pushing for 'axis of evil' reunion tour
ANALISI | POLITICA DI WASHINGTON

Il capo del Comando indo-pacifico, l’ammiraglio John Aquilino, ha recentemente messo in guardia i membri della Commissione per i servizi armati della Camera sulla crescente cooperazione tra Russia, Cina, Iran e Corea del Nord, affermando: “Siamo quasi tornati all’asse del male”.

Negli ultimi anni si è assistito a una sorta di reviviscenza di questa screditata idea dell’era Bush, ed è diventato sempre più comune per i membri del Congresso e ora per gli alti ufficiali militari descrivere le relazioni tra i vari Stati autoritari utilizzando una qualche versione della ridicola frase di George W. Bush.

Se è vero che c’è stata una maggiore cooperazione tra questi quattro governi, è pericoloso e fuorviante suggerire che essi formino qualcosa di simile a una stretta alleanza o coalizione. Se gli Stati Uniti dovessero “agire di conseguenza”, come raccomanda l’ammiraglio Aquilino, rischierebbero di avvicinare molto di più questi Stati e di creare proprio l’asse che i funzionari statunitensi temono.

Le parole di Aquilino sono rivelatrici. Quando ha detto che “siamo quasi tornati all’asse del male”, sembra suggerire che egli pensi che ce ne sia stato uno reale che funge da modello per il gruppo attuale. Il primo “asse del male” denunciato da George W. Bush nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del 2002 era composto da tre Stati – Iran, Iraq e Corea del Nord – uniti solo dall’ostilità di Washington nei loro confronti. L’Iran e l’Iraq erano nemici da tempo e lo erano ancora all’epoca, e la Corea del Nord fu aggiunta al mix per non essere completamente concentrata sui Paesi a maggioranza musulmana. Questi Stati non lavoravano insieme e due di essi si opponevano l’uno all’altro.

Non c’era un asse allora e non c’è ancora adesso.

Lo scopo di legare insieme avversari non correlati è sempre stato quello di esagerare le dimensioni della minaccia per gli Stati Uniti per spaventare i politici e l’opinione pubblica e indurli a sostenere più spese militari e più conflitti all’estero. Se gonfiare la minaccia di un singolo avversario non è sufficiente a instillare sufficiente paura, l’invenzione di un asse che includa alcuni o tutti gli avversari del mondo può essere molto utile ai falchi. Poiché richiama automaticamente alla mente la Seconda Guerra Mondiale e la lotta contro le Potenze dell’Asse, li aiuta anche a demonizzare gli altri Stati e a soffocare il dissenso interno. I sostenitori delle politiche dei falchi in ogni regione saranno quindi incentivati ad abbracciare la retorica dell’Asse e a rafforzare queste opinioni tra i loro alleati politici.

Negli ultimi mesi diversi funzionari eletti, attuali e passati, hanno fatto riferimento a un nuovo “asse del male”. Il leader della minoranza del Senato Mitch McConnell (R-Ky.) ha usato questa espressione lo scorso ottobre, dimostrando il suo potenziale di gonfiare le minacce: “È un’emergenza che dobbiamo affrontare questo asse del male – Cina, Russia, Iran – perché è una minaccia immediata per gli Stati Uniti. Per molti versi, il mondo è più in pericolo oggi di quanto non lo sia stato nella mia vita”.

L’ex governatore della Carolina del Sud, Nikki Haley, l’ha usato per rafforzare le sue credenziali da falco quando si è candidata alla presidenza. I senatori Tim Scott (R.C.) e Marsha Blackburn (R.T.) Anche Tim Scott (R-S.C.) e Marsha Blackburn (R-Tenn.) si sono lasciati andare alla paura.

I quattro Stati che i falchi vogliono raggruppare come parte di un asse oggi hanno alcuni rapporti tra loro, ma le loro relazioni di sicurezza sono piuttosto deboli. Nessuno di loro è formalmente alleato della Russia, e Russia e Cina non hanno alcun obbligo di venire in aiuto dell’Iran. Tutti e quattro i governi sono guidati da leader intensamente nazionalisti e nutrono rancori per umiliazioni e conflitti passati che rendono difficile stabilire legami più stretti.

La Russia si è rivolta all’Iran e alla Corea del Nord per ottenere forniture di armi per la guerra in Ucraina, ma questo è stato il limite dei loro legami di sicurezza più stretti. Dei quattro Paesi, solo la Cina e la Corea del Nord hanno un trattato formale di difesa, ma nonostante ciò, la Cina e la Corea del Nord hanno un rapporto difficile. In particolare, la Cina si è astenuta dall’offrire alla Russia aiuti letali nella sua guerra in Ucraina. La partnership “senza limiti” che i due Paesi hanno annunciato poco prima dell’invasione russa del febbraio 2022 si è distinta per il limitato sostegno cinese alla Russia. Non si tratta certo di un’alleanza globale in fieri.

Il pericolo di basare la politica estera degli Stati Uniti su cose immaginarie dovrebbe essere ovvio. Se i politici statunitensi credono che la Russia, la Cina, l’Iran e la Corea del Nord formino un asse quando non è così, questo distorcerà le politiche statunitensi verso tutti e quattro gli Stati in modo distruttivo. Invece di individuare i modi migliori per affrontare le controversie degli Stati Uniti con ciascun Paese, compreso l’uso dell’impegno diplomatico e l’alleggerimento delle sanzioni ove appropriato, ci sarà una forte tentazione di vedere ogni problema con ciascuno Stato come parte di una rivalità globale in cui non ci sarà spazio per il compromesso e la riduzione delle tensioni.

Quanto più i funzionari di Washington vedranno questi Stati come una coalizione ostile, tanto meno saranno propensi a negoziare con qualcuno di loro per paura di dare un segnale di “debolezza” agli altri.

Un’altra insidia della convinzione che questi Stati formino un asse è che ciò compromette la capacità di Washington di stabilire le priorità e di elaborare una strategia realistica per garantire gli interessi degli Stati Uniti. Una volta che i responsabili politici si convinceranno che tutti e quattro gli Stati sono collegati tra loro come parte di un asse, si rifiuteranno di distinguere tra interessi vitali e periferici e insisteranno sul fatto che gli Stati Uniti devono “contrastare” l’asse immaginario in ogni angolo del mondo. Ciò esacerberà le cattive abitudini di Washington di impegnarsi troppo e di investire troppo nelle regioni meno importanti.

Collegare Russia, Cina e Iran come parte di un asse è diventata una delle mosse retoriche preferite da alcuni falchi dell’Iran a Washington. Mike Doran dell’Hudson Institute, ad esempio, ha cercato di usarla per promuovere una politica più aggressiva contro l’Iran proprio di recente:

“L’Iran è l’anello debole dell’asse Russia-Iran-Cina. Gli Stati Uniti dovrebbero insistere su questa debolezza piuttosto che cercare di mantenere lo status quo. Mosca e Pechino ne prenderebbero certamente atto. Il modo più rapido per portare Putin al tavolo dei negoziati è indebolire il suo alleato, l’Iran. Perché le nostre élite di politica estera non sono in grado di riconoscere un’opzione strategica così ovvia?”.

Questo piano presenta alcuni difetti: l’asse in questione non esiste; la Russia e la Cina non avrebbero problemi se gli Stati Uniti volessero sprecare le loro risorse in un altro costoso conflitto mediorientale; la Russia e l’Iran non sono realmente alleati e indebolire l’Iran non sarebbe importante per il governo russo. Se gli Stati Uniti pensano erroneamente di poter infliggere danni a uno Stato autoritario minando gli altri, sprecheranno risorse e opportunità di impegno in cambio di nulla.

Nella misura in cui questi quattro Stati lavorano a più stretto contatto rispetto al passato, le politiche aggressive degli Stati Uniti hanno incoraggiato questa collaborazione. La ricerca del dominio degli Stati Uniti in ogni regione crea incentivi per le potenze regionali ad aiutarsi a vicenda, e il frequente uso di sanzioni da parte di Washington per punire tutti questi Stati dà loro un motivo in più per aiutarsi a vicenda a eludere le sanzioni.

L’approccio corretto degli Stati Uniti per aumentare la cooperazione tra questi Stati è quello di sfruttare le divisioni esistenti e di raggiungere un modus vivendi con il maggior numero possibile di Stati per spingere i cunei tra di loro.

Freund e Todd tra decadenza e disfatta di civiltà Con Roberto Buffagni Teodoro Klitsche de la Grange

Il tema della decadenza di una civiltà non è nuovo tra politologi e filosofi. Julien Freund ne è un acuto osservatore. La tesi assume contorni più nitidi e chiari a partire da metà ‘800. Al giorno d’oggi appare drammaticamente attuale anche se paradossalmente la percezione risulta più acuta tra le classi popolari e nel ménage quotidiano piuttosto che tra le élites e le classi dirigenti europee e statunitensi, non ostante tale processo stia assumendo le caratteristiche e le dimensioni di una vera e propria catastrofe. Emmanuel Todd lo ha sottolineato con certosina accuratezza. Due autori e due loro testi caduti sotto la lente di osservazione di Roberto Buffagni e Teodoro Klitsche de la Grange. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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COMUNISTI E STATO, di Pierluigi Fagan

COMUNISTI E STATO. (Qualcuno si domanderà dell’attualità e senso di questo post rispetto ai discorsi che qui sviluppiamo da tempo. Va letto, purtroppo, per scoprirlo). Il rapporto teorico e pratico tra comunisti e Stato è assai problematico.
La concezione dello Stato nello sviluppo del lavoro teorico di Marx ed Engels è di lenta e mai ultimata precisazione. Ma la linea principale vedeva l’idea di impossessarsi dello Stato con la forza per poi far deperire lo Stato per lenta autodemolizione nella fase della “dittatura del proletariato”, in favore di un modello finale che Marx idealizza nella Comune di Parigi (1871).
Ma la Comune durò scarsi due mesi, era una città non uno Stato come dimensioni e complessità di funzioni. Lenin rimarrà strettamente ortodosso nel perseguimento della strategia marxiana, ma la prematura morte portò poi a Stalin dove si realizza l’esatto contrario, la creazione di uno Stato totalitario, burocratico e poliziesco.
E tuttavia, va osservato, Marx idealizzava su una comunità di 1,8 milioni di parigini neanche alle prese con responsabilità di governo di un ente nazionale esteso, invisi certo ai poteri di mezza Europa, che per due mesi fecero baldoria producendo mito e speranza, ma Stalin guidava una nazione assediata non solo dagli europei (tra cui poi i nazifascisti) ma dagli anglosassoni con americani sempre più rilevanti, ma anche famelici giapponesi, per più di trenta anni, con una estensione territoriale immensa e con tra 150 e 200 milioni di abitanti.
Ora, in pura linea teorica, il pensiero marxiano dialettico, prevede un circolo ricorsivo tra teoria e prassi per il quale l’azione è premessa in teoria ma questa è poi modificata dall’azione o meglio dalla presa in atto dei suoi effetti. Su questo argomento dello Stato però, la parte teorica è della seconda metà dell’Ottocento, basata su standard europei e nelle sole menti di Marx ed Engels con giusto lo spunto concreto, limitato, della Comune. Marx dice chiaramente che l’intento ultimo è il superamento dello Stato, non meno di quanto non lo teorizzavano anche gli anarchici, solo, sul piano della prassi politica, era necessaria una fase di transizione in cui bisognava impossessarsi dello Stato per poi farlo deperire lentamente dal di dentro, preparando e guidando il suo “superamento”. Allora, si sarebbe poi potuto passare alla radiosa seconda fase di una società senza classi con una attesa e data per certa, esplosione di libero sviluppo delle forze produttive. Promessa o attesa basata su cosa non si sa, per quanto addirittura vantata come “scientifica”, in pieno delirio positivista.
La parte pratica fu solo per poco nelle mani guida di Lenin fedele all’impianto marxiano e presto passata nelle mani di Stalin che però doveva gestire una situazione concreta innegabilmente incongruente rispetto alla teoria e sue aspettative astratte. Per esser chiari, s’immagini di prendere a modello i due mesi della comune di Parigi e si pensi a come farlo diventare il modello della nazione sovietica sotto attacchi molteplici, nella complessità socio-storica di un secolo dopo, con 150 milioni di abitanti con altrettante etnie su un territorio non sempre facile ed immenso, in marcia verso il comunismo.
Si sarebbe allora dovuto realizzare la chiusura del circolo dialettico e riformulare in qualche modo la teoria sulla base delle prassi e del realismo, ma ciò non fu mai fatto. Lo Stato staliniano divenne un fatto duro e ben chiaro nella forma che nulla aveva a che fare con le premesse teoriche di un secolo prima, anzi ne era la specchiata inversione. Per esser di nuovo chiari: che cosa altro avrebbe potuto o dovuto fare Stalin anche ammesso non fosse lo Stalin che poi conosciamo?
Il ruolo di Lenin in questo processo fu quello di aver preparato la forma che doveva gestire la transizione della prima fase del processo di sviluppo verso il comunismo, centralizzando, dando al partito sempre più e sempre meno ai soviet, ma in vista del deperimento dello Stato conformemente la teoria di M/E. Quando morì, Stalin ereditò una forma che però usò in modo del tutto opposto, assumendola come forma migliore senza traguardi di superamento dello Stato, come unica forma possibile. Quanto ciò corrispondesse a sua preferenza ideologica o quanto fosse invece semplicemente realistico data la situazione socio-storica, è questione che qui non ci interessa. Sta di fatto che la storia teorico-pratica del rapporto tra pensiero e prassi politica comunista e Stato, è spezzettata teoricamente e invertita nei fatti, dimostrandosi una non teoria.
Si realizza così il paradosso su cui già Marx aveva avvertito: ogni rivoluzione finisce poi con il perfezionare la macchina dello Stato che pure doveva spezzare negli intenti.
Se allora la teoria comunista non ha invero una vera teoria dello Stato ed anzi a presupposto ne ha vagheggiato l’estinzione programmata senza prender atto che cinquemila anni di storia di civiltà umana mostra la totale dominanza strutturale, universale per tempo e spazio, di una qualche forma di Stato (responsabilità teorica di Marx), allora la teoria comunista non ha senso politico usabile.
In più, non considerare la differenza strutturale tra modelli micro (Parigi) e macro (URSS) e voler comprimere per pura volontà il tempo storico necessario ad ogni transizione, tempo tanto più lungo, contraddittorio e complesso, quanto più è complessa la struttura stessa di ciò che va in transizione, comprimendo anzi a forza tale complessità nei meccanicismi ciechi della confusa ed inebriante furia rivoluzionaria, aggrava la non usabilità di questa ipotesi teorica senza fondamenti realistici. La teoria è ingombra, spesso, di tardivi slanci indealistico-romantici che dovrebbero andare a verifica ora che son passati un secolo e mezzo di anni.
Infine, con la mancanza di lettura di come strutturalmente ogni fatto politico socio-storico di un determinato popolo o Paese, debba fare i conti con le pressioni di diverso contesto geo-storico, la cultura comunista si è condannata ad una cecità del reale fatale.
Da ultimo, c’è un grave problema nell’ambiente teorico marxista per il quale l’impostazione marxiana (IIa ed XI Tesi su Feuerbach) dell’anello ricorsivo teoria1-prassi-teoria2, secondo poi Gramsci l’essenza che sorreggeva questa visione politica del mondo e della trasformazione sociale, non è mai stata applicata. Quando nel 1991 crolla l’URSS, l’ambiente teorico marxista, ebbe l’occasione di riservarsi uno spazio libero per operare questa revisione proprio sulla base di ciò che era stata l’URSS, fuori ormai dal conflitto Novecentesco avendo nei fatti perso tutto. Ma non lo fece. Così rimane lì morta questa linea teorica che pure qualcuno ritiene ancora semi-viva o rivitalizzabile o solo da rimpiangere in un esteso e malinconico “sarebbe stato bello se…”.
Peccato, l’idea di Marx del circolo teoria-prassi è ottima e senza alternative, peccato sia stata solo enunciata e mai praticata. Se praticata, anche tardivamente dopo il 1991, oggi avremmo un qualche straccio di alternativa teorica alle forme politiche in cui viviamo. Forse i comunisti si sarebbero dati una calmata osservando un po’ più la complessità di tali auspicate trasformazioni comportano, forse avrebbero capito come utilizzare la democrazia (non quella che noi chiamiamo democrazia ovvio). Forse oggi invece che continuare a scrivere inutili libri sulle forme economiche, questo pur rilevante serbatoio di spesso acuti pensatori, si sarebbe dedicato allo sviluppo di nuova teoria politica.
Imparare dagli errori, anche tardivamente, sarebbe comunque onorare finalmente l’intuizione pragmatica di Marx, ma pare che ancora a pochi sia venuta in mente l’idea di intraprendere questa revisione lasciata lì abbandonata e senza seguito. Peccato che tanti di quell’ambiente teorico, preferiscano rimanere nella Scolastica della difesa dei dogmi del Libro (o più che “un” libro” una collezione di citazioni estrapolate qui e là), festeggino attualità e vivezza del pensiero del grande Maestro (che vedono spesso solo loro e qualche volta il the Economist uso farci ogni tanto delle belle copertine pop), trovino magie da Marx ecologista, ambientalista, femminista e quant’altro di anacronistico di possa inventare e continuino, ostinati oltre ogni ragione, a fondare e rifondare inutili partitini surreali come le mosche della bottiglia di Wittgenstein.
Se l’azione ovvero la realtà verificata, non torna al pensiero modificandolo, non si va da nessuna parte. Vale per gli individui, le società, i gruppi, gli intenti politici di ogni ordine e tempo.
INVOCARE UN JIHAD CULTURALE.
Sebbene di jihad (maschile), Scarcia Amoretti ne rilevi presenza solo in cinque casi del Corano (meccano), se ben ricordo, solo in due aveva significato di “guerra santa”, probabilmente retaggio del periodo medinese o successivo (non è una contraddizione, nella composizione del Corano ci sono famosi problemi di interpolazione temporale nei blocchi meccano-medinese). Per tre volte, jihad, è semplicemente “sforzo nella fede”.
Sempre se ben ricordo, Cardini, raccontava di un viaggio al Cairo in cui gli fecero visitare una scuola media dove c’era la settimana del jihad contro le mosche. Uno sforzo collettivo per gestire il problema sanitario della presenza delle mosche. Data la struttura atipica del sistema imam rispetto i nostri concetti di clero o chiesa, il jihad qualcuno può anche proclamarlo ma con dubbi effetti visto che non c’è centralizzazione di sistema. Più che altro si “invoca”, si lancia un avviso, si aspetta venga raccolto.
Ora, io credo che molti di noi non ce la facciano più. Non ce la facciamo più di esser anche aggressivamente e captivamente accerchiati dall’ignoranza e dalla sua fiera e prepotente esibizione. C’è un preciso dispositivo in sviluppo per coltivare intensamente la stupidità artificiale al fine di rendere la mente una trasmissione del comando comportamentista. Questo e il dominio della società dell’informazione e non della conoscenza.
Troppe cose non vanno nel mondo che ci circonda, molte sono belle grosse e complicate, lo tsunami emotivo sull’ingiustizia dilagante ed incrementale cui siamo giornalmente sottoposti è intollerabile. E più aumentano e crescono di numero tali ingiustizie, più il discorso pubblico diventa dadaista, nessuno sembra interessato più a capire, solo a giudicare, like, dislike, binarismo comportamentista, gabbie di Skinner, appunto.
Io credo che, non so come, i dispersi che soffrono in questo bagno di sfarinamento culturale delle nostre società, dovrebbero cominciare a gravitare maggiormente su alcuni punti, stante poi le varie, profonde, ampie differenze ed a volte divergenze su ciò che consegue il porre assunti iniziali, più semplici e quindi “ecumenici”. Uno di questi punti in comune, dovrebbe essere un jihad culturale, un far sapere che molti noi credono che l’informazione sia nulla senza la conoscenza. Abbiamo un urgente e disperato bisogno di capire di più e meglio, raccoglierne i dati è solo premessa.
Molti di noi non gliela fanno più a vedere rappresentato nel discorso pubblico un mondo fatuo di narcisisti patologici, di maschere da Vaudeville, di discorsi che non meritano la definizione, di ignoranti saccenti e supponenti, di polemici nevrotici, di bugie clamorose urlate come verità ultime, di quel fenomeno della torma di ignavi con cui se la prendeva anche Andrea Zhok in un post di ieri, code ingrossanti di irresponsabili che parlano di guerra con la bava alla bocca e non solo. E ‘mo basta! Diamine, tocca dargli un limite!
Dal Covid da Gaza, via Ucraina ed Ambiente e Clima, più altre migliaia di argomenti e fenomeni inquietanti, assistiamo stupefatti alla riduzione di complessità da esplorare con cautela epistemica a schemi interpretativi pre-razionali. Schemi conditi di emozione insopprimibile che portano molti incontinenti emotivi a vomitare a cascate i loro giudizi isterici, forse terapia di sfogo individuale, ma che inquina il paesaggio mentale comune. Sguazziamo nel vomito emotivo direzionato a precise tabelle di disgusto, gabbie di Skinner, di nuovo.
Non so dire cosa più precisa. Inviterei chi vuole, a riflettere su come usare ad esempio qui le nostre uscite “social” (cominciando a contestare i termini, questo non è un “social” è un semplice aggregatore di individualità debolmente e limitatamente interrelate secondo giudizio di algoritmi opachi), per denunciare questo nostro crescente di disagio, trasformandolo in indignazione.
Vogliamo capire di più, discutere proficuamente di più, esplorare di più, le società umane sono culture, le culture vanno coltivate. C’è molto da capire del mondo in cui siamo capitati, i nostri schemi conoscitivi soffrono come i medioevali soffrirono l’avvento del moderno, anche peggio come entità del “salto” di conoscenza che sembra esserci richiesto. Se a questi richiami del reale e del concreto continuiamo a rispondere con gli standard attuali del discorso pubblico, soffriremo sempre di più, pene materiali, non intellettuali. Soffriremo ovviamente secondo la scala sociale, le pene di prima classe si scaricheranno in seconda e così a cascata fino alle sempre più ampie stive dei passaggi ponte.
Tocca cominciare a porre dei limiti. Non servono “appelli in difesa”, servono “appelli in attacco”.
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L’Occidente si defila disperatamente mentre il gioco dell’ISIS in Ucraina gli si ritorce contro, di SIMPLICIUS THE THINKER

L’Occidente si defila disperatamente mentre il gioco dell’ISIS in Ucraina gli si ritorce contro

Da quando si sono verificati gli attacchi al Krokus, l’Occidente ha cercato in tutti i modi di attribuire la colpa all’ISIS, assolvendo l’Ucraina da ogni responsabilità. La disperazione con cui si è arrivati a questo punto rivela il gioco e ci dice tutto ciò che dobbiamo sapere sulla natura degli attacchi.

Ascoltate Grant Shapps alla fine del video qui sopra, la cui maschera scivola quando rivela apertamente: “Dobbiamo resistere allo sforzo di Putin di collegare l’ISIS all’Ucraina”.

Ma prima di continuare, ricordiamo come quasi tutti i precedenti attacchi terroristici negati dall’Ucraina abbiano finito per essere tranquillamente ammessi in seguito.

Lo stesso vale per Nord Stream e molti altri. Allora perché questo accanimento da parte dei commentatori occidentali sul fatto che l’Ucraina non ricorrerebbe mai all’uccisione di civili?

Dopo tutto, proprio ieri il capo dell’SBU ucraino Vasyl Malyuk si è lanciato in una lunga serie di confessioni, ammettendo “ufficiosamente” la responsabilità dell’Ucraina nell’uccisione di Ilia Kiva, Vladlen Tatarsky e altri.

E chi può dimenticare l’uso da parte dell’Ucraina di un inconsapevole “kamikaze” civile nell’attacco terroristico al ponte di Kerch? Tra l’altro, lo stesso Malyuk di cui sopra ha anche appena ammesso che il ponte di Kerch non è più utilizzato per scopi militari:

L’Ucraina potrebbe “potenzialmente” distruggere il ponte di Crimea costruito illegalmente dalla Russia a Kerch, anche se attualmente non viene utilizzato per portare armi e munizioni nella Crimea occupata, ha dichiarato il capo del servizio di sicurezza ucraino SBU, il tenente generale Vasyl Malyuk, in un’intervista rilasciata all’emittente ucraina ICTV il 25 marzo.

Questo fatto da solo svela molto dell’Ucraina e della sua strategia perversa di vincere in qualche modo la guerra mettendo “alle strette” la Russia con la distruzione del ponte. Ora ammettono che il ponte non ha alcun ruolo militare per le forze russe, quindi perché distruggerlo dovrebbe avere un qualsiasi effetto sulla capacità della Russia di tenere la Crimea? È chiaro che il ponte come obiettivo sacro è lì solo per i tipici scopi di pubbliche relazioni, non per una vera vittoria.

Ma torniamo indietro.

Gli Stati Uniti e i loro amici davvero, davvero, davvero vogliono che sappiate che non è stata l’Ucraina a compiere gli attacchi a Mosca, ma “l’ISIS”. Chiunque abbia una comprensione anche solo funzionalmente adulta di come funziona il mondo capirà innanzitutto che dietro l’attacco c’è l’Ucraina. Certo, è possibile che sia stato uno dei suoi sponsor, la CIA o l’MI6, ma il fatto che la CIA abbia dichiarato di aver avvertito la Russia di un’imminente azione terroristica sembra mi che implichi che l’Ucraina sia diventata una canaglia, e che persino gli Stati Uniti non siano stati d’accordo con le loro mosse gravemente eccessive.

È stato appena reso noto che gli Stati Uniti hanno “avvertito” l’Ucraina di smettere di provocare la Russia colpendo le sue strutture energetiche, ricordate? Gli Stati Uniti hanno chiaramente divergenza con il loro piccolo pitbull su come procedere ulteriormente, dal momento che l’amministrazione di Biden sta diventando avversa ai crescenti rischi di provocare l’Orso nucleare.

Pertanto, diventa abbastanza plausibile che la CIA abbia tentato di avvertire la Russia come un modo potenzialmente indiretto per allontanare l’Ucraina dal piano all’ultima ora. Ma il disperato e sanguinario Zelensky non si fermerà davanti a nulla per placare i suoi padroni più occulti, che operano attraverso le pieghe invisibili del più grande apparato “statunitense”.

Ecco una teoria approfondita su come probabilmente è accaduto davvero:

Secondo i “dati soggettivi” a mia disposizione, i terroristi tra i cittadini del Tagikistan sono stati sottoposti a lezioni religiose condotte su Internet (guarda il video), che erano le istruzioni ideologiche dello “Stato Islamico di Valayat Khorosan (IGVC)”.

Inoltre, a quanto mi risulta, almeno uno di loro era in una chat room chiamata “Rahnamo ba Khuroson” (Rohnamo ba Khuroson).

Un cittadino del Tagikistan, Salmon Khurosoni, curava (e cura) gruppi di elaborazione religiosa. È stato Salmon Khurosoni a effettuare il primo reclutamento di terroristi islamici.

In alcuni ambienti si dice anche che Khurosoni sia un collegamento intermedio tra lo Stato Islamico del Khorosan Wilayat (IGVC) e la Central Intelligence Agency (CIA) degli Stati Uniti.

Nonostante i terroristi dello Stato Islamico non promettano ricompense finanziarie per i loro attacchi terroristici, ma promettano il Paradiso eterno… tuttavia, con l’assistenza di Salmon Khorosani, è stato approvato un importo di 500.000 rubli, che avrebbe dovuto coprire i costi dell’attacco.

In seguito, i compiti e le istruzioni in Turchia erano già stati fissati da un emissario-mediatore, che, presumibilmente, è un membro del personale di un servizio speciale straniero (residente). E questi, a sua volta, ha inviato il bayat (il giuramento dell’ISIS) allo stesso Salmon Khurosoni.

Inoltre, l’Ucraina non era l’ultimo anello del loro piano di ritiro. Un altro emissario non identificato dell’intelligence straniera, che si trova in Ucraina, avrebbe dovuto inviarli direttamente in Turchia e poi in Afghanistan.

È in Afghanistan che si trova il presunto leader ideologico (cioè ideologico, non parlo del cliente) dell’attacco terroristico a Mosca, Salmon Khurosoni. 

Di fatto, assistiamo all’apoteosi dello sviluppo del terrorismo ibrido, ovvero del franchising di marca: una parte che vuole colpire l’altra, ricorre all’aiuto di una terza. Compreso il caso in cui l’esecutore viene reclutato sotto la terza bandiera, cioè pensa di adempiere a una volontà, mentre in realtà dietro c’è un’altra.

Rileggete la parte finale in grassetto.

È così che funziona la moderna guerra ibrida. Ogni attacco è diverso: ce ne sono alcuni in cui l’Ucraina vuole far conoscere pubblicamente la sua impronta o la sua responsabilità come messaggio diretto alla Russia, oltre che come sforzo per risollevare il morale del proprio pubblico. Ma c’è un’altra classe di attacchi il cui scopo è quello di destabilizzare la Russia dall’interno senza riconoscere l’impronta dell’Ucraina nell’azione.

In realtà, sapere che è stata l’Ucraina in questo caso significherebbe vanificare l’intero scopo: l’intero scopo di questo attacco era quello di architettare la narrativa secondo cui il “regime di Putin” sta generando un tale malcontento a livello globale che sta iniziando a ritorcersi contro il suo stesso popolo, con l’obiettivo di mobilitare la discordia all’interno della società contro il Cremlino. Se la gente sapesse che c’è lo zampino dell’Ucraina, l’effetto sarebbe totalmente invertito, facendo dell’Ucraina il parafulmine del devastante attacco terroristico e galvanizzando ancora di più i russi contro il loro nemico.

In questo caso, era assolutamente necessario che l’Ucraina si avvalesse dei servizi di una terza parte, e così ha ingaggiato alcuni criminali attraverso un intermediario con un comodo collegamento con l’ISIS. Ma la tempistica è troppo ridicola per crederci: è simile ai “colpi migliori” della CIA, come l’inverosimile attacco con il gas che Assad ha effettuato proprio quando aveva spezzato la schiena al nemico e stava vincendo la guerra. È assolutamente incredibile che, proprio mentre la Russia ha inflitto all’Ucraina alcuni colpi senza precedenti, tra cui un attacco aereo massicciamente paralizzante, e proprio mentre gli organi di stampa stavano strombazzando titoli devastanti sull’imminente collasso dell’Ucraina, l’ISIS abbia deciso di compiere un attacco del tutto inusuale a Mosca? Bisogna essere infantilmente creduloni per credere a queste improbabili coincidenze.

Ci sono alcuni semplici fatti:

1. Primo, e più importante, questi mercenari non hanno dichiarato in alcun modo gli obiettivi dell’ISIS e la sua ideologia durante l’azione. Non hanno fatto alcuna richiesta. Non hanno fatto dichiarazioni.

2. Hanno seguito una tempistica ben pianificata che ha permesso loro di lasciare la scena del crimine prima dell’arrivo delle Forze speciali. Poi hanno cercato di fuggire in Ucraina. Qualsiasi abnegazione ideologica era fuori questione.

3. Hanno ricevuto denaro per l’attacco. Metà della somma è stata data loro prima dell’attacco terroristico, l’altra metà sarà ricevuta dopo l’evacuazione.

4. Non si sono suicidati durante la detenzione. Non hanno nemmeno tentato di farlo. Sono scappati come topi. Non hanno nemmeno provato a combattere. Sono stati tutti catturati vivi.

E un altro parere di esperti.

Senza contare che gli aggressori sono stati ovviamente catturati mentre si dirigevano verso l’Ucraina, un fatto ormai accertato con una precisa geolocalizzazione dai video sul campo :

Noterete che a Bryansk c’è una biforcazione che permette di prendere diverse strade: loro hanno scelto specificamente la via meridionale verso la regione ucraina di Sumy.

E una precisazione importante: proprio in questi giorni sta circolando la propaganda ucraina secondo cui oggi Lukashenko avrebbe “smentito la narrazione del Cremlino” sottolineando che i terroristi hanno prima tentato di entrare in Bielorussia, ma le forze bielorusse li hanno bloccati, costringendoli a scegliere l’Ucraina come seconda opzione.

È una menzogna totale.

Ho studiato ora l’esatta dichiarazione di Lukashenko, che in effetti sta rispondendo a un giornalista che ha chiesto: “È possibile che siano entrati in Bielorussia?”.

In sostanza, ha detto: “No, perché abbiamo messo delle forze e in ogni caso sarebbero stati costretti ad andare altrove”. In breve, sta rispondendo a un’ipotesi: anche se avessero voluto entrare in Bielorussia, non sarebbero stati in grado di farlo, ma non ha affatto affermato che sarebbero venuti definitivamente in Bielorussia. Si tratta di una deliberata errata caratterizzazione da parte dei propagandisti ucraini.

In effetti, in tempo di guerra si può immaginare che il confine sia impossibile da attraversare senza sistemazioni molto speciali, che i terroristi hanno chiaramente avuto dai loro amici ucraini. Senza contare che l'”ISIS” non è in grado di fornire una scorta di armi in Russia da utilizzare da parte delle vittime: solo i capi dell’SBU ucraino avrebbero potuto fornire tali armi dall’Ucraina all’interno della Russia.

La maggior parte di quanto sopra è in linea con ciò che il capo dell’FSB russo Bortnikov ritiene sia accaduto, come risulta dalle sue dichiarazioni odierne:

Cosa dice:

  • .Ritiene che dietro gli attacchi ci siano l’Ucraina, gli Stati Uniti e il Regno Unito

  • Ha alcune prove preliminari che suggeriscono questo legame, mentre le indagini sono in corso.

  • Secondo le sue conclusioni preliminari, i terroristi erano in realtà “attesi” al confine ucraino dai loro responsabili.

  • Insinua che Budanov sarà eliminato per le sue azioni.

E naturalmente anche Patrushev aggiunge i suoi due centesimi:

“Certo che era l’Ucraina”.

Putin ha anche rilasciato alcune nuove dichiarazioni sull’indagine in corso, corroborando il legame con l’Ucraina:

Alcuni analisti hanno persino ipotizzato che la scelta di Putin di usare un linguaggio ambiguo sia un segnale nascosto all’Occidente: sa esattamente chi è stato e può rivelarlo in qualsiasi momento, masta dando all’Occidente la possibilità di fare concessioni favorevoli e gesti di riconciliazione, in una certa misura .

Prestate attenzione:

La performance di Putin di ieri dimostra che c’è un’asta dietro le quinte.Attenzione al linguaggio ambiguo:

 Sappiamo che l’attentato è stato commesso per mano di islamisti radicali, ci interessa il committente;

 Dobbiamo ottenere risposte a una serie di domande, gli islamisti radicali hanno davvero deciso di colpire la Russia;

 È assolutamente chiaro che il terribile crimine di “Crocus” – è un’azione di intimidazione, ci si chiede a chi giovi.

A ciò si aggiunge la dichiarazione odierna di Peskov, secondo cui la Russia è aperta al dialogo con gli Stati Uniti, ma tutti i problemi devono essere discussi in modo esaustivo, ha dichiarato il Cremlino.

Peskov sta chiaramente accennando a un ritorno al dialogo strategico.

Cioè, c’è ancora una possibilità che il problema dei jihadisti possa diventare un denominatore comune per l’avvio dei negoziati.Questo apre la possibilità di tornare a discutere le proposte di Erdogan per la stabilità strategica.

Se questo non dovesse accadere con un alto grado di probabilità, ai colpi ai ponti sul Dnieper (anche a Kiev) e ai nuovi tentativi di blackout come ora si aggiungeranno i colpi all’energia e allo stoccaggio del gas a Kharkov.

In breve: “Siamo disposti a far finta che si tratti dell’ISIS se vi sedete al tavolo e fate ammenda lavorando per obiettivi comuni. Ma se volete giocare duro, “troveremo” la colpa per l’Ucraina e poi alzeremo pesantemente la temperatura su di loro, attraverso massicci attacchi alle infrastrutture ed escalation militari”.

Un’altra possibilità:

#ascolti
A giudicare dall’analisi degli eventi delle ultime tre settimane, qualcuno provoca specificamente un aumento della temperatura nella crisi ucraina.

Da questo segue:
1. Gli eventi avranno un picco per due settimane e torneranno di nuovo normali. 2. La crisi ucraina è in attesa della massima intensità, le tragedie saranno massicce e costanti. Glieventi raggiungeranno il picco per due settimane e torneranno di nuovo alla normalità.
2. La crisi ucraina è in attesa della massima intensità, le tragedie saranno enormi e costanti.

Attenzione. L’epilogo è molto vicino

La fonte spiega che la crisi ucraina è arrivata a un punto morto, dove i dirigenti hanno bisogno di un nuovo aumento per due cose.
1. Far fuori i soldi per finanziare ulteriormente la crisi.
2. Azzerare la crisi ucraina fino all’inizio del caso di Taiwan.

Stiamo osservando

Alcuni ritengono addirittura che Putin potrebbe lanciare un ultimatum all’Ucraina: lasciate tutti i territori del Donbass o si scatenerà l’inferno su tutti gli obiettivi precedentemente off-limits, a seconda di quale sarà la “risposta” dell’Occidente al dialogo dopo la Krokus:

Una fonte dell’entourage del Presidente russo ha riferito che Vladimir Putin sta prendendo in considerazione un duro ultimatum all’Ucraina. Il popolo chiede la vittoria e il Presidente è pronto a prendere decisioni difficili. 

Per completare il Distretto militare settentrionale e salvare il maggior numero possibile di vite dei nostri soldati, e anche per evitare una nuova mobilitazione, Vladimir Putin sta valutando l’opzione di un duro ultimatum all’Ucraina. Putin chiederà il ritiro delle truppe ucraine dal territorio russo (nuove regioni) e la resa volontaria di Kharkov, Nikolaev e Odessa. In caso di rifiuto, Mosca dichiarerà una vera e propria guerra a Kiev entro 24 ore. Dopo di che, entro 72 ore, Kiev, Leopoli, Dnieper, Poltava, Ternopil e Vinnitsa saranno distrutte. Il resto dell’Ucraina sarà soggetto a massicci attacchi con missili e bombe. I bombardieri Tu-22M3 con bombe FAB-5000 distruggeranno tutti i ponti sul Dnieper, gli aeroporti civili e tutte le infrastrutture ferroviarie. Il centro di Kiev, tutti gli edifici amministrativi e i bunker saranno distrutti dai “kinzhal”. Tutte le sottostazioni elettriche saranno distrutte da un singolo attacco con missili e bombe dei bombardieri Tu-95ms.

Le forze speciali delle Forze armate russe a Kiev arresteranno l’intera leadership dell’Ucraina e, se impossibile, la liquideranno sul posto. 

E questo è solo l’inizio! Tra 48 ore inizierà il culmine.

Prendete quanto sopra con un carico di sale di classe Ropucha, ma queste cose sono almeno lontanamente possibili data la portata della catastrofe che si è verificata, che credo sia ora al terzo posto tra le tragedie post-sovietiche – in termini di numero di vittime – dopo l’attacco di Beslan e gli attentati agli appartamenti di Mosca del ’99, superando persino l’attacco al teatro di Mosca del 2002 .

Quindi, anche se gli ucraini hanno nascosto bene le loro tracce per ora, è chiaro a chiunque abbia un cervello non offuscato dalla fede dogmatica che l’Ucraina è l’unica a trarne vantaggio. Naturalmente, è interessante anche il fatto che l’attacco sia avvenuto a poche ore dall’inizio del Purim, una festività che celebra la distruzione della loro nemesi da parte del popolo ebraico. Dico questo alla luce delle famigerate “minacce” fatte da uno dei leader del partito Likud, Amir Weitmann, secondo cui la Russia pagherà un prezzo pesante per il suo sostegno alla Palestina.

Probabilmente si tratta solo di una coincidenza simbolica.

Detto questo, molti in Ucraina e in Occidente hanno festeggiato gli attacchi, come questa stazione francese qui sotto:

Sul canale d’informazione francese LCI, la nota giornalista francese Anne Nivat parla con ammirazione dell’attacco terroristico a Mosca: “Se dietro ci sono gli ucraini, è un capolavoro assoluto, un lavoro fenomenale”.

O questo mercenario australiano:

Per concludere, è inutile dire che i legami dell’Ucraina con l’ISIS erano innumerevoli e ben noti:

Naturalmente, l’Occidente ha minacciato i russi comuni fin dall’inizio della guerra:

Cosa prevede tutto questo per la guerra?

È chiaro che il conflitto sta entrando in una nuova fase – anche se non sarò così drammatico come alcuni nell’esagerare che questo porterà a cambiamenti epocali immediati. L’Ucraina è semplicemente costretta a ricorrere a manovre sempre più disperate e pericolose per smantellare l’unità della Russia, e l’élite russa si sta sempre più consolidando sotto una forma di solidarietà ideologica quando si tratta degli obiettivi finali della guerra. Coloro che in precedenza si erano allineati alla linea, ora riconoscono che solo gli obiettivi massimalisti possono garantire la sicurezza nazionale della Russia.

Non solo Peskov ha promosso il conflitto a “guerra”, ma ora i servizi di sicurezza russi parlano apertamente di designare l’Ucraina come Stato terrorista, eliminare la leadership, ecc. E i recenti attacchi dimostrano che parte di questa retorica escalation non è un semplice servizio a parole. La Russia non solo ha colpito ieri a Kiev con missili ipersonici quelle che sostiene essere alcune posizioni di comando, ma ha anche inferto colpi devastanti alla rete elettrica, questa volta mirando a vere e proprie sale macchine e turbine irreparabili.

La Russia sta colpendo sempre più posizioni di comando; proprio oggi è stato misteriosamente annunciato il decesso di un generale polacco per improvvise e inaspettate “cause naturali”, proprio dopo che la Russia ha distrutto una roccaforte mercenaria a Chasov Yar. Coincidenza?

Ovviamente a questo si aggiungono le escalation della NATO e dell’UE, con un nuovo rapporto che afferma che la NATO sta ora “considerando” di abbattere i missili russi al confine con la Polonia, dopo che uno di essi avrebbe brevemente virato nello spazio aereo polacco durante i recenti attacchi alla regione di Lvov.

In realtà, ciò che è interessante è quanto sia stata forzata l’uscita allo scoperto dell’agenda della NATO, alla luce delle recenti esigenze. Qui, Borrell ammette apertamente – senza più preoccuparsi di aggrapparsi alla facciata – che la guerra in Ucraina riguarda solo gli interessi dell’Europa e non ha nulla a che fare con la cura del popolo ucraino:

Il segreto per decodificare il suo linguaggio già chiaro è capire che Borrell, come il resto della mafia euro-tecnocratica, non è eletto dai cittadini reali, ma piuttosto nominato da un’alta commissione senza volto.

Quindi, quando dice “we non possiamo permetterci che la Russia vinca questa guerra” perché sarebbe dannoso per i “nostri” interessi, a chi potrebbe riferirsi? Il noi non è certo il popolo che lui non rappresenta politicamente. È ovviamente il resto dell’élite comprador che controlla lo strato superiore dell’apparato governativo mondiale, cioè l’élite finanziaria e bancaria. Egli parla a loro nome.

Quindi, sta dicendo che la cabala bancaria mondiale non può permettersi che la Russia vinca la guerra, perché darebbe inizio a una cascata di conseguenze indicibili per la rete egemonica monetaria in cui hanno tentacolarmente avvolto l’intero globo.

Questi comprador di secondo piano si affannano ora a mettere insieme qualche strategia di “contenimento” dell’ultimo minuto per la Russia, dove Macron ha recentemente preso l’iniziativa.

La loro idea di contenimento dell’era della Guerra Fredda si basa su un’ulteriore militarizzazione della società, spendendo cifre record in armamenti e rafforzando gli altri vicini “prossimi” della Russia, come i Paesi baltici e la Moldavia, per prepararli a diventare il prossimo campo di battaglia su cui dissanguare la Russia.

L’articolo dell’Economist inizia con un primo paragrafo piuttosto scialbo:

Si tratta dello stesso concetto prescritto per gli attentati di Mosca: allontanare Putin dal narod – il popolo; fare in modo che lo odino per la paura e il pericolo che ha portato nel cuore della società russa. Il problema è che i cittadini russi sono molto attenti a ciò che sta accadendo perché hanno sviluppato un istinto riflessivo per fiutare le provocazioni dell’Occidente, dopo averle subite per anni dagli anni ’90 in poi. Quindi sanno esattamente da dove provengono gli attacchi e chi ha creato l’ISIS stesso, come ha creato Al-Qaeda per uccidere i sovietici in Afghanistan negli anni ’80 e i jihadisti ceceni negli anni ’90.

Ora i principali leader fantoccio dell’UE si arrampicano l’uno sull’altro per emergere nel nuovo corteo di guerra che gli eventi in corso hanno fatto germogliare:

In mezzo alla confusione e al trambusto, tutti vedono l’opportunità di guadagnare più potere: dopo tutto, la crisi è il momento più ideale per distinguersi dal branco e ottenere un vantaggio smodato.

Ma in definitiva, il motivo per cui questi attacchi dovevano avvenire, come ho detto all’inizio, era quello di mascherare il continuo degrado delle forze armate ucraine:

L’articolo sopra riportato illustra la tumultuosa lotta della Rada ucraina per abbassare l’età di leva:

“Stiamo lottando per abbassare l’età a 25 anni: è una decisione impopolare”, ha dichiarato Fedir Venislavskyi, membro della Rada del partito di governo del presidente Volodymyr Zelensky, che è stato uno dei principali sostenitori della legge. “Dobbiamo aumentare il numero di persone che possono essere mobilitate”.

Un aspetto interessante è che questo è stato di fatto il primo articolo che ci ha finalmente confermato qualcosa di cui abbiamo parlato qui per molto tempo, vale a dire l’esatta ripartizione delle forze di combattimento dell’Ucraina rispetto a quelle non di combattimento:

Secondo le stime di Zelensky, l’esercito ucraino conta quasi 600.000 effettivi. La maggior parte di essi svolge ruoli di supporto lontano dai combattimenti al fronte. A dicembre Zelensky ha dichiarato che l’esercito ha richiesto 500.000 uomini in più, anche se i comandanti hanno detto di non averne bisogno immediatamente.

Questo conferma che la maggior parte dei loro 600.000 effettivi totali stimati sono ruoli di supporto non di combattimento, il che conferma ulteriormente il numero che da tempo sostenevo essere il loro numero di truppe dirette al combattimento in prima linea: circa 200-250.000 al massimo. Ciò è stato confermato dalle fughe di notizie del Pentagono, che hanno elencato il numero di ogni singolo fronte per un totale di appena 200-250k o meno.

Il problema più grave che l’Ucraina deve affrontare non è necessariamente il totale delle “truppe” – se così si possono chiamare – ma in particolare le truppe d’assalto capaci. Il canale Rezident UA riporta:

Il TCK non è in grado di soddisfare il piano di mobilitazione a condizioni minime, e lo Stato Maggiore ha urgentemente bisogno di 200 mila ucraini per ripristinare le riserve e di altri 200-300 mila per essere in grado di condurre contrattacchi.

Ora si dice addirittura che l’abbassamento dell’età a 25 anni non servirà a contenere le perdite, e si parla di abbassarla direttamente a 19 anni, come ha detto questa settimana il presidente della Rada, Dmytro Razumkov:

Ricordiamo che Razumkov è probabilmente la seconda o terza persona più potente dell’Ucraina e si “vociferava” che fosse in linea per assumere la presidenza quando Zelensky sarebbe caduto. Quindi le sue parole hanno un peso.

Sotto gli espedienti, i diversivi del terrore e gli attacchi missilistici, sbagliati ma inutili, contro la Crimea, l’Ucraina continua ad arretrare mentre la Russia avanza a passo di carica, sfondando le linee dell’AFU:

Tecnicamente dovremmo entrare a Rasputitsa solo a maggio o all’inizio di giugno, ma il tempo scorre fino a quando la Russia potrebbe essere pronta a lanciare il colpo di grazia all’AFU. Quando ciò accadrà e l’Ucraina ricomincerà a subire perdite smodate, Zelensky potrebbe non avere altra scelta che avviare la più pesante delle mobilitazioni, che potrebbe finalmente far esplodere la polveriera della società contro di lui. Allora i veri fuochi d’artificio potrebbero iniziare quest’estate.

Infine, per coloro che sono interessati a informazioni più approfondite sulle connessioni con l'”ISIS” e sulla possibile mano dell’MI6 britannico negli attentati di Mosca, ecco un articolo molto informato del corrispondente e giornalista russo in prima linea Marat Khairulin:

Attacco terroristico a Mosca:

La pista tagica porta alla Londra britannica che ha tirato fuori i vecchi scheletri dall’armadio Di Marat Khairulin

La mostruosa tragedia del Municipio di Crocus ha radici molto profonde e conseguenze di vasta portata. Ci torneremo più di una volta. Ma oggi parliamo dell’origine dell’attacco di questa volta. Cerchiamo di risalire almeno approssimativamente alla sua genesi e di capire cosa il nemico principale ci sta lanciando contro, se non le ultime forze, certamente giocando le carte che ha tenuto fino all’ultimo momento.

Due giorni dopo il sanguinoso attacco, nella comunità politica e di intelligence russa era diffusa l’opinione che dietro l’attacco terroristico ci fosse il Regno Unito, o meglio l’Mi6. Si tratta di una scrittura molto simile per questa organizzazione. È un fatto indiscutibile che tutti i principali attacchi terroristici in Russia del periodo post-sovietico, da Beslan a Dubrovka, abbiano avuto una traccia britannica in un modo o nell’altro. I leader terroristici che dirigevano i militanti erano reclutati dall’Mi6. E in alcuni casi (come Basayev e Khattab) collaboravano apertamente con l’Mi6.

In contrasto con questa opinione, la Gran Bretagna ha lanciato un’ovvietà nei suoi principali media: dietro l’attacco terroristico c’è una certa organizzazione Vilayat Khorosan (una branca dello Stato Islamico che opera in Afghanistan). Per gli esperti, questo approccio parla chiaramente a favore della versione che in questo caso particolare ha anche la traccia inglese. Bisogna subito dire che la storia non è semplice ed è molto difficile da capire, quindi oggi ne delineeremo solo alcune caratteristiche. Nel suo periodo di massimo splendore, l’ISIS era un insieme di bande tribali unite principalmente sulla base di finanziamenti provenienti dal Regno Unito. Sia il bandito ash-Shishani (un nativo della Georgia, Batirashvili) che il suo sostituto, il tagiko Khalimov, erano mercenari diretti dell’Mi6.

La portata delle attività dell’ISIS, come proxy dei britannici, alla fine è diventata così grave che ha iniziato a interferire con l’influenza degli Stati Uniti in Medio Oriente e in Asia centrale, e il Regno Unito ha dovuto ridimensionare parzialmente le sue operazioni per non irritare l’egemone. E per un po’ tutti questi terroristi al servizio dell’Mi6 sono finiti nell’ombra, alcuni sono stati addirittura dichiarati morti.

Hanno ricominciato a emergere dopo il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan. È allora che è apparso sulla scena l’ISIS di Khorosan. Ma in realtà, alcuni capi tribali pashtun che erano sostenuti dagli inglesi. Sono gli unici che hanno accettato di combattere i Talebani. Questo è il punto chiave. Stiamo entrando nella difficile geopolitica dell’Asia centrale.

La maggior parte dei Paesi della regione sostiene gli sforzi dei Talebani per pacificare l’Afghanistan, sperando di garantire in questo modo la propria sicurezza. Tutti tranne il Tagikistan. Che non riesce a trovare un linguaggio comune con i Talebani a causa del fatto che sotto la loro ala operano diverse organizzazioni che in Tagikistan sono considerate terroristiche. È su questa spaccatura che la Gran Bretagna ha giocato per tutti questi anni, dopo che gli americani hanno lasciato la regione, cercando con tutte le sue forze di impedire l’instaurazione della pace in Asia.

A tal fine, subito dopo il ritiro degli Stati Uniti, è iniziato il reclutamento di afghani di etnia tagika nelle bande di Vilayat Khorosan. Cioè il presidente Rahmon, che è molto sensibile a questo tema e considera i tagiki una delle più grandi nazioni divise al mondo, ha iniziato a dimostrare che l’ISIS Khorosan è come la sua. E unendosi al sostegno dei Talebani, sta tradendo gli interessi dei Tagiki. In altre parole, puntando il dito contro l’ISIS Khorosan, che, sottolineo, al momento praticamente non esiste come organizzazione (c’è solo una certa comunità di bande tribali), la Gran Bretagna sta cercando di trascinarci apertamente in Asia. Questo è un altro tentativo degli inglesi di imporci problemi nelle retrovie dopo il Kazakistan. Ma questa è solo una parte del gioco. La seconda non è meno interessante e più esplicita. Il sostegno politico del leader stesso dell’ISIS, il tagiko Khalimov, è sempre stato il Partito della Rinascita Islamica del Tagikistan. È stato dichiarato organizzazione terroristica in patria e, dall’inizio degli anni 2000, indovinate dove si trova il suo quartier generale? Avete indovinato: a Londra.

La portata delle attività dell’ISIS, come proxy dei britannici, alla fine è diventata così grave che ha iniziato a interferire con l’influenza degli Stati Uniti in Medio Oriente e in Asia centrale, e il Regno Unito ha dovuto ridimensionare parzialmente le sue operazioni per non irritare l’egemone. Per un certo periodo, tutti questi terroristi al servizio dell’Mi6 sono finiti nell’ombra, alcuni sono stati addirittura dichiarati morti. Hanno ricominciato ad affiorare dopo il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan. È allora che è apparso sulla scena l’ISIS di Khorosan. Ma in realtà, alcuni capi tribali pashtun che erano sostenuti dagli inglesi. Sono gli unici che hanno accettato di combattere i Talebani. Questo è il punto chiave. Stiamo entrando nella difficile geopolitica dell’Asia centrale. La maggior parte dei Paesi della regione sostiene gli sforzi dei Talebani per pacificare l’Afghanistan, sperando di garantire in questo modo la propria sicurezza. Tutti tranne il Tagikistan. Che non riesce a trovare un linguaggio comune con i Talebani a causa del fatto che sotto la loro ala operano diverse organizzazioni che in Tagikistan sono considerate terroristiche. È su questa spaccatura che la Gran Bretagna ha giocato per tutti questi anni, dopo che gli americani hanno lasciato la regione, cercando con tutte le sue forze di impedire l’instaurazione della pace in Asia.

Alla vigilia della fuga degli americani dall’Afghanistan, i britannici si sono occupati dei tagiki e nel 2018 hanno creato a Varsavia l’Alleanza Nazionale del Tagikistan sulla base di questo partito, dove hanno cercato di stipare i resti di tutti i delinquenti tagiki sopravvissuti dopo la sconfitta dell’ISIS. L’alleanza era guidata da Kabirov, una figura che ha camminato a fianco di Khalimov per tutta la vita. Lo scopo della creazione di una nuova organizzazione era semplice: L’Occidente stava perdendo la guerra in Siria ed era necessario stabilire il traffico di militanti dal Tagikistan.

Il NAT fungeva da sportello unico in cui la Gran Bretagna forniva denaro e Kabirov e Halimov erano impegnati nell’esportazione di “carne” tagica. Va detto che Khalimov è stato considerato nominalmente morto dal 2017, ma c’è anche una seconda opinione secondo cui è stato semplicemente “rimosso” nell’ombra dopo che gli americani hanno puntato sull’ISIS. Ma cosa c’entra tutto questo con gli eventi del Municipio di Crocus? Pazienza, cari lettori. Siamo quasi arrivati al punto.

Nel 2022, con l’inizio dello SMO, la cosiddetta brigata Jabhat Al-Shamiya è apparsa come parte del corpo mercenario in Ucraina. O meglio, uno dei suoi distaccamenti operanti nell’area di Aleppo. Questo distaccamento è guidato da un comandante di campo (di nazionalità tagica), braccio destro di Khalimov. Di lui si sa solo che il suo soprannome è Shusha e che di formazione è un insegnante di storia. Esiste una versione secondo cui si tratta di uno dei tanti parenti e cugini di Khalimov. Non parlerò ora del percorso di combattimento di questi basmachi tagiki in Ucraina, perché anche lì c’è qualcosa di cui parlare.

Jabhat Al-Shamiya è stato uno dei principali destinatari dei fondi britannici stanziati attraverso l’Alleanza Nazionale del Tagikistan. Ed ecco che (attenzione!) un mese dopo il fallimento della controffensiva dell’AFU (forse un po’ più tardi, a cavallo tra ottobre e novembre), Ilya Ponomarev, il leader politico dei nuovi “Vlasoviti” (Corpo Volontario Russo), e il leader politico dei terroristi tagiki Kabirov si incontrano a Londra. In seguito, sono stati registrati numerosi altri incontri a Varsavia. Già a livello di funzionari. Ci sono alcuni dettagli interessanti su questi incontri, in particolare su chi li ha supervisionati. Ma di questo parleremo la prossima volta.

E ora vediamo un attacco coordinato a Belgorod da parte di nuovi “Vlasoviti” (Corpo Volontario Russo), e a Mosca da parte di militanti tagiki. Penso che l’affiliazione dei terroristi arrestati all’Alleanza Nazionale del Tagikistan sarà presto confermata in un modo o nell’altro. Perché andare alla NAT? Si sa per certo che il reclutamento (a pagamento per le strade e il sollevamento) in Russia è effettuato dall’Unione Nazionale dei Migranti del Tagikistan, membro dell’Alleanza, che è anche considerata un’organizzazione estremista in patria e in Russia. Proprio questa Alleanza assicura l’esistenza di una rete di agenti dormienti dal Tagikistan in Russia. Gli agenti sono principalmente nelle mani dell’Mi6, perché, inutile dirlo, questa Alleanza è stata creata negli anni 2000 sotto la diretta guida dei britannici. In altre parole, il Regno Unito ha iniziato a mettere insieme un fronte terroristico unito contro la Russia non appena è stato chiaro che la controffensiva era fallita e l’Ucraina era condannata. Inoltre, come da tradizione, il Regno Unito ha cercato di incastrare o incarcerare l’egemone.

Ovviamente, l’egemone non ha gradito e ha cercato di mettere in guardia Mosca. Allo stesso tempo, cercando di non rinunciare al suo più stretto alleato. Anche se, a dire il vero, anche da questa storia si capisce che con alleati del genere gli Stati Uniti non hanno bisogno di nemici. Ma non è tutto. C’è anche un’opinione nella nostra comunità politica e di intelligence, di cui non si parla molto, ma c’è: i britannici hanno mostrato una palese attività amatoriale, e ora tutti sono congelati in attesa di una resa dei conti tra gli alleati. E la prima reazione seria della Russia all’attacco terroristico è già seguita (anche se forse si tratta di una coincidenza): Il nostro rappresentante all’ONU, Nebenzia, ha dichiarato che la Russia non riconoscerà Zelensky come legittimo dopo la scadenza del suo mandato. E dal momento che voi non siete nessuno ai nostri occhi, è possibile che subito dopo quel giorno Hitler Zelensky venga denaturalizzato in modo dimostrativo. A meno che, naturalmente, non venga fatto fuori dai suoi amici britannici prima di allora. In attesa di questo glorioso evento, speriamo che Budanov (un agente diretto dell’Mi6) e Ponomarev (un agente ancora più diretto) vadano presto al giudizio di Dio. È ora, è ora, il diavolo li sta chiaramente aspettando all’inferno.


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Uscire dalla trappola americana della contrapposizione NATO-Russia, del Generale (2S) Grégoire Diamantidis

Uscire dalla trappola americana della contrapposizione NATO-Russia: un prerequisito essenziale per l’emergere di un’Europa politica.
Introduzione
In un momento in cui il mondo è in profonda crisi economica e sta attraversando grandi cambiamenti politici, climatici, demografici e migratori, e in cui stanno emergendo nuovi confronti tra le due principali potenze mondiali, Cina e Stati Uniti, nonché tra le potenze regionali emergenti, l’Europa fatica a far sentire la propria voce. Consapevoli di queste debolezze e desiderosi di raggiungere questo status, alcuni Paesi europei stanno cercando da alcuni anni di dotarsi di risorse e strutture, sia militari che politiche, per garantire non solo autonomia decisionale, ma anche un peso politico commisurato al suo peso economico e demografico. Dalla metà degli anni Novanta sono state avviate diverse iniziative all’interno dell’Unione Europea nell’ambito della Politica europea comune di sicurezza e difesa (PESC): – la creazione dell’Agenzia europea per la difesa (AED) – il Fondo europeo per la difesa (FES); Inoltre, da quando è stato redatto il documento iniziale della Strategia europea di sicurezza e di difesa (SSSE), molta acqua è passata sotto i ponti e sono circolate molte idee e studi nel tentativo di estendere le competenze dell’Unione europea in materia di difesa oltre i compiti di Petersberg, che hanno portato in particolare a: – la decisione di creare una Cooperazione Strutturata Permanente (CPS), oppure – l’Iniziativa di Intervento Europea (IEI), con l’obiettivo di conferire una maggiore autonomia decisionale e di conduzione delle operazioni esterne. Allo stesso modo, il Trattato di Aquisgrana recentemente firmato da Francia e Germania e le dichiarazioni congiunte dei nostri due leader in vista di un esercito europeo sono tutti sforzi che vanno nella stessa direzione, quella di un’Europa che si faccia carico della propria difesa, dotandosi delle risorse e delle strutture militari necessarie per questa missione. Tuttavia, anche se queste iniziative rappresentano un passo nella giusta direzione, è chiaro che dopo oltre 70 anni di dipendenza dagli Stati Uniti per la propria sicurezza, l’Europa ha ancora un lungo e difficile cammino davanti a sé per liberarsi dall’assoggettamento, se non addirittura dalla sottomissione, in cui si è volontariamente posta nei confronti del suo grande alleato americano.

Se questa sottomissione poteva essere giustificata di fronte alla minaccia rappresentata dal Patto di Varsavia, la scomparsa di quest’ultimo e la dissoluzione dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni Novanta hanno cambiato completamente la situazione, poiché la NATO, avendo perso la sua missione essenziale di difesa dell’Europa, ha perso allo stesso tempo la sua ragion d’essere, il che avrebbe dovuto portare ipso facto al suo scioglimento. Ma questo senza tener conto delle comode abitudini acquisite su entrambe le sponde dell’Atlantico, perché, al contrario, la NATO, su impulso degli Stati Uniti e con il consenso degli entusiasti europei, ha intrapreso una politica di autogiustificazione a oltranza, con conseguenze potenzialmente pericolose per l’Europa, come vedremo in seguito. Infatti, per i Paesi europei membri dell’Alleanza (con la notevole eccezione della Francia, che ha cercato di far rinascere l’UEO a partire dal 1991), tale scioglimento avrebbe significato prendere in mano la propria difesa, con il coraggio politico e finanziario che ciò comportava, e soprattutto per gli Stati Uniti avrebbe significato una grave perdita di influenza politica sul continente europeo occidentale, con ripercussioni economiche non indifferenti, soprattutto in termini di vendita di armi. Ecco perché resta ancora tutto da fare se si vuole che l’Europa raggiunga lo status di vera potenza militare e politica, indipendente dagli Stati Uniti, alleata ma non sottomessa. Non è scopo di questa analisi, in questa fase, proporre una soluzione o un’altra per dare all’Europa lo status di potenza autonoma, data la complessità del problema (sia politicamente che militarmente) e l’ampia gamma di opzioni possibili: una revisione radicale (o addirittura lo scioglimento?) dell’Alleanza Atlantica, la creazione di un’Alleanza Europea, una Confederazione Europea, la creazione di un nucleo europeo permanente, una struttura che permetta coalizioni ad hoc, e così via. Dall’altro, si propone di evidenziare l’urgenza per l’Unione Europea di uscire dalla doppia trappola in cui si è lasciata intrappolare sia dalla geopolitica della NATO che da quella degli Stati Uniti, se vuole acquisire un reale peso politico e militare, qualunque sia la forma e il modello futuro di una possibile Europa come vera potenza politica. Il meccanismo americano-ottomano di creazione artificiale del “nemico russo” attraverso la provocazione-reazione, che già da 20 anni ha pericolosamente riportato il continente europeo verso una “pace fredda”, in attesa di una nuova guerra fredda, deve essere interrotto con urgenza. All’interno dell’Unione Europea, solo la Francia, con l’aiuto della Germania, può e deve prendere iniziative forti, anche dirompenti, per raggiungere la Russia, al fine di convincere i nostri partner “sottomessi alla NATO” a riportarla in un’autentica partnership con l’Europa. Di fronte alle crescenti minacce nei suoi approcci meridionali, l’Europa non ha bisogno di creare una nuova minaccia a est. La vera sicurezza dell’Europa può essere raggiunta solo con la Russia, non contro di essa.

La trappola della NATO.

La riunificazione tedesca fu sancita il 12 settembre 1990 dal Trattato di Mosca, noto come “2+4” (RFT, DDR + Francia, Regno Unito, USA, URSS). Per consentire alla Germania di riacquistare la sua piena sovranità, esso prevedeva il ritiro di tutte le forze sovietiche, in cambio, tra l’altro, della rinuncia della Germania al possesso di tutte le armi di distruzione di massa, con le seguenti due clausole:- Art. 3 “…. [L’art. 5 stabilisce che le forze della NATO possono essere successivamente dislocate nella parte orientale della Germania, ma si impegnano a non dislocare armi nucleari dopo l’evacuazione dell’ex DDR da parte delle truppe sovietiche. Inoltre, per ottenere il consenso di Mikhail Gorbaciov all’ingresso della Germania Est nella NATO, la Germania (Helmut Kohl) e gli Stati Uniti (George H. W. Bush) si impegnarono verbalmente con la Russia a non estendere la NATO più a est, oltre i confini della Germania riunificata. Al contrario, sotto l’impulso degli Stati Uniti, la NATO non ha tardato a dimenticare le assicurazioni date alla Russia, adottando immediatamente una strategia molto più offensiva, che è stata chiaramente percepita come aggressiva dalla Russia.

L’allargamento della NATO: “La conquista dell’Est” …… o come far arretrare la Russia e isolarla coinvolgendo l’Europa nella manovra.1991

È particolarmente interessante notare che certi criteri molto spesso “anticipano” quelli, molto simili, che anche l’UE imporrà ai suoi futuri candidati. La NATO non svolgerà più un ruolo essenzialmente militare e di difesa, ma fungerà d’ora in poi da punto di riferimento morale e definirà cosa intende per “buona condotta” in termini di economia (liberalizzazione dei mercati), sistemi politici (forme di democrazia, sistema multipartitico, minoranze, ecc.), diritti umani, controllo democratico delle forze armate, ecc.

È notevole notare che nella stragrande maggioranza delle adesioni, la cronologia mostra chiaramente che o la NATO precede l’UE, o c’è una sincronizzazione virtuale, rendendo l’UE, nolensvolens e difficilmente caricaturale, l'”allegato economico” della NATO. Di fatto, per i Paesi candidati, l’accettazione da parte della NATO spiana la strada all’ingresso nell’UE, come mostrano i rispettivi calendari di adesione: Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca: NATO nel 1999 seguita dall’UE nel 2004; Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia e Slovenia: NATO e UE sincronizzate nel 2004; Bulgaria e Romania: NATO nel 2004 seguita dall’UE nel 2007; Croazia: NATO nel 2009 seguita dall’UE nel 2013. Certo, “il confronto non è ragione”, ma questo parallelismo, sia in termini di calendario che di condizioni di ammissione, è servito solo a rafforzare una certa osmosi UE/NATO preesistente: era la NATO a entrare nell’UE o l’UE nella NATO? E in effetti, sembra che a partire dagli anni Duemila, nonostante il tentativo di riavvicinamento alla Russia, la NATO, rifiutando la mano tesa da Medvedev, sia stata seguita dall’UE, che ne ha seguito l’esempio, cosicché queste due organizzazioni sono apparse di fatto complementari nelle loro politiche di pressione, intervento, sanzioni ed emarginazione della Russia. Così, come vedremo, dall’inizio di questo secolo l’UE – in quanto tale o attraverso alcuni dei suoi Paesi membri – si è trovata associata, volente o nolente, alle politiche interventiste della NATO e degli Stati Uniti, sia in Europa che al di fuori di essa, portando in ultima analisi al ripristino della “buona vecchia minaccia russa”, essenziale per la sopravvivenza della NATO e per il mantenimento dell’Europa sotto tutela americana.
Intervento e mantenimento della pace: la NATO va oltre i suoi confini. Kosovo: la NATO decide senza un mandato ONU, l’Europa la segue, la Russia è umiliata
Dopo aver permesso lo smantellamento pacifico dell’URSS, la Russia si è trovata fortemente ridimensionata sia economicamente che militarmente e ha dovuto risolvere gli enormi problemi creati in tutto l’ex spazio sovietico dall’improvvisa perdita della sua zona cuscinetto a ovest e dalla presenza di grandi minoranze russe al di fuori dei suoi nuovi confini. La Russia riteneva che la sua “vittoria” sul sistema sovietico, e la pace che così offriva al mondo, giustificasse l’alto prezzo che stava pagando, ma naturalmente pensava di avere il diritto di aspettarsi un aiuto dall’Occidente in cambio della sua ripresa. Purtroppo, l’Occidente, sotto l’influenza degli Stati Uniti, fedeli alla loro ossessione per la Russia, ha interpretato la situazione in modo del tutto diverso, considerandola nient’altro che una vittoria sulla Russia che doveva essere sfruttata il più rapidamente e il più efficacemente possibile.
Questo le consentirà di intervenire in vari modi per destabilizzare o addirittura scatenare una guerra, il più delle volte con l’obiettivo finale di umiliare, isolare o stigmatizzare la Russia e, se possibile, provocarla a commettere errori, che saranno poi prontamente denunciati e trasformati in una minaccia per la pace, giustificando così il rafforzamento della NATO. Lo schema classico per giustificare queste guerre umanitarie sarà sempre di questo tipo: intense campagne mediatiche – il più delle volte fuorvianti – con indignazione selettiva e mobilitazione dell’opinione pubblica occidentale per far leva sui governi alleati della NATO, seguite dalla loro partecipazione a coalizioni a geometria variabile. Se necessario, senza l’accordo dell’ONU, i risultati possono essere disastrosi sia politicamente che in termini di perdite umane, ma la NATO punterà sempre, nel corso dei suoi interventi, ad allontanare la Russia dall’Europa attuando questa spirale di autogiustificazione. A questo proposito, la guerra in Kosovo è un caso da manuale.

La guerra in Kosovo: un monumento alla disinformazione, alla menzogna e alla manipolazione
Il 24 marzo 1999, tredici Stati membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), tra cui Stati Uniti, Francia e Germania, hanno bombardato la Repubblica Federale di Jugoslavia per 78 giorni. La guerra è stata lanciata sulla base di una vasta menzogna mediatica volta a “scaldare” l’opinione pubblica occidentale e a farle adottare la posizione della NATO.
All’inizio la campagna di disinformazione.
I giornali più seri e alcuni canali televisivi non hanno esitato ad accusare i serbi di genocidio: loro [i serbi] commettono un “genocidio”, “giocano a calcio con teste mozzate, scuoiano i cadaveri, strappano i feti alle donne incinte uccise e li grigliano”, secondo il ministro della Difesa tedesco, le cui parole sono state riprese dai media; hanno ucciso “tra le 100.000 e le 500.000 persone” (TF1, 20 aprile 1999), incenerendo le loro vittime in “forni del tipo usato ad Auschwitz” (The Daily Mirror, 7 luglio). Allo stesso modo, un presunto piano serbo “Potkova” (ferro di cavallo) per la pulizia etnica dei kosovari già nel 1998 è stato presentato dai media occidentali (dall’ispettore generale della Bundeswehr) e ha fortemente influenzato l’opinione pubblica, in vista di un coinvolgimento della Germania. La diffusione di questo documento da parte della Germania nell’aprile 1999 è servita da pretesto per intensificare i bombardamenti. In questa vicenda, i principali disinformatori sono stati i governi occidentali, la NATO e i più autorevoli organi di stampa europei. Questo piano si è rivelato nel dopoguerra un falso fornito alla NATO dai servizi bulgari!
Poi il casus-belli: Racak o la fabbricazione del colpevole ideale, la Serbia.
Nel villaggio di Racak, in Kosovo, sono stati scoperti 45 cadaveri all’inizio del 1999. La scoperta fu immediatamente trasformata dai media occidentali in un massacro di civili albanesi attribuito alle forze serbe.
Le forze serbe provocarono l’indignazione mondiale e furono usate come pretesto per giustificare i bombardamenti sulla Jugoslavia. La NATO aveva finalmente il suo casus-belli. All’epoca dei fatti, ero personalmente responsabile delle ispezioni sul disarmo delle varie parti belligeranti dell’ex Jugoslavia (accordi di Dayton-Parigi), compresa la Serbia, sulla responsabilità serba di questo massacro, la cui macabra messa in scena ci sembrava una manipolazione di dubbia origine (secondo certe mutilazioni “codificate”, sembrava piuttosto la firma delle mafie albanesi); ma non avevamo alcuna certezza. L’indagine fu affidata a una donna finlandese di fama mondiale. A capo di un’équipe di investigatori internazionali, la dottoressa Helena Ranta, specialista in medicina legale, fu rapidamente sottoposta, attraverso i suoi superiori, a forti pressioni americane per dare credito alla falsa versione della colpevolezza serba in questo caso. Infatti, William Walker, il capo americano della missione OSCE in Kosovo nell’inverno 1998-1999, furioso per le conclusioni del suo rapporto, che non aveva usato “un linguaggio sufficientemente convincente” sulle atrocità serbe, intervenne presso il Ministero degli Esteri finlandese per esigere da lei “conclusioni più approfondite”. Era assolutamente necessario che dimostrasse che gli spari che avevano ucciso le vittime erano il risultato di un’esecuzione. L’obiettivo degli Stati Uniti era quello di aiutare i guerriglieri separatisti albanesi (l’UCK) e di inscenare un massacro attribuito ai serbi in modo che l’Occidente potesse intervenire militarmente contro la Serbia, alleata e amica della Russia. Helene Ranta fu infine costretta a dichiarare alla stampa che “sì, è stato un crimine contro l’umanità”,
e infine la guerra,
che per la NATO è consistita in 78 giorni di operazioni tra marzo e maggio 1999, con più di 58.000 sortite aeree, la maggior parte delle quali ha preso di mira le infrastrutture serbe. La Serbia è stata infine costretta ad accettare il piano di pace che le è stato imposto in giugno e ha dovuto ritirare le sue truppe dal Kosovo, che è stato posto sotto la supervisione internazionale della KFOR dell’ONU e della NATO.
Le conseguenze per l’Europa e il mondo.
La guerra in Kosovo ha avuto diverse conseguenze: – ha umiliato la Russia mettendola di fronte al fatto compiuto della perdita da parte della Serbia, sua alleata, di una provincia, il Kosovo, che ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza nel 2008 (immediatamente riconosciuta dagli Stati Uniti e da alcuni Paesi europei); – ha dimostrato che la NATO può aggirare le Nazioni Unite per dichiarare la legge e scatenare una guerra, e poi usare le Nazioni Unite per gestire la crisi che ne deriva (KFOR/ONU),

Ha legittimato l’attacco al principio della sovranità degli Stati e dell’inviolabilità delle frontiere (la Russia se ne ricorderà quando ha annesso la Crimea (senza bombe e senza sparare un colpo), indebolendo così il multilateralismo dell’ONU, indebolendo il multilateralismo dell’ONU a vantaggio dell’unilateralismo americano, ha avvicinato la Russia alla Cina (la cui ambasciata a Belgrado era stata bombardata), portando alla creazione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) nel giugno 2001. Più fondamentalmente, la NATO, disinibita com’era, ha potuto approfittare della momentanea debolezza della Russia per estendere il suo allargamento fino ai confini russi a partire dai primi anni 2000 e rafforzarsi militarmente, creando così un vero e proprio cordone sanitario. In effetti, è stato più facile sfruttare la paura – certamente del tutto comprensibile – che la Russia poteva incutere negli Stati baltici, trasformandoli immediatamente in uno “scudo contro l’Orso russo”. Nello stesso spirito, invece di aiutare l’OSCE a gestire, con la Russia e non contro di essa, i vasti problemi lasciati in eredità dalla caduta dell’impero sovietico, l’Occidente ha sostenuto le “rivoluzioni colorate” del 2003 in Georgia e del 2004 in Ucraina, al fine di insediare leader filo-occidentali e portare questi Paesi fuori dall’orbita della Russia. Nel giugno 2008, nel tentativo di rompere questa morsa, la Russia ha proposto un nuovo “Patto di sicurezza europeo” volto a risolvere i conflitti irrisolti in Europa orientale (Transnistria, Abkhazia, Ossezia, ecc.), Abkhazia e Ossezia del Sud), in cambio di un certo grado di neutralità nei confronti della NATO da parte di Georgia, Ucraina e Moldavia, cioè del suo immediato “retroterra”. Inoltre, al fine di preservare l’equilibrio della deterrenza nucleare con gli Stati Uniti al livello più basso possibile in Europa, la Russia mirava anche a risolvere la questione nucleare iraniana, un pretesto usato dagli americani per dispiegare il loro scudo antimissile in Europa, che in realtà mirava ai missili russi. Nel complesso, il progetto prevedeva la creazione di un partenariato strategico con l’UE e la NATO, comprendente vari aspetti: militari (disarmo convenzionale), economici (forniture di energia), diritti umani, ecc. Nell’agosto 2008, la Georgia, incoraggiata dalla NATO, ha pensato di poter risolvere i separatisti osseti e abkhazi con la forza delle armi e, nel giro di poche settimane, ha perso la guerra contro i secessionisti sostenuti dalla Russia. In questo modo, la Russia ha dimostrato che l’Occidente si era spinto troppo oltre e che ora intendeva darsi i mezzi per esercitare la propria influenza nella sua immediata zona di sicurezza.
L’affare ucraino
La destabilizzazione da parte degli occidentali. Il colpo di stato antirusso.
La Russia ha reagito in Crimea, l’orso è diventato finalmente aggressivo e la NATO ancora più indispensabile.
Eravamo tornati all’era del confronto, proprio come voleva la NATO. La strategia di ricerca del confronto con la Russia in Europa era ormai consolidata e sarebbe proseguita fino al suo culmine con la vicenda ucraina di “Euromaidan”, in cui l’UE e la NATO hanno svolto un ruolo importante dietro le quinte. Eletto nel 2005 sulla scia della “rivoluzione arancione” del 2004, il presidente Yushchenko, molto favorevole all’UE e alla NATO, è stato sostituito nel 2010 dal presidente Yanukovych con un programma più favorevole alla Russia. Nel 2013, l’Ucraina, appesantita da un debito di 17 miliardi di dollari (soprattutto di gas) nei confronti della Russia e sull’orlo dell’insolvenza, ha chiesto all’UE un prestito di 20 miliardi di dollari, che è stato rifiutato. A fine novembre 2013, la decisione del governo Yanukovych di non firmare l’accordo di associazione con l’Unione Europea ha scatenato enormi manifestazioni in piazza Maidan, incoraggiate in particolare dalla Germania e sostenute ufficialmente dagli Stati Uniti. Nonostante l’accordo raggiunto con la Russia sulla risoluzione del debito a metà dicembre, le manifestazioni pro-europee si sono intensificate sotto il duplice effetto di una brutale repressione da un lato e di un sostegno sempre più attivo da parte di varie ONG pro-europee e americane (tra cui l’Open Society Institute di George Soros), culminando nella rimozione forzata del Presidente eletto Yanukovych all’inizio del 2014. Questa destituzione, che non poteva che essere vista dalla Russia come un vero e proprio colpo di Stato volto a sottrarre l’Ucraina – il già citato cuore della “vecchia Russia” – alla sua influenza e a completarne lo strangolamento, ha innescato una grave crisi culminata nella proclamazione dell’indipendenza della Crimea, seguita dal suo ritorno alla Russia, e nella guerra civile tra l’esercito ucraino e i ribelli filorussi nel Donbass. Per la NATO, il cerchio dell’autogiustificazione è ora completo: il ritorno della Crimea alla Russia e la guerra nel Donbass segneranno definitivamente il destino della Russia, che l’Occidente potrà finalmente chiamare ancora una volta “la minaccia”. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti hanno rafforzato la loro presenza militare in Europa e gli europei sono stati fermamente “invitati” ad aumentare i loro bilanci militari nella NATO… acquistando equipaggiamenti americani (“Honni soit qui mal y pense”) per far fronte alla minaccia russa. Tutto è tornato in ordine, c’era di nuovo un nemico a Est e la NATO, sempre sotto il comando americano, poteva continuare a rafforzarsi ai confini della Russia, schierandosi lì per mostrare la sua forza. La Russia sta reagendo simmetricamente rafforzando la sua presenza militare in Europa, e la “pace fredda” con la Russia è stata ora stabilita “in attesa di meglio” con la strategia nucleare americana, come vedremo.

L’unilateralismo degli Stati Uniti, un pericolo strategico per l’Europa (e per il mondo):
parallelamente alla strategia della NATO in Europa, a partire dai primi anni 2000 gli Stati Uniti, preoccupati dall’ascesa della Cina, hanno cercato di darsi “mano libera” rispetto ai vincoli internazionali, adottando una strategia di potenza generale volta a liberarsi dai vincoli del multilateralismo (ONU, OSCE) e di alcuni trattati internazionali.
Due aspetti di questa strategia, tra gli altri, hanno fatto sì che l’Europa in particolare si trovasse in una situazione preoccupante per la sua sicurezza. La politica americana in Iraq, sostenuta da molti Stati europei, che finirà per portare alla divisione dell’Europa e alla destabilizzazione del Medio Oriente, con un aumento significativo della minaccia terroristica sul fianco meridionale dell’Europa, la strategia degli Stati Uniti di mettere in discussione i principali trattati nucleari con la Russia e l’uso della NATO per alterare l’equilibrio nucleare con la Russia, rendendo l’Europa vulnerabile a un potenziale riarmo nucleare generale ai suoi confini.
L’Iraq dopo la prima guerra del Golfo: unilateralismo, strumentalizzazione e manipolazione americana
Messo sotto embargo e sanzioni economiche dall’ONU all’inizio del 1991, dopo la prima guerra del Golfo, l’Iraq ha visto distruggere i resti del suo arsenale di armi di distruzione di massa (WMD) dalle numerose missioni di ispezione dell’UNSCOM (Commissione Speciale delle Nazioni Unite), ininterrotte dal 1991 al 1998. Queste ispezioni altamente invasive ed efficaci hanno portato alla distruzione quasi totale, sotto controllo internazionale, di tutte le armi di distruzione di massa che erano sopravvissute alle due precedenti guerre dell’Iraq (1980-88 contro l’Iran e 1991 contro la coalizione occidentale). Ci sono state alcune crisi tra l’Iraq e l’UNSCOM, che è stata percepita dagli iracheni come sempre più arrogante e, soprattutto, sempre più ostile e persino provocatoria. Ad esempio, quando la commissione ha preteso il libero accesso, senza preavviso, ai vari palazzi presidenziali, l’Iraq ha infine dovuto cedere, ma quest’ultima richiesta è stata accolta come un’inutile umiliazione aggiuntiva. Inoltre, sebbene alcune ispezioni abbiano dimostrato che l’Iraq si stava comportando bene e stava compiendo sforzi reali, sono state presentate al Consiglio di Sicurezza in modo parziale, sotto la pressione americana, con un tono sufficientemente negativo da indurre l’ONU a non autorizzare questa o quella quota di esportazioni di petrolio in cambio di forniture di cibo all’Iraq, come previsto dalla risoluzione “oil for food”, ed è diventato sempre più chiaro che gli Stati Uniti stavano cercando di strangolare l’Iraq (attraverso l’embargo alimentare), il che non era l’obiettivo dell’ONU. Ben presto divenne chiaro che l’UNSCOM veniva utilizzato in larga misura dagli anglosassoni (Stati Uniti e Regno Unito in particolare) per perseguire la loro politica di intelligence nazionale e, soprattutto, per smembrare l’Iraq, al punto che il suo capo, l’australiano Richard Butler, giudicato un po’ troppo “cooperativo” con gli americani, dovette essere sostituito durante il suo mandato.
La fine delle ispezioni fu provocata dagli Stati Uniti e dal loro alleato britannico.

Un esempio regolare di questa strumentalizzazione dell’ONU a vantaggio degli obiettivi bellici anglo-americani è stato il fatto che, durante alcune missioni, gli ispettori (statunitensi o britannici) non hanno esitato a indicare le coordinate GPS precise su tale e tale porta di un hangar, elencando così un catalogo di obiettivi o di siti militari fissi (che sono stati poi colpiti in modo molto preciso dalla guida laser…). L’istituzione nel 1992, senza mandato ONU, di 2 no-fly zone (da parte di Regno Unito, Stati Uniti e Francia) a nord del 36° parallelo e a sud del 33°, con l’obiettivo ufficiale di proteggere i curdi a nord e gli sciiti a sud, è stata in realtà utilizzata dagli anglo-americani per bombardare le strutture militari irachene in preparazione dell’offensiva aerea del dicembre 1998. Con il pretesto che l’Iraq non stava cooperando a sufficienza con gli ispettori dell’UNSCOM, gli Stati Uniti e il Regno Unito lanciarono l’Operazione Desert Fox dal 16 al 19 dicembre 1998, iniziando una vasta campagna di bombardamenti massicci su obiettivi militari iracheni, sempre senza alcun mandato delle Nazioni Unite. Tanto che l’UNSCOM fu avvertita la sera prima di lasciare Baghdad prima dell’alba! Le squadre di ispettori e il personale della Commissione lasciarono in fretta e furia la sede del Canal Hotel di Baghdad e riuscirono a raggiungere il confine giordano all’alba, giusto in tempo prima dell’inizio dei bombardamenti. Il Consiglio di Sicurezza fu semplicemente “informato”, nel bel mezzo di una riunione, che i bombardamenti erano in corso da quella stessa mattina! Questa operazione, che causò tra i 1000 e i 2000 morti iracheni, pose fine alle ispezioni dell’ONU e fu seguita dallo scioglimento dell’UNSCOM da parte del Consiglio di Sicurezza. Ma tutti i media occidentali sostennero che era stato Saddam Hussein a provocare la fine delle ispezioni! Non è irragionevole pensare che, poiché le ispezioni non trovavano più armi di distruzione di massa in Iraq, il “rischio” di una futura revoca delle sanzioni da parte dell’ONU stava crescendo, e che quindi era meglio bloccare il processo che avrebbe potuto dimostrare che l’Iraq era pulito e privo di armi di distruzione di massa, come gli eventi del 2003 avrebbero dimostrato! Alla fine, ancora una volta, come nel caso del Kosovo, gli Stati Uniti, con il loro alleato britannico, si stavano affrancando dall’ONU e in particolare dagli altri 3 membri permanenti del Consiglio: Francia, Russia e Cina. Ancora una volta, gli europei (tra gli altri) che avevano collaborato attivamente e lealmente attraverso l’UNSCOM al disarmo dell’Iraq per consentirne il normale rientro nella comunità internazionale, si sono ritrovati, nella percezione di parte del mondo arabo musulmano sunnita, associati come occidentali all’impresa americana di distruggere l’Iraq; si vedrà presto che lo Stato Islamico se ne ricorderà. Gli altri due membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, Russia e Cina, ancora una volta messi di fronte al fatto compiuto, hanno protestato, ma rendendosi conto che solo la forza sarebbe stata rispettata in futuro, hanno deciso di intensificare la loro cooperazione (soprattutto militare) all’interno della SCO, in risposta a questo indebolimento del multilateralismo dell’ONU.La seconda guerra del Golfo 2003.

Il trionfo della menzogna e dell’arroganza americano-britannica,

L’UE era divisa e inesistente. L’ONU è stata disprezzata: Russia e Cina, umiliate, si sono avvicinate.
Poiché l’UNSCOM non era più in grado di tornare in Iraq, l’ONU istituì una nuova commissione, l’UNMOVIC (United Nations Monitoring, Verification and Inspection Commission), con il compito, in attesa di un eventuale ritorno in Iraq, di analizzare e presentare al Consiglio di Sicurezza i risultati complessivi degli 8 anni di ispezioni, che l’UNSCOM aveva sfruttato solo in parte, in modo che il Consiglio di Sicurezza potesse avere al più presto un parere oggettivo sull’eventuale esistenza residua di armi di distruzione di massa (WMD). Questa nuova commissione internazionale si mise ad analizzare più di 2 milioni di pagine di rapporti di ispezione, la maggior parte dei quali era rimasta “addormentata” negli armadi, e presentò ogni settimana i progressi del suo lavoro al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Con il passare dei mesi, è emerso gradualmente che in un settore o nell’altro (chimico, biologico o missilistico) il conteggio delle armi utilizzate (sia tra il 1980 e l’88 contro l’Iran, sia distrutte nel 1991 dalla prima coalizione occidentale) non era proprio a zero, sommate alle armi distrutte negli 8 anni di ispezioni/distruzioni, almeno le poche incertezze residue erano infinitesimali rispetto alle scorte iniziali (ad esempio, tra più o meno 100 proiettili chimici introvabili sui 68.000 dello stock iniziale, lo stesso per i razzi, ecc.) . Eravamo ben lontani da una “minaccia globale”, come ci hanno sbandierato i canali televisivi americani nel 2002, e più l’UNMOVIC si addentrava nel suo lavoro nel 2001 e nel 2002, più sembrava che gli 8 anni di ispezioni internazionali dell’ONU avessero eliminato tutto. Si dà il caso che chi scrive queste righe fosse l'”assistente analitico” del capo dell’UNMOVIC, l’ambasciatore svedese Hans Blix, e avesse quindi il compito di fornirgli le sintesi settimanali della divisione degli analisti internazionali, che venivano poi presentate al Consiglio di Sicurezza, sulle armi di distruzione di massa chimiche, biologiche e missilistiche. Per gli angloamericani era assolutamente necessario ricreare “la minaccia Saddam”. Così la CIA si presentava ogni quindici giorni con informazioni satellitari “top secret”, per mostrarci un presunto rifugio/laboratorio biologico scoperto nel deserto, o altre informazioni sensazionali, ma il più delle volte inventate, o “manipolate”, secondo anche gli esperti americani dell’UNMOVIC! Per quanto riguarda il dossier sulle armi di distruzione di massa biologiche, eravamo in contatto regolare con un biologo britannico, David Kelly, ex ispettore in Iraq, che veniva a New York ogni mese per informarci dei progressi del nostro lavoro, per poi riferire a Londra. Serio e intellettualmente onesto, si convinse presto che il dossier “biologico” era vuoto e probabilmente lo aprì incautamente al suo ritorno a Londra. Identificato come la fonte di un giornalista della BBC che aveva sostenuto che il governo aveva abbellito le informazioni di intelligence sulla presenza di armi di distruzione di massa in Iraq per giustificare l’entrata in guerra contro il regime di Saddam Hussein, subì una tale pressione da parte delle autorità britanniche che si scoprì che si era “ufficialmente suicidato”. La vicenda scatenò uno scandalo di Stato sotto Tony Blair.
Tutti ricordano la fialetta di antrace brandita da Colin Powell, che non convinse molti nell’ex “Europa occidentale”, ma grazie alla quale, invece, molti Paesi dell’Europa orientale videro la loro partecipazione – anche simbolica – alla guerra anglo-americana come un certificato di buona condotta per il loro possibile futuro ingresso nella NATO: Lettonia, Estonia, Romania, Albania, Bulgaria, Ucraina, Macedonia, Bosnia-Erzegovina, Armenia, Georgia e Azerbaigian. L’UE non solo non esisteva, ma era anche divisa, poiché il “Gruppo di Vilnius” aveva scelto l’America invece dell’Europa. L’Iraq è stato invaso e l’intera struttura militare, politica e amministrativa (prevalentemente sunnita) è stata smantellata a favore di un sistema di rappresentanza più proporzionale, molto più favorevole alla maggioranza sciita della popolazione. Gli anni di guerra civile che seguirono portarono all’ascesa al potere dello Stato Islamico, sostenuto dalle ex élite sunnite irachene di Saddam Hussein (ufficiali, sottufficiali, funzionari pubblici, ingegneri, insegnanti, ecc.) Dopo 8 anni di guerra e terrorismo in Iraq, gli Stati Uniti si sono ritirati alla fine del 2011, lasciando il Paese devastato e distrutto (più di 500.000 morti), e l’islamismo si è rafforzato nel 2012 in Siria, diventando infine lo Stato Islamico in Iraq e nel Levante (EIL) o Daech. L’America ha così lasciato in eredità al mondo una nuova destabilizzazione del Medio Oriente, con numerosi focolai di guerra (Siria, Libia, Yemen, Iraq), e ha permesso all’Europa di “beneficiare” dell’estensione molto significativa della minaccia islamico-jihadista lungo tutta la sua costa mediterranea, che si estenderà in Africa fino al Sahel, approfittando del caos lasciato dalla rivoluzione libica e dall’intervento della coalizione contro Gheddafi (in cui bisogna riconoscere che la Francia ha avuto un ruolo importante).
La strategia nucleare americana, minaccia potenziale per l’Europa
Dal 1987 in poi, Mosca e Washington hanno intrapreso una spirale virtuosa con la firma del trattato INF sullo smantellamento delle armi nucleari a raggio intermedio in Europa (500-5500km, SS-20 e Pershing-II), presto seguito dai negoziati START (armi strategiche intercontinentali) e dal trattato SORT per ridurre di 2/3 il numero di testate nucleari di entrambe le parti. Tutto questo è culminato nel 2010 con la firma del nuovo trattato START, che fissa a 1.550 il numero di testate e 700 lanciatori per ciascuno dei due firmatari, con scadenza rinnovabile al 2021. L’Europa non poteva che accogliere con favore queste misure di riduzione degli armamenti nucleari, in particolare per quanto riguarda il trattato INF, che ha allontanato lo spettro dell’utilizzo dell’Europa come campo di battaglia nucleare. Lo stesso vale per la Russia che, nella sua difficile situazione economica post-sovietica, vedeva un interesse economico vitale in un nuovo equilibrio degli armamenti “dal basso”, dopo il suo disastroso tentativo di seguire “dall’alto” gli Stati Uniti nel bluff delle rovinose “guerre stellari” di Reagan.

Ma allo stesso tempo, preoccupati dalla crescente potenza nucleare della Cina, gli Stati Uniti si sono ritirati unilateralmente nel 2001 dal Trattato ABM, che limitava drasticamente i sistemi missilistici anti-balistici, Il presidente George W. Bush ha presentato questo ritiro come un primo passo verso lo sviluppo e il dispiegamento di uno scudo di difesa antimissile destinato, a suo dire, a proteggere gli Stati Uniti e i suoi alleati, compresa la Russia (Sic), da attacchi missilistici da parte di “Stati canaglia”, menzionando in particolare l’Iran, la Corea del Nord e la Somalia (ri-Sic! ). Questo sistema, che prevedeva l’installazione di uno scudo antimissile in Polonia e nella Repubblica Ceca a complemento dei sistemi in California e in Alaska, è stato presto fortemente contestato dalla Russia, che lo vedeva come una sfida al proprio deterrente nucleare alle porte di casa; inoltre, aveva anche il “vantaggio” di dividere un po’ di più il vecchio continente tra la vecchia Europa (Germania e Francia in particolare) e la nuova Europa (Europa dell’Est), il che andava tutto a favore della causa americana. Infine, nel 2009, il presidente Obama ha cancellato questo piano di dispiegamento… in apparenza, perché in realtà è stato sostituito da un altro sistema (theatre missile defence TBMD), allo studio della NATO dal 2001. Di vertice in vertice, questo sistema si è evoluto nel 2010 in una vera e propria architettura globale di difesa missilistica balistica in Europa (BMDE), non più solo di teatro, ma estesa a tutti i territori dei Paesi europei della NATO. Nel tentativo di placare i suoi timori, la Russia è stata coinvolta nel progetto TBMD fin dall’inizio, attraverso il Consiglio NATO-Russia (NRC), ma dal 2010 in poi (quando il vertice NATO di Lisbona ha deciso di espandere la TMD in una vera e propria BMDE) ha denunciato questo cambiamento fondamentale come un ritorno di fatto al progetto originario di G W. Bush, che era stato cancellato da Obama. Inoltre, alla Russia è stato assicurato che i siti di lancio di missili anti-balistici (ABM) dispiegati alle sue porte per “contrastare una minaccia iraniana” non avrebbero mai potuto essere trasformati in siti offensivi contro il suo territorio vicino. Tuttavia, non appena la NATO ha installato i primi lanciatori ABM (MK 41) in Romania nel 2013, la Russia si è resa conto che potevano essere utilizzati con la stessa facilità per lanciare missili Tomahawk contro il suo territorio (con gittate di oltre 2.000 km a seconda della versione), in flagrante contraddizione con il trattato INF che all’epoca era ancora in vigore. Di fronte alla minaccia alla sua capacità di secondo colpo, base del suo deterrente nucleare strategico, aggravata dalla potenziale minaccia rappresentata dalle capacità offensive dei lanciatori standardizzati MK41 (sia a bordo che nei silos a terra), la Russia ha reagito sospendendo ogni cooperazione all’interno dell’NRC alla fine del 2013, cioè ancora prima del caso Crimea nel 2014, che sarebbe stato poi utilizzato dalla NATO per giustificare – a posteriori – la protezione dell’Europa da parte del BMDE di fronte alla nuova “minaccia russa”; uscire dalla minaccia iraniana . .. (che, per inciso, è stata risolta dall’accordo di Vienna nel 2015).
A partire dal 2014, il dispiegamento ha subito un’accelerazione (3 cacciatorpediniere Aegis statunitensi, più un radar BMD su una fregata danese e uno a terra nel Regno Unito), culminata con la messa in funzione del sito Aegis Ashore a Deveselu, in Romania, in attesa dell’imminente messa in funzione del sito polacco. La Russia, non potendo conoscere in tempo reale il tipo di missile (anti-balistico o nucleare offensivo Tomahawk in contrasto con il trattato INF) presente nei lanciatori della base di Deveselu e a bordo dei cacciatorpediniere statunitensi che navigano in prossimità delle sue acque territoriali, si ritiene autorizzata a schierare nell’enclave di Kaliningrad il missile Iskander terra-superficie (500kmaxi per la versione terrestre “INF-compatibile”), per coprire i territori della “nuova Europa” a est. Con un bilancio militare di circa 65 miliardi di dollari, rispetto ai 240 miliardi dei Paesi europei della NATO e ai 750 miliardi degli Stati Uniti, e non potendo prevedere uno scudo ABM equivalente per contrastare il dispiegamento BMDE americano-NATO, la Russia opterà quindi per la soluzione molto più economica della freccia per perforare lo scudo. L’accelerazione dello sviluppo del missile 9M729, con una gittata ufficialmente dichiarata di 480 km, ma denunciata dalla NATO come superiore a 500 km, rientra in questa logica di azione-reazione. Nel 2018 gli Stati Uniti, volendo svincolarsi dal trattato INF per riacquistare la propria libertà d’azione nei confronti della Cina, hanno usato questo argomento per ritirarsi dal trattato, seguiti ipso facto pochi mesi dopo dalla Russia. Nello stesso anno, il Presidente Putin annunciò che la Russia stava sviluppando una panoplia di nuove armi strategiche, tutte virtualmente impossibili da intercettare e in grado di colpire in qualsiasi parte del mondo, dal missile intercontinentale Sarmat da 11.000 km, il siluro a propulsione nucleare “Poseidon”, oltre a vari missili da crociera come il subsonico “Bourevestnik-9M730”, che ha un raggio d’azione superiore alla circonferenza del pianeta, o missili semi-balistici, tra cui l’aliante ipersonico “Avangard” (da 20 a 25 Mach), o il missile ipersonico Kinzhal (10 Mach) trasportato dal MIG 31. È prevista anche la creazione di una versione nucleare terra-terra del missile terra-mare Kalibr (gittata superiore a 2.000 km), che è stato utilizzato con successo in alcuni attacchi convenzionali russi in Siria. Al di là dell’effetto pubblicitario voluto, con la probabile esagerazione circa l’effettiva realtà operativa di tutte queste nuove armi nel breve termine, è certo che la Russia, in reazione a quella che ora percepisce come una doppia minaccia nucleare tattica e strategica occidentale al proprio deterrente, svilupperà ciò che conosce meglio e più economicamente: la freccia a tutto campo contro l’armatura.

Le conseguenze per l’Europa

Il ciclo provocazione-reazione è ormai ben avviato, con un serio rischio di ri-nuclearizzazione dell’Europa e il ritorno a uno pseudo-equilibrio strategico “alto” voluto dagli Stati Uniti e accettato dagli europei, in contrasto con l’equilibrio “basso” fornito da tutte le misure di controllo degli armamenti fino alla fine degli anni Novanta e auspicato all’epoca da Russia ed europei. Come partecipante attivo alla politica di isolamento della Russia e in parte responsabile del riavvicinamento alla sicurezza sino-russa attraverso la SCO, la sottomissione dell’Europa potrebbe vederla scivolare gradualmente dall’attuale “pace fredda” artificiale a una possibile futura vera guerra fredda con la Russia. L’Europa capirà finalmente che, con i suoi 500 milioni di abitanti e il suo bilancio NATO di 240 miliardi di euro (senza contare i 700 miliardi di dollari degli Stati Uniti!), è l’Europa che potrebbe essere percepita come una minaccia per una Russia da 3 a 4 volte meno potente, con 145 milioni di abitanti e un bilancio da 6 a 10 volte inferiore, con 65 miliardi di euro? Abbiamo forse dimenticato che per 800 anni il pericolo mortale per la Russia è sempre venuto dall’Europa, proprio mentre stiamo umiliando la Russia non invitandola in Normandia per il 75° anniversario dello sbarco alleato? Nel rendere un doveroso omaggio ai 10.000 morti alleati nel D-Day, non abbiamo forse dimenticato i 26 milioni di morti dell’Unione Sovietica, tra cui 11 milioni di soldati? Quando la NATO gioca a spaventare con la sua nuova fantasia del “Corridoio di Suwalki” o minaccia la Russia di sorvolare il Baltico, cosa cercano gli europei? Come ostaggio consenziente di una lotta americano-cinese per un’egemonia mondiale che non è la sua, l’Europa è ora sulla strada potenzialmente pericolosa del riarmo nucleare sul proprio suolo e nelle sue immediate vicinanze. Il recente fallimento del Trattato INF e i piani americani e russi per “mini-armi nucleari” nei teatri delle potenze “deboli” significano che l’Europa corre il rischio mortale di diventare un giorno un nuovo campo di battaglia nucleare, una probabilità resa ancora più pericolosa dal fatto che i suoi rispettivi santuari nazionali potrebbero persino essere tenuti a bada.

Conclusione

Divisa tra il “vecchio” a ovest e il “nuovo” a est, l’Europa, attraverso la NATO, si trova più che mai soggetta alla protezione americana “grazie” alla minaccia russa che è finalmente tornata. Questa sottomissione è evidente anche nella sfera economica, dove si sta dimostrando impotente a mantenere le promesse fatte all’Iran di fronte alle sanzioni unilaterali americane, anche se dovrebbe essere una forte potenza economica con una popolazione di oltre 500 milioni di abitanti. Infine, invece di opporsi fermamente alla denuncia unilaterale dell’accordo nucleare di Vienna da parte degli Stati Uniti, la sua diplomazia si sdraia e denuncia l’Iran, che comunque aveva rispettato l’accordo! L’Unione Europea, politicamente inesistente in materia di sicurezza, impantanata com’è dall’otanismo e dalla formattazione della maggior parte dei suoi Stati membri (leader politici, diplomatici e militari) e nonostante le sue poche iniziative valide (EDA, PSC, IEI, FES), può sperare di raggiungere lo status di vera potenza diplomatica e militare solo rompendo il circolo vizioso antirusso della trappola americano-ottomana. Dati i suoi legami speciali con la Russia e la sua relativa indipendenza dagli Stati Uniti, la Francia, con l’aiuto della Germania, è l’unico Stato europeo che può indicare la strada di un autentico riavvicinamento alla Russia. Non solo può farlo, ma deve farlo. Forti dei legami storici che l’hanno legata alla Russia in momenti difficili della sua storia – quando, alla fine dell’agosto 1914, su richiesta urgente di una Francia sopraffatta, la Russia si impegnò frettolosamente nella battaglia di Tannenberg in Prussia orientale e pagò un prezzo altissimo per impedire la caduta di Parigi, o ancora quando, dal novembre 1942 fino alla vittoria del 1945, più di 40 piloti francesi andarono a morire nella battaglia di Tannenberg in Prussia orientale – o ancora quando, su richiesta di una Francia sopraffatta, la Russia si impegnò frettolosamente nella battaglia di Tannenberg in Prussia orientale e pagò un prezzo altissimo per impedire la caduta di Parigi, La Francia deve prendere rapidamente iniziative forti nei confronti della Russia, e persino sconvolgere la NATO, per rompere il paradigma perverso in cui l’Europa è rinchiusa giorno dopo giorno e provocare un essenziale e salutare elettroshock nelle menti delle persone. Non mancano le opzioni diplomatiche, militari ed economiche, che vanno dall’immediata revoca delle sanzioni, al congelamento delle task force terra-aria-mare “30 volte 4” della NATO, alla messa in discussione del ruolo degli Stati Uniti nella NATO, seguita da una completa revisione dell’Alleanza Atlantica con il ritorno di un vero partenariato con la Russia. Sono tutti passi essenziali se speriamo di veder nascere un giorno un’autentica Alleanza europea di difesa, un partner paritario con la Russia e gli Stati Uniti.
Il contesto è favorevole, da un lato con la Brexit che vede l’allontanamento del “sottomarino” americano dall’Europa, dall’altro con la Germania motivata come non mai ad opporsi al boicottaggio americano del gasdotto russo-europeo Nord Stream 2, che è quasi completato. I due Stati, Francia e Germania, devono prendere l’iniziativa, anche se all’inizio sono soli, e poi contare sui loro partner della vecchia Europa per attirare l’Europa dell’Est in questo vasto movimento. Il cammino sarà difficile e duro, perché la NATO non è morta, tutt’altro; ci saranno forse dei colpi da incassare perché il “grande fratello”, checché ne dica pubblicamente, si opporrà con tutte le sue forze, ma la posta in gioco è questa. L’Europa o si farà con la Russia o non si farà.

Generale (2S) Grégoire Diamantidis, membro del Cercle de Réflexions Interarmées.

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Il massacro di Mosca scatena una battaglia di responsabilità, di JAMIE DETTMER

Ecco perché il GUR ucraino, e non l’ISIS-K, è il principale sospettato dell’attacco terroristico al Crocus, di ANDREW KORYBKO

Ecco perché il GUR ucraino, e non l’ISIS-K, è il principale sospettato dell’attacco terroristico al Crocus

Il GUR ha imparato tutto sul terrorismo dalla CIA, ma poiché è ancora un’imitazione, ha commesso una serie di errori sciatti che hanno avuto come risultato quello di incriminare l’Ucraina invece di dare falso credito alla narrazione dell’ISIS-K.

Dopo l’atto terroristico di venerdì sera , sull’ attacco al Crocus City Hall di Mosca si è speculato se il responsabile fosse davvero l’ISIS-K, come dichiarato dal gruppo, o se il servizio di intelligence militare ucraino GUR avesse orchestrato tutto con la copertura di suoi agenti che si spacciavano per membri di quel gruppo. I media mainstream stanno seguendo la prima ipotesi e stanno facendo del loro meglio per screditare la seconda, ma ricordando la storia terroristica del GUR e i suoi legami con gli islamisti radicali si capisce che non è al di sopra di ogni sospetto.

Sono responsabili dell’assassinio di Darya Dugina nell’estate del 2022, dell’attentato con camion bomba sul ponte di Crimea nell’autunno dello stesso anno, dell’assassinio di Vladlen Tatarsky nella primavera del 2023 e cross delle incursioni terroristiche transfrontaliere   del cosiddetto “Corpo dei volontari russi” nell’ultimo anno. Sonoanche legati ai terroristi tartari di Crimea e a quelli legati all’ISIS ceceniAnche la CIA è collegata a questi atti e gruppi terroristici, dopo che il Washington Post lo scorso autunno ha riferito che ha ricostruito il GUR da zero dopo il 2014.

L‘odierno GUR è un prodotto della CIA, che ha certamente condiviso con i suoi protetti tutto ciò che ha imparato mentre conduceva la ibrida guerra in Siria, per non parlare dei loro contatti terroristici . È attraverso questa meticolosa coltivazione che il capo del GUR Kirill Budanov ha ottenuto la sua sete di sangue, che è stata messa in mostra la scorsa primavera quando ha dichiarato che “abbiamo ucciso russi e continueremo a uccidere russi ovunque sulla faccia di questo mondo fino alla completa vittoria dell’Ucraina”.

Per quanto letale sia diventato il GUR negli ultimi dieci anni, è ancora un’imitazione della CIA, motivo per cui ci si aspetta che di tanto in tanto commetta errori grossolani. Ciò è rilevante quando si tratta dell’ultimo attacco, dopo che l’ISIS-K ha rivendicato la responsabilità utilizzando un modello di notizia obsoleto, suggerendo così che qualcun altro ha rivendicato il merito a suo nome in un primo momento, ma poi l’ISIS-K l’ha opportunisticamente utilizzato per avere più peso. Considerando la sua storia terroristica e i suoi legami con gli islamisti radicali, questo misterioso attore era probabilmente il GUR.

È probabile che i loro agenti si siano finti membri di quel gruppo terroristico per mantenere una plausibile negabilità nel caso in cui l’attacco pianificato fosse stato sventato o i terroristi fossero stati catturati in seguito. Uno dei tagiki catturati nell’auto che correva verso il confine ucraino ha dichiarato di essere stato reclutato dai curatori di un canale Telegram radicale appena un mese fa per portare a termine l’attacco utilizzando armi già in dotazione in cambio di un pagamento con carta di debito di circa 5000 dollari ciascuno.

Questi cittadini sono stati probabilmente scelti dal GUR perché alcuni di loro sono predisposti al radicalismo religioso a causa della persistente eredità della guerra civile di ispirazione islamica degli anni Novanta in Tagikistan, il loro Paese confina con il quartier generale afghano dell’ISIS-K e hanno il privilegio di viaggiare senza visto in Russia. Di conseguenza, sono stati presumibilmente reclutati tramite un canale Telegram radicale, il coinvolgimento dell’ISIS-K non sembra del tutto implausibile e hanno potuto entrare facilmente in Russia con un controllo minimo.

Tuttavia, non erano abbastanza radicali da uscire con le armi in pugno o con un’esplosione suicida come quella per cui è noto l’ISIS-K, ma erano comunque sufficientemente simpatizzanti dell’ideologia del gruppo da portare a termine quella che ritenevano essere la sua ultima missione in cambio di denaro. Questo spiega perché sono fuggiti dalla scena del crimine, contrariamente a quanto farebbe qualsiasi affiliato di quel gruppo, dopo aver mitragliato decine di persone e aver dato fuoco al locale.

Se avessero raggiunto l’Ucraina, dove l’FSB ha confermato che avevano contatti e il Presidente Putin ha detto che “è stata preparata una finestra per loro… per attraversare”, allora probabilmente sarebbero stati uccisi dal GUR per coprire tutto. Non bisogna dimenticare che questo gruppo ha imparato a fare terrorismo dalla CIA, che a sua volta ha perfezionato questa pratica in Siria negli ultimi 13 anni di guerra ibrida che ha condotto in quel Paese, ma il GUR è ancora un’imitazione e per questo ha commesso tre errori grossolani.

Nell’ordine in cui si sono verificati, il primo errore è stato quello di reclutare persone che non erano pronte a combattere fino alla morte sul luogo dell’imminente attacco terroristico. Questo ha portato alla cattura dei colpevoli e alla rivelazione di come sono stati reclutati in cambio di denaro, il che è uno dei segni che l’ISIS-K non è dietro a ciò che è successo, poiché i loro membri si aspettano sempre di morire come “martiri”. Di conseguenza, il fatto che sia stato commesso questo errore suggerisce che il GUR era disperato nel portare avanti i suoi piani.

Il secondo errore è stato quello di non aver detto ai loro proxy di fuggire in un rifugio subito dopo l’attacco per incontrare un contatto che li avrebbe poi aiutati a raggiungere il confine, ma che in realtà li avrebbe uccisi una volta incontrati per coprire tutto. Questo li ha portati a correre verso il confine ucraino, mostrando così a tutti che pensavano almeno di trovare rifugio lì, il che ha reso la rivendicazione russa del coinvolgimento ucraino molto più credibile per molti occidentali scettici.

Infine, l’ultimo errore è stato l’utilizzo da parte del GUR di un modello di notizia obsoleto per rivendicare il merito dell’attacco a nome di ISIS-K, che, secondo le loro corrette previsioni, lo avrebbe opportunisticamente utilizzato per ottenere un certo peso. Così facendo, però, hanno segnalato che il gruppo stesso non ha avuto un ruolo nell’organizzazione di quanto accaduto, altrimenti sarebbe stato usato il loro modello più moderno. Nel loro insieme, questi tre errori hanno screditato la narrazione dei media mainstream e attirato l’attenzione sul GUR.

Se a ciò si aggiungono i suoi trascorsi terroristici e i suoi legami con gruppi islamici radicali, che dimostrano rispettivamente la capacità e l’intenzione di compiere l’attacco Crocus e le conoscenze necessarie per impersonare estremisti online a scopo di reclutamento, tutto ciò rende il GUR il principale sospettato. Ha imparato tutto sul terrorismo dalla CIA, ma poiché è ancora un’imitazione, ha commesso una serie di errori sciatti che hanno portato a incriminare l’Ucraina invece di dare falso credito alla narrazione dell’ISIS-K.

La battuta di Sikorski sul fatto che Polonia e Ucraina sono state un unico Paese per 400 anni è fuorviante

Tutte queste terre costituivano il territorio della sciolta Unione polacco-lituana dopo Krewo nel 1385 e del più stretto Commonwealth dopo Lublino nel 1569, ma Varsavia ebbe il dominio diretto sull’Ucraina orientale solo per meno di un secolo, su parti dell’Ucraina occidentale per 230-360 anni e sulla Galizia orientale per oltre 420 anni.

Il Ministro degli Esteri polacco Radek Sikorski ha recentemente dichiarato all’ agenzia di stampa tedesca dpa che “l’Ucraina e la Polonia sono un unico Paese da 400 anni. [Un intervento convenzionale in Ucraina fornirebbe carne da macello alla propaganda russa. Pertanto, dovremmo essere gli ultimi a farlo”. La sua battuta sulla storia di questi due Paesi è tuttavia fuorviante, poiché sia la durata della loro unione che la natura delle loro relazioni sono discutibili.

Per quanto riguarda la prima, l’Unione di Krewo del 1385 portò alla creazione dell’Unione polacco-lituana, che fu il precursore del più stretto Commonwealth polacco-lituano che emerse dall’Unione di Lublino del 1569. Nei quasi due secoli che intercorsero tra queste due unioni, la stragrande maggioranza dell’odierna Ucraina fu sotto il controllo del Granducato di Lituania, ad eccezione della Galizia orientale e della Podolia occidentale, all’interno delle quali si trovano la nota città di Lwow e la città di Kamieniec Podolski.

Il Regno della Corona di Polonia assunse il controllo delle regioni ucraine dell’odierno Granducato di Lituania solo dopo la creazione del Commonwealth, il che significa che la maggior parte di quella che oggi è conosciuta come Ucraina fece parte della Polonia stessa per meno di 230 anni, e non 400. Meno di un secolo dopo, il Trattato di Andrusovo del 1667, che pose fine alla guerra polacco-russa scatenata dalla Rivolta di Khmelnitsky pochi anni prima, vide San Pietroburgo strappare a Varsavia il controllo di Kiev e della maggior parte dell’Ucraina orientale.

La Polonia perse poi la Galizia occidentale a maggioranza polacca (con l’eccezione di Cracovia) e la Galizia orientale a maggioranza ucraina a favore dell’Austria poco più di 100 anni dopo, durante la prima spartizione del 1772. La Podolia occidentale e la maggior parte delle restanti regioni occidentali dell’Ucraina seguirono poco più di due decenni dopo, dopo che la seconda spartizione del 1793 le consegnò alla Russia. La terza spartizione, avvenuta appena due anni dopo, nel 1795, vide la Russia appropriarsi del resto delle terre polacche a maggioranza ucraina.

Lwow, in Galizia orientale, faceva parte della Corona polacca dal 1349, Kamieniec Podolski, in Podolia occidentale, vi aderì ufficialmente nel 1430 ma passò di mano al Granducato di Lituania per decenni prima, dallametàdel XIV secolo, mentre il resto delle regioni occidentali dell’Ucraina passò sotto il suo controllo nel 1569. Di conseguenza, la prima è stata parte della Polonia per oltre 420 anni, la seconda per almeno 360 anni, anche se forse più a lungo a seconda di come la si misura, e l’ultima per meno di 230 anni.

Va inoltre ricordato che il Trattato di Hadiach del 1658, mai attuato, avrebbe triforcato il Commonwealth polacco-lituano ritagliando un ducato “ruteno” (termine vecchio stile per indicare gli odierni ucraini) dalla maggior parte delle terre polacche precedentemente lituane, ad eccezione della Volhynia. Questo è rilevante nel contesto della battuta di Sikorski, poiché dimostra che alcune delle élite ucraine rimaste sotto il controllo di Varsavia dopo la Rivolta di Khmelnitsky volevano un’identità politica separata.

Lo scopo della condivisione di questi fatti è quello di dimostrare che la storia polacco-ucraina non è così semplice come lui la dipinge a livello geopolitico, per non parlare di quello locale, come dimostrano la Rivolta di Khmelnitsky del 1648-1657 e la “Koliivshchyna” del 1468-1769, entrambi bagni di sangue anti-polacchi. Sikorski voleva dare un segnale di sostegno all’Ucraina, ma nel farlo potrebbe aver fatto arrabbiare qualcuno con la sua affermazione fuorviante che trascura l’autonomia storica della Lituania dal 1385 in poi.

Il Granducato era un membro paritario del Commonwealth insieme alla Corona polacca, non una provincia o un vassallo di quest’ultima come spesso ritengono gli osservatori esterni. Pur facendo tecnicamente parte dello stesso Paese, i due Stati funzionavano de facto come Stati a sé stanti, grazie all’ampia autonomia di cui godevano nell’amministrare i propri affari interni; ecco perché l’idea che l’Ucraina moderna, controllata dalla Lituania, fosse “parte” della Polonia non è quella che la maggior parte delle persone potrebbe immaginare.

Tutte queste terre costituivano il territorio della sciolta Unione Polacco-Lituana dopo Krewo nel 1385 e del più stretto Commonwealth dopo Lublino nel 1569, ma Varsavia ebbe il dominio diretto sull’Ucraina orientale solo per meno di un secolo, su parti dell’Ucraina occidentale per 230-360 anni e sulla Galizia orientale per oltre 420 anni. Per tutto questo tempo si è formata un’identità ucraina separata, le cui radici hanno gettato le basi per l’interpretazione fascista che è sorta negli anni tra le due guerre e che è stata ripresa dopo il 2014.

Semplificando eccessivamente la dimensione geopolitica della storia polacco-ucraina, come ha fatto Sikorski affermando che i due Paesi “sono stati un unico Paese per 400 anni”, non si tiene conto dei fatti chiave toccati in questo articolo che spiegano lo stato attuale degli affari socio-politici in questa ex Repubblica sovietica. Induce gli osservatori esterni casuali a pensare che i legami bilaterali siano molto migliori di quelli attuali grazie alla loro storia comune, che in realtà è più complicata di quanto egli lasci intendere e viene vista in modo molto diverso da entrambi.

È importante dissipare l’illusione che Sikorski abbia rafforzato, poiché distrae dalla campagna di infowar anti-polacca che dura da tre mesi e che è stata descritta qui a metà marzo. Certo, non c’è più una crisi nei legami bilaterali come quella che hanno attraversato per un breve periodo lo scorso anno sotto il precedente governo conservatore-nazionalista polacco, ma i problemi sono ancora in agguato. Gli osservatori esterni, consapevoli del fatto che la loro storia non è così semplice come sembra, possono valutare meglio le dinamiche che si stanno sviluppando.

Nelle relazioni tra Romania e Ucraina sta nascendo una controversia religiosa

Dal punto di vista di Kiev, la creazione di una chiesa ortodossa separata per una delle tante minoranze etniche del Paese potrebbe essere considerata una minaccia latente all’unità nazionale, in quanto potrebbe incoraggiare altre persone a seguirne l’esempio se le autorità approvano questa, motivo per cui potrebbe essere respinta per motivi politici.

Balkan Insight (BI), una piattaforma mediatica regionale filo-occidentale, ha sorpreso gli osservatori pubblicando un articolo critico su come “Larivalità religiosa minaccia la stretta partnership tra Romania e Ucraina“. L’articolo richiama l’attenzione su come il sostegno della Chiesa ortodossa rumena (BOR), il mese scorso, alla creazione di una chiesa separata per l’etnia rumena in Ucraina potrebbe causare problemi nei loro legami. Secondo BI, non ci sono intenzioni anti-ucraine dietro questa mossa, anche se Kiev potrebbe non vederla in questo modo.

La maggior parte dei 400.000 rumeni di questa ex repubblica sovietica appartiene alla Chiesa ortodossa ucraina (UOC), un tempo legata alla Russia, che non riconosce la “Chiesa ortodossa in Ucraina” (OCU), che ha ricevuto lo “status di autogoverno” con una mossa controversa mezzo decennio fa. La BOR non riconosce pienamente l’OCU e teme che la repressione di Kiev nei confronti dell’UOC, a cui appartiene la maggior parte dei rumeni nel Paese, possa causare problemi ai suoi co-etnici.

BI ha riferito che “il giro di vite si è allargato fino a includere perquisizioni nei locali dell’UOC in una diocesi della regione di Chernivtsi, nell’ovest del Paese, dove vive la maggior parte della comunità religiosa rumena dell’Ucraina, con un metropolita di lingua rumena che ora sta affrontando un processo per presunto ‘incitamento all’odio religioso'”. I romeni etnici “si sono anche lamentati di diversi recenti incidenti ‘sospetti’, con autori non identificati che hanno incendiato diverse chiese o minacciato membri del clero”.

Dato che i media mainstream non hanno riportato questi incidenti, si dovrebbe dare per scontato che non ci sia nemmeno la più piccola prova che li colleghi alla Russia, il che suggerisce di default che i colpevoli sono probabilmente ucraini ultranazionalisti. I romeni etnici sono probabilmente un danno collaterale degli attacchi di questi estremisti contro l’istituzione precedentemente legata alla Russia, ed è probabilmente per questo che la BOR ritiene che dovrebbero avere una propria chiesa in modo da differenziarsi per sicurezza.

A tal fine, dovranno registrare le loro parrocchie come organizzazioni religiose, ma un esperto citato da BI ha ipotizzato che Kiev potrebbe respingere la loro richiesta per motivi politici. Non ha approfondito i possibili pretesti dietro questo scenario e ha solo ribadito di essere sicuro che qualsiasi controversia sarà risolta in modo amichevole, ma se ciò dovesse accadere, quasi sicuramente sarà dovuto al fatto che le autorità vogliono fare pressione sui rumeni etnici affinché si uniscano all’OCU del loro regime, che ha riti quasi identici a quelli dell’UOC.

Il precedente condiviso da BI alla fine dell’articolo, riguardante gli sforzi della BOR per incoraggiare le defezioni dalla Chiesa ortodossa moldava (MOC), legata alla Russia, verso la propria diocesi locale autonoma, nota come Metropolia di Bessarabia, aggiunge un ulteriore contesto al motivo per cui Kiev potrebbe respingere questa richiesta. Hanno informato il pubblico che “anche la Chiesa ortodossa rumena ha appoggiato questa decisione offrendo generosi stipendi e altri benefici ai sacerdoti disertori”.

In altre parole, sono stati corrotti per motivi etno-politici legati al desiderio della Romania di portare sotto l’influenza religiosa della sua Chiesa un maggior numero di coetanei nel Paese vicino, e questo approccio potrebbe prevedibilmente essere emulato anche in Ucraina nel prossimo futuro. La BOR non riconosce pienamente l’OCU e ha già avuto successo nel “braccare spiritualmente” alcuni fedeli moldavi dalla MOC legata alla Russia, per cui ne consegue naturalmente che potrebbe almeno tentare cautamente di farlo anche in Ucraina.

Dal punto di vista di Kiev, la creazione di una chiesa ortodossa separata per una delle tante minoranze etniche del Paese potrebbe essere considerata una minaccia latente all’unità nazionale, in quanto potrebbe incoraggiare altri a seguirne l’esempio se le autorità approvano questa, motivo per cui potrebbe essere respinta per motivi politici. Se ciò dovesse accadere e gli “incidenti sospetti” continuassero a colpire i romeni di etnia etnica, per non parlare dell’aumento della frequenza e forse anche dell’intensità, si potrebbe assistere allo scoppio di veri e propri disordini di base.

Se il regime dovesse rispondere con un uso sproporzionato della forza e i filmati della repressione dovessero circolare sui social media, ciò potrebbe contribuire a peggiorare la percezione che i rumeni hanno dell’Ucraina. Il Consiglio europeo per le relazioni esteresondaggio del(ECFR), condotto a gennaio e pubblicato un mese dopo, ha rivelato alcuni risultati sorprendenti sul loro atteggiamento nei confronti del Paese vicino.

Più di due volte i rumeni pensano che il conflitto si concluderà con la vittoria della Russia anziché dell’Ucraina, rispettivamente il 18% e il 9%, mentre il 37% si aspetta un compromesso. Circa la metà degli intervistati ha inoltre affermato che l’UE dovrebbe spingere l’Ucraina a negoziare con la Russia, mentre solo il 21% ha detto che dovrebbe sostenerla nella riconquista dei territori perduti. Nel frattempo, il 35% dei rumeni ha dichiarato all’ECRF di considerare gli ucraini una minaccia per il proprio Paese, contro il 13% che li vede come un’opportunità.

Un altro dato statistico interessante è che il 44% dei rumeni sarebbe favorevole a che il proprio Paese riducesse gli aiuti all’Ucraina se gli Stati Uniti fossero i primi a farlo sotto una seconda presidenza Trump, mentre solo il 12% pensa che l’UE dovrebbe sostituire gli aiuti potenzialmente persi dagli Stati Uniti e solo il 15% pensa che in questo caso dovrebbero rimanere invariati. Infine, il 39% ritiene che l’UE abbia svolto un ruolo negativo nel conflitto negli ultimi due anni, contro il 28% che ritiene che sia stato positivo.

Questi atteggiamenti sono importanti perché la Romania facilita l’invio di armi occidentali all’Ucraina attraverso ilgreco-ucraino corridoio che attraversa il Paese e la Bulgaria. La Romania ospita anche truppe francesi e potrebbe quindi essere un trampolino di lancio per un intervento convenzionale di Parigi nel conflitto , per prendere il controllo della costa ucraina del Mar Nero ad esempio La possibilità che manifestanti di ispirazione polacca blocchino il confine in risposta a una repressione anti-rumena in Ucraina potrebbe quindi rimodellare le dinamiche del conflitto.

Per questo motivo, gli osservatori dovrebbero continuare a monitorare la disputa religiosa che sta nascendo nelle relazioni tra Romania e Ucraina, soprattutto perché la BI filo-occidentale di tutti gli organi di informazione è già molto preoccupata. Non avrebbero sensibilizzato l’opinione pubblica su questo argomento se non pensassero seriamente che potrebbe portare a qualcosa di più grande, dato che parlarne semplicemente potrebbe portarli ad essere accusati di fare propaganda. Conoscendo Kiev, non si può escludere un giro di vite anti-romeno, anche se non è chiaro quando potrebbe avvenire.

I servizi di sicurezza di tutto il mondo hanno l’obbligo di impiegare tutti i mezzi a loro disposizione se credono sinceramente che ci siano ragioni legittime per sospettare che coloro che sono sotto la loro custodia possano avere informazioni che potrebbero contrastare un attacco terroristico potenzialmente imminente contro i civili.

I quattro terroristi sorpresi a fuggire in Ucraina dopo aver compiuto l’attentato di venerdì sera L’attentato al municipio Crocus di Mosca è apparso in tribunale malconcio e contuso. Un filmato precedentemente diffuso sui social media mostrava uno di loro a faccia in giù con i capelli tirati, un altro con l’occhio fuori dall’orbita, l’altro con l’orecchio infilato in bocca e l’ultimo con i genitali scioccati. Ciò ha portato alla condanna sia della comunità dei media mainstream che di quella dei media alternativi (AMC).

Il primo ha cercato di allarmare il fatto che l’FSB avesse pubblicato questo filmato per intimidire i suoi connazionali, mentre un membro di spicco del secondo, che si trovava recentemente a Mosca per un grande evento, ha criticato queste tattiche dure definendole “medievali” e “una rottura nella catena di comando”. ”. Altri membri dell’AMC hanno condannato la tortura in generale , con i tempi dei loro post che lasciano intendere che sono collegati a quel filmato ma che si sentono a disagio nell’affrontarlo direttamente per qualsiasi motivo.

I media mainstream hanno ovviamente ulteriori motivazioni nel portare avanti la narrazione che hanno fatto mentre gli AMC erano ben intenzionati ma probabilmente fuorviati per le ragioni che ora verranno spiegate. È comprensibile che quegli attivisti, commentatori, esperti, ecc. che sono contrari a ciò che gli Stati Uniti hanno fatto ad Abu Ghraib in Iraq e continuano a fare a Guantanamo Bay, rinneghino quella che credono veramente essere la tattica simile che la Russia ha impiegato contro i quattro terroristi catturati.

Ciò è particolarmente vero per coloro che nel corso degli anni hanno sensibilizzato sugli abusi di Israele contro i palestinesi. Questi membri dell’AMC potrebbero essere veramente contrari all’uso della forza contro i detenuti per qualsiasi motivo, indipendentemente dal contesto, sia per principio o perché sono preoccupati che ciò possa screditare qualunque cosa rivelino, oppure sono preoccupati di stessi sarebbero screditati se lo sostenessero nel caso russo dopo averlo condannato nei tre casi sopra menzionati.

Qualunque siano le loro ragioni, coloro che sono preoccupati per i doppi standard non hanno nulla di cui preoccuparsi perché il caso russo è qualitativamente diverso da quelli di Abu Ghraib, Guantanamo Bay e Israele. Questi tre erano per lo più contro iracheni, musulmani del Sud del mondo e palestinesi che nella stragrande maggioranza dei casi non avrebbero realisticamente informazioni su attacchi terroristici potenzialmente imminenti a differenza dei quattro terroristi catturati dalla Russia lo scorso fine settimana.

In altre parole, i sospettati contro i quali queste dure tattiche furono tristemente applicate in questi tre casi erano per lo più vittime di sadici, che li torturavano letteralmente per ragioni personali o politiche. Il caso russo, tuttavia, riguardava il tentativo di ottenere informazioni il più presto possibile su attacchi terroristici potenzialmente imminenti, visto che questi avrebbero potuto essere pianificati come seguito immediato a quello del Crocus City Hall come parte di un ibrido a livello nazionale. Campagna di guerra contro la Russia.

I servizi di sicurezza di tutto il mondo hanno l’obbligo di impiegare tutti i mezzi a loro disposizione se credono sinceramente che ci siano ragioni legittime per sospettare che coloro che sono sotto la loro custodia possano avere informazioni che potrebbero contrastare un attacco terroristico potenzialmente imminente contro i civili. A dire il vero, ci sono quelli che a volte abusano di questo obbligo per sadici motivi personali o politici, e altri a volte subiscono il lavaggio del cervello a causa degli ideali liberali-globalisti che rifiutano volontariamente di utilizzare tattiche dure.

Entrambi screditano coloro che tra i loro colleghi utilizzano questi mezzi per il bene superiore di proteggere le persone da attacchi terroristici potenzialmente imminenti: gli abusi del primo fanno sospettare che ciò avvenga sempre per ragioni sadiche, mentre la riluttanza del secondo fa pensare che non ce ne sia mai bisogno. La realtà è che questo a volte è necessario, non importa quanto alcuni membri ben intenzionati dell’AMC possano essere contrari, e l’utilizzo da parte della Russia di queste dure tattiche è avvenuto per le giuste ragioni.

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