Qui sotto un articolo dell’ex presidente e primo ministro russo Dmitry Medvedev, pubblicato il 21 marzo 2022 sul suo canale Telegram. L’articolo va inserito certamente nel contesto del conflitto con l’Ucraina, all’epoca già in corso da un mese; va quindi tarato e valutato per quello che è. Il testo pone tuttavia una questione più volte sollevata da questo sito e che meriterà, in futuro, certamente maggiore attenzione. Tutta la narrazione occidentale, ad impronta americana e conseguentemente quella europeista ha giustificato la scelta dell’estensione della NATO e dell’allargamento della Unione Europea come una risposta alle enormi pressioni della opinione pubblica dei paesi dell’Europa Orientale determinate dalla paura del pericolo russo, dalla fisiologica reazione a quaranta anni di dominio sovietico su tutta quell’area. Sentimenti in realtà solo in parte reali e comunque volutamente fraintesi, perché interpretati come un trionfo dello spirito e del lirismo europeista anche in quell’area così negletta. Quello che si è subito affermata in quei paesi è stata invece e soprattutto una pretesa di risarcimento nei confronti dei paesi occidentali, rei di aver abbandonato all’orso russo quella parte di Europa ed una forma predominante di nazionalismo etnico che faceva e fa letteralmente a pugni con il lirismo europeista. La conseguenza è stata che in questo trentennio si è accentuata ulteriormente la natura “contrattualistica” delle pratiche europeiste interne alla UE. L’adesione alla Unione Europea è stata in realtà una evidente subordinata rispetto alla scelta strategica, ritenuta assolutamente prioritaria da quei paesi, di adesione alla NATO. Una condizione ben conosciuta dai vertici e dai funzionari della Commissione Europea, stando ai numerosi rapporti interni che circolavano già all’epoca, alcuni dei quali pubblicati su questo sito. Una rimozione che sta conducendo velocemente alla nemesi del lirismo europeista.
E’ stato un processo relativamente facile da perseguire e da gestire, ma non del tutto indolore. Almeno nella fase iniziale, sia in buona parte dei paesi dell’Europa Orientale che in Germania e in minor misura in Italia, vi è stata una componente politico-sociale importante che propugnava un sistema di relazioni più equilibrato, un programma di riconversione economica più cauto e rispettoso degli equilibri delle economie locali di quei paesi e degli interessi dei paesi europei piuttosto che di quelli americani. Grosso modo questa divisione politica nei paesi orientali aveva come discrimine i settori di economia locale chiusa o integrata esclusivamente nel circuito sovietico da una parte, i settori dell’economia, controllati dalle alte sfere di partito, minoritari economicamente ma importanti finanziariamente e politicamente, relazionati con l’export occidentale o in parte a gestione privatistica, come in Polonia e in Ungheria, dall’altra. Nel giro di pochissimi anni sia in Italia e in Germania che in vario grado nei paesi orientali hanno preso nettamente il sopravvento i secondi con tutte le implicazioni ormai sempre più visibili. Ben istigate dai centri decisori statunitensi, con la complicità interessata dei loro accoliti tedeschi, ma anche svedesi e britannici, quelle pulsioni nazionaliste si sono rapidamente trasformate in uno spirito di rivincita ostile verso la Russia e le componenti filorusse o neutraliste presenti nelle popolazioni di quell’area. I vecchi fantasmi che hanno funestato la prima metà del secolo scorso, che non hanno riguardato solo la Germania e l’Italia, come la narrazione tende invece ad imporre, stanno pian piano tornando e rischiano di trascinare nuovamente il continente europeo in una situazione di conflitto endemico e distruttivo, ma con una postura geopolitica infinitamente più subordinata a scelte e strategie esterne all’area rispetto al secolo passato. Una condizione deprimente e drammatica della quale alcuni paesi dell’Europa Orientale e l’Italia, così “degnamente” rappresentata da un funzionario dal passato e un presente più che eloquente, sono gli esempi preclari. E’ arrivato ormai il tempo di pagare il conto salatissimo di settanta anni di pax americana che ci ha resi “mediamente felici”, avvinghiati come siamo dalle sue catene; una pax ormai in aperta discussione, anche se avviluppata in un contenzioso dall’esito finale ancora incerto. Un conto che sarà lungi dall’essere ripartito equamente, così come le portate del banchetto dal menu sempre più deludente. Un motivo in più per diffidare di questa Unione Europea. Buona lettura, Giuseppe Germinario
Sulla Polonia
Quando l’Europa si renderà conto delle conseguenze dannose delle sanzioni anti-russe, il Paese europeo a noi più caro sta andando, come al solito, più veloce della musica. Il primo ministro Mateusz Morawiecki, accompagnato dal vice primo ministro Kaczyński e dai primi ministri della Repubblica ceca e della Slovenia, si è recato a Kiev su un treno pesantemente sorvegliato. Proprio come Lenin ai suoi tempi, nella sua auto blindata finanziata dai tedeschi. Che discussioni con Zelensky! Che promesse di amicizia e di aiuto! Ciò che mente, ovviamente. Al suo ritorno, Moravetsky annunciò solennemente un programma di “derussificazione dell’economia polacca ed europea”. Specificando coraggiosamente che “sarà costoso”.
Ha assolutamente e totalmente ragione: sarà costoso e non necessario. Ma la Polonia non deve più preoccuparsi delle sue perdite. Ha già perso tutto ciò che poteva perdere durante tutti questi anni di russofobia patologica. Così ora, come dicono i vicini così cari ai polacchi: “Il fienile è andato a fuoco, brucia la casa!” »
Quando si tratta di Russia, la Polonia si contorce letteralmente in “dolorosi fantasmi”. È molto difficile per le sue élite accettare che il tempo dei guai si sia concluso con l’espulsione degli occupanti polacchi dal Cremlino quasi quattrocento anni fa. E che la Repubblica delle Due Nazioni (“Rzeczpospolita Obojga Narodów”) non è mai diventata un grande impero. Tutti questi fallimenti non provengono dagli intrighi della Russia, gli unici responsabili sono le liti interne, la corruzione, i fallimenti economici e le battaglie perse. E questo per molti secoli.
La propaganda antirussa polacca è la più feroce, la più volgare e la più sgargiante. Una vera comunità di pazzi politici. A differenza del nostro Paese, dove non sorvoliamo nemmeno sui capitoli più oscuri della nostra storia, in Polonia si sogna di dimenticare i tempi della seconda guerra mondiale. E, soprattutto, quei soldati sovietici che sconfissero il fascismo, cacciarono gli occupanti dalle città polacche e impedirono loro di distruggere Cracovia, liberarono i prigionieri di Auschwitz e Majdanek.
I polacchi stanno riscrivendo la storia, demolendo monumenti. L’occupazione fascista è apertamente identificata con l'”occupazione” sovietica. Chi avrebbe potuto immaginare un discorso più fuorviante e disgustoso? I polacchi l’hanno fatto.
Tuttavia, non ci sono sentimenti anti-polacchi in Russia e non lo sono mai stati. I sociologi lo testimoniano: i cittadini del nostro Paese sono molto amichevoli verso questo popolo. È impossibile dimenticare l’ondata di simpatia e compassione causata da questo incidente aereo vicino a Smolensk, in cui una delegazione di alto livello e il presidente polacco sono morti. I cittadini russi hanno portato fiori all’ambasciata e alle chiese polacche, hanno espresso le loro condoglianze sulla stampa e sui social network. Come capo di stato, ho dichiarato un giorno di lutto in tutto il paese.
Successivamente, durante le mie visite in Polonia, mi sono convinto che non ci fossero ostacoli al miglioramento delle relazioni tra i nostri paesi, è una strada a doppio senso dove tutti dobbiamo vincere lì. Tuttavia, il partito n. 2 del PiS di Kaczyński , guidato dai suoi padroni americani, e il resto delle élite politiche hanno fatto di tutto per bloccare qualsiasi normale comunicazione.
Oggi, gli interessi dei cittadini polacchi sono stati sacrificati alla russofobia di quei politici mediocri e dei loro burattinai d’oltreoceano, che mostrano evidenti segni di senilità. Il rifiuto di acquistare gas, petrolio e carbone russi, l’opposizione al Nord Stream 2 hanno già causato gravi danni all’economia di questo Paese. E andrà solo peggio. Lo stesso vale per molte altre misure, che non si basano sull’economia ma sulla politica con il pretesto della “derussificazione”. A loro non importa. Piuttosto che venire in aiuto dei propri cittadini, è molto più importante per le élite vassalli polacchi giurare fedeltà al loro signore americano e fare di tutto per mantenere vivo il fuoco dell’odio verso il nemico rappresentato dalla Russia.
Cosa ci guadagneranno i cittadini? Assolutamente niente. Ma prima o poi capiranno che l’odio per la Russia non rafforza i legami della società e non contribuisce al benessere o alla pace. Al contrario, la cooperazione economica con il nostro Paese avvantaggia i polacchi, i legami umani sono indispensabili e gli scambi culturali e scientifici tra le patrie di Pushkin e Mickiewicz, di Tchaikovsky e Chopin, di Lomonosov e Copernico sono essenziali. Molto probabilmente, i polacchi faranno quindi la scelta giusta, da soli, senza sollecitazioni o pressioni da parte di élite straniere afflitte da demenza.
Preferendo l’amministrazione delle cose al governo degli uomini, i nostri contemporanei hanno accarezzato il sogno di un pacifico villaggio globale. Gli interessi incrociati dovevano sostituire le relazioni di dominio. Il clamoroso ritorno della storia ha spazzato via questo sogno. Le interdipendenze non impediscono gli scontri. Il Cremlino sviluppa le sue armi avanzate con componenti europei; gli americani fabbricano i loro aerei con minerali cinesi rari mentre gli ucraini si scaldano con il gas dei russi che uccidono i loro figli.
Il puro interesse materiale e le ideologie non sono quindi riusciti a pacificare il mondo né a spiegarne le convulsioni. Quindi dobbiamo cercare altrove il motore del sistema strategico globale. Criticata da autori come Bertrand Badie, la cui fragilità concettuale nasce dalla sfida insostenibile di voler spiegare le relazioni internazionali senza parlare di strategia, la nozione di potere e i suoi meccanismi offrono proprio una griglia di lettura globale e coerente. Dobbiamo ancora essere d’accordo sulla sua definizione.
Il potere è una relazione strategica
L’uomo è un essere sociale proiettato nel tempo. Vale a dire, un animale politico e storico la cui azione collettiva sposa le forme della strategia. Organismi collettivi organizzati, le società perseguono i propri obiettivi, il primo dei quali è garantire la sostenibilità e la prosperità di una comunità definita in un determinato territorio. La loro moltiplicazione porta gradualmente i loro interessi a incrociarsi, a scontrarsi.
L’area mondiale si è così convertita in un sistema strategico animato da rivalità di potere, questo rapporto sfaccettato e sinergico che è, tenuto conto della necessità, l’effetto della proiezione nello spazio e nel tempo di una volontà strategica ragionata sull’ambiente materiale e immateriale .
La potenza è una relazione comparativa a somma zero. In un mondo che cambia, una potenza che non progredisce corre il rischio di una regressione meccanica. Per questo non può essere pensata al di fuori delle condizioni della sua crescita in un quadro di competizione, contestazione o confronto tra gli unici attori che ne raccolgono tutte le caratteristiche, gli Stati.
I meccanismi del potere si basano su tre principi uguali e senza tempo comuni a tutte le sfere culturali: necessità, volontà e legittimità. Si suddividono in fattori ed elementi.
La necessità è il peso dei dati di partenza, degli elementi quantificabili. Obiettivo, riunisce dati fisici e cognitivi. Copre la geografia, la demografia o le risorse economiche di un paese e determina i concreti equilibri di potere. Lei è il braccio.
Principio guida, la volontà è la capacità di concepire un piano strategico, determina l’obiettivo da raggiungere, detta la procedura da seguire e avvia l’azione. Sfrutta le opportunità, supera i vincoli, aggira gli ostacoli o forza la resistenza. Lei è la testa, con tutto ciò che la mente umana ha di razionalità, ma anche di errori o imprevisti.
Infine, la legittimità assicura la coesione di una società attorno a valori o convinzioni condivisi e le dà la sensazione di compiere un’azione giusta, bella, buona o quantomeno necessaria. Riguarda le forze morali. Lei è il cuore.
Mappatura e dinamica della potenza
È possibile mappare cinque tipi principali di rilievi di potenza.
Al vertice c’è la ristretta cerchia delle superpotenze, come l’URSS ieri, gli Stati Uniti oggi, la Cina domani. Hanno tutte le carte in mano per imporre la loro direzione nel mondo.
Poi arrivano le potenze medie a vocazione globale come la Francia o l’Inghilterra, a cui un giorno potrebbero unirsi l’India o la Germania. Se la storia ha talvolta offerto loro l’illusione di una possibile egemonia, hanno imparato a misurare il peso della necessità ea conoscerne i limiti.
Il terzo piano riunisce potenze regionali, come il Brasile o l’Australia, difficili da aggirare in una sfera delimitata.
Questi livelli raggruppano i poteri attivi. Le pianure e le valli successive sono il dominio dei poteri passivi.
Vi troviamo le nazioni deboli, ma prospere, attaccate solo ai loro interessi immediati, come molti paesi europei. Per mancanza di volontà, costituiscono una semplice posta in gioco tra i grossi che contestano i clienti.
Il livello più basso è quello degli Stati deboli e poveri, che hanno solo interessi locali. Le loro carenze in tutte le aree sono tali da formare solo una landa desolata dove le grandi potenze si oppongono più o meno liberamente; ci sono un certo numero di paesi dell’Africa nera, dell’America Latina e dell’Asia.
Naturalmente entrano in gioco altri fattori. Potrebbero riguardare il clima di potere. I poteri freddi sono conservatori. Hanno interesse a congelare in misura maggiore o minore la scena mondiale e sono per definizione stabilizzanti, come la Francia o il Marocco, che perseguono politiche di sovranità, influenza ed equilibrio.
Al contrario, i poteri caldi sono revisionisti. Hanno aspirazioni imperiali, globali nel caso delle superpotenze, o regionali per stati come la Turchia .
Questa mappatura può essere dettagliata o orientata in base alle esigenze analitiche. Facilita la comprensione delle forze coinvolte e delle dinamiche del potere naturale o accidentale.
Il movimento di correnti calde o fredde porta meccanicamente a perturbazioni, come l’incontro dell’espansionismo turco e del conservatorismo francese nel Mar Egeo. I fenomeni naturali dell’erosione del potere, di cui la Russia ha notato l’importanza dopo la caduta dell’URSS, richiedono aggiustamenti o azioni più o meno riuscite per mantenere un ambiente favorevole; quando blocchi importanti si sono staccati dal corpo centrale come fa l’Ucraina, il volontarismo si oppone alla forza di gravità con le conseguenze che abbiamo visto.
Alcuni movimenti tettonici sotterranei preannunciano quindi tsunami, che possono verificarsi durante i grandi cambiamenti demografici: ci si può quindi interrogare sulla sostenibilità sociale degli Emirati Arabi Uniti dove il 10% dei cittadini annega in una massa del 90% di estranei.
Le dinamiche di ascesa o declassamento obbediscono a determinate regole e provocano naturalmente depressioni o tempeste. Se i geografi sono stati in grado di parlare di riscaldamento globale, il riscaldamento geopolitico è una realtà molto preoccupante che richiede l’adozione di misure per mitigarlo, se possibile, per prepararci sicuramente.
Lo stratega è quindi simile al geografo. La conoscenza dei meccanismi del potere gli permette di comprendere i fenomeni indotti e di anticiparli, individuando tendenze o probabilità in assenza di certezze fuori portata.
Equilibri e squilibri
La tettonica delle potenze potrebbe essere sommariamente riassunta come un equilibrio continuamente perduto e perennemente ritrovato.
I periodi di anarchia sono quelli in cui la rottura è tale che il riequilibrio è impossibile, come dopo la caduta dell’Impero Romano. Le crisi maggiori sono l’espressione di una violenta oscillazione del pendolo per contrastare un cambiamento troppo brutale per essere digerito gradualmente. Nel 1914, la guerra non derivava tanto dal desiderio di combattere del Reich quanto dalla dinamica creata dal fantastico aumento della sua potenza demografica, economica e militare a partire dal 1870. La forza di gravità costruita attorno al potere germanico non poteva che dislocare il edificio internazionale.
I movimenti strutturali sono più durevoli del frutto degli scontri cinetici. Non fu Waterloo che spinse la Francia al secondo rango di potenza nel 19° secolo . È il processo di unificazione tedesca che ha progressivamente ridotto il suo peso relativo nel concerto europeo. Inoltre, lo schiacciamento militare totale della Germania nel 1945 non le ha impedito di riprendere gradualmente e naturalmente la leadership europea.
La legge del ritorno all’equilibrio significa che i poteri che contano sono generalmente rimasti gli stessi nel corso dei secoli. È eccezionale che una nazione esca dal cerchio che gli è proprio, ma quando ciò accade è ancora più raro che riesca a ritrovarla.
Le evoluzioni che possono causare squilibri hanno ritmi molto vari. Nel regno della necessità, sono generalmente lenti, salvo incidenti come la scoperta di materie prime vitali o di alto valore: gli idrocarburi hanno trasformato una piccola nazione remota in uno degli stati più prosperi del globo all’inizio degli anni ’70.
È in termini di volontà che le rotture sono più rapide e l’influenza del libero arbitrio individuale o collettivo è decisiva. Personalità forti come i Presidenti Putin o Erdogan hanno segnato le Relazioni Internazionali contemporanee; la resilienza collettiva del popolo ebraico ha permesso loro di superare due millenni di dispersione e persecuzione per ricreare finalmente uno stato in pochi anni.
I criteri di legittimità generalmente conoscono solo evoluzioni progressive e sotterranee. Ma quando l’architettura delle credenze è cambiata, è difficile tornare indietro. La Corte di Versailles lo scoprì a suo danno nel 1789 prima che il mondo intero ne rimanesse sconvolto.
Sebbene i cambiamenti creino opportunità, non tutti vale la pena coglierli. Uno squilibrio troppo grande a favore di un giocatore provoca in cambio una reazione virulenta e coordinata da parte dei suoi avversari, dei suoi compagni, persino dei suoi alleati. Uno Stato deve porsi anche la questione della sua capacità di assorbire un forte aumento di potere. La rana non vince volendo essere più grande del bue…
Modellazione piuttosto che shock
Altri meccanismi derivano dalle contraddizioni interne di qualsiasi stato, sistema, situazione. Mao ha anche teorizzato il suo sfruttamento strategico. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno difficoltà a conciliare la propria identità democratica e la propria natura imperiale. All’interno della stessa alleanza formata dalle democrazie, una forte antilogia distingue la visione francese del multilateralismo, considerato come un’opportunità per creare spazio di manovra, e l’approccio americano, che lo vede come una minaccia al suo status di iperpotenza.
Un paradosso è che la potenza trattenuta è maggiore della potenza impiegata. Quest’ultima, infatti, è una spesa in conto capitale il cui beneficio resta da dimostrare. L’Inghilterra ha costruito il suo dominio assistendo alle grandi conflagrazioni europee molto più che partecipando ad esse. Mentre i suoi avversari si esaurivano in futili litigi, ella accumulò capitali, costruì navi mercantili, estese le sue reti finanziarie e liberò le terre vergini d’America e dell’Oceania che offriva al suo vigore demografico e pionieristico.
Se la manovra di Vladimir Putin in Crimea nel 2014 è un caso da manuale dell’uso strategico dei movimenti naturali al lavoro, l’aggressione in Ucraina nel 2022 illustra i misfatti di uno sterile degrado. Il potere militare, politico e diplomatico russo è stato ridotto e le sue risorse economiche sono state gravemente colpite. Allo stesso modo, l’abuso del diritto di veto da parte dei russi all’ONU è il modo migliore per mettere in discussione il principio stesso. Come contrappunto, la Francia è attenta a non usare la propria per evitare che la sua legittimità venga contestata, il che contribuisce al suo status di potenza globale responsabile.
Sorprendentemente contraddittoria, una saggia politica di potere può consistere nel… favorire l’aumento di quelli di altri attori. È improbabile che un paese come la Francia possa aumentare notevolmente le proprie risorse oltre certi limiti. D’altra parte, potrebbe mirare a rafforzare gli stati subordinati a scapito dei suoi concorrenti.
Se vuoi la pace, prepara la guerra. La debolezza uccide, lo dimostrano i telegiornali. Una griglia di lettura interessata solo agli scontri tra rivali, invece, mancherebbe il punto. L’esperienza delle due guerre mondiali, la deterrenza nucleare e la sempre più marcata riluttanza dell’opinione pubblica a versare il proprio sangue hanno provocato un cambiamento nelle rivalità di potere.
Il confronto, cioè la guerra aperta tra nemici, ha perso la sua centralità a vantaggio della contesa indiretta tra avversari e, ancor più, della competizione globale tra tutti i giocatori, anche tra gli alleati.
Mentre, anche a livello militare, conta sempre meno brillare sul campo di battaglia che durare, i percorsi contemporanei del potere emarginano le nozioni di vittoria e sconfitta. Alfa e omega del pensiero delle relazioni internazionali fino al secolo scorso, sono diventate obsolete. La vittoria riflette solo una momentanea pressione volontaristica contro la natura delle cose o l’equilibrio del potere. Inoltre i suoi risultati svaniscono rapidamente. Sarebbe esagerato paragonarlo a un’illusione?
Il potere di uno Stato non risulta da una determinata situazione, ma da un approccio integrato e da un equilibrio sostenibile tra risorse, volontà e legittimità. È perché è globalmente equilibrato internamente che la Francia è una potenza di bilanciamento esternamente. Al contrario, una Russia volontarista, povera e troppo armata può solo svolgere un ruolo destabilizzante.
Nonostante l’apparente contraddizione tra i due termini, il potere può essere equiparato al consenso, anche se è ovviamente fabbricato. Questo consenso è dovuto all’influenza di un modello sociale, prestigio politico, credibilità militare, prosperità economica, attrattiva culturale, ecc. termine di uno stato percepito come utile nel peggiore dei casi, generalmente necessario, ammirevole nel migliore dei casi.
Se l’arte della tattica dominava quando i principi misuravano il proprio potere con il metro di una provincia conquistata, è oggi emarginata da quella della strategia e della pianificazione ambientale. Quest’ultimo consiste nell’occupare spazi lacunari, rinchiudere i rivali in una fitta rete di dipendenze strutturali sotterranee e assicurarsi un margine di manovra sovrano. Possiamo così completare la cartografia dei poteri con quella delle loro dipendenze materiali e immateriali.
Un gigante economico, la Germania, per esempio, sta pagando il prezzo dell’ingenuità, divisa tra la sua sottomissione energetica a Mosca e la sua dipendenza dalla sicurezza da Washington. Nazione prospera amministrata liberamente, scopre con stupore di non essere sovrana per mancanza di libertà di manovra. Un paese può essere uno stato di diritto, anche senza sovranità. D’altra parte, non ha più la capacità di decidere sul suo futuro e di attuare le sue scelte, che è la definizione stessa di libertà politica e la ragion d’essere della democrazia.
Conclusione
La storia è una linea spezzata. Non ha un significato particolare, ma ripercorre le avventure di competizione tra gruppi umani. Ogni confronto è, soprattutto, un movimento e un’interazione creativa le cui conseguenze non sono tutte negative.
Il mondo contemporaneo ha comunque rotto con la nozione di pace. Militari o meno, la guerra infuria tra le nazioni. Non si oppone più solo agli apparati statali come in passato, ma alle società stesse nel loro insieme.
Nulla ora sfugge al gioco dei poteri. Mark Galeotti ha pubblicato a gennaio 2022 un libro dal titolo evocativo: L’armamento di tutto . Tutto diventa strumento di combattimento. Tutto diventa un’arma.
Questo nuovo sistema globale, come abbiamo visto, non è così anarchico come si potrebbe pensare a prima vista. Se riserva naturalmente sorprese, obbedisce a regole e meccanismi accessibili alla comprensione umana.
Gli europei in generale ei francesi in particolare non sono stati in grado di anticipare crisi sanitarie, economiche o militari che sono comunque ampiamente prevedibili. L’obsolescenza di griglie di lettura terribilmente restrittive, siano esse quella economica liberale o quella consistente nel confinare le Relazioni Internazionali a una forma di sociologia, è costata loro cara.
In un’epoca di effetti combinati e scontri interni, questi echi del passato interessano solo alla ricerca storica. Il futuro è irto di minacce e richiede strumenti concettuali in grado di conciliare l’analisi dei rapporti di potere grezzi, tenendo conto dell’imprevedibilità delle decisioni collettive o individuali e del ruolo delle forze morali. Vale a dire la necessità, la volontà e la legittimità.
Man mano che si segue l’impulso e la necessità di serrare le fila, viene meno una selezione adeguata del ceto politico chiamato a condurre e seguire dinamiche complesse e situazioni intricate. Il mondo occidentale si trova nella condizione di disporre dell’apparato ancora più sofisticato e complesso con personale appena sufficiente a gestire le routine più banali, molto meno ad operare assennatamente i necessari strappi dei momenti di crisi aperta ed eccezionali.E’ il momento dei condizionamenti tragicamente pesanti che fanno scivolare per inerzia le situazioni verso tragici epiloghi. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
Abbiamo già parlato abbondantemente nella prima parte di questa analisi dell’Ucraina e della sua situazione; adesso è arrivato il momento di parlare della Russia.
Recentemente sì è parlato molto (forse anche a sproposito) del fatto che la guerra e le sanzioni internazionali stiano “dissanguando la Russia” e la stiano portando “al limite del collasso”. Non parlerò ora del regime sanzionatorio al quale la Russia è sottoposta al momento, rimandando tale analisi almeno fino alla fine di maggio quando assieme al mio collega Paolo Silvagni affronterò lo spinoso argomento con l’attenzione scientifica che merita ed una volta che una serie di trend macroeconomici diventeranno finalmente chiari. Una cosa però la posso già anticipare: il regime di sanzioni a cui la Russia è attualmente sottoposta è stato messo in piedi per “espellere la Russia dall’economia mondiale”, ma NON è studiato per avere effetti sull’andamento delle operazioni militari in corso. Tradotto in parole povere, qualsiasi cosa avvenga all’economia della Russia, il paese ha la capacità di proseguire lo sforzo bellico per 6-12 mesi se necessario, indipendentemente da tutto il resto.
In ogni caso, ripeto, le questioni economiche e finanziarie verranno trattate metodicamente al momento opportuno.
Venendo ora alla questione del “dissanguamento delle Forze Armate Russe”, questa è diventata una popolare teoria che circola nel mondo giornalistico e non solo dopo che è stata per la prima volta propagandata dal generale americano Frederick Benjamin “Ben” Hodges III in un’intervista con i media australiani. Originariamente Hodges era partito da una previsione assai più modesta (e corretta) in base alla quale le forze russe impegnate nell’offensiva attorno a Kiev stavano incontrando gravi problemi di approvvigionamento perché le loro linee logistiche non erano state adeguatamente predisposte per sostenere quello sforzo prolungato nel tempo. Tale “dettaglio” era già stato ampiamente notato dagli addetti ai lavori già dopo i primi 3 giorni di guerra, quindi ben prima che ne parlasse Hodges. Successivamente, il generale ha rincarato la dose ed ora parla apertamente (ma a dire la verità si trova in buona compagnia, come dimostra il caso del generale Camporini) di “collasso del sistema militare russo” preso nel suo complesso.
Ho già ampiamente parlato in tutta una serie di analisi dedicata alla guerra aerea che i russi non solo non stanno rallentando il ritmo delle loro operazioni aeree, ma lo stanno addirittura accelerando. Inoltre, in barba a tutti coloro che parlavano e continuano a parlare di “scarsità di missili e bombe intelligenti o meno”, la campagna di attacchi a mezzo di missili balistici e missili da crociera di tutti i tipi da parte della Russia sta continuando imperterrita, ed anzi più passa il tempo e più gli osservatori di mezzi militari riescono a notare come nuove versioni e tipologie di missili stiano venendo di volta in volta schierate dalle forze di Mosca a partire dall’analisi dei frame dei video reperibili in Internet così come dalle foto dei frammenti degli ordigni diffuse anche dai canali di informazione ucraini.
Tale stato di cose ha solo due spiegazioni razionali:
– ipotesi numero uno: i servizi d’intelligence occidentali e gli “esperti” vari ed eventuali hanno grandemente sottovalutato la consistenza numerica pregressa degli arsenali missilistici di Mosca;
– ipotesi numero due: la Russia ha una capacità produttiva in corso d’opera che le garantisce di ripianare passo passo gli arsenali che vengono “consumati”.
Personalmente io opto per l’ipotesi numero uno, dato che, probabilisticamente parlando, è la più realistica e non sarebbe nemmeno la prima volta che le agenzie di spionaggio occidentali sbagliano nel valutare la consistenza degli arsenali del Cremlino. Possiamo quindi già dire che, per lo meno nel settore aereo e missilistico, la previsione di Hodges non è al momento supportata dai fatti. Passando invece al fronte terrestre, che è la vera specialità di Hodges, essendo egli un generale dell’esercito, per valutare se veramente le Forze di Terra Russe siano al limite del collasso, bisogna necessariamente capire l’entità complessiva delle perdite sia umane che materiali che esse hanno subito e se il paese sia in grado di “sostenerle e sostituirle”.
Partiamo da alcune categorie di mezzi, in particolare quelli che rappresentano il pilastro centrale delle dottrine militari russe: i carri armati e l’artiglieria. Consultando le fonti aperte utilizzate dalla maggior parte dei mezzi di informazione e di disinformazione attivi nel contesto di questa guerra sappiamo per certo che, al momento della stesura di questo pezzo, le Forze Armate Russe e le Forze Unificate della Novorossiya hanno sicuramente (ma il numero reale è senza dubbio più alto) perso 584 carri armati (16 T-64, 357 T-72, 111 T-80, 18 T-90 e 82 carri di tipo non definito). Nonostante sulla carta queste sembrino perdite gravi, data l’enorme disponibilità di carri da parte delle Forze Armate Russe (si stima che la Russia possieda tra i 23.000 ed i 25.000 carri armati, ma alcune stime parlano addirittura di 33.700 (!), sia in servizio presso le unità di prima linea che immagazzinati in una delle molteplici basi che si trovano su tutto l’immenso territorio del paese), esse non possono certo essere definite “perdite debilitati” (stiamo parlando del 2,6-2,3% del totale, nel caso migliore, e del 1,7% nel caso peggiore). Non solo, oltre al gran numero di carri a disposizione nei magazzini, la Russia possiede anche delle formidabili strutture produttive che le garantirebbero di ripianare in un batter di ciglio le perdite subite.
Dall’Unione Sovietica, la Russia ha ereditato un possente complesso militar-industriale che, tra gli altri, conta 5 grandi fabbriche per la produzione di carri armati ed altri veicoli corazzati, centrate attorno al grande complesso di Uralvagonzavod, situato a Nizhny Tagil, nel centro della Russia. Sin dall’inizio della guerra, diverse agenzie di stampa hanno rilanciato più e più volte la notizia secondo la quale le fabbriche russe di carri armati avrebbero fermato la produzione a causa della mancanza di parti di ricambio. Prima di tutto, è necessario menzionare che a dare tale notizia per primi sono stati i servizi segreti di Kiev, e questo dovrebbe far automaticamente sorgere ben più di un sospetto. Secondariamente, la nozione che all’improvviso le fabbriche di carri armati si ritrovino senza parti di ricambio cozza sonoramente con quelle che sono consolidate politiche industriali e militari già di prassi in epoca sovietica e che la moderna Russia ha semplicemente continuato per inerzia.
Secondo la testimonianza di Jens Wehner, veterano carrista, direttore del “Panzermuseum” della Bundeswher e profondo conoscitore della Storia militare corazzata contemporanea: “La prassi consolidata dei russi è quella di mantenere presso le loro fabbriche scorte di materiali tali da poter garantire la prosecuzione dell’output produttivo per un intero anno anche in presenza di un blocco completo delle forniture. Ciascuna delle grandi fabbriche russe ha la capacità di produrre 800 carri armati T-72 alla settimana, che diventano 3.200 in un mese per un singolo stabilimento e 16.000 se contiamo il lavoro di tutti gli stabilimenti in caso di una situazione di guerra totale, e questo semplicemente rendendo più efficace l’organizzazione ordinaria dei due turni produttivi, senza nemmeno introdurre il terzo turno giornaliero come fu durante la Seconda Guerra Mondiale”. Ad una prima lettura tali cifre possono apparire esagerate tuttavia esse acquisiscono un loro senso per coloro che sono informati sulle prassi produttive che la Russia ha ereditato dall’Unione Sovietica e che prevedono, letteralmente, in situazioni di emergenza, di produrre in massa mezzi appartenenti a sottovarianti depotenziate (i cosiddetti “modelli scimmia”) che andrebbero poi ad equipaggiare le unità della riserva. In ogni caso torneremo su questo argomento così come sulle stime relative alla disponibilità delle riserve di equipaggiamenti russi in uno speciale addendum che verrà pubblicato in seguito.
Al momento ciò che stiamo assistendo, filtrando le notizie provenienti dalle retrovie russe, lascia intravvedere uno scenario nel quale le fabbriche russe hanno mantenuto un moderato regime produttivo sufficiente a ripianare la perdite subite mentre i tecnici ed i meccanici delle unità di deposito stanno lavorando alacremente in tutte le basi-deposito per rimettere in servizio i mezzi (non solo carri armati) immagazzinati laggiù.
Alcuni effetti di questa nuova tendenza si stanno già vedendo sul campo di battaglia. Nel corso dei recenti combattimenti nell’area del Donbass, gli ucraini sono riusciti a mettere fuori combattimento alcuni carri armati T-64 dello schieramento avversario. A prima vista sembrava che tali carri fossero dei mezzi ucraini (il T-64 infatti è il carro da battaglia più numeroso delle Forze Armate Ucraine) catturati nel corso dei combattimenti e poi utilizzati dalle Forze Unificate della Novorossiya (lo strumento militare congiunto delle cosiddette Repubblica Popolare di Lugansk e Repubblica Popolare di Donetsk) come è da prassi già dal 2014. Eppure ad un’ispezione più accurata gli armati di Kiev si sono resi conto che tali mezzi non fossero né ucraini né “separatisti” bensì russi! Analizzando i numeri di riconoscimento è infatti ben presto diventato palese che i T-64 in questione appartenevano ad una “unità deposito” situata nel territorio di Khabarovsk, nell’Estremo Oriente Russo, erano stati riattivati due settimane prima e successivamente trasferiti lungo la ferrovia Transiberiana fino all’oblast’ di Rostov dove erano stati assegnati ad una unità di riservisti appena richiamata alle armi. Non si deve però pensare che si tratti di un caso isolato, dato che, dagli inizi di aprile gli ucraini hanno segnalato un numero via via crescente di casi in cui le loro Forze Armate hanno distrutto o catturato mezzi russi provenienti dagli arsenali della riserva.
Abbiamo parlato fino ad ora dei carri armati, adesso è necessario dedicare un doveroso spazio alla “Regina dei Campi di Battaglia”: l’artiglieria.
Parlare di Storia militare russa equivale a parlare di artiglieria, dato che, sin dall’epoca di Pietro I il Grande, l’artiglieria russa si è rivelata sovente l’arma vincente per decidere il risultato finale delle battaglie. Sempre consultando le stesse fonti aperte che illustrano le perdite di materiale bellico sofferte dalle Forze Armate Russe e dalle Forze Unificate della Novorossiya, si nota che, nel settore delle “bocche da fuoco” di tutti i tipi (partendo dai mortai pesanti ed arrivando fino ai lanciarazzi multipli) quelle perse dagli armati del Cremlino assommano a 230 esemplari, il che non è nulla se consideriamo l’immensa dotazione di artiglieria sia in servizio attivo che in riserva che è a disposizione della Russia. Non solo infatti la Russia possiede complessivamente più “bocche da fuoco” di qualsiasi altro paese al mondo, ma addirittura surclassa tutti i possibili avversari in ogni singola categoria di “armi d’artiglieria”, non importa se si tratti di mortai pesanti, cannoni campali, cannoni anticarro, obici, semoventi, lanciarazzi multipli e chi più ne ha, più ne metta.
La pressoché totale assenza dell’artiglieria russa nei primi giorni di guerra (con l’eccezione del Primo Fronte, quello del Donbass) è stata uno dei grandi “misteri” di questa guerra che hanno affascinato gli analisti. Le spiegazioni più probabili per giustificare tale “mancanza” sono essenzialmente due:
– primo; come tutti gli esperti del variegato mondo dell’artiglieria possono confermare, un “treno d’artiglieria” composito e completo “appesantisce” enormemente le armate in movimento e questo non lo rende ideale per un’armata meccanizzata impegnata in una guerra lampo ad alta intensità come aveva immaginato Putin da principio;
– secondo; dato l’enorme potenziale distruttivo rappresentato da uno sbarramento d’artiglieria campale, è tutt’altro che peregrina l’ipotesi che, volendo inizialmente arrecare il minor danno possibile alle città ed alle infrastrutture dell’Ucraina, i russi abbiano deciso deliberatamente di non schierarla proprio per mantenere inizialmente basso il livello dello scontro anche al rischio di esporsi a loro volta all’artiglieria ucraina (che non è tanto dissimile da quella russa anche se, prevedibilmente, meno numerosa).
Ovviamente l’evoluzione successiva del conflitto ha fatto saltare tutti i parametri iniziali ed ora i russi non hanno più remore ad utilizzare la loro potenza di fuoco sia in campo aperto che contro le città ucraine che oramai sono state sovente attaccate dalle truppe russe utilizzando proprio l’artiglieria ed i mezzi corazzati.
In ogni caso, al momento le Forze Armate Russe non sono ancora in grado di mettere insieme le forze per un “colpo decisivo” in Ucraina, e questa è una delle ragioni del perché stiano optando per il proseguimento della corrente fase di guerra di logoramento.
Non bisogna però credere che questo stato di cose continuerà indefinitamente. Come già accennato precedentemente, ci sono tutte le ragioni per credere che gli obiettivi iniziali della Russia non siano affatto cambiati e che alla attuale “Fase 2” della guerra seguirà una “Fase 3”.
Le vere incognite a questo punto sono: capire quando questa fase scatterà e valutare il grado di preparazione dei contendenti quando l’evento si presenterà. Come tutti hanno visto, le Forze Armate Russe si sono ritirate dal nord e dal nord-est dell’Ucraina giù fino alla città di Kharkov e hanno riposizionato le truppe appartenenti alla “prima ondata d’attacco” nel Donbass e nel sud dell’Ucraina, tuttavia, in termini strategici questo non vuol dire assolutamente nulla.
È necessario qui porre infatti l’accento non tanto su ciò che sta avvenendo sulla linea del fronte, bensì su quanto avviene nelle retrovie. Prima di tutto, in Russia sta avvenendo una mobilitazione senza precedenti dei riservisti della quale c’è poca o nulla traccia nei nostri mezzi di informazione (ma anche in quelli russi, a dire la verità).
Ha fatto “sensazione” nei nostri media principali la notizia che, con un decreto presidenziale divenuto effettivo il 1 di aprile 2022, Putin abbia disposto l’arruolamento di 134.500 soldati di leva (la cosiddetta “leva di primavera”) i quali dovrebbero poi essere rincalzati da altri 134.500 che dovrebbero essere arruolati in ottobre (la cosiddetta “leva di autunno”) anche se in realtà tali provvedimenti rappresentano la norma.
Ciò che invece è completamente sfuggito ai “radar” della nostra informazione è invece il fatto che, parallelamente, le autorità di Mosca abbiano sospeso qualsiasi provvedimento di “smobilitazione” riguardante i coscritti arruolati durante le leve della primavera e dell’autunno 2021 (che avrebbero dovuto vedere la fine del loro anno di leva obbligatoria rispettivamente al termine di marzo ed alla fine di settembre di quest’anno) e che con i nuovi provvedimenti sono a tutti gli effetti “veterani soggetti al servizio in maniera indefinita e fino al nuovo ordine”. Non solo, a fianco della cancellazione dei provvedimenti di “smobilitazione”, le autorità russe hanno anche iniziato a richiamare in servizio i riservisti presi tra gli uomini di età compresa tra i 19 ed il 42 anni che hanno prestato servizio di leva o sotto contratto nei 15 anni precedenti. Tale mobilitazione non è stata annunciata a livello nazionale, ma sta venendo portata avanti dai vari commissariati militari a livello delle singole unità territoriali in cui è divisa la Federazione Russa.
A questo punto è necessario chiederci: quali sono le capacità di mobilitazione della Russia per quella che si prospetta come una lunga e sanguinosa guerra? La risposta in questo caso non è semplice.
Per prima cosa è necessario partire dicendo che, ad oggi, la popolazione della Russia assomma a 145,5 milioni di abitanti ai quali vanno aggiunti 11,6 milioni di immigrati che vivono stabilmente nel territorio russo, per un totale di 157,1 milioni di persone che costituiscono il “bacino demografico” di riferimento. La presenza della popolazione immigrata va specificata perché una legge approvata nel 2010 rende i cittadini stranieri residenti nel territorio russo passibili di arruolamento in caso di grave crisi nazionale. Inoltre essendo la stragrande maggioranza degli immigrati in terra russa provenienti dai paesi ex-sovietici, avendo una sufficiente padronanza della lingua russa ed avendo a loro volta prestato servizio militare di leva nelle Forze Armate Sovietiche oppure in quelle delle repubbliche ex-sovietiche (le quali sono sostanzialmente modellate sul modello di quelle russe), il loro assorbimento nei ranghi delle Forze Armate Russe non costituisce affatto un problema insormontabile.
Nel 2016, nel corso della crisi NATO-Russia immediatamente successiva all’abbattimento di un Su-24 russo sui cieli della Siria da parte delle Forze Aeree Turche, le Forze Armate Russe testarono per la prima e unica volta dalla fine della Guerra Fredda la loro capacità di mobilitazione complessiva nel caso di scoppio di un nuovo conflitto mondiale. Ne risultò che, in caso di un conflitto di larga scala, la Russia avrebbe potuto mobilitare 40.000.000 di uomini. Si convenne tuttavia che tale sforzo avrebbe potuto essere sostenuto solamente per pochissime settimane (probabilmente 1 mese o poco più) perché avrebbe irrimediabilmente comportato la paralisi dell’economia del paese pur avendo la Russia ampie riserve di armamenti tali da poter equipaggiare tutti i potenziali soldati (per creare un raffronto basterà ricordare che il numero totale di soldati che vennero arruolati nelle Forze Armate Sovietiche nel corso della Seconda Guerra Mondiale fu di 34.600.000 su una popolazione totale di 200 milioni di abitanti). Nella successiva riorganizzazione della riserva, i pianificatori del Cremlino decisero di considerare come potenziali riservisti tutti i maschi adulti che avessero svolto il periodo del servizio militare nei 15 anni precedenti; così facendo ridussero il bacino di arruolamento alla comunque ragguardevole cifra di 20.000.000 di uomini, che da allora è rimasta il riferimento ideale.
Dire però che la Russia sia pronta a mobilitare 20 milioni di uomini per la guerra in Ucraina è altrettanto irrealistico, e non solamente perché tale numero metterebbe comunque le risorse del paese sotto stress, ma anche perché l’organizzazione, il comando ed il controllo di una tale massa di armati risulterebbe a priori impossibile. Anche il questo caso può risultare utile un raffronto con la Seconda Guerra Mondiale:
– 22 giugno 1941: al momento dell’inizio dell’Operazione Barbarossa le Forze Armate Sovietiche avevano sotto le armi 5.500.000 soldati rincalzati da 12.000.000 di riservisti;
– 7 giugno 1942: alla vigilia dell’inizio dell’offensiva delle forze dell’Asse contro il Caucaso e Stalingrado, i sovietici potevano contare su 9.350.000 uomini sull’intero Fronte Orientale;
– 9 luglio 1943: al principio della battaglia di Kursk, le Forze Armate Sovietiche contavano in tutto 10.300.000 (il picco raggiunto dall’epoca dell’Operazione Barbarossa);
– 22 giugno 1944: alla vigilia dell’Operazione Bagration, nel corso della quale i tedeschi subirono la loro sconfitta decisiva per le sorti della guerra nel Fronte Orientale, i sovietici contavano 6.425.000 uomini;
– 1 gennaio 1945: all’inizio dell’offensiva finale contro il Terzo Reich, le Forze Armate Sovietiche contavano 6.532.000 uomini;
– 1 aprile 1945: al momento dell’inizio della battaglia di Berlino, i sovietici potevano contare complessivamente su 6.410.000 soldati in totale.
Dallo studio di questi dati si evince che, sebbene nell’immaginario popolare i russi (e/o i sovietici) siano noti per essere coloro che impiegano grandi eserciti, nondimeno anch’essi devono obbedire alla “tirannia della legge sul comando e controllo” in base alla quale l’impiego di una grande massa di soldati in assenza degli adeguati sistemi di comando e controllo rischia addirittura di essere controproducente.
A ben vedere, l’intera revisione della strategia di guerra russa dai primi di marzo fino ad ora ha a che fare proprio con questo: riorganizzare le forze presenti in Ucraina, accrescerle numericamente e dotarle della potenza di fuoco adeguata e supportarle con linee logistiche tarate in modo da consentire la riuscita della missione e “governare” l’intero processo in modo tale che lo strumento militare funzioni come una macchina ben oliata e non come un’accozzaglia raffazzonata di forze come è stato nel primissimo periodo di guerra. Il primo passo giusto in questa direzione è stata la nomina, l’8 di aprile, del generale Aleksandr Vladimirovich Dvornikov, comandante del Distretto Militare Meridionale ed in precedenza comandante in capo delle forze russe e siriane durante la Guerra Civile Siriana, a responsabile di tutte le operazioni in Ucraina. Tale nomina ha finalmente creato una linea di comando coerente ed una struttura “amministrativa” che può dirigere i movimenti delle truppe così come l’allocazione delle risorse. Parallelamente è accelerato in processo di mobilitazione delle riserve così come la riattivazione degli arsenali precedentemente posti in magazzino.
Non è chiaro esattamente quanto tempo ci vorrà ai russi per raccogliere tutte le forze delle quali avranno bisogno per condurre nuovamente un’offensiva di larga scala volta alla sottomissione dell’intera Ucraina. Nel periodo compreso tra la fine del 1990 e l’inizio del 1991, nel corso dell’Operazione Desert Shield (Scudo del Deserto), gli Stati Uniti e la Coalizione Internazionale necessitarono di 5 mesi per raccogliere la forza di 1.000.000 di uomini necessari a demolire le difese irachene nel corso dell’Operazione Desert Storm (Tempesta del Deserto).
Secondo diverse stime che mi trovano d’accordo, per infliggere un colpo da K.O. all’Ucraina, la Russia avrebbe bisogno di schierare una forza di 3.000.000-3.500.000 di uomini supportati dalla necessaria potenza di fuoco da impiegare un’unica volta per un’operazione di breve periodo oppure in scaglioni successivi per un tempo più lungo.
Contrariamente a quanto affermano i nostri mezzi di informazione (o di propaganda), sempre pronti a dipingere la Russia come “un paese allo stremo e sul punto si collassare”, la Russia sta effettivamente lavorando alacremente per raccogliere tali riserve. Un esempio in tal senso lo si ha monitorando l’attività dei velivoli da trasporto aereo.
Sin dall’inizio della Guerra Russo-Ucraina, sia i velivoli da trasporto della V-VS che quelli della MA-VMF (l’Aviazione della Marina) per complessivi 900 velivoli sono stati impegnati in un costante ponte aereo tra gli angoli più sperduti del paese e le basi situate in prossimità del fronte di guerra. Non solo, dato che le sanzioni occidentali hanno avuto l’effetto di provocare la messa a terra di un gran numero di velivoli di produzione occidentale in servizio presso le compagnie aeree russe per mancanza dei necessari certificati di idoneità al volo, tali velivoli sono stati puntualmente requisiti dalla V-VS per contribuire alle operazioni di trasporto. Inoltre, come segnalato sin dall’inizio della guerra dal mio contatto Vedetta 1 specializzato nel monitoraggio delle operazioni aeree ed esperto nel settore aeronautico, la Guerra Russo-Ucraina ha visto da parte russa anche la mobilitazione massiccia degli assets aerei della Rosgvardia, delle Guardie di Frontiera dell’FSB, dell’EMERCOM e persino dei 31 aerei facenti parte dello Squadrone Aereo Presidenziale.
Il ponte aereo non è l’unico strumento mediante il quale la Russia sta spostando uomini e mezzi dagli angolo più sperduti “dell’impero” fino alla linea de fronte. Il maggior sforzo infatti avviene via ferrovia, come da tradizione puramente russa; ed infatti lo scoppio della Guerra Russo-Ucraina ha coinciso con una mobilitazione senza precedenti delle Truppe Ferroviarie Russe, le quali sono entrate in azione persino in Ucraina con la missione di riparare il tracciato ferroviario locale martoriato nel corso dei combattimenti e portare i necessari rinforzi quanto più vicino possibile alla linea del fronte.
Molto attivo anche il trasporto su strada anche se un suo eccessivo utilizzo nella primissima fase della guerra ha provocato spaventosi ingorghi soprattutto lungo il tracciato stradale degli oblast’ russi prospicienti l’Ucraina, fatto questo che ha in parte contribuito al fallimento della “guerra-lampo” iniziale.
Un ultimo elemento che è necessario ricordare è che la presente Guerra Russo-Ucraina ha visto anche una mobilitazione massiccia delle forze paramilitari e di sicurezza interna della Russia come: la polizia, la Rosgvardia, gli OMON, i SOBR, le forze paramilitari dell’FSB, ecc… le quali sono state schierate in Ucraina con compiti operativi sia di controllo delle aree occupate che in supporto delle operazioni sia offensive che difensive delle Forze Armate impegnate sul terreno. Anche se tale segnalazione può sembrare ai più niente meno che una nota a piè pagina, in realtà il fatto che la leadership di Mosca abbia deciso di schierare pesantemente in Ucraina anche le proprie forze paramilitari e di sicurezza interna (truppe adattissime ai compiti di controllo del territorio e di lotta antiguerriglia) è in realtà in importantissimo segnale indicatore del fatto che i russi si aspettino un coinvolgimento in loco per molto tempo e di quali potrebbero essere i piani di lungo periodo del Cremlino per l’Ucraina.
Dopo aver parlato abbondantemente nelle ultime analisi delle operazioni aeree, navali e terrestri avvenute sino ad ora nella Guerra Russo-Ucraina, chiudiamo la nostra serie riguardante questo aggiornamento sulla guerra in corso a oltre due mesi dal suo inizio parlando di alcune considerazioni di carattere tattico-strategico cercando inoltre di formulare degli scenari relativi a come la situazione potrebbe evolvere nel futuro per i due contendenti.
Alla luce degli eventi e delle rilevazioni fatte sul campo dall’inizio della guerra sino ad ora, possiamo dire che il piano originale di Putin, e quanto meno di una parte del suo establishment, fosse quello di ottenere una facile e rapida vittoria. Le direttive operative conseguentemente trasmesse alle Forze Armate Russe per la pianificazione dell’invasione presentavano degli scenari ottimistici che si sono rivelati assolutamente non corretti.
Globalmente, la strategia russa nella prima fase della guerra (grosso modo i primi 11 giorni di conflitto) che io avevo battezzato in maniera arbitraria “Sciame di Fuoco” prevedeva una sorta di riedizione in stile ancora maggiore della campagna “Shock and Awe” (traducibile come “Colpisci e Terrorizza”) con la quale gli Stati Uniti piegarono l’Iraq di Saddam Hussein nel 2003.
Il risultato di questa prima fase del conflitto è stato decisamente in chiaroscuro. Se, da un lato, la Russia ha raggiunto un dominio totale sul fronte navale (al netto della perdita della nave da sbarco anfibio BDK-65 Saratov e dell’incrociatore Moskva che, al netto del danno d’immagine ed operativo, comunque non cambiano l’equilibrio di potere raggiunto nel Mar Nero) e la completa superiorità aerea, dall’altro le colonne corazzate e meccanizzate delle sue forze di terra non sono riuscite ad avere la meglio sui difensori ucraini che, nella maggior parte dei fronti, sono riusciti a contenere i russi applicando in maniera intelligente i dettami della dottrina militare sovietica denominata “lo scudo e la spada” che prevede di ingaggiare il nemico in battaglie d’arresto (possibilmente canalizzandone la spinta offensiva verso posizioni difensive già preparate) accompagnate da veloci contrattacchi da parte delle unità di manovra posizionate in riserva in modo da infliggere il maggiore danno possibile agli attaccanti.
Se la nozione che le Forze Armate Ucraine stiano applicando tattiche di guerra prese dai manuali ereditati dall’Unione Sovietica può sembrare strana di primo acchito, non bisogna dimenticare che oltre il 90% degli arsenali dell’Ucraina sono in effetti ereditati proprio dal periodo sovietico e la quasi totalità degli ufficiali che prestano servizio nelle Forze Armate ha iniziato la propria carriera nel corso del suddetto periodo sovietico o nei primi 22 anni di vita indipendente del paese, quando le dottrine militari sovietiche e russe erano le uniche ad essere insegnate ed assimilate.
Ciò che differenzia le Forze Armate Ucraine del 2022 da quelle del 2014 (che dimostrarono una resa operativa molto modesta) non è quindi né il materiale bellico né le dottrine militari impiegate, bensì il recupero della disciplina, dello spirito di corpo e dell’addestramento (in poche parole: “le basi” su cui si fonda qualsiasi istituzione militare!), tutti elementi che nel periodo tra il 1991 ed il 2014 erano stati lasciati letteralmente deperire.
Non è chiaro se questo processo di “trasformazione”, o per meglio dire di “recupero delle basi fondamentali”, sia passato inosservato agli occhi dell’intelligence russa. Di sicuro lo è stato agli occhi delle agenzie di intelligence e delle forze armate dei paesi occidentali i quali hanno continuato a produrre report molto critici sullo stato dello strumento militare di Kiev. Il tenore di alcuni di questi era giustificato, ma altri sono stati decisamente ingenerosi.
Dall’altro lato della barricata, la precisione con la quale la Russia ha condotto la sua campagna aerea e soprattutto missilistica, in particolare mettendo a segno una serie di colpi micidiali contro installazioni ucraine che, al momento di essere colpite, erano piene di soldati o di volontari stranieri, denota una eccellente presenza sul terreno di asset delle varie agenzie di spionaggio russe (SVR, FSB, GRU/GU) le quali hanno continuato a rifornire costantemente il Quartier Generale con un “fiume” di informazioni utili a continuare gli attacchi aerei e missilistici in maniera sostenuta.
Questa presenza massiccia delle agenzie di intelligence russe in terra ucraina cozza fragorosamente con la nozione secondo la quale gli “apparati” non fossero informati e non avessero il polso della reale situazione esistente all’interno del paese. Ecco perché l’autore della presente analisi ritiene (ma è una opinione personale al momento non supportata da alcuna evidenza “forte”) che i gravi errori commessi dalle Forze di Terra nella pianificazione e nella condotta delle operazioni iniziali siano da attribuire primariamente ad un fallimento nella capacità di analisi della leadership politica (Putin ed il suo circolo di più stretti collaboratori) che non alla negligenza degli altri “apparati”. Fatto sta che, a partire dal 1 di marzo, e mentre la fase “Sciame di Fuoco” della guerra era ancora in corso, le Forze Armate Russe avevano già iniziato il lungo e doloroso processo di svolta verso la seconda e la terza fase del conflitto.
La seconda fase della Guerra Russo-Ucraina, che qui battezzeremo “Operazione Pitone”, iniziata pressappoco all’indomani della prima settimana di marzo, e in realtà tutt’ora in corso, è stata ed è caratterizzata da una progressiva e crescente opera di “strangolamento” e distruzione della capacità dello stato ucraino sia di resistere a livello militare che di continuare a funzionale a livello economico-sociale.
L’entità dei danni provocati e la decisione da parte della leadership politica e militare di continuare la campagna in maniera protratta nel tempo spingono l’autore della presente analisi ad affermare che l’obiettivo iniziale della campagna di Putin, sostanzialmente quello di sottomettere l’intera Ucraina, non sia in realtà cambiato e la decisione di ritirare le truppe da alcune aree per concentrare l’azione offensiva nel Donbass e nell’area meridionale dell’Ucraina sia solo di natura “tattica e temporanea” ma che non sia per niente rivelatrice di un cambiamento negli orientamenti strategici di fondo da parte di Mosca.
A questo punto, dopo oltre sessanta giorni di guerra è necessario chiederci esattamente: che cosa è rimasto dell’Ucraina? Perché proprio a partire dalla risposta a tale domanda possiamo poi capire quali eventuali possibilità di resistenza sono rimaste al paese azzurro-giallo al di là del successo della strategia difensiva portata avanti sino ad ora e che, a modesto avviso dello scrivente, a questo ritmo non è sostenibile nel lungo periodo.
Secondo i dati ufficiali diffusi quasi tre settimane fa del Ministro delle Finanze della Repubblica d’Ucraina, Sergey Mikhailovich Marchenko, e a me comunicati dal mio collega Paolo Silvagni:
– il deficit dello stato ucraino per il mese di marzo è stato di 2,7 miliardi di dollari;
– il deficit stimato per i mesi di aprile e maggio dovrebbe aggirarsi tra i 5 ed i 7 miliardi di dollari;
– il 30% delle aziende ucraine ha completamente cessato qualsiasi attività;
– i danni fino ad ora accertati alle infrastrutture civili e militari ammontano a 270 miliardi di dollari;
– le perdite totali accertate sofferte dall’economia ucraina dall’inizio del conflitto assommano a 600 miliardi di dollari (una cifra superiore al valore del PIL a parità di potere d’acquisto dell’Ucraina per l’anno 2021 come da me segnalato nella mia passata “Analisi della delicatissima situazione economico-sociale dell’Ucraina”!);
– i danni al patrimonio edilizio viaggiano ormai verso quota 1 trilione di dollari;
– è stato fino ad ora distrutto il 27% di tutto il sistema viario del paese (strade, autostrade, ferrovie);
– dall’inizio del conflitto le importazioni sono calate di 2/3 mentre le esportazioni si sono dimezzate;
– il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l’Unione Europea hanno approvato prestiti eccezionali per 5,6 miliardi di dollari sufficienti solamente a prolungare l’agonia.
Questi agghiaccianti dati economici vanno letti in contemporanea ai dati socio-demografici forniti tanto dal governo ucraino quanto dalle principali organizzazioni internazionali come l’UNICEF:
– fino ad ora la guerra ha provocato oltre 13 milioni di sfollati sia all’interno che all’esterno del paese;
– quasi 5,5 milioni di ucraini (per la quasi totalità donne e bambini al di sotto dei 18 anni) sono già profughi all’estero ed il numero cresce costantemente di 100.000 unità ogni singolo giorno;
– circa 4,8 milioni di bambini ucraini (2/3 del totale) sono sfollati dalle loro case e 1,8 milioni hanno già dovuto abbandonare il paese;
– secondo le proiezioni più realistiche, entro i primi di giugno il numero di profughi ucraini all’estero rischia di raggiungere gli 10 milioni;
– alcune proiezioni per il momento definibili come “catastrofiste”, ma niente affatto da sottovalutare, parlano della possibilità che, qualora il conflitto si protragga per altri 6/7 mesi, esso possa causare la morte di fino a 3 milioni di ucraini (per la stragrande maggioranza uomini) e la fuga di altri 20 milioni o più.
Questi dati, agghiaccianti tanto quanto quelli economici, devono essere valutati in rapporto alla popolazione dell’Ucraina la quale (con l’esclusione della Crimea e del Donbass, ma senza considerare i dati della diaspora) alla vigilia delle ostilità era stimata in 37,5 milioni di abitanti. Si capisce quindi che, anche nell’ipotesi (a mio avviso remota) di una “vittoria militare”, c’è il pericolo reale che l’Ucraina diventi in ogni caso un “not viable state”, cioè uno “stato non sostenibile” (o per meglio dire: uno stato non in grado di sostenersi da solo).
Questi dati economico-finanziari e socio-demografici devono essere tenuti ben presenti dalla leadership di Kiev, e dal presidente Zelensky in particolare in quanto comandante in capo, quando si tratta di prendere decisioni fondamentali per il futuro e la sopravvivenza non solamente “politica” ma financo “fisica” del popolo e dello stato ucraino. Dopo aver presentato questi dati nudi e crudi che fotografano, per così dire, il “termometro” del precipitare della situazione del paese cerchiamo ora di valutare le capacità di resistenza dell’Ucraina. Come descritto già in passato in altre analisi, alla vigilia dell’esplosione del conflitto, le capacità di mobilitazione di tutte le forze militari e paramilitari dell’Ucraina erano di circa 1.610.000 uomini così divisi:
– Forze Armate: 250.000 soldati più 900.000 riservisti;
– Guardia Nazionale: 50.000 uomini;
– Guardia di Frontiera: 50.000 uomini;
– Servizio di Emergenza dello Stato: 60.000 uomini;
– forze paramilitari del Servizio di Sicurezza dell’Ucraina, SBU: 30.000 uomini;
– Polizia Nazionale: 130.000 poliziotti;
– Forze di Difesa Territoriali: 10.000 uomini in servizio attivo più 130.000 volontari.
Nonostante tale apparentemente mastodontica cifra, pare che gli ucraini abbiano già superato (per bocca dello stesso presidente Zelensky e del ministro della difesa Reznikov) la soglia di mobilitazione sopra riportata, e che sia proprio questa la ragione per la quale, in base alle normative della “direttiva sulla mobilitazione generale e la legge marziale”, a tutti gli uomini di età compresa tra i 18 ed i 60 anni (con alcune limitate eccezioni) è in questo momento vietato lasciare il paese. Dobbiamo però capire una cosa; anche se l’Ucraina riuscisse a mobilitare ulteriori risorse umane oltre a quelle menzionate di sopra, ciò non vuole dire che esse possano avere un impatto reale sulla situazione a livello tattico, pur conservando una certa valenza a livello strategico.
Che cosa significa questo pensiero? Molto semplicemente che, al di là dei numeri sulla carta, la capacità da parte di un paese di utilizzare al meglio le sue riserve sia umane che materiali nel corso di un conflitto dipende dal fatto che esse siano state o meno organizzate in unità coerenti già in tempo di pace, in modo che tali unità possano poi essere tempestivamente attivate in tempo di guerra per far sentire da subito la propria presenza già dai primi “scambi convenzionali” sul terreno.
Nel caso ucraino, l’insieme delle forze sopra elencate rappresenta il totale di truppe sia di prima linea che di riserva organizzate in modo tale da poter essere schierate da subito o in tempi ragionevolmente contenuti sulla linea del fronte. Tuttavia, per mobilitare ogni ulteriore scaglione di riserve oltre a quelle già menzionate, l’Ucraina si troverebbe in difficoltà perché dovrebbe innanzi tutto organizzare i nuovi combattenti in unità funzionali al tipo di operazioni alle quali verranno destinati. Secondariamente, tali unità dovrebbero poi essere sottoposte ad un soddisfacente processo di addestramento e familiarizzazione con i nuovi sistemi d’arma e le procedure operative. Solo dopo aver superato questo iter (che può richiedere settimane o addirittura mesi) le nuove unità militari possono essere dispiegate sulla linea del fronte. Purtroppo per gli ucraini, tale orizzonte temporale rappresenta letteralmente “un lusso” che non si possono permettere, e la cosa triste è che l’opposto non costituisce un’opzione dato che, come la Storia insegna, mandare al fronte in fretta e furia delle unità raffazzonate all’uopo (anche quando siano ben equipaggiate!) senza un addestramento e un’organizzazione coerente significa letteralmente utilizzare le proprie risorse umane come carne da macello.
Osservando il modus operandi delle Forze Armate Ucraine dall’inizio della guerra fino ad ora, ponendo particolare attenzione alle rotazioni alle quali sono sottoposte le brigate (41 in totale) che costituiscono i veri elementi di manovra delle Forze di Terra di Kiev, si capisce che gli ucraini hanno adottato la tattica di mantenere quanto più a lungo possibile tali unità sulla linea del fronte in modo da poter ottenere la maggiore resa operativa possibile pena l’inevitabile logoramento e la crescita delle perdite. Quando il logoramento di tali unità raggiunge la soglia del 70%, al punto da diventare tatticamente inservibili, esse vengono ritirate dal campo di battaglia e l’ossatura costituita dai veterani dei precedenti scontri viene rimpolpata dai “riservisti addizionali” i quali vengono molto rapidamente istruiti ed “acclimatati” alla loro nuova missione dai veterani superstiti che in tal modo li preparano. Quando questo processo viene ritenuto completato (e nell’Ucraina odierna questo significa letteralmente in una manciata di giorni!) le unità vengono nuovamente inviate al fronte, e la giostra continua. Ecco dunque che gli uomini appartenenti alle grandi riserve addizionali non raggruppati in unità pre-organizzate finiscono semplicemente per fungere da serbatoio di reclutamento per le unità già esistenti garantendo ad esse di continuare a combattere indefinitamente (o per lo meno, finché ci sono riserve da gettare in battaglia!), ma questo sacrifica la possibilità che tutti questi riservisti possano creare delle nuove unità ex-novo. Ecco dunque che le, sulla carta, vaste riserve di uomini delle quali Kiev dispone hanno una valenza più che altro strategica e non tattica.
Lo stesso discorso lo si può fare per quanto riguarda gli armamenti, in particolare le forniture provenienti dai paesi occidentali. Nonostante una propaganda occidentale che a tratti potremmo definire “martellante” (per usare un eufemismo), l’Ucraina ha fino ad ora combattuto la guerra ed ottenuto i risultati sul campo largamente grazie ai “mezzi propri”. Gli arsenali a disposizione di Kiev si dividono essenzialmente in 3 tipologie:
– quelli ereditati dal periodo sovietico (90%);
– quelli acquistati all’estero o prodotti dalle industrie nazionali negli ultimi 8 anni di crisi (9%);
– le nuove forniture ottenute soprattutto dall’Occidente subito prima e nel corso del presente conflitto (1%).
Nonostante da subito i russi abbiano pesantemente bombardato le basi militari ed i siti di stoccaggio ucraini con i missili balistici, i missili da crociera e con le loro Forze Aeree, gli ucraini sono stati comunque in grado di salvare una parte dei loro arsenali ed imbastire una campagna difensiva molto efficace (al netto dei macroscopici errori commessi dai loro nemici). Tuttavia le scorte di armi non sono infinite e già oggi siamo in possesso di ampio materiale fotografico che testimonia come le autorità kieviane stiano distribuendo ai riservisti anche grandi quantità di materiale risalente addirittura alla Seconda Guerra Mondiale, soprattutto nel campo delle armi leggere per la fanteria.
Particolarmente delicata è poi la questione dei mezzi pesanti, come i carri armati. Ufficialmente le Forze Armate Ucraine hanno iniziato il conflitto avendo circa 4000 carri armati a loro disposizione, ma i numeri effettivi in servizio erano assai più bassi tanto da far dire alla maggior parte degli analisti che essi si aggirassero attorno ai 1000.
Da quando la campagna di bombardamento aereo da parte dei velivoli di Mosca ha cominciato ad assumere i contorni di una vera e propria “guerra d’annientamento”, gli ucraini hanno progressivamente visto demolite le loro industrie del comparto della Difesa una dietro l’altra e questo (unito alla distruzione dei depositi di carburante, sui quali si sono concentrate le attenzioni russe nelle ultime settimane) sta già avendo gravi effetti sulle capacità di manutenzione e riparazione dei mezzi danneggiati così come sulla mobilità in generale delle principali unità di manovra ucraine.
Gli ucraini hanno dato prova di caparbietà ed ingenuità e, spinti dalla contingenza, hanno preso di petto il problema decidendo saggiamente di rimettere in servizio quanti più mezzi possibili tra quelli catturati ai russi, ma come è facile capire, questo è un palliativo buono per il breve periodo (e comunque i russi ed i donbassiani stanno facendo la stessa identica cosa!).
Non molto tempo fa la Ministra degli Affari Esteri della Repubblica Federale di Germania, Annalena Baerbock, aveva annunciato che la Germania era pronta a fornire a Kiev l’equivalente di 500 milioni di dollari di aiuti. Ebbene, ad un’attenta analisi della situazione sul terreno si nota che 500 milioni di dollari ammonta al totale che Kiev deve spendere ogni giorno solamente per soddisfare le necessità relative al munizionamento.
È stato calcolato che per ottenere risultati decisivi sul terreno l’Ucraina dovrebbe ricevere seduta stante oltre 100 miliardi di dollari di armamenti, soprattutto pesanti, per riuscire ad infliggere ai russi perdite debilitati, ma è facile capire che tale programma di aiuti è semplicemente insostenibile.
La scelta da parte degli Stati Uniti e di molti loro alleati occidentali di fornire agli ucraini numeri importanti di armi appartenenti a particolari categorie come i missili anticarro FGM-148 Javelin e NLAW ed i missili antiaerei spalleggiati FIM-92 Stinger e Piorun, più altre armi destinate generalmente alla fanteria, avrebbe senso nel caso ci trovassimo in una situazione di conflitto a bassa intensità di durata decennale come fu la Guerra Sovietica in Afghanistan, ma la fattispecie in questione è completamente diversa dato che la Guerra Russo-Ucraina è in realtà un grande conflitto convenzionale tra paesi stile Seconda Guerra Mondiale ed ogni raffronto con i conflitti avvenuti dal 1945 ad oggi ha poco o niente senso.
In questo scenario ciò che bisogna fare è valutare la potenza di fuoco complessiva, le capacità dei contendenti di rigenerare riserve sia tattiche che strategiche di uomini e materiali, la resilienza dei sistemi economico-finanziari, la determinazione delle opposte popolazioni e leadership di combattere fino in fondo per raggiungere i propri obiettivi irrinunciabili.
Per quanto riguarda l’Ucraina, la leadership politica del paese, rappresentata dal presidente Zelensky pare si sia decisamente orientata verso la soluzione militare del conflitto ed in questo è sostenuta da praticamente tutto lo spettro politico e da una larga fetta della popolazione (a quanto però ammonti questa percentuale, non è dato saperlo con precisione assoluta dato che esistono segnali contrastanti provenienti dall’interno dell’Ucraina così come dalle comunità della diaspora). Tuttavia il fervore nazionalista dimostrato dagli ucraini fino a questo momento rischia di ritorcersi contro gli ucraini stessi nel caso essi trascinino la Russia in una guerra di logoramento che essi non hanno alcuna possibilità di vincere sacrificando al contempo la possibilità di negoziare una pace, o quanto meno un armistizio, che gli consentirebbe di conservare delle leve spendibili per il futuro.
Come raccontano i dati esposti sopra in maniera inequivocabile, sotto la pressione armata russa, l’Ucraina sta andando rapidamente incontro ad un processo di violenta destrutturazione tanto dell’economia quanto della società tutta. Le Forze Armate e le varie altre istituzioni preposte alla difesa del paese che io ho menzionato di sopra possono anche decidere di combattere ad oltranza ma, ad un certo punto, la loro resistenza diventerà insostenibile se il paese nella sua complessità non è più in grado di sostenere i costi della guerra).
Anche in tempo di guerra l’economia deve poter continuare ad operare (seppure a “scartamento ridotto”) ma se ciò diventa materialmente impossibile allora ad un certo punto tutto ciò che sarà rimasto da fare alla popolazione civile ucraina sarà di fare tutto ciò che è possibile per sfamarsi. Quello sarà precisamente il momento nel quale l’Ucraina vedrà seriamente compromessa la sua capacità di resistere.
Probabilmente a Washington si sono accorti di tutti ciò, ed è per questo che il presidente Biden sta ora facendo pressione sul Congresso affinchè venga approvato un piano di aiuti sia militari che economici all’Ucraina pari a 33,1 miliardi di dollari. È assai probabile che, infine, tale piano verrà approvato, tuttavia anche questa apparente “ondata di vita” non riuscirà affatto a cambiare il trend che, ogni giorno che passa, fa intravvedere all’orizzonte scenari cupi per il futuro dell’Ucraina.
GIUGNO 1941: L’OPERAZIONE BARBAROSSA E IL SODALIZIO DEL REICH CON I NAZIONALISTI UCRAINI
Nel giugno 1941, una volta penetrate nell’Est Europa, con l’Operazione Barbarossa le armate dell’Asse guidate dalla Germania nazista diedero il via all’invasione dell’Unione Sovietica (nome in codice Unternehmen Barbarossa). L’approccio dei tedeschi con le popolazioni locali, durante l’avanzata, si diversificò a seconda del luogo e della tipologia di comunità incontrata, e nel caso, sottomessa. Dette relazioni, fondate su rapporti di ordine divisivo o inclusivo, hanno suscitato e suscitano ancora polemiche circa la condivisione delle politiche di sterminio perpetrate dal Reich e dai collaborazionisti locali ai danni di alcune minoranze etniche appartenenti alla vecchia URSS. Cerchiamo, nel merito, di individuare i fatti salienti e analizzarne il decorso storico-politico.
È necessario puntualizzare innanzitutto che l’obiettivo di Adolf Hitler, denominato “colonialismo integrale”, era quello di sottoporre ad amministrazione controllata ogni provincia oggetto di occupazione militare; fu così per la regione bielorussa di Bialystok (annessa alla Prussia), per la Transnistria e il Dnepr (annesse alla Romania) e per l’Ucraina (inglobata per gran parte nella Polonia in corso di nazificazione). Dall’idea di smantellamento geopolitico furono volutamente risparmiate numerose comunità agricole, le quali, forti delle immense ricchezze naturali di cui disponevano le regioni russo-caucasiche, avrebbero dovuto continuare a produrre incessantemente. Così, se da un lato ebbe luogo la decollettivizzazione delle proprietà e dei fondi, dall’altro il timore di disorganizzare la struttura produttiva delle zone più ricche fece desistere i tedeschi dall’attuare qualsiasi forma di destabilizzazione. Ciò non impedì alla Germania, dal 1942, di “prelevare” a scopo manodopera circa 4 milioni e duecentomila lavoratori da tutto il territorio russo centro-occidentale.
La politica di Ostpolitik del Reich, come accennato, si manifestò in modo differente in base alle regioni via via occupate; i paesi baltici, per esempio, nei quali la cultura tedesca aveva da sempre attecchito in forma più marcata rispetto alle zone interne dell’Eurasia, dovevano essere associati al destino della Germania, e per questo fu riservato loro un trattamento speciale. Consce che per liberarsi dell’influenza russa e aspirare alle storiche autonomistiche ambizioni socioculturali (di cui si facevano da secoli portatrici) era necessario appoggiarsi ai tedeschi, le popolazioni “privilegiate” si videro riconoscere alcune prerogative molto importanti: libertà di culto, un’ampia facoltà di manovra politica e diverse deleghe amministrative. È in questo contesto che la “dottrinaRosemberg” – dal nome dell’allora Ministro per i territori occupati, Alfred Ernst Rosemberg, per l’appunto – si ispirò all’utilizzo politico e militare di alcune popolazioni in funzione antirussa. Una era rappresentata dai cittadini dell’Ucraina. La sua parte occidentale, area in cui i tedeschi furono ben accolti nel corso della campagna di guerra, sembrò impersonare, politicamente, il nucleo adatto per dare corpo e velocizzare la disgregazione dell’URSS, ritenuto l’ostacolo più duro da superare. Fu proprio in questa fase che l’intellighenzia ucraina, fortemente nazionalista e notoriamente antisemita, trovò un punto di incontro ideologico con l’Asse nella prospettiva di neutralizzare l’Armata Rossa e nazificare il paese. Si trattò tuttavia di un’idiosincrasia di media durata in quanto Hitler, che ravvisò proprio nelle aspirazioni autonomistiche un potenziale pericolo, frenò in seguito ogni iniziativa tesa a dare ulteriori poteri alla classe dirigente di Kiev.
In suddetta prospettiva, alcuni celebri studiosi slavisti e ucrainisti hanno sostenuto la tesi per cui l’instabilità delle regioni più estese dell’Europa orientale ha secolarmente rappresentato un problema storico (e storiografico) di rara complessità. Come dargli torto? Guardando a quello che tra il 1941 e il 1945 si può definire come l’avvenuto “incontro-scontro” tra Germania hitleriana e sciovinismo ucraino, si evince, in relazione a un accurato studio scientifico, il punto di fusione rivestito senza dubbio dalla occidentalizzazione dei piccoli-russi filo-indipendentisti, nei quali si confondevano in modo sincronico sia la concezione socialista che quella ultranazionalista. Una delle peculiarità dei partiti ucraini relativi alla Russia post-zarista era il carattere eterogeneo dei rispettivi obiettivi; diversi di questi movimenti, di fatto, oltre a insistere sull’antica emancipazione sociale, legavano a tale tratto distintivo anche un marcato patriottismo rivoluzionario filo-menscevico. Pertanto, la questione agraria e quella nazional-popolare erano notoriamente le più sentite, cosicché i fautori di queste istanze presero a svolgere la loro attività politiche nei villaggi rurali, luoghi in cui la loro propaganda si diffuse in maniera maggiore. L’ala patriottica, che si riconosceva nel manifesto stilato da Mikola Michnovs’kyj, confluì nel partito dei socialisti indipendenti, il cui programma principale consisteva proprio nella separazione dalla Russia e nella creazione di uno stato nazionale indipendente. Si può senz’altro asserire che (anche) al già tradizionale antisemitismo locale e alla scia di sangue provocata dalla Seconda guerra mondiale, andava ad aggiungersi un ulteriore e micidiale elemento: l’associazione tra ebrei e bolscevichi considerati come unico nemico da abbattere. Condizione che inasprì il già conclamato status di guerra civile in atto.
La storiografia ha sostenuto, nel tempo, che il motivo principale del fenomeno legato all’alto numero di collaborazionisti ucraini incorporati dal Reich sia stato dovuto alla volontà popolare di sottrarsi ai vincoli dell’amministrazione russa, e in parte polacca. In secondo luogo, è stata più volte rimarcata l’eredità raccolta dall’Impero austro-ungarico, di cui faceva parte la Galizia centrale, regione dove avevano prestato servizio militare e studiato migliaia di giovani ucraini. Per dare un’idea di come si stessero evolvendo gli eventi bellici, basti pensare che la dichiarazione di indipendenza dell’Ucraina fu promulgata hic et nunc il 30 giugno del ’41, a nemmeno un mese dall’entrata dei tedeschi presso il territorio sovietico. I volontari che in seguito furono incorporati nella Wermacht e nelle SS, tra legionari e reclute, ammontarono a un numero di circa 300 mila unità. È lecito altresì affermare che la cooperazione tra nazismo e nazionalismo ucraino non fu di natura esclusivamente militare, ma anche ideologica. Ciò è comprovato, oltre che da numerosi documenti redatti negli archivi tedeschi e nelle relazioni alleate (in primis quella canadese), anche dal fatto che sin dai tempi di Caterina II di Russia, XVIII secolo, l’antisemitismo attraeva ampi gruppi sociali, il cui atteggiamento estremo si trasformava spesso e volentieri in saccheggi e uccisioni di innocenti. Si trattava di una discriminazione di matrice sia religiosa (l’Ucraina è un territorio dove il cristianesimo cattolico ortodosso è sempre stato di gran lunga prevalente) che sociale, laddove gli ebrei venivano accusati di gestire il grande commercio e controllare di conseguenza economia e finanza nazionali. I ceti bracciantili ucraini rappresentavano la maggioranza più povera e percepirono le comunità ebraiche come un nemico potenziale ricco e profittatore. Di lì, a seguito dei massacri, operati in prevalenza da gruppi paramilitari organizzati (tra questi il NSDAP e l’UVO), prese vigore un’ulteriore spinta all’emigrazione degli israeliti verso gli Stati Uniti.
A fare le spese delle violenze furono soprattutto gli ebrei presenti in tutto il territorio dell’ex Unione Sovietica, di cui buona parte relegati nella provincia di Kiev. I pogrom si moltiplicarono, spingendo più volte le autorità moscovite a denunciare le stragi alla comunità internazionale. Si calcola che in Russia (dove era presente una delle comunità ebraiche più numerose del mondo), tra il 1941 e il 1945, nel corso del genocidio attuato dai tedeschi e dai loro alleati, siano stati sterminati un milione e mezzo di ebrei, anche se la cifra esatta – visto il fenomeno dei dispersi – non potrà in alcun modo essere ricalcolata o censita con precisione.
MG
BIBLIOGRAFIA:
Cinnella, La tragedia della Rivoluzione russa1917-1921, Milano/Trento, Luni, 2000 –
Foa, Ebrei in Europa. Dalla peste nera all’emancipazione, Bari, Laterza, 2001 –
Raul Hilberg , La distruzione degli ebrei d’Europa , Parigi, Gallimard, 2006 –
A.Salomoni, L’Unione Sovietica e la Shoah. Genocidio, resistenza, rimozione, Bologna, Il Mulino, 2007 –
Virginie Symaniec , La costruzione ideologica slava orientale di lingue, razze e nazioni nella Russia del XIX secolo, Parigi, Petra, 2012
Siamo alla seconda parte della conversazione. Proseguiamo soffermandoci maggiormente su alcune caratteristiche dell’armamentario a disposizione nella conduzione di un conflitto sempre più aperto e dichiarato tra Stati Uniti e mondo occidentale da una parte e la Russia, in qualità di anello debole o presunto tale la cui rottura sarebbe in grado di interrompere il processo di formazione multipolare e di porre la Cina come interlocutrice subordinata. Quest’ultima, per ragioni di cultura politica e per la condizione oggettiva di aver lucrato copiosamente da questa modalità di sviluppo della globalizzazione, è restìa a creare un sistema statico di alleanze concorrenti, prodromico ad un conflitto aperto. Sta di fatto che la gran parte del mondo ha quantomeno assunto un atteggiamento di aperta diffidenza, se non di ostilità, alle lusinghe occidentali con la conseguenza che il sofisticato arsenale di soft ed hardpower occidentale, compreso quello finanziario, rischia paradossalmente di essere ritorto ai danni dei detentori. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
Una settimana fa ho scritto un pezzo sulle tappe della storia , sottolineando i cambiamenti sistemici che si verificano da più di 200 anni. Nel secolo scorso, questi cambiamenti sono avvenuti a circa 30-40 anni di distanza e l’ultimo si è verificato nel 1991, ovvero circa 30 anni fa. Quell’anno finì la Guerra Fredda, fu firmato il Trattato di Maastricht, iniziò l’operazione Desert Storm e finì il miracolo economico giapponese, aprendo le porte all’ascesa della Cina. Il mondo nel 1989 era molto diverso da quello del 1992.
Ora siamo in un’era in cui si verificano cambiamenti. Essere in un’era non significa necessariamente che il cambiamento arriverà immediatamente; il cambiamento tra l’epoca delle guerre mondiali e il mondo del dopo Guerra Fredda è durato quasi 50 anni, solidificato com’era stato dalla rivalità USA-URSS. Non è chiaro perché alcune epoche durino più a lungo di altre. Potrebbe essere semplicemente un caso. Un’alternativa da considerare è che alcune epoche sono basate su realtà singole, molto solide, mentre altre sono basate su realtà multiple e più fragili. Pertanto, l’era 1945-1991 si basava sulle solide fondamenta del confronto tra USA e Unione Sovietica, mentre il 1991-2022 era basato su forze multiple: la guerra globale al terrore, l’Unione Europea, l’emergere della Cina, la Russia che si affermava e così via . Era meno coerente e quindi più fragile. La nostra epoca attuale è iniziata con turni più frammentati,
Qualunque siano le ragioni, l’era iniziata nel 1991 sta volgendo al termine e sta iniziando una nuova era. Tutte le principali entità o nazioni del nord – Cina, Stati Uniti, Russia ed Europa – stanno subendo profondi cambiamenti. Per la Russia, l’invasione dell’Ucraina è solo l’ultimo e più importante tentativo di invertire gli eventi del 1991. Ma con una classifica del prodotto interno lordo pro capite di 86, l’allontanamento dal comunismo potrebbe non essere redditizio come si pensava una volta. E con un esercito superato dalle forze ucraine, difficilmente può essere considerato una grande potenza militare. In parole povere, la Russia non è stata all’altezza delle proprie aspettative, quindi subirà la rivoluzione prevista nel periodo precedente, continuerà le sue mosse aggressive utilizzando capacità militari limitate o finirà come una potenza minore, anche se con armi nucleari.
La guerra in Ucraina ha cambiato anche l’Europa. La NATO è riemersa come un sistema primario, parallelo all’UE, con membri alquanto diversi, un’agenda diversa e costi di bilancio diversi. Ancora più importante, il rapporto transatlantico ha ricevuto nuova vita, insieme a un maggiore impegno per le spese militari. Questo porta l’Europa in una configurazione fondamentalmente diversa. In primo luogo, con l’aumento della spesa pubblica e la contrazione dei risultati economici sotto la pressione del conflitto, le tensioni all’interno dell’UE peggioreranno. E con l’aumento della dipendenza dagli Stati Uniti, Washington potrebbe essere vista ancora una volta come un partner economico alternativo alla Germania. L’Unione Europea, già sottoposta a pressioni centrifughe, dovrà ridefinirsi ancora una volta.
Anche la Cina è in transizione. Ha attraversato un periodo di crescita economica vertiginosa. Come il Giappone prima, e gli Stati Uniti molto prima, la Cina è stata in una straordinaria espansione economica. Quando il Giappone ha raggiunto i limiti della crescita a due cifre nel 1991, il suo declino ha portato alla sua sostituzione con la Cina. Il Giappone ha fatto crescere la sua economia grazie a una combinazione di esportazioni a basso costo, seguite da una crescita tecnologica avanzata. Lo aveva finanziato attraverso un sistema finanziario che allocava capitali sia su base economica che politica, attraverso keiretsu, o famiglie di società. È cresciuto su una forza lavoro disciplinata. Si è imbattuto in un’intensa concorrenza per beni di basso valore che hanno svenduto i propri, così come nella resistenza politica dei suoi paesi consumatori, in particolare gli Stati Uniti. Ciò si è intensificato con beni di alto valore come le automobili.
Ma ora le esportazioni di fascia bassa della Cina stanno erodendo sotto la concorrenza, così come i suoi prodotti di fascia alta, per non parlare della resistenza alle esportazioni da parte dei mercati di consumo. Un’espansione iniziata 40 anni prima non può sostenere il suo tasso di crescita. Le esportazioni sono sotto pressione e anche il sistema finanziario. Nel caso della Cina, ciò è accaduto nel settore immobiliare, che viene utilizzato come sistema di sicurezza. I fallimenti in questo settore, comprese le insolvenze, destabilizzano inevitabilmente l’economia e creano così tensione politica. È probabile una crescita drammaticamente più lenta in Cina, con un gran numero di cittadini cinesi che non hanno mai beneficiato completamente della crescita precedente, una situazione pericolosa.
Gli Stati Uniti sono ancora la potenza più forte del mondo nonostante le discordie interne e le pressioni economiche. Quella discordia è ciclica e fa presagire un’impennata economica basata sulla nuova tecnologia. Ma per ora, la potenza economica americana, vista più recentemente attraverso l’uso del dollaro contro la Russia, è ancora in piedi. Gli Stati Uniti sono la meno probabile delle quattro major a richiedere un cambiamento istituzionale, che li ha aiutati a mantenere la propria posizione dal 1945.
Le precedenti ipotesi su Russia e Cina come potenze emergenti ora sono nella migliore delle ipotesi discutibili. Le cose cambiano, ma oggi è difficile vedere una rinascita russa o una rapida fine dei problemi economici della Cina. Quindi, se siamo all’inizio di un cambiamento ciclico, come penso che siamo, gli Stati Uniti saranno uno dei pilastri della transizione verso la nuova era. È difficile visualizzare il resto. Chi avrebbe pensato nel 1991 che la Cina sarebbe cresciuta, o nel 1945 che l’Europa si sarebbe ricostruita come ha fatto? La parte facile di questo progetto è finita, credo, ed è tempo di cercare l’inimmaginabile che esiste in ogni epoca.
Nell’intervista a Brenner emerge con chiarezza lo stupore, lo sconforto, la preoccupazione e lo sbalordimento della vecchia generazione dei Cold Warriors di fronte a questa nuova specie umana che si è impadronita del timone. È un sentimento largamente diffuso in quella generazione, ricordo che in un colloquio organizzato dall’American Committee for US-Russia Accord, ne parlò con toni di accorata preoccupazione e stupore addirittura la figlia del presidente Eisenhower.
Tutte queste persone, tutti questi insiders che a vari livelli hanno foggiato la politica estera americana per decenni, tutti evocano il termine “follia” e i suoi immediati parenti, “irrazionalità”, “arroganza”, “cecità”, etc.
Insomma: per queste persone, esperte, navigate, interne ai meccanismi e alle ragioni dello Stato americano, al quale per tutta la vita sono state leali, gli Stati Uniti di oggi sono affetti da una grave e pericolosa malattia psichica.
E in effetti pare sia proprio così. La scelta strategica americana di affrontare insieme Russia e Cina costringendole a saldarsi, in un momento in cui l’impero USA è overextended e ha serissimi problemi interni, con un paese aspramente diviso e impoverito, polarizzato culturalmente e politicamente, un’infrastruttura in rovina, è una follia, un errore epocale al quale personalmente non trovo precedenti storici. Eppure, l’errore è stato compiuto. Forse è ancora reversibile (non con questa Amministrazione) ma è stato compiuto.
A spiegazione dei due dati che evoca Brenner, l’arroganza e la realtà parallela indotte dall’eccezionalismo americano, dalla intima persuasione di essere “the city on the hill”, il paese destinato a giudicare il mondo e redimerlo dal male, credo sia molto utile la lettura di Eric Voegelin in “The New Science of Politics” e in “Order and History”, dove parla degli gnosticismi politici moderni, ossia delle formazioni ideologico-politiche che cortocircuitano escatologia e tempo storico.
Per Voegelin, la malattia gnostica non è della psiche, ma dello spirito: non è “follia”, “psicopatologia”, ma “pneumopatologia”, ossia una malattia derivante da una scelta spirituale errata, da un rifiuto radicale e pregiudiziale della realtà del mondo, che poi contagia la psiche, e finisce per condurre chi ne sia affetto a un urto rovinoso con le strutture stesse del reale.
Il primo degli gnosticismi politici moderni individuato da Voegelin è appunto il puritanesimo inglese seicentesco, dal quale provengono i fondatori delle colonie americane. Gli altri – ai quali Voegelin, per ragioni di urgenza storica, rivolge maggiore attenzione – sono il comunismo e il nazionalsocialismo.
Quando si è trattato del conflitto in Ucraina, il professor Michael J. Brenner ha fatto quello che ha fatto per tutta la vita: mettere in discussione la politica estera americana. Questa volta il contraccolpo è stato al vetriolo.
Poiché il bilancio delle vittime dell’invasione illegale dell’Ucraina da parte della Russia continua ad aumentare, solo una manciata di occidentali ha messo in dubbio pubblicamente la NATO e il ruolo dell’Occidente nel conflitto. Queste voci stanno diventando sempre meno numerose mentre un’ondata di contraccolpi febbrili inghiotte qualsiasi dissenso sull’argomento. Una di queste voci appartiene al professor Michael J. Brenner, accademico per tutta la vita, professore emerito di affari internazionali presso l’Università di Pittsburgh e membro del Center for Transatlantic Relations presso SAIS/Johns Hopkins, nonché ex direttore del programma di relazioni internazionali e studi globali presso l’Università del Texas. Le credenziali di Brenner includono anche aver lavorato presso il Foreign Service Institute, il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti e Westinghouse e aver scritto diversi libri sulla politica estera americana. Dal punto di vista privilegiato di decenni di esperienza e studi, l’intellettuale condivideva regolarmente i suoi pensieri su argomenti di interesse attraverso una mailing list inviata a migliaia di lettori, fino a quando la risposta alla sua analisi sull’Ucraina non gli fece chiedere perché si preoccupasse in primo luogo .
In un’e-mail con oggetto “Quittin’ Time”, Brenner ha recentemente dichiarato che, oltre ad aver già detto il suo pezzo sull’Ucraina, uno dei motivi principali che vede per rinunciare a esprimere le sue opinioni sull’argomento è che “è è evidente che la nostra società non è in grado di condurre un discorso onesto, logico e ragionevolmente informato su questioni di importanza. Invece, sperimentiamo fantasia, fabbricazione, fatuità e fulminazione”. Continua a denigrare i commenti allarmanti del presidente Joe Biden in Polonia quando ha quasi rivelato che gli Stati Uniti sono, e forse sono sempre stati, interessati a un cambio di regime russo.
In “Scheer Intelligence” di questa settimana, Brenner racconta al conduttore Robert Scheer come i recenti attacchi che ha ricevuto, molti di natura personale e ad hominem, sono stati tra i più al vetriolo che abbia mai sperimentato. I due discutono di quante narrazioni dei media tralasciano completamente che l’espansione verso est della NATO, tra le altre aggressioni occidentali contro la Russia, ha svolto un ruolo importante nell’alimentare l’attuale crisi umanitaria. La rappresentazione “da cartone animato” del presidente russo Vladimir Putin da parte dei media corporativi, aggiunge Brenner, non è solo fuorviante, ma pericolosa, data la crisi nucleare che ne è derivata. Ascolta la discussione completa tra Brenner e Scheer mentre continuano a dissentire nonostante vivano in un’America apparentemente sempre più ostile a qualsiasi opinione che si allontani dalla linea ufficiale.
RS: Ciao, sono Robert Scheer con un’altra edizione di Scheer Intelligence, dove l’intelligence viene dai miei ospiti. In questo caso si tratta di Michael Brenner, professore emerito di affari internazionali all’Università di Pittsburgh, ricercatore presso il Center for Transatlantic Relations del SAIS Johns Hopkins; ha scritto importanti studi, libri, articoli accademici; ha insegnato in ogni luogo, da Stanford ad Harvard, al MIT e tu.
Ma il motivo per cui volevo parlare con il professor Brenner è che è stato catturato nel mirino del tentativo di avere un dibattito su cosa sta succedendo in Ucraina, e la risposta della NATO, l’invasione russa e quello che hai. E nella mia mente leggevo, leggevo il suo blog; L’ho trovato molto interessante. E poi improvvisamente ha detto, mi sto arrendendo; non puoi avere una discussione intelligente. E la sua descrizione di quello che sta succedendo mi ha ricordato la famosa descrizione di Lillian Hellman del periodo McCarthy come “tempi da mascalzone”, che era il titolo del suo libro.
Allora, professor Brenner, ci dica in quale motoscafo si è imbattuto quando ha osato mettere in discussione, per quanto posso vedere, ha osato fare quello che ha fatto per tutta la sua vita accademica: ha sollevato dei seri interrogativi su una questione di politica estera. E poi, non so cosa, sei stato colpito in testa un sacco di volte. Quindi potresti descriverlo?
MB: Sì, è stato solo in parte una sorpresa. Ho scritto questi commenti e li ho distribuiti a un elenco personale di circa 5.000 per più di un decennio. Alcune di queste persone sono all’estero, la maggior parte negli Stati Uniti; sono tutte persone istruite che sono state coinvolte in un modo o nell’altro con gli affari internazionali, incluso un buon numero di persone che hanno avuto esperienza all’interno e intorno al governo, al giornalismo o al mondo dell’informazioni.
Quello che è successo in questa occasione è che avevo espresso opinioni molto scettiche su quella che ritengo sia la trama di fantasia e il resoconto di ciò che è accaduto in Ucraina, nell’ultimo anno e soprattutto riguardo all’acuta crisi che è sorta con il Invasione russa e attacco all’Ucraina. Non solo ho ricevuto un numero insolitamente elevato di risposte critiche, ma è stata la loro natura ad essere profondamente sgomenta.
Uno, molti, la maggior parte provenivano da persone che conoscevo, che conoscevo come menti equilibrate, sobrie, impegnate e ben informate sulle questioni di politica estera e sulle questioni internazionali in generale. In secondo luogo, erano altamente personalizzati e raramente ero stato oggetto di quel tipo di critica o attacco, specie di osservazioni ad hominem che mettevano in dubbio il mio patriottismo; se fossi stato pagato, sai, da Putin; le mie motivazioni, la mia sanità mentale, eccetera, eccetera.
Il terzo era l’estremità del contenuto di questi messaggi ostili. E l’ultima caratteristica, che mi ha davvero sbalordito, è stata che queste persone hanno accettato – gancio, lenza e zavorra – ogni aspetto del tipo di storia di fantasia che è stata propagata dall’amministrazione, accettata e inghiottita per intero dai media e dalla nostra politica. classe intellettuale, che comprende molti accademici e l’intera galassia dei think tank di Washington.
E questa è un’impressione rafforzata che andava crescendo da tempo, che questo non era solo—che essere un critico e uno scettico non significava solo impegnarsi in un dialogo [non chiaro], ma mettere le proprie opinioni e i propri pensieri e inviarli nel vuoto, in effetti. Un vuoto, perché il discorso così come si è cristallizzato non solo è uniforme in un certo senso, ma è per tanti aspetti insensato, privo di ogni tipo di logica interiore, che si condividano o meno le premesse e gli obiettivi formalmente dichiarati.
In effetti, questo era un nichilismo intellettuale e politico. E non si può dare alcun contributo per tentare di correggerlo semplicemente con mezzi convenzionali. Quindi ho sentito per la prima volta di non far parte di questo mondo, e ovviamente questo è anche un riflesso di tendenze e atteggiamenti che sono diventati piuttosto pervasivi nel paese in generale, un po’ nel tempo. E così, al di là della semplice sorta di disaccordo con ciò che è il consenso, ero diventato totalmente alienato [non chiaro] e ho deciso che non aveva senso continuare a distribuire queste cose, anche se continuo a seguire gli eventi, a pensarci e inviare alcuni commenti più brevi agli amici intimi. Questo è essenzialmente tutto, Robert.
RS: OK, ma lasciami solo dire, prima di tutto, voglio ringraziarti per quello che hai fatto. Perché mi ha portato a un modo completamente diverso di guardare a ciò che è successo all’Ucraina: la storia, che ci ricorda ciò che era accaduto nel decennio precedente, non solo l’espansione della NATO, ma l’intera questione del cambio di governo che gli Stati Uniti è stato coinvolto in precedenza. E l’insieme, sai, il rapporto dei due poteri.
E l’ironia qui è che in realtà siamo tornati ai momenti peggiori della Guerra Fredda, ma almeno durante la Guerra Fredda eravamo disposti a negoziare con persone che erano molto serie, almeno ideologiche, o nemiche, e avevano una certa coerenza a questo riguardo. E sai, Nixon ha avuto il suo dibattito in cucina con Krusciov, e noi avevamo il controllo degli armamenti con la vecchia Unione Sovietica; Lo stesso Nixon andò in Cina e negoziò con Mao Zedong; non c’era alcuna illusione che queste fossero persone meravigliose, ma erano persone con cui dovevi fare affari. Improvvisamente Putin è ora messo in una categoria hitleriana anche peggiore di Stalin o Mao, e non puoi parlare.
E voglio dissentire su una cosa che hai fatto: il tuo ritiro da questo. Hai solo circa 80 anni; sei un bambino rispetto a me Ma ricordo quando Bertrand Russell, uno dei grandi intellettuali che abbiamo avuto nella nostra storia, o nella storia occidentale, osò criticare gli Stati Uniti sul Vietnam. Lui e Jean Paul Sartre, e in realtà hanno sollevato la prospettiva che avessimo commesso crimini di guerra in Vietnam.
E il New York Times ha denunciato Bertrand Russell, e in realtà ha detto che sarebbe diventato senile. Sono andato fino in Galles mentre stavo redigendo la rivista Ramparts per intervistare Bertrand Russell, cosa che ho fatto, e ho trascorso dei bei momenti con lui. Certamente era fragile all’età di 94 anni, ma era incredibilmente coerente nella difesa della sua posizione; era stato un forte anticomunista per tutta la sua vita, e ora stava dicendo, aspetta un minuto, stiamo sbagliando questa guerra.
Quindi non accetterò che tu abbia il diritto di andare in pensione; Adesso ti spingo. Quindi, per favore, dì agli ascoltatori a cosa ti opponi nella narrativa attuale e su quali basi?
MB: Beh, voglio dire, sono i fondamentali. Uno, ha a che fare con la natura del regime russo, il carattere di Putin; quali sono gli obiettivi sovietici, la politica estera e le preoccupazioni per la sicurezza nazionale. Voglio dire, quello che stiamo ottenendo non è solo una caricatura di cartoni animati, ma un ritratto del paese e della sua leadership e, a proposito, Putin non è un dittatore. Non è onnipotente. Il governo sovietico è molto più complesso nei suoi processi decisionali.
RS: Beh, hai appena detto il governo sovietico. Intendi il governo russo.
MB: governo russo. [voci sovrapposte] Vedete, ho captato per osmosi questa fusione di russo e sovietico. Voglio dire, è molto più complesso [non chiaro]. Ed è, Putin stesso, un pensatore straordinariamente sofisticato. Ma le persone non si preoccupano di leggere ciò che scrive, o di ascoltare ciò che dice.
Non conosco, infatti, nessun leader nazionale che abbia esposto nei dettagli, nella precisione e nella raffinatezza la sua visione del mondo, il ruolo della Russia in esso, il carattere delle relazioni interstatali, con il candore e l’acutezza che possiede. Non si tratta di ritenere che quella rappresentazione che offre sia del tutto corretta, o la conclusione che ne trae, per quanto riguarda la politica. Ma si tratta di una persona e di un regime che per aspetti vitali è l’antitesi di quello caricaturale e quasi universalmente accettato, non solo nell’amministrazione Biden ma nella comunità di politica estera e nella classe politica, e in generale.
E questo solleva alcune domande davvero basilari su di noi, piuttosto che sulla Russia o su Putin. Come hai detto, la domanda era: di cosa abbiamo paura? Perché gli americani si sentono così minacciati, così ansiosi? Voglio dire, al contrario, nella Guerra Fredda, voglio dire, c’era un potente nemico, ideologico, militare in un certo senso, con tutte le qualifiche e le sfumature [non chiare]. Ma quella era la realtà allora; quella era una realtà che era, uno, il punto focale per i leader nazionali che erano persone serie e responsabili. In secondo luogo, ciò potrebbe essere utilizzato per giustificare azioni altamente dubbie, ma almeno potrebbe essere utilizzato per giustificare, come i nostri interventi in tutto il cosiddetto Terzo Mondo, e persino la grande e tragica follia del Vietnam.
Cosa c’è oggi che ci minaccia davvero? All’orizzonte, ovviamente, c’è la Cina, non la Russia; sebbene ora, grazie al nostro inconsapevole incoraggiamento, abbiano formato insieme un formidabile blocco. Ma voglio dire, anche la sfida cinese riguarda la nostra supremazia e la nostra egemonia, non direttamente il paese [non chiaro]. Quindi la seconda domanda è, cosa c’è di così avvincente nel mantenimento e nella difesa di una concezione della provvidenziale ammissione alla nascita degli Stati Uniti d’America nel mondo che ci obbliga a considerare persone come Putin come diaboliche e come una grave minaccia in America come Stalin e Hitler, i cui nomi affiorano costantemente, oltre a frasi ridicole come genocidio e così via.
Quindi voglio dire, ancora una volta, penso che dobbiamo guardarci allo specchio e dire, beh, abbiamo visto—[non chiara] la fonte della nostra inquietudine, ed è dentro di noi; non è là fuori e sta portando a grosse distorsioni del modo in cui vediamo, rappresentiamo e interpretiamo il mondo, su tutta la linea. Con ciò intendo geograficamente e in termini di sorta di arene e dimensioni differenti delle relazioni internazionali. E, naturalmente, continuare lungo questo corso può avere solo un punto finale, e questo è un disastro in una forma o nell’altra.
RS: Beh, sai, ci sono due punti che devono essere affrontati. Uno è che questo non è paragonabile ad andare in Afghanistan o in Vietnam o in Iraq o altrove. Stai affrontando l’altra enorme potenza nucleare. E abbiamo dimenticato in questo dibattito il rischio di una guerra nucleare, una guerra nucleare accidentale, una guerra nucleare pilota automatica, per non parlare dell’uso intenzionale di armi nucleari. C’è una vertigine in ciò che penso aggiunga un—sai, questa non è solo una cosa surrogata.
L’altro è che, sai, per cercare di capire e per vedere se c’è spazio per la trattativa – sì, ok, chiami il tuo avversario Hitler, dici che deve essere rimosso. Ma il fatto è che abbiamo negoziato con Mao. Nixon lo fece. E il mondo è stato un posto molto più sicuro e prospero perché Nixon è andato e ha visto Mao Zedong, che è stato descritto come il dittatore più sanguinario del suo tempo. La stessa cosa è successa con il controllo degli armamenti con la Russia e, tra l’altro, con la capacità di Ronald Reagan di parlare con Mikhail Gorbaciov, e addirittura di considerare di sbarazzarsi delle armi nucleari.
Ora abbiamo dimenticato: sai, parliamo di riscaldamento globale, abbiamo dimenticato cosa farebbero le armi nucleari. Mi capita di essere uno – sai, sono andato a Chernobyl un anno dopo il disastro; quella era una pianta pacifica e, mio dio, la paura che prevaleva in Ucraina, e non potevo dire chi fossero i russi e chi gli ucraini, facevano ancora parte dello stesso paese.
Ma comunque, c’è una vertigine ora. E quello che mi ha sorpreso del tuo discorso d’addio, stavi parlando di persone intelligenti con cui tu ed io ci siamo incontrati alle conferenze sul controllo degli armamenti; abbiamo preso sul serio le loro argomentazioni. Questa non è solo una frangia di neoconservatori che sembrano essersi accampati ora nel Partito Democratico, mentre prima erano nel Partito Repubblicano, lo stesso tipo di falchi estremisti della Guerra Fredda. Stiamo parlando di persone, si sa, che hanno denunciato i loro ex colleghi anche nel movimento pacifista per aver osato mettere in discussione questa narrativa. Cosa sta succedendo?
MB: Beh, Robert, hai assolutamente ragione. E questa domanda è quella che dovrebbe preoccuparci. Perché taglia davvero in profondità, sai, l’America contemporanea. È ciò che è l’America contemporanea. E penso che gli strumenti intellettuali da utilizzare per cercare di interpretarlo debbano provenire dall’antropologia e dalla psicologia almeno quanto, se non di più, dalle scienze politiche o dalla sociologia o dall’economia. Credo davvero che stiamo parlando di psicopatologia collettiva. E, naturalmente, la psicopatologia collettiva è ciò che si ottiene in una società nichilista in cui tutti i tipi di punti di riferimento standard e convenzionali cessano di fungere da indicatori e punti guida su come si comportano gli individui.
E un’espressione di ciò è nella cancellazione della storia. Viviamo nell’esistenziale – penso che in questo caso la parola possa essere usata correttamente – momento, o settimana, o mese, o anno o altro. Quindi dimentichiamo totalmente, quasi totalmente la realtà delle armi nucleari. Voglio dire, come hai detto, e hai assolutamente ragione, in passato ogni leader nazionale e ogni governo nazionale che aveva la custodia di armi nucleari è giunto alla conclusione e ha assorbito la verità fondamentale che non svolgevano alcuna funzione utilitaristica. E che l’imperativo, l’imperativo, era evitare le situazioni non solo in cui sono stati utilizzati come parte di una strategia militare calcolata, ma per evitare situazioni in cui potrebbero svilupparsi circostanze in cui, come hai detto, li avrebbero usati a causa di incidenti, errori di valutazione , o qualcosa del genere.
Ora, non possiamo più presumerlo. Credo, stranamente, in un certo senso abbastanza stranamente, che le persone in posizioni ufficiali che devono rimanere più acutamente consapevoli di questo siano il Pentagono. Perché sono quelli che ne hanno la custodia diretta, e perché lo studiano e lo leggono nell’accademia di servizio come un’intera storia della Guerra Fredda, e la storia delle armi, eccetera.
Non sto suggerendo che Joe Biden abbia in qualche modo sublimato tutto questo. Ma sembra essere in uno stato, difficile da descrivere, in cui certamente [non chiaro] potrebbe permettere quel tipo di incontro con i russi che tutti i suoi predecessori evitavano. Che, a sua volta, è il tipo di incontro in cui è concepibile, e certamente non del tutto inconcepibile, in cui si potrebbe in qualche modo ricorrere alle armi nucleari in qualche modo non calcolabile.
E lo vedi, tra l’altro, in articoli pubblicati in posti come Foreign Affairs e altri giornali rispettabili, da intellettuali della difesa, se vuoi scusare l’espressione. Ogni volta che sento la parola “difesa intellettuale”, ovviamente la mia reazione è di correre e nascondermi, ma ci sono persone di qualche nota che scrivono e parlano in questo modo, e alcune di loro sono neoconservatori di rilievo, come Robert Kagan, Victoria Nuland, una specie di marito e complice, e altri del genere. E quindi, sì, questo è patologico, e quindi ci conduce davvero in un territorio in cui non credo siamo mai stati o sperimentati prima.
RS: Quindi andiamo alla base, quella che senti è la distorsione di questa situazione. Voglio dire, sapete, chiaramente l’azione della Russia nell’invasione dell’Ucraina dovrebbe essere condannata, almeno dal mio punto di vista; per questo mi considero un sostenitore della pace. E chiaramente, questo è quello che ha autorizzato i falchi a spingere per misure più estreme, e siamo in questa situazione spaventosa.
Ma accompagnaci attraverso questa storia, e cosa ci siamo persi? Perché, sai, se lo leggi ora, sul New York Times, sul Washington Post, ovunque, si tratta solo di portare ancora più materiale militare in Ucraina. Sembra che ci sia quasi un piacere nell’ampliare questa guerra, dimenticare i negoziati; non c’è una vera cautela qui. Come siamo arrivati in questo posto? Il tempo sta per scadere, ma puoi darmi la narrativa, come la vedi, che manca ai media?
MB: Robert, cercherò di farlo in modo staccato. Uno, questa crisi, che ha portato all’invasione russa, ha poco a che fare con l’Ucraina di per sé. Certamente non per Washington; per Mosca è diversamente. Ha avuto a che fare con la Russia fin dall’inizio. L’obiettivo della politica estera americana da almeno un decennio è quello di rendere la Russia debole e incapace di affermarsi in alcun modo negli affari europei. Lo vogliamo emarginato, vogliamo sterilizzarlo, come potenza in Europa. E la capacità di Putin di ricostituire una Russia stabile, che avesse anche un proprio senso di interesse nazionale e una visione del mondo diversa dalla nostra, è stata profondamente frustrante per le élite politiche e le élite di politica estera di Washington.
Secondo, Putin e la Russia non sono interessati alla conquista o all’espansione. Tre, l’Ucraina è per loro preminente, non solo per ragioni storiche e culturali, eccetera, ma perché è legata all’espansione della NATO e all’evidente tentativo, come è diventato tangibile all’epoca del colpo di stato di Maidan [non chiaro], che essi desiderava trasformare l’Ucraina in una base avanzata per la NATO. E sullo sfondo della storia russa, questo è semplicemente intollerabile.
Penso che un punto da tenere a mente sia che – e questo si collega a quanto ho detto poco fa sul processo decisionale a Mosca – che se si dovessero collocare gli atteggiamenti e le opinioni dei leader russi su un continuum dal falco alla colomba, Putin è sempre stato bene verso la fine del continuum da colomba. In altre parole, la maggior parte delle forze più potenti a Mosca – e non sono solo i militari, non sono solo gli oligarchi, sono tutti i tipi – la locusta del sentimento è stata che la Russia viene sfruttata, sfruttata; che la cooperazione diventi parte di un sistema europeo in cui la Russia sia accettata come un attore legittimo è illusorio.
Quindi dobbiamo capirlo, e io… OK, in particolare siamo passati alla crisi attuale. Il Donbass, e questa non è solo di lingua russa, ma è una regione russa altamente concentrata dell’Ucraina orientale, che ha cercato di separarsi dopo il colpo di stato di Maidan e, a proposito, i russofoni nel paese nel suo insieme rappresentano il 40% della popolazione . Sai, i russi, a parte i matrimoni misti e la fusione culturale, i russi non sono una piccola minoranza marginale in Ucraina.
OK, passiamo velocemente ora al presente. Credo che ci siano prove crescenti e ora totalmente convincenti che quando il popolo Biden è entrato in carica, ha preso la decisione di creare una crisi sul Donbass per provocare una reazione militare russa e di usarla come base per consolidare l’Occidente, unificare il Ovest, in un programma il cui fulcro erano le massicce sanzioni economiche, con l’obiettivo di assaltare l’economia russa e, possibilmente e si spera, portare a una ribellione degli oligarchi che avrebbe rovesciato Putin.
Ora, nessuna persona che conosce veramente la Russia crede che sia mai stata plausibile. Ma questa era un’idea molto importante nei circoli di politica estera a Washington, e certamente nell’amministrazione Biden, e persone come Blinken, Sullivan e Nuland ci credono. E così hanno iniziato a rafforzare ulteriormente l’esercito ucraino, cosa che abbiamo fatto per otto anni: l’esercito ucraino, grazie ai nostri sforzi, armamenti, consiglieri di addestramento.
E a proposito, ora sta diventando evidente che potremmo, molto probabilmente, abbiamo fisicamente, in Ucraina ora, forze speciali americane, comprese le forze speciali britanniche e alcune forze speciali francesi. Non solo persone che si sono impegnate in missioni di addestramento, ma stanno effettivamente fornendo indicazioni, informazioni, ecc. Vedremo se questo verrà mai fuori. Ed è per questo [non chiaro] Macron, eccetera, sono così disperati nel portare fuori dalla città le brigate e altri elementi speciali intrappolati a Mariupol, che non stanno cedendo.
Quindi l’idea è stata creata da te e ora sta diventando evidente che in effetti era stato pianificato un assalto al Donbass. E che è stato a novembre che è stata presa la decisione finale di andare avanti, e l’ora fissata per febbraio. Ed è per questo che Joe Biden e altri membri dell’amministrazione potrebbero iniziare a dire, con piena fiducia, a gennaio che i russi avrebbero invaso l’Ucraina. Perché sapevano e si sono impegnati in un grande, importante attacco militare al Donbass, e sapevano che i russi avrebbero risposto. Non sapevano quanto sarebbe stata ampia una risposta, quanto sarebbe stata aggressiva, ma sapevano che ci sarebbe stata una risposta.
Tu e gli ascoltatori potreste ricordare che Biden ha detto a febbraio, la seconda settimana di febbraio, che quando arriverà l’invasione russa, se sarà piccola, andremo comunque avanti con le sanzioni, ma potremmo combattere all’interno della NATO sull’opportunità di andare intero maiale. Se è grande, non ci saranno problemi, tutti saranno d’accordo sull’uccisione del Nord Stream II e sull’adozione di questi passi senza precedenti contro la Banca centrale russa, ecc. E lo disse perché sapeva cosa era stato pianificato. E i russi sono giunti alla conclusione più o meno nello stesso periodo. Bene, hanno sicuramente capito qual era il piano di gioco generale.
E poi hanno chiarito che questo sarebbe successo presto, e il colpo finale è arrivato quando gli ucraini hanno iniziato massicci sbarramenti di artiglieria sulle città del Donbass. Ora, negli ultimi otto anni c’erano sempre stati degli scambi. Il 18 febbraio, c’è stato un aumento di 30 volte del numero di proiettili di artiglieria, cinque dagli ucraini nel Donbass, a cui le milizie del Donbass non hanno reagito in natura. Ha raggiunto il picco il 21 e ha continuato fino al 24. E questa a quanto pare era l’ultima conferma che l’assalto sarebbe arrivato presto, e ha costretto la mano di Putin a anticipare attivando piani che senza dubbio avrebbero dovuto invadere da tempo. Penso che sia diventato chiaro.
Ora, questo è ovviamente il diametralmente opposto della storia di fantasia che pervade tutto il discorso pubblico. E puoi dire “tutti” e contare solo sulle dita delle mani e dei piedi il numero dei dissenzienti, giusto, quello prevale. Ora, lasciamo aperta la questione se difendi le azioni di Putin. Io, come te, trovo molto difficile difendere, giustificare, qualsiasi azione militare importante che abbia le conseguenze che ciò comporta. Tranne in assoluta, sai, autodifesa.
Ma sai, ecco dove siamo. E se ci fosse stato l’assalto ucraino che era stato pianificato al Donbass, Putin e la Russia sarebbero stati in guai seri, se si fossero limitati a rifornire le milizie del Donbass. Perché dato il modo in cui avevamo armato e addestrato gli ucraini, non potevano davvero resistergli. Quindi quella sarebbe stata la fine della subordinazione [non chiara] della popolazione russa e la soppressione della lingua russa, tutti passi che il governo ucraino è andato avanti e ha nel lavoro.
RS: Sai, il fulcro di tutto questo è davvero la negazione del nazionalismo di chiunque altro. È stato un po’ il tema della postura degli Stati Uniti del secondo dopoguerra. Ci identifichiamo con i valori universali di libertà, giustizia, libertà e qualunque cosa facciamo, a volte si ammette che è stato un errore; Ho visto il film la scorsa notte Nebbia di guerra, con Robert McNamara, che era sconosciuto a tutti i miei studenti. Tuttavia, questo meraviglioso film che ha vinto l’Oscar, dove ammette i crimini di guerra e dice che tre milioni e mezzo di persone sono morte in una guerra che non puoi difendere. In realtà, il numero è molto più vicino a sei milioni o cinque milioni, forse da qualche parte lassù, ma più alto.
Ma che abbiamo negato il nazionalismo dei vietnamiti, e quando McNamara è andato ad Hanoi, i vietnamiti gli hanno detto, non sapevi che siamo nazionalisti? Che abbiamo combattuto per mille anni con i cinesi e tutti gli altri? Perché ci hai messo in questo? Hai negato i nostri sentimenti nazionali e ciò che Ho Chi Minh rappresentava.
E sai, ricordo di essere stato a Mosca a coprire, davvero, Gorbaciov per il LA Times; Io ero una delle persone che c’era laggiù. Ho anche dato alcuni documenti lì. E a quel tempo Gorbaciov, a molte persone con cui ho parlato, sembrava che fosse ingenuo riguardo alla volontà degli Stati Uniti di accettare una Russia indipendente. E Gorbaciov in realtà è diventato… ora, Reagan per un momento ha guardato Gorbaciov negli occhi e ha detto che possiamo fare affari, allo stesso modo, immagino, George W. Bush ha guardato Putin negli occhi. Ma questi falchi fuori dalla sala riunioni e tutto è sceso su di lui. E Gorbaciov divenne molto impopolare, molto impopolare.
E quindi c’è una sorta di presupposto, non-sai, personalmente non mi piace il nazionalismo e penso che sia una sorta di grande malizia e malvagità nel mondo. Tuttavia, non puoi affrontare il mondo se non capisci il nazionalismo. Quando Nixon è andato in Cina, ha effettivamente ammesso che Mao era un rappresentante del nazionalismo cinese e doveva essere ascoltato. La stessa cosa era vera nel controllo degli armamenti con la Russia. Ciò è perso ora e l’idea che potrebbero esserci aspirazioni e preoccupazioni russe è stata messa da parte.
L’ironia è che gli Stati Uniti ora sono: non so se sei d’accordo con questo, ma sarebbe una buona cosa da considerare per concludere questo. Gli Stati Uniti hanno realizzato qualcosa che l’ideologia comunista non è stata in grado di realizzare. Perché i comunisti cinesi ei comunisti russi erano in guerra anche prima che la rivoluzione comunista cinese avesse successo. Si definivano seguaci del leninismo marxista, ma in realtà la disputa sino-sovietica potrebbe essere fatta risalire addirittura agli anni ’20, e certamente riconoscono quando Mao andò a Mosca, e si riflette nelle memorie di Krusciov.
E così la disputa sino-sovietica divenne questa grande forza, questa opposizione, nonostante il leninismo marxista. Ora, hai ancora la Cina comunista che si unisce alla Russia anticomunista Putin, perché? A causa di una paura comune di un’egemonia statunitense. Non è davvero la grande storia qui che viene ignorata?
MB: Sì, Robert, hai assolutamente ragione in tutto quello che dici. Naturalmente il sistema mondiale viene trasformato dalla formazione di questo blocco sino-russo, che sta incorporando sempre più altri paesi. Sai, l’Iran ne fa già parte. E sai, noteremo che ci sono solo due paesi al di fuori del mondo occidentale – di cui parlo politicamente e socialmente, non geograficamente – che hanno sostenuto le sanzioni: Corea del Sud e Giappone. Tutta l’Asia, il sud-ovest asiatico, l’Africa e l’America Latina non li osserva, non li ha aderiti. Alcuni stanno esercitando l’autocontrollo e rallentando le consegne di alcune cose, per pura prudenza e paura di ritorsioni americane. Ma non abbiamo ricevuto alcun supporto da loro. Quindi, sì, la grossolana sottovalutazione di questo, Bob.
Ora, in quella che passa per grande strategia tra la comunità della politica estera americana, non solo il popolo Biden, hanno ancora una doppia speranza: la prima, che potrebbero creare un cuneo tra Russia e Cina, un’idea che nutrono solo perché non sanno nulla o hanno dimenticato tutto ciò che avrebbero potuto sapere su ciascuno di quei paesi. O, in secondo luogo, neutralizzare in effetti la Russia con ciò di cui abbiamo parlato: rompere l’economia russa, magari ottenere un cambio di regime, in modo che contribuissero in modo trascurabile, se non del tutto, all’alleanza con i cinesi. E ovviamente abbiamo fallito completamente, perché tutte quelle premesse sbagliate erano sbagliate.
E questa arroganza assolutamente senza precedenti, ovviamente, è tipicamente americana. Voglio dire, dal primo giorno abbiamo sempre avuto la fede di essere nati in una condizione di virtù originaria, e siamo nati con una sorta di missione provvidenziale per condurre il mondo a una condizione migliore e più illuminata. Che fossimo quindi la nazione eccezionale e singolare, e che ci dava la libertà e la libertà di giudicare tutti gli altri. Ora, questo è—e abbiamo fatto molte cose buone in parte a causa di quelle cose [non chiare] dubbie.
Ma ora è diventato così perverso. E come hai detto, incoraggia o giustifica gli Stati Uniti che li mettono a giudicare ciò che è legittimo e ciò che non lo è, quale governo è legittimo e cosa non lo è, quali politiche sono legittime e quali no. Quali interessi nazionali autodefiniti da altri governi possiamo accettare e quali non accetteremo. Naturalmente, questo è assurdo nella sua arroganza; allo stesso tempo sfida anche la logica [non chiara]: Nixon e Kissinger hanno davvero operato e sono stati in grado di mettere da parte o in qualche modo, sai, superare questa fede ideologica, filosofica e autocelebrativa nell’abilità e legittimità uniche americane, basata rigorosamente su motivi pratici.
E attualmente, però, non esercitiamo restrizioni basate né su una certa umiltà politico-ideologica, né su basi di realismo. Ed è per questo che dico che viviamo in un mondo di fantasia, una fantasia che soddisfa chiaramente alcuni bisogni psicologici vitali del paese americano, e specialmente delle sue élite politiche. Perché sono le persone che dovrebbero assumersi la responsabilità di custodia del benessere del Paese e della sua gente, e ciò richiede il mantenimento di una certa prospettiva e distanza su chi siamo, su ciò che possiamo e non possiamo fare, dalla verifica della realtà anche la più elementare e fondamentale delle premesse americane. E ora non facciamo niente di tutto questo.
E in questo senso, credo sia giusto dire che siamo stati traditi dalle nostre élite politiche, e uso quel termine, sai, in modo abbastanza ampio. La suscettibilità alla propaganda, la suscettibilità a consentire alla mentalità popolare di essere impostata nel modo in cui sta andando ora, nel cedere all’impulso isterico, significa che sì, c’è qualcosa di sbagliato nella società e nella cultura nel suo insieme. Ma anche dirlo spetta ai tuoi leader politici e alle élite proteggerti da ciò, proteggere la popolazione da ciò e proteggersi dal cadere preda di fantasie e irrazionalità simili, e invece vediamo esattamente l’opposto.
RS: Sai, un ultimo punto, e sei stato molto generoso con il tuo tempo. Ciò che viene veramente messo in discussione qui è una nozione di globalizzazione. Di un mondo basato sulla produttività economica, sul commercio, sul vantaggio di una regione o dell’altra per fornire cose diverse. E siamo tornati, non so cosa, al nazionalismo e ai confini prima della prima guerra mondiale e così via.
E ciò che fa veramente paura è il punto che hai fatto sulla Cina. Dopotutto, ironia della sorte, la Cina è stata additata come questa grande minaccia militare rivoluzionaria; lo sarebbero stati, il comunista era intrinsecamente espansionista, il modello sovietico aveva in qualche modo alzato le vele o era stato intimidito, ma i cinesi erano davvero radicali. Poi, in qualche modo, è stata fatta la pace con la Cina; si sono rivelati dei capitalisti migliori, ci hanno portato attraverso tutta questa pandemia; e poi perché sono una minaccia economica, e possono produrre cose e così via, ora sono il vero bersaglio, credo, delle persone che chiamavamo neoconservatori. Perché se ne parlavano quando erano repubblicani, prima che tornassero ad essere l’establishment democratico. La Cina era davvero il nemico.
E l’ironia qui è che la Cina, l’espansione cinese, non è più necessaria se hanno effettivamente un’alleanza e sono costretti a schemi commerciali con questo enorme settore immobiliare chiamato Russia che rimane, con tutta la sua sottopopolazione, risorse incredibili, non solo petrolio , che ovviamente manca alla Cina. Devi davvero chiederti se non stiamo parlando di un’America come una Roma in decadenza, di un’idea che in qualche modo puoi controllare tutto a tuo vantaggio e renderlo appetibile al mondo, e reggerà.
Perché questo è davvero ciò di cui stiamo parlando qui, è un’idea di equiparare l’egemonia degli Stati Uniti con l’illuminazione, la civiltà, la democrazia, la libertà e chiunque altro la sfidi – cosa che chiaramente la Cina sta facendo, e la Russia, certamente – che diventa il nemico di civiltà. Questo è il messaggio spaventoso qui. È una specie di impero romano impazzito.
MB: Hai perfettamente ragione, Robert. Ed è la Cina che guardiamo alle nostre spalle. E voglio dire, potresti discutere sotto diversi aspetti: se guardi alla storia cinese, non sono mai stati terribilmente interessati a conquistare altre società, né a governare popoli alieni. La loro espansione, tale che fosse, era a ovest ea nord, ed era un’estensione delle loro guerre millenarie con le tribù predoni dell’Asia centrale e che affrontavano quella costante minaccia. E sai, quei barbari dell’Asia centrale sono riusciti quattro volte a sfondare e a conferire loro un’autorità centrale in Asia.
Quindi non sono mai stati nel business della conquista. Due, sì, quindi è abbastanza facile e conveniente confondere le crescenti capacità militari della Cina con la sua abilità economica e il fatto che il suo intero sistema, sotto ogni aspetto, come lo si voglia chiamare – capitalismo di stato, sovrapposizione ideologica, qualunque cosa – e qualunque cosa si riveli, per cristallizzarsi, sarà diverso da quello che abbiamo visto prima. E questo è molto minaccioso. Perché mette in discussione la nostra autodefinizione come in effetti il naturale punto culminante del progresso e dello sviluppo umano. E all’improvviso non lo siamo; e in secondo luogo, il ragazzo che ha intrapreso un’altra strada potrebbe benissimo essere in grado di sfidare il nostro dominio politicamente, in termini di filosofia sociale, economicamente e, secondariamente, militarmente.
E semplicemente c’è – sai, non censureremo – semplicemente non c’è posto nella concezione americana di ciò che è reale e naturale per gli Stati Uniti che non sono il numero uno. E penso che questo sia in definitiva ciò che guida questa ansia e paranoia sulla Cina, ed è per questo che non abbiamo preso seriamente in considerazione l’alternativa. Cioè, sviluppi un dialogo con i cinesi che durerà anni, che sarà continuo, in cui cerchi di elaborare i termini di una relazione, su un mondo che sarà diverso da quello in cui ci troviamo ora, ma soddisferà sicuramente i nostri interessi e le nostre preoccupazioni di base così come quelli della Cina. Concordare le regole della strada, ritagliarsi anche aree di convergenza. Sai, un dialogo di civiltà.
Questo è il genere di cose che Chas Freeman, uno dei più illustri diplomatici, interpretò da giovane Nixon quando andò a Pechino. E scrive e dice questo da quando è andato in pensione 10, 12 anni fa, e l’uomo è ostracizzato, evitato, non è invitato quasi da nessuna parte, nessuno gli chiede di scrivere un editoriale. Per quanto riguarda il New York Times, il Washington Post ei media mainstream, lui non esiste.
RS: A chi ti riferisci?
MB: Charles Freeman. E scrive ancora, e incredibilmente intelligente, acuto, sofisticato, voglio dire, di ordini di grandezza superiori ai tipi di pagliacci che stanno facendo la nostra politica cinese oggi. E di recente ha pubblicato un lungo saggio mozzafiato sulla natura e il carattere della diplomazia. Quindi è il tipo di persona che potrebbe, sai, essere coinvolta e aiutare a plasmare il tipo di dialogo di cui sto parlando. Ma queste persone sembrano non esistere. Quelli che hanno un potenziale del genere sono emarginati, giusto.
E invece abbiamo preso questo tipo di percorso semplicistico per dire che l’altro ragazzo è il nemico, è il cattivo, e lo affronteremo su tutta la linea. E penso che questo porterà, prima o poi, al confronto e alla crisi, probabilmente su Taiwan, che sarà l’equivalente della crisi dei missili cubani, e spero che sopravviviamo, perché perderemo un convenzionale guerra se scegliamo di difendere Taiwan. E tutti quelli che conoscono la Cina dicono che la leadership cinese sta osservando da vicino l’affare ucraino e pensando a se stessi, ah, forse la Russia ci ha dato un’idea di quale potrebbe essere la dinamica se andiamo avanti e invadiamo Taiwan.
RS: Sì. Bene, questa è ovviamente anche la posizione dei falchi: mostriamo loro che non possono, e lasciamoci coinvolgere da quello. Ma a parte questo, concluderemo questo. Voglio dire che è la tua voce, chiaramente chiunque la ascolti, spero che continui a bloggare e torni nella mischia, perché la tua voce è necessaria. Voglio ringraziare il professor Michael Brenner per averlo fatto. Voglio ringraziare Christopher Ho di KCRW e il resto dello staff per aver pubblicato questi podcast. Joshua Scheer, il nostro produttore esecutivo. Natasha Hakimi Zapata, che fa le presentazioni e la panoramica. Lucy Berbeo, che fa la trascrizione. E voglio ringraziare la Fondazione JKW e TM Scruggs, separatamente, per averci dato un supporto finanziario per poter continuare questo lavoro. Ci vediamo la prossima settimana con un’altra edizione di Scheer Intelligence.
Il testo offre una buona analisi dei meccanismi di condizionamento del sistema informativo e dell’esercizio democratico. Quanto alla soluzione offerta, pare opportuno porre alcune domande:
è così dirimente il rapporto tra libera circolazione dei capitali ed esercizio della libera informazione?
lo è altrettanto il livello di concentrazione dei capitali?
la stessa concentrazione di capitali non è comunque necessaria a garantire dimensione delle imprese, sviluppo tecnologico ed altri aspetti fondamentali della formazione sociale?
non si rischia di identificare troppo e ridurre l’esercizio del potere con il solo potere economico?
non si rischia di fossilizzarsi su una visione irenica del bene comune e del concetto di democrazia, rischiando per altro di associarla, secondo la teoria classica, all’esistenza di piccoli produttori?
Ritengo quesiti utili a favorire il dibattito.
Buona lettura, Giuseppe Germinario
Il paradosso della democrazia. Troppa democrazia ci rende schiavi? di Davide Gionco
02.05.2022
Il paradosso della tolleranza di Popper Il filosofo Karl Popper (1902-1994) propose nel 1945 all’attenzione dei suoi lettori (libro “La società aperta e i suoi nemici“) il paradosso della tolleranza. Secondo Popper una società tollerante, che accetta la diversità e la libertà di opinione, non può essere eccessivamente tollerante verso le opinioni che propongono di non accettare la libertà di opinione.
Cita il caso di Hitler, che non sarebbe salito al potere, mettendo a tacere ogni opposizione, se gli fosse stato impedito di esprimere pubblicamente ai tedeschi la sua dottrina politica antidemocratica e totalitaria, in nome del diritto democratico della libertà di opinione.
Conosciamo tutti la famosa affermazione attribuita a Voltaire “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo“, frase che in realtà fu scritta da Evelyn Beatrice Hall, per illustrare il pensiero di Voltaire.
Il paradosso posto da Popper si pone effettivamente come l’unica eccezione ammessa al principio fondamentale della libertà di parola, in quanto qualsiasi opinione “sbagliata” potrà sempre essere corretta quando i fatti lo dimostrino, esistendo la libertà di esprimere opinioni critiche per rendersene conto e di esprimere opinioni alternative per cambiare le decisioni. Se, invece, viene data attuazione all’opinione che prevede l’intolleranza verso opinioni dissenzienti, si perderà la possibilità di ascoltare giudizi critici e opinioni alternative, in quanto i detentori dell’unico punto di vista autorizzato sentiranno il diritto-dovere di mettere a tacere qualsiasi opinione che prospetti critiche e cambiamenti.
Questo è quanto sosteneva argutamente Karl Popper, ma a mio avviso oggi ci ritroviamo di fronte ad un altro paradosso, per il quale un eccesso di democrazia in molti casi ci porta ad altre forme di condizionamento dell’opinione pubblica, che limitano il pensiero critico e l’espressione di opinioni alternative.
Le democrazie occidentali e la “censura statistica” Quando dei poteri forti intendono imporre il loro punto di vista in paesi in cui vige formalmente una democrazia, non hanno bisogno di esercitare una censura ferrea come avviene nei paesi in cui vige la dittatura. Nei paesi democratici l’obiettivo viene raggiunto attuando una forma mascherata di censura, che potremmo definire “censura statistica”.
Il metodo consiste nel condizionare i mezzi di informazione, fornendo una narrativa alterata della realtà dei fatti, affinché la maggior parte dei cittadini non abbia gli strumenti sufficienti ad esprimere un giudizio critico e fondato sui fatti reali in merito alle decisioni del potere politico.
Nel contempo le opinioni critiche vengono rese difficilmente accessibili o presentate come poco credibili.
Questo metodo prevede anche, naturalmente, una parallela azione di condizionamento del potere politico, fatta con i metodi “tradizionali” della corruzione o dell’infiltrazione delle istituzioni con uomini o donne fedeli al potere forte.
Se avvenisse una censura assoluta, come avviene nelle normali dittature, a tutti risulterebbe evidente che ci si trova in una dittatura. Se invece si concede formalmente il diritto di parola a chi ha opinioni diverse, si presenta l’immagine di una apparente democrazia, per cui nei cittadini non suona il campanello d’allarme dell’arrivo della dittatura.
Il meccanismo di “censura statistica” si basa sul fatto che, per garantire il controllo del potere politico, è sufficiente che non si arrivi ad avere una maggioranza di cittadini in grado di votare per un effettivo cambio del potere politico, cosa che dovrebbe normalmente avvenire se i cittadini fossero informati correttamente sulle decisioni prese negli interessi dei poteri forti e ai danni del popolo.
Quindi per loro non è un problema se il 10%, il 20% o addirittura il 30% di cittadini si rende conto che chi governa sta compiendo scelte profondamente sbagliate. L’importante è che non se ne renda conto la maggioranza assoluta dei cittadini che vanno a votare.
Il polso della situazione viene continuamente monitorato tramite sondaggi sull’andamento dell’opinione pubblica, in modo che chi decide quale tipo di informazione deve essere data aggiusta il tiro, se il caso suggerendo al potere politico di non esagerare con le scelte che si presentano impopolari, se la narrativa dei mezzi di informazione non è stata in grado di renderli sufficientemente accettabili.
In questo senso possiamo parlare di “censura statistica”, definendola come un insieme di azioni di condizionamento dei mezzi di informazione finalizzate a garantire il mantenimento di un consenso maggioritario intorno alle decisioni politiche imposte dai poteri forti.
La finta opposizione politica La prima azione da compiere è la creazione ed il mantenimento di una finta opposizione politica.
Si deve dare l’impressione dell’esistenza di un’alternativa politica, come si addice formalmente ad ogni democrazia. Per questo si creano molti spazi informativi in cui ci sono dei personaggi politici che giocano il ruolo della maggioranza e dell’opposizione, dicendosene di tutti i colori, mostrando di avere una visione politica apparentemente opposta.
Ma questo avviene solo su questioni marginali.
Ad esempio si lanciano infiniti dibattiti sulle questioni dei diritti civili, mentre sulla questioni economiche importanti, come quelle che ad esempio riguardano la lotta alla povertà o i fallimenti delle nostre piccole e medie imprese, non esistono sostanziali differenze. Su questi argomenti gli schieramenti opposti sono normalmente accumunati, a seconda dei casi, dall’accettazione rassegnata di conseguenze inevitabili o dal silenzio sulla questione, perché non hanno nulla da dire.
Eventuali forze politiche realmente alternative, che contestato il potere politico esistente, difficilmente trovano spazio sui mezzi di informazione principali. O, se lo trovano, vengono relegati a spazi “di serie B”, in modo che la maggior parte della popolazione non sia informata delle loro opinioni.
Una volta creata la figura della finta opposizione, non resta che influenzare la narrativa di lettura dei fatti politici per impedire che la maggioranza della popolazione contesti la credibilità delle principali forza politiche presenti sui mass media.
Le questioni devono essere presentate come non dipendenti dal potere politico o come ineluttabili. Come diceva Margareth Thatcher “There is no alternative“.
Ad esempio: aumenta la povertà, ma dipende dalla globalizzazione, non ci possiamo fare niente.
In alternativa si racconta che la soluzione si avrà votando la finta opposizione. Ad esempio: per diminuire le tasse, votiamo a destra. Oppure: per tutelare i diritti dei lavoratori dipendenti, votiamo a sinistra. Quando questo avviene, ovviamente, non cambia nulla.
La narrativa della censura statistica non permette di uscire da questi schematismi semplificati e che, in realtà, servono solo a mascherare l’assenza di una reale democrazia.
I finanziamenti dell’informazione Per condizionare la narrativa dei mezzi di informazione esistono principalmente 3 meccanismi dei quali si servono i poteri forti, certamente anche nazionali, ma oggi soprattutto operanti a livello internazionale.
Se il potere politico è già stato acquisito, tale potere può stabilire l’erogazione di finanziamenti ai mezzi di informazione, anche molto cospicui, in cambio del loro allineamento alla linea politica richiesta. Se dai un certo tipo di informazione sei finanziato, se non lo fai resti senza finanziamenti.
A quel punto, prima di tutto per garantire la redditività dell’azienda e per i suoi dirigenti, gli editori, pubblici o privati che siano, troveranno il modo di motivare i giornalisti a conformarsi a quanto richiesto.
La grande disponibilità di finanziamenti consentirà a questi mezzi di informazione di disporre, a pagamento, della presenza di personaggi famosi (attori, calciatori, artisti, ecc.) e di disporre delle competenze dei migliori professionisti per realizzare dei contenuti che attirino il grande pubblico, al quale verrà poi rifilata la narrativa decisa dal potere politico.
Restano pertanto privi di finanziamenti i mezzi di informazione che, pur svolgendo un servizio pubblico, non si vogliono allineare al pensiero “governativo”. Pochi finanziamenti significa informare poche persone, il che significa evitare che la maggioranza della popèolazione rischi di cambiare opinione.
Un modo tutto sommato molto simile al precedente è il finanziamento dei mezzi di informazione tramite la raccolta pubblicitaria. Gran parte degli inserzionisti pubblicitari dei principali mass media sono tutti o grandi aziende nazionali o delle multinazionali, i cui dirigenti sono espressione o sono in strette relazioni con i poteri forti che hanno interesse a manipolare i mezzi di informazione per perseguire i propri interessi economici.
Chiunque voglia fare informazione ad un certo livello avrà bisogno dei finanziamenti degli inserzionisti e dovrà, quindi, adeguarsi alla linea informativa da loro richiesta. Pena il taglio delle inserzioni pubblicitarie ed il fallimento dell’editore.
Chi non si adegua perde i grandi finanziamenti e può al massimo accontentarsi della piccola pubblicità di imprese locali. Ancora una volta, pochi finanziamenti significa raggiungere poco pubblico ed essere irrilevanti per la censura statistica.
Vi è infine un terzo modo attraverso il quale i poteri forti riescono a manipolare i mezzi di informazione, persino nei casi in cui i finanziamenti pubblici siano distribuiti correttamente e in cui non sia necessario finanziare l’informazione con le inserzioni pubblicitarie.
Tale modo, ovviamente, può convivere anche con i due sopra descritti.
Si tratta della corruzione mirata dei giornalisti e degli “opinion makers“, i quali vengono pagati per sostenere la narrativa desiderata da chi detiene il potere.
Chi sono gli “opinion makers“? Sono coloro che, in televisione, in radio, sui giornali e su internet si presentano con un’autorevolezza sufficiente ad essere creduti per quello che dicono, influenzando l’opinione dei cittadini.
Possono essere giornalisti, dei tecnici (economisti, medici, ecc.), dei personaggi dello sport o dello spettacolo. L’importante è che si sappiano presentare in modo credibile agli occhi della maggioranza dei cittadini, per condizionarli.
Senza voler accusare specificamente nessuno degli opinion makers attualmente operanti in Italia, possiamo citare il famoso caso tedesco di Udo Ulfkotte, famosissimo giornalista che faceva opinione sulle principali televisioni in Germania, autore di libri di gran successo.
Poco prima di morire nel 2017, per cause mai ben chiarite, Udo Ulfkotte rivelò: «Faccio il giornalista da 25 anni e sono stato educato a mentire, a tradire e a non rivelare la verità al pubblico…»
«con lo scopo di «portare ad una guerra contro la Russia, di manipolare l’opinione pubblica ed è quello che hanno fatto e fanno tuttora anche i miei colleghi, non solo in Germania, ma praticamente in tutta Europa».
Nel famoso “Piano di rinascita democratica” della Loggia massonica P2, ritrovato nella valigia della figlia di Licio Gelli, prevedeva al punto 1b): «Nei confronti della stampa (o, meglio, dei giornalisti) l’impiego degli strumenti finanziari non può, in questa fase, essere previsto nominatim. Occorrerà redigere un elenco di almeno 2 o 3 elementi, per ciascun quotidiano o periodico in modo tale che nessuno sappia dell’altro. L’azione dovrà essere condotta a macchia d’olio, o, meglio, a catena, da non più di 3 o 4 elementi che conoscono l’ambiente.. »
Ritornando un po’ più indietro, è solo il caso di ricordare come un tal giovane giornalista chiamato Benito Mussolini, che nel 1914 era direttore dell’Avanti! (quotidiano socialista, partito che era contro l’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra), ricevette cospicui finanziamenti dai servizi segreti francesi ed inglesi per caldeggiare l’ingresso in guerra dell’Italia. Abbastanza soldi per fondare dal nulla il nuovo giornale Popolo d’Italia, attraverso il quale fu perseguito l’obiettivo richiesto dai poteri forti del caso, quello di trascinare l’Italia in guerra, con un certo consenso popolare e parlamentare.
E’ solo il caso di ricordare che questa intromissione costò al nostro paese il prezzo di 1’240’000 morti-
Il metodo della preponderanza Nei casi sopra citati non si è mai avuta la censura totale tipica delle dittatura, ma è stato adottato il metodo della preponderanza, che ha consentito ad un certo tipo di narrativa, quella conferma ai voleri dei poteri forti, di prevalere su visioni alternative e persino sulla narrazione oggettiva dei fatti, in modo da condizionare l’opinione della maggioranza statistica della popolazione.
La preponderanza consente di far prevalere una narrativa sulle altre non in virtù della sua fondatezza, ma in funzione di altri criteri artificiali.
Il primo meccanismo è quello della “quantità” o della “frequenza“. Se una certa narrativa dei fatti viene presentata nel 90% del tempo, attribuendo alle visioni alternative solo il 10% del tempo, il risultato sarà l’adesione di almeno il 60-70% della popolazione alla prima versione, nonostante la maggiore credibilità dell’opinione alternativa.
Una variante di questo criterio è dedicare gli spazi informativi con molto pubblico (ad esempio in prima serata) alla narrazione che deve prevalere, relegando alle ore con poco pubblico le narrazioni alternative. Stesso tempo messo a disposizione (l’apparenza democratica è salvata), ma numero di destinatari molto diverso.
Il secondo meccanismo è presentare insieme in un confronto le diverse narrative, ad esempio nei talk show, ma creando delle situazioni nelle quali la narrazione dei poteri forti ha il sostegno di 4-5 persone presentate come autorevoli, contro una sola che la pensa diversamente. Il messaggio di fondo che passerà è che l’opinione della sola persone è minoritaria, per cui la maggioranza dei cittadini dovrà ritenere ragionevole schierarsi con la maggioranza degli opinionisti rappresentata in quel talk show.
Il terzo meccanismo è quello di presentare come iperqualificati gli opinionisti favorevoli alla narrativa da imporre, presentando nel contempo persone oggettivamente poco qualificate e non credibili a sostegno della visione alternativa.
Democrazia o dittatura? In tutti questi casi non si può tecnicamente parlare di censura, come ai tempi del fascismo, per cui nessuno potrà contestare a quegli editori e a quei giornalisti di operare al di fuori della democrazia.
Se vogliamo, dal punto di vista formale non vi è alcuna violazione dell’art. 21 della Costituzione, che cita “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure…“
Nello stesso tempo non possiamo dire di trovarci in una democrazia compiuta, perché al di là dell’apparente assenza di censure, il sistema di informazione è chiaramente pilotato artificialmente non per informare il popolo (demos), affinché possa conoscere la realtà e prendere adeguate decisioni di auto-governo (demo-crazia), ma per nascondere al popolo la realtà, affinché non possa prendere a ragion veduta le necessarie decisioni di auto-governo. Tali decisioni, come è ovvio, vengono invece prese da coloro che hanno investito sulle azioni di controllo dei mezzi di informazione, per trarne certamente un maggior profitto. A spese del popolo inconsapevole, naturalmente.
La situazione paradossale è che le democrazie sembrano essere indifese nei confronti di questi meccanismi di condizionamento dell’opinione pubblica.
Viceversa nei sistemi a governo autoritario l’esistenza di controllo politico sui mezzi di informazione riesce generalmente ad impedire che altri poteri forti esercitino la loro influenza nei mezzi di informazione.
Chi legge penserà: cosa ci abbiamo guadagnato? In un caso l’informazione viene condizionata dai poteri forti esterni, mentre nell’altro caso dal potere dittatoriale. Dovendo scegliere, ci teniamo la democrazia ad informazione limitata, che ci evita almeno di subire i soprusi e le violenze tipici di una dittatura.
Ovviamente si tratterebbe della scelta giusta, se ci trovassimo di fronte ad una dittatura feroce e che impoverisce economicamente il paese. Pensiamo, ad esempio, alle classiche dittature africane, in cui il dittatore arricchisce se stesso e la propria famiglia, lasciando che i poteri forti esterni facciano man bassa delle ricchezze del paese.
Ma se la scelta fosse fra un regime democratico-autoritario, ma non eccessivamente violento e che tutela gli interessi economici del paese (come poteva essere quello di Gheddafi in Libia) ed una democrazia debole (ad esempio molti stati dell’America centrale), in cui le decisioni politiche ed i mezzi di informazione sono asserviti gli interessi di poteri forti esterni?
In questo caso quale sarebbe la scelta migliore?
La vera domanda da porci è: come possiamo difendere i mezzi di informazione delle democrazie dai condizionamenti dei poteri forti?
La questione chiave: l’eccessiva liberalizzazione dei capitali Alla base dei meccanismi di condizionamento, siano essi volti al condizionamento dei decisori (i politici), o volti all’attuazione dei metodi della censura statistica per condizionare l’opinione pubblica, sta sempre la disponibilità di grandi capitali, che i poteri forti possono investire per poi trarne un maggior profitto.
Se gli investimenti economici vanno ad influenzare le decisioni politiche di interesse nazionale e se vanno ad alterare la narrazione dei mezzi di informazione, per impedire al popolo di esercitare il proprio diritto democratico di giudizio dei governanti, le democrazie vengono svuotate nel loro fondamento.
Per questa ragione sarebbe molto opportuno evitare che si verifichino eccessive concentrazioni di ricchezza nelle mani di pochi, non perché si debba necessariamente perseguire l’uguaglianza sociale per odio contro i ricchi, ma perché certi tipi di corruzione “su scala nazionale” sono possibili solo a chi disponga di grandi capitali da investire in tal senso.
Quindi il modo migliore per evitare che la narrativa dei mezzi di informazione sia subordinata ad interessi economici è prima di tutto necessario evitare che vi sia una concentrazione di ricchezza economica tale da essere in grado di incidere pesantemente sui bilanci della maggior parte dei mezzi di informazione o da essere in grado di corrompere decine e decine di giornalisti o i governanti e i funzionari di un paese.
Per evitare questi rischi, a livello nazionale potrebbe essere sufficiente contrastare fiscalmente l’eccessivo accumulo di ricchezza da parte di persone o di società. Nulla a che vedere con la classica “patrimoniale” che colpisce le prime e le seconde case. Il problema non è se una persona guadagna 200 mila euro l’anno o ha 2 o 3 ville al mare o se un imprenditore possiede stabilimenti industriali per 10 milioni di euro per potere produrre. Il problema è che dobbiamo evitare di avere soggetti, come ad esempio intendeva fare la loggia massonica P2, in grado di condizionare i mezzi di informazione grazie alle ingenti disponibilità di capitali.
Per quanto riguarda il rischio, forse ancora più grave, di condizionamenti provenienti da poteri forti che operano a livello internazionale, l’unico modo per limitarli è porre dei ferrei controlli ai flussi di capitali provenienti dall’estero.
Stando agli attuali trattati dell’Unione Europea e di adesione al WTO (l’organizzazione del libero commercio mondiale), la libera circolazione dei capitali è uno dei requisiti fondamentali che si richiedono ad uno stato democratico. Se uno stato non liberalizza la circolazione dei capitali, non è considerato democratico dalla comunità internazionale degli stati democratici.
In realtà è proprio questo “eccesso di democrazia” nel campo finanziario a rendere le democrazie indifese di fronte ai condizionamenti dei poteri forti sui mezzi di informazione. Se vogliamo davvero avere una democrazia effettiva, in cui il popolo è correttamente informato per giudicare le decisioni che vengono prese dal potere politico, dobbiamo avere il coraggio di sottrarci ai vincoli dei trattati internazionali che ci impediscono di controllare e limitare i flussi di capitali dall’estero.
Dopo di che dobbiamo avere il coraggio di introdurre una forte tassazione che impedisca gli eccessivi accumuli di ricchezza in Italia, per evitare che rappresentino un rischio per la nostra democrazia.
Per difendere ulteriormente la libertà di informazione è anche necessario non considerare le imprese che operano nel settore dell’informazione come delle normali imprese. E’ fondamentale garantire, con specifiche leggi anti-trust, che si realizzino delle concentrazioni di proprietà nel settore, sia in campo editoriale, sia in campo della raccolta pubblicitaria.
Una volta fatto questo, potremo anche studiare degli organismi di garanzia del pluralismo dell’informazione, i quali potranno funzionare solo se cesseranno le pressioni di ordine economico sui mezzi di informazione.
In realtà non è la troppa democrazia a fare male alla libertà d’informazione, ma è l’attuazione di un modello di democrazia sbagliato, che antepone gli interessi economici (la circolazione di capitali) alla salvaguardia della democrazia stessa.