Dal dilemma strategico al disastro strategico (I^ parte), di Gordon Hahn _ Traduzione a cura di Giuseppe Angiuli

Dal dilemma strategico al disastro strategico (I^ parte)

 di Gordon Hahn

 

(https://gordonhahn.com/2023/09/12/from-strategic-dilemma-to-strategic-disaster-part-1/

Traduzione a cura di Giuseppe Angiuli)

Introduzione.

 

I funzionari e gli analisti occidentali sono soliti osservare che “la guerra di Putin contro l’Ucraina” avrebbe danneggiato, piuttosto che rafforzato, la posizione strategica della Russia. Anziché neutralizzare la minaccia della NATO, l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin l’avrebbe aumentata, questo il senso del loro ragionamento analitico.

Mettendo da parte l’ovvia contraddizione con la posizione della maggior parte di questi osservatori, secondo cui né la NATO né la sua espansione rappresenterebbero una minaccia per la sicurezza della Russia, è necessario però guardare al rovescio della medaglia di tale ragionamento.

La sicurezza dell’Occidente, dei Paesi NATO, la stessa sicurezza nazionale americana sono state rafforzate dall’espansione della NATO, dal rifiuto di negoziare con Mosca una nuova architettura per la sicurezza del continente europeo nonché dalla guerra ucraina NATO-Russia e dalla sua escalation in corso?

Il fatto è che la relazione russo-occidentale in quanto dilemma di sicurezza è ora virtualmente un gioco a somma zero; quando un attore intraprende delle misure per garantire la propria sicurezza nei confronti di un altro attore, quest’ultimo solitamente risponde con delle misure che finiscono per risultare altrettanto deleterie per il primo attore quanto quelle di quest’ultimo lo sono state per la sua controparte.

Questa situazione si protrae ormai da decenni, a partire dal primo ciclo di espansione della NATO dopo la Guerra Fredda, sebbene la Russia sia stata inizialmente lenta nel rispondere a questa sfida, a causa della sua momentanea debolezza.

 

Nell’episodio più recente di questo dilemma di sicurezza reciproca – la guerra ucraina tra NATO e Russia – anche la posizione di sicurezza dell’Occidente si è indebolita, dato il rafforzamento delle forze armate russe attraverso l’aumento dei suoi numeri, delle sue risorse messe a bilancio, oltre che per l’esperienza acquisita in battaglia e per la generale mobilitazione del complesso militare-industriale russo. Lungi dall’essere “isolata a livello internazionale“, la Russia è stata in grado, insieme alla Cina, di forgiare un nuovo polo di potere nella struttura del sistema delle relazioni internazionali, assestando un colpo forse mortale all’egemonia globale occidentale, in particolare americana. Non è certo che questo rafforzi la sicurezza dell’Occidente e dell’America, soprattutto perché gran parte della formazione di poli alternativi sta assumendo toni sempre più antiamericani rispetto alla creazione di un polo o centro di potere globale alternativo, più o meno neutrale e semplice. Inoltre, il più recente alleato della NATO, membro potenziale e baluardo contro l'”espansionismo russo” – l’Ucraina di Maidan – rischia di essere svuotato quasi del tutto. Diamo uno sguardo al più ampio declino della sicurezza occidentale e poi a quello più locale dell’Ucraina, come prodotto della guerra tra NATO e Russia e dai fattori che l’hanno generata.

La crescente minaccia della NATO.

I funzionari della NATO e della Russia concordano sul fatto che la minaccia della NATO alla Russia è cresciuta. Come ha sottolineato il Ministro della Difesa russo Sergei Shoigu in un’intervista concessa alla testata Kommersant del 10 agosto, l'”Occidente collettivo” ha ora schierato nelle immediate vicinanze della Russia circa 360.000 truppe, 8.000 pezzi di armatura e 650 aerei ed elicotteri. Shoigu ha sottolineato che dal febbraio 2022 l’Ucraina ha ricevuto centinaia di carri armati, più di 4.000 veicoli corazzati da combattimento, più di 1.100 pezzi di artiglieria da campo e decine di sistemi di artiglieria e missili, per un totale di oltre 160 miliardi di dollari di assistenza militare. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ha osservato Shoigu, stanno aumentando il raggio d’azione e la brutalità delle armi che forniscono, come i missili britannici Storm Shadow e le munizioni a grappolo statunitensi. Tutto ciò “crea seri rischi di un’ulteriore escalation del conflitto“, secondo Shoigu.

 

Il ministro della Difesa russo ha inoltre definito “un fattore destabilizzante” l’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO. L’ingresso della Finlandia, ha osservato, raddoppia quasi il confine terrestre della Russia con la NATO. Sul territorio finlandese, ha aggiunto, ci si può aspettare che “vengano dispiegati ulteriori contingenti militari e armi d’attacco della NATO in grado di distruggere oggetti critici importanti in profondità nelle regioni nord-occidentali della Russia“. Ulteriori rischi sono stati posti dalla “militarizzazione della Polonia” e dalla sua trasformazione nel “principale strumento della politica antirussa degli Stati Uniti“, con l’intenzione di Varsavia di creare l’esercito più potente d’Europa (lo stesso status di cui godeva l’Ucraina prima della guerra, si potrebbe aggiungere).

Shoigu ha anche sottolineato l’intenzione della Polonia di fondersi con l’Ucraina e di “occupare in sostanza” l’Ucraina occidentale, un tema sul quale cui ho già scritto molti mesi fa (Yurii Gavrilov, “Zapad vedet protiv Rossii oposredstvannuyu voinu“, Kommersant, 10 agosto 2023, p. 4).

In un articolo contiguo, Vladislav Shurygin ha sostenuto la necessità di una grande offensiva russa per prevenire l’arrivo degli ATACAM statunitensi e di altri Haimar, che consentirebbero di colpire in massa obiettivi sul territorio russo con 30-50 missili entro settembre e 100 entro novembre (Vladislav Shurygin, “Osen’ stanet reshayushchim spetsoperatsii“, Kommersant, 10 agosto 2023, pag. 4). A tutto ciò si possono aggiungere gli F-16 che sono stati promessi all’Ucraina e la notizia che Kiev, con l’aiuto della NATO, ha acquisito 17.000 droni e 10-20.000 operatori di droni da utilizzare nella sua controffensiva, finora fallita (www.ng.ru/armies/2023-08-01/1_8788_kiev.html). La guerra con i droni è un ulteriore fattore destabilizzante – come lo è l’impiego di massa di qualsiasi nuova tecnologia militare, soprattutto in tempo di guerra – che approfondisce il dilemma della sicurezza per entrambe le parti.

Ciò a cui Shoigu non ha fatto cenno è che la NATO è diventata un attore partecipante a tutti gli effetti alla guerra, fornendo a Kiev addestramento militare, supporto di intelligence, anche per colpire armi e uomini russi, oltre che consulenza e pianificazione tattica e strategica.

La Russia ha risposto e risponderà a questo intensificarsi della minaccia mentre si mobilita per portare a compimento l’esigenza di vittoria nella guerra ucraina tra NATO e Russia, e questo non potrà che portare a un deterioramento della posizione di sicurezza dell’Occidente.

Il declino della sicurezza occidentale a partire da febbraio 2022.

In termini più generali, la forza militare russa è stata quintuplicata: da 200.000 forze armate regolari prima della guerra a circa 1,2 milioni di oggi. Questo dato non include elementi come RosGvardia, Wagner, Ceceni, Ossetiani e altre forze militari irregolari organizzate dallo Stato. Con il quasi raddoppio del confine russo-NATO vista l’adesione di Helsinki alla NATO e l’imminente adesione della Svezia al blocco militare occidentale, è probabile un’ulteriore mobilitazione che potrebbe portare la forza militare russa a oltre 1,5 milioni di effettivi, se non a 2 milioni, con decine di migliaia di truppe da collocarsi al confine con la Finlandia e il potenziamento delle forze della Flotta navale del Mar Baltico.

Questo avviene mentre le forze armate russe stanno acquisendo una preziosa esperienza di combattimento avanzato grazie al sistema integrato di “intelligence, sorveglianza e ricognizione“, mai utilizzato prima. Né gli Stati Uniti né le altre forze della NATO sono in grado di acquisire un’esperienza così vasta come quella oggi in fase di acquisizione da parte della Russia, a causa della mancata adeguatezza e complementarità del personale ucraino rispetto alle potenziali capacità tecnologiche degli armamenti del sistema NATO.

 

Inoltre, la Russia sta aumentando massicciamente le risorse destinate allo sviluppo militare e dell’intelligence. Ad esempio, la Russia ha raddoppiato il suo budget militare per il 2023, portandolo a più di 100 miliardi di dollari – un terzo di tutta la spesa federale (www.reuters.com/world/europe/russia-doubles-2023-defence-spending-plan-war-costs-soar-document-2023-08-04/).

Al contrario, la Russia ha tagliato il suo budget per la difesa nel 2016 (https://www.rbth.com/defence/2016/11/01/russia-slashes-military-spending-as-revenues-shrink_644019#new_tab). Di conseguenza, la ricerca e la produzione nel complesso industriale della difesa si stanno espandendo. Ad esempio, la Lobaev Arms ha raddoppiato la produzione di fucili di precisione nel febbraio 2023 e da aprile l’ha raddoppiata ulteriormente (https://nvo.ng.ru/armament/2023-04-20/10_1233_armament.html).

Il colonnello dell’esercito americano, Darin Gaub, sostiene che gli Stati Uniti adesso avranno bisogno di 10-15 anni per rilanciare la loro produzione complessiva di armi e raggiungere i livelli necessari per eguagliare la produzione russa (https://vz.ru/news/2023/7/11/1220632.html?utm_campaign=vz&utm_medium=referral&utm_source=push). Basta ricordare l’ammissione del Segretario Generale della NATO, alcuni mesi fa, secondo cui i Paesi della NATO non sono in grado di tenere il passo con l’uso ucraino di proiettili d’artiglieria, che è dieci volte inferiore a quello russo. A questo proposito, le stime previsionali più basse per poter raggiungere una certa parità sono di tre anni, quando l’Ucraina potrebbe non avere più un esercito atto ad utilizzare le armi prodotte. Le stime indicano che “se il Pentagono raggiungesse l’obiettivo dichiarato di produrre 90.000 proiettili al mese entro l’anno fiscale 2025, sarebbe comunque solo la metà dell’attuale livello di produzione della Russia. Altri membri della NATO sono messi ancora peggio” (https://nationalinterest.org/feature/time-and-logistics-are-working-against-ukraine-206740).

 

Inoltre, i combattimenti sul campo stanno migliorando le armi russe attraverso la sperimentazione e l’elaborazione degli errori commessi in un contesto di combattimento reale. Ciò determina l’adattamento e l’innovazione nell’uso delle armi esistenti e favorisce lo sviluppo di nuove tecnologie militari, in particolare nell’ambito dei droni, dei sistemi missilistici a lancio multiplo, dei mortai con mirini intelligenti, dei kalashnikov aggiornati, dell’artiglieria guidata e a lungo raggio nonchè dei nuovi impieghi dei carri armati T-90M Proryv, dei sistemi missilistici tattici-operativi Iskander, di vari sistemi missilistici a lancio multiplo, degli elicotteri Ka-52 e Mi-28, degli aerei Su-35S e Su-57 e dei nuovi droni Kub e Lancet (https://nvo.ng.ru/armament/2023-04-20/10_1233_armament.html).

 

Più in generale, nel campo della tecnologia militare, dopo il febbraio 2022 è diventato evidente che un’industria russa di chip e semiconduttori avrebbe dovuto essere creata da zero, ponendo fine alla dipendenza dai produttori stranieri. Il governo russo ha cambiato strategia e ha ampliato il sostegno all’industria tagliando le tasse, aumentando i finanziamenti e incrementando i sussidi. Il piano aggiornato mira a reingegnerizzare la tecnologia straniera acquisita sul campo di battaglia, ad avviare la produzione sia in Russia che in Cina e a produrre ogni componente attualmente importato entro il 2024 (www.kommersant.ru/doc/5306920). Una simile sostituzione delle importazioni si sta verificando in tutta l’industria militare e civile russa. Il governo prevede di aumentare il numero dei centri di progettazione russi di oltre il 400%, passando da 70 a 300 entro il 2030, e di spendere 2,7 trilioni di rubli per sviluppare l’industria elettronica (www.kommersant.ru/doc/5355456 e https://warontherocks.com/2022/06/can-russia-rebuild-its-tech-sector-with-chinas-help/).

 

Inoltre, le forze armate russe, migliorate e più potenti rispetto a prima, sono oggi dispiegate in una posizione più avanzata a discapito della sicurezza nazionale dei paesi della NATO. Questo è il risultato in parte della guerra attuale e in parte della risposta alla mobilitazione della NATO e all’incessante espansione della NATO durante la guerra (Finlandia, Svezia e l’intenzione continua di portare l’Ucraina nell’alleanza, come rivelato dalle incessanti dichiarazioni occidentali in tal senso). In termini convenzionali e più ovvi, le forze regolari dispiegate in Ucraina si trovano molto più vicine alla NATO rispetto a quando erano situate entro i confini della Russia prima del 2014. Nell’ottobre 2022, Putin e il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko hanno concordato di formare un gruppo di forze congiunte in risposta alle “provocazioni” della NATO al confine con la Bielorussia, alla formazione da parte dell’Ucraina di unità di sabotaggio composte da fuoriusciti dell’opposizione bielorussa e ai presunti piani ucraini di attacco alla Bielorussia. Rimasto sulla carta fin dai primi anni 2000, il nucleo dell’unità sarà costituito da soldati bielorussi, con truppe russe di rinforzo. Nello stesso mese, 9.000 truppe russe, equipaggiamento e jet da combattimento MIG-31 hanno iniziato a dispiegarsi in Bielorussia il 15 ottobre (https://carnegieendowment.org/politika/88249). Inoltre, circa 20-30.000 truppe russe sono state dispiegate in Bielorussia. Inoltre, circa 10.000 famigerati combattenti della PMC Wagner sono stati trasferiti in Bielorussia dopo la fallita rivolta del loro capo Yevgenii Prigozhin di giugno scorso. In questo modo, è soprattutto la matrice di sicurezza della Polonia, membro NATO antagonista della Russia, ad aver subito il deterioramento più sostanziale.

Anche i membri della NATO Lituania e Lettonia, che hanno confini consistenti con la Bielorussia, si trovano adesso in una posizione molto meno sicura. In termini di potenza aerea, nell’agosto 2022 Mosca ha schierato tre intercettori pesanti MiG-31 nella regione russa di Kaliningrad, un’exclave a ovest della Lituania, nell’ambito di quella che il Ministero della Difesa russo ha definito una parte della “deterrenza strategica aggiuntiva“.

 

Le conquiste territoriali della Russia nell’Ucraina meridionale aprono la possibilità di creare un ponte terrestre verso la regione separatista moldava della Transnistria, popolata da russi, ucraini e la regione della Gagauzia, abitata da un’etnia turca filo-moscovita. Sullo sfondo della guerra e delle opinioni contrastanti al riguardo, crescono le tensioni tra la Transnistria, dominata dai russi, e la regione autonoma Gagauzia, da un lato, e la Moldavia, dall’altro. L’Occidente ha risposto sollecitando Kishinev a rendersi più compatibile con l’UE e la NATO, introducendo programmi per raggiungere tali obiettivi e polarizzando ulteriormente una dinamica politica interna già esplosiva. L’Ucraina ha inoltre esacerbato le tensioni tentando di istituire un blocco contro la Transnistria e compiendo un attacco a un deposito militare dell’esercito russo in Moldavia. Occasionalmente sono state riportate notizie di forze ucraine che si sono accumulate vicino al confine tra Transnistria e Ucraina con l’obiettivo di entrare nella repubblica separatista per impadronirsi dei depositi di armi russe. Inoltre, il movimento per unire la Moldavia alla Romania si è rianimato, aggravando ulteriormente l’angoscia russa e gaguziana.

 

In termini di armamenti nucleari, l’equilibrio e il controllo nucleare generale stanno crollando, il che potrebbe provocare escalation da entrambe le parti. In effetti, l’attuale guerra NATO-Russia in Ucraina è il prodotto non solo dell’espansione della NATO, ma anche dello squilibrio nucleare facilitato dall’espansione di Mosca. Nel 2014, dopo il putsch di Maidan che è la causa principale della guerra ucraina, l’amministrazione Obama ha approvato il dispiegamento, presso Paesi membri della NATO quali Romania e Polonia, di missili anti-balistici statunitensi a raggio intermedio in grado di essere convertiti in armi offensive e di colpire Mosca in 5-7 minuti. I missili di difesa aerea e anti-balistici “Aegis Ashore” possono essere equipaggiati sia con esplosivi convenzionali o nucleari offensivi sia con missili di difesa anti-missile. Così, nel luglio 2020 il comandante del Comando Indo-Pacifico degli Stati Uniti, l’ammiraglio Philip Davidson, ha dichiarato di essere favorevole al finanziamento per la costruzione di un sistema Aegis Ashore a Guam entro il 2026, sia per difendere le strutture militari statunitensi esistenti a Guam, sia per fornire una “capacità di attacco di precisione a lungo raggio nella Prima Catena Insulare controllata dalla Cina” (https://breakingdefense.com/2020/07/indopacom-wants-billions-to-build-as-pentagon-plans-cuts-to-overseas-presence/). Un sito Aegis Ashore è diventato operativo a Deveselu, in Romania, nel 2016, e un sito polacco a Redzikowo lo è stato mesi dopo l’invasione dell’Ucraina nel 2022 (www.mda.mil/system/aegis_bmd.html).

 

Questi dispiegamenti hanno creato una minaccia esistenziale per la sicurezza della Russia sul suo stesso confine e quindi una minaccia non dissimile da quella rappresentata quando gli Stati Uniti piazzarono missili nucleari in Turchia per colpire l’URSS o quando, in risposta, l’URSS piazzò missili nucleari a Cuba. Questa pericolosa dinamica nelle relazioni tra Stati Uniti e Russia e tra NATO e Russia è un’altra causa della guerra attuale. La questione dell’INF e dei missili a corto raggio era un punto chiave (articolo 6) delle proposte di Putin del dicembre 2021 sulle proposte di colloqui per la sicurezza da lui formulate in quella fase (https://mid.ru/ru/foreign_policy/rso/nato/1790818/?lang=en). La configurazione di questa minaccia destabilizzante per Mosca sarebbe stata impossibile senza l’espansione della NATO. La prospettiva di un’espansione della NATO verso l’Ucraina ha aperto la possibilità di un dispiegamento di questi missili in Ucraina, ed è proprio per questo che i russi si sono ripetutamente opposti all’espansione della NATO, soprattutto verso l’Ucraina, nel corso degli anni e hanno proposto una nuova architettura di sicurezza europea alla NATO e a Washington sia nel 2008 che nel dicembre 2021, in un tentativo di diplomazia coercitiva alla vigilia dell’invasione del 24 febbraio 2022. Questa minaccia rimane sullo sfondo dell’attuale guerra, giorni prima della quale il Presidente ucraino Volodomyr Zelenskiy ha minacciato di abrogare l’adesione dell’Ucraina al Memorandum di Budapest, che ha denuclearizzato le forze armate ucraine nel 1994.

 

La guerra minaccia anche di porre fine agli accordi sulla limitazione degli armamenti nucleari strategici tra le due maggiori potenze nucleari del mondo. Il New START scadrà nel febbraio 2026 e non potrà essere prorogato. Nel giugno 2021, Biden e Putin hanno avviato tra i loro due Paesi un “dialogo di stabilità strategica” per gettare le basi di ulteriori colloqui e di un nuovo accordo START (www.whitehouse.gov/briefing-room/statements-releases/2021/06/16/u-s-russia-presidential-joint-statement-on-strategic-stability/). Ma dopo tre incontri, le già citate telefonate Putin-Biden e l’inizio dell’intensificazione delle operazioni belliche in Ucraina, il dialogo si è concluso e il New START ha iniziato la sua marcia verso l’estinzione. Nell’agosto del 2022, la Russia ha rifiutato un’ispezione degli Stati Uniti in una delle sue basi, come previsto dal trattato, e cinque mesi dopo il Dipartimento di Stato americano ha notificato al Congresso di non poter più valutare il comportamento della Russia come conforme ai dettati del trattato (www.state.gov/wp-content/uploads/2023/01/2022-New-START-Implementation-Report.pdf). Un anno dopo l’invasione dell’Ucraina, Mosca ha sospeso la sua partecipazione al New START, dichiarando che non avrebbe più fornito a Washington informazioni sulle sue forze nucleari. Allo stesso tempo, ha annunciato che la Russia avrebbe messo in funzione nuovi sistemi nucleari strategici e accelerato il dispiegamento dei suoi missili nucleari Sarmat, ha lanciato missili ipersonici e nuovi sottomarini nucleari e ha avvertito che potrebbe riprendere i test nucleari (https://news.yahoo.com/hard-times-now-ahead-us-194210721.html?fr=sycsrp_c).

Il Sarmat è un missile di 35 metri con una gittata di 18.000 km e può trasportare almeno 10 veicoli di rientro a bersaglio multiplo, ognuno dei quali ha una testata nucleare e attacca un bersaglio diverso. Può anche trasportare veicoli ipersonici Avangard. La Russia ha inoltre avviato la produzione di massa dei sistemi ipersonici Kinzhal su base aerea e dei missili ipersonici Zircon su base marittima (www.reuters.com/world/europe/putin-russia-pay-increased-attention-boosting-nuclear-forces-2023-02-22/).

 

Prima dell’arrivo a Kaliningrad, i MiG-31 di cui sopra sono stati adattati per il lancio di missili ipersonici Kh-47M2 Kinzhal, un tipo di missili balistici a corto raggio che, secondo quanto riferito, sono stati sviluppati a partire dal 9K720 Iskander, molto utilizzati in Ucraina. Il Kinzhal ha una velocità massima di Mach 10 o 12 – 10 o 12 volte la velocità del suono, può trasportare fino a 500 chilogrammi (1.100 libbre) di carico utile e consegnare testate convenzionali o nucleari. Il MiG-31 può lanciare il Kinzhal da una distanza massima di 2.000 chilometri e, a quanto pare, può anche lanciare piccoli carichi utili nell’orbita terrestre bassa, il che lo rende uno dei pochi jet da combattimento antisatellite esistenti (www.aerotime. aero/articles/31954-russia-deploys-hypersonic-armed-mig-31s-to-kaliningrad#:~:text=Three%20MiG-31%20heavy%20interceptors%2C%20adapted%20for%20carrying%20Kh-47M2,and%20will%20be%20placed%20on%20round-the-clock%20combat%20duty). Nel marzo 2023, la Russia ha annunciato il dispiegamento di armi tattiche a corto raggio in Bielorussia, a luglio il dispiegamento era iniziato e continua a tutt’oggi mentre leggete quest’articolo (www.defensenews.com/news/your-military/2023/08/22/poland-says-russias-moving-tactical-nuclear-weapons-to-belarus/).

 

Ma le tensioni strategiche e le nuove vulnerabilità dell’Occidente sono meglio rappresentate dal fatto che la Russia, la Cina, l’Iran e la Corea del Nord stanno già avviando apertamente una cooperazione militare e si armano a vicenda, per rafforzare le loro capacità individuali e forse collettive di sfidare gli interessi occidentali. L’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai è diventata il nucleo di questa cooperazione tra gli “Stati canaglia“, mentre la guerra in Ucraina e le maldestre provocazioni dell’amministrazione Biden intorno a Taiwan ne hanno favorito lo sviluppo.

 

In termini di equilibrio economico tra le due parti, l’Occidente e la Russia, nonostante le aspettative occidentali di un collasso dell’economia e del sistema finanziario russo, le perdite economiche in Russia sono state limitate e gestibili, mentre le conseguenze delle sanzioni e delle contro-sanzioni russe hanno portato molte economie occidentali verso la recessione. L’Occidente si è dato la zappa sui piedi rifiutando le importazioni di petrolio e gas e distruggendo i gasdotti North Stream, privando le proprie economie di un significativo potenziale di crescita. Le sanzioni occidentali hanno avuto un effetto particolarmente negativo sul commercio degli Stati che dipendono dalla Russia. Così, la Germania, membro della NATO e Paese leader europeo, è caduta in recessione; la Russia no. Ma la situazione economia attuale è solo una parte di una più ampia dinamica commerciale e finanziaria internazionale delineatasi in risposta alla guerra e che non lascia presagire nulla di buono per l’Occidente. Infatti, le ripercussioni globali della guerra stanno riconfigurando il sistema politico, economico e finanziario a livello mondiale.

 

Il riallineamento globale sino-russo.

 

A livello globale, i rapporti di forza si sta modificando e, come ho scritto più volte, non a favore dell’Occidente.

Questo è il risultato dell’espansione della NATO, ma soprattutto della conseguente guerra NATO-Russia in Ucraina, delle relative sanzioni occidentali e delle minacce di sanzioni secondarie, nonché della lunga e sfortunata storia di egemonia e sfruttamento politico, economico e finanziario messo in atto dall’Occidente.

Il risultato più dannoso della guerra ucraina tra NATO e Russia per gli interessi occidentali è la solidificazione della “quasi alleanza” sino-russa e il rafforzamento degli sforzi per costruire un sistema globale alternativo a quello dominato dall’Occidente.

Ciò è stato sottolineato dal viaggio del presidente della RPC Jinping Xi a Mosca in primavera. Alla vigilia del vertice, Putin ha descritto la vicina alleanza o “partnership strategica” in un articolo diffuso su tutti i giornali cinesi. Tra le altre cose, il presidente russo ha osservato che: “Le relazioni Russia-Cina hanno raggiunto il livello più alto della loro storia e stanno acquistando ancora più forza; superano per qualità le alleanze politico-militari dell’epoca della Guerra Fredda” (http://en.kremlin.ru/events/president/transcripts/70743). Il vertice di Mosca ha portato a un’integrazione militare, politica ed economica ancora maggiore tra i due Paesi, ma la conseguenza diplomatica più importante è stato il sostegno di fatto della Cina alla resistenza della Russia all’espansione della NATO in Ucraina, sottolineato dalla condanna di Xi e di altri funzionari cinesi dell’espansione della NATO e della indicazione di tale espansione quale vera causa scatenante della guerra. Inoltre, sono stati firmati tra i due leader decine di documenti su tutte le forme di cooperazione in risposta alle sanzioni occidentali sulla Russia e alla minaccia di sanzioni secondarie su Pechino.

 

In effetti, le sanzioni occidentali hanno spinto il complesso militare-industriale russo a vendere nuove tecnologie all’Esercito Popolare di Liberazione e la fiducia di Mosca nella tecnologia cinese in rapido sviluppo ha accelerato il nascente sviluppo tecnologico congiunto e la realizzazione di comuni progetti con applicazioni militari. Ad esempio, Russia e Cina hanno successivamente avviato un progetto congiunto per la progettazione di una nuova generazione di sottomarini non nucleari, più economici da produrre e con vantaggi in termini di accesso alle acque poco profonde vicino alle coste (https://nvo.ng.ru/armament/2023-04-20/7_1233_submarine.html). Inoltre, la Cina ha inviato uniformi, altre forniture di base e forse munizioni e attrezzature per le comunicazioni. Lo sviluppo tecnologico di droni più avanzati è probabilmente alle porte.

 

La guerra ha anche rinvigorito il progetto sino-russa volto a costruire una comunità globale alternativa finalizzata a contrastare l’egemonia occidentale in tutti gli ambiti. Mentre le sanzioni occidentali hanno avuto un impatto limitato sulla Russia e hanno danneggiato le economie occidentali, la pressione dell’Occidente su altri Stati affinché aderissero al suo regime sanzionatorio ha ulteriormente energizzato la ricerca di un ordine alternativo da parte del Sud del mondo, che ha sposato gli sforzi simultanei di Russia e Cina per costruire una rete di blocchi internazionali anti-occidentali nel campo del commercio, della finanza, dei trasporti e persino semi-militari. In particolare, le due potenze hanno intensificato gli sforzi per costruire strutture globali alternative non occidentali, se non addirittura anti-occidentali, per aggirare il mondo americano. L’espansione dei BRICS e dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), la costruzione della rete cinese di trasporti e infrastrutture “One Belt One Road” (OBOR) e la de-dollarizzazione sono i meccanismi principali per raggiungere questo obiettivo, e tutti hanno subito un’accelerazione dall’inizio della guerra tra NATO e Russia in Ucraina.

 

L’espansione dei BRICS sta diventando l’elemento centrale di questa strategia di rete. Il suo vantaggio è la portata globale, mentre il progetto della nuova Via della Seta è limitato alla Grande Eurasia. Ventitré Paesi hanno espresso il desiderio di aderire ai BRICS e le prime sei richieste di adesione sono già state approvate al vertice di Johannesburg del mese scorso, che ha previsto l’operatività della loro adesione a partire dal 2024: Egitto, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Argentina ed Etiopia.

Inoltre, i BRICS hanno deciso di espandere la loro alternativa alla Banca Mondiale, la BRICS Bank (finanziatrice di 33 miliardi di dollari per 96 progetti infrastrutturali in tutto il mondo a partire da maggio 2023), coinvolgendo Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Bangladesh e Uruguay. La cooptazione dell’Egitto e dell’Arabia Saudita, tradizionalmente alleati dell’Occidente, è un grande colpo per i BRICS, per la Cina e per la Russia e avvicina la potenza petrolifera saudita e l’OPEC all’Oriente.

In termini di de-dollarizzazione, dall’inizio della guerra Russia, Cina e India hanno interrotto o ridotto l’uso del dollaro negli scambi commerciali con numerosi Paesi, compresi gli acquisti di petrolio dell’Arabia Saudita, e tra di loro.

 

La globalizzazione della politica di sicurezza nazionale della Russia va oltre la crescente securizzazione della Shanghai Cooperation Oorganization (SCO). Questa accelerazione avverrà con la guerra ucraina tra NATO e Russia e con l’espansione dei BRICS, che a loro volta dovrebbero aumentare il numero di Paesi che cercano di aderire alla SCO. Sempre in Asia, le decisioni della NATO di formare l’AUKUS e di aprire un ufficio NATO in Giappone hanno spinto Mosca a rafforzare la cooperazione strategica con la Corea del Nord, che ha ricambiato le attenzioni. Si sospetta che Mosca abbia venduto a Pyongyang la tecnologia o un vero e proprio missile balistico intercontinentale Topol-M, vista l’improvvisa produzione del missile intercontinentale Hwasong-18, in grado di colpire gli Stati Uniti continentali (https://beyondparallel.csis.org/the-transfer-of-a-russian-icbm-to-north-korea/).

Ad agosto scorso, l’amministrazione Biden ha imposto sanzioni a tre società accusate di essere legate ad accordi di armi tra la Corea del Nord e la Russia e ha affermato che il presunto imminente viaggio di Kim Jong Il a Mosca includerà discussioni sulla vendita di armi a Mosca (www.theguardian.com/world/2023/sep/06/north-korea-will-pay-a-price-if-it-supplies-arms-to-russia-says-us). Al momento in cui scriviamo, Kim si trovava a Vladivostok per incontrare Putin.

 

La Russia si sta spingendo anche nell’emisfero occidentale americano, complicando ulteriormente la posizione geostrategica dell’America. Nel febbraio 2022 il vice primo ministro russo Yuri Borisov ha firmato un patto per aumentare la cooperazione militare con il Venezuela. Mosca ha quindi inviato in Venezuela attrezzature militari, truppe e mercenari e ha fornito assistenza tecnica. La Russia ha anche sostenuto le forze venezuelane inviate nello Stato di Apure, al confine con la Colombia. Mosca ha recentemente annunciato che una squadra di cecchini russi, insieme a squadre provenienti da Cina, Iran e altri sette Paesi, avrebbe partecipato a una competizione militare di cecchini in Venezuela (https://www.csis.org/analysis/russia-western-hemisphere-assessing-putins-malign-influence-latin-america-and-caribbean e https://csis-website-prod.s3.amazonaws.com/s3fs-public/congressional_testimony/ts220720_Ellis.pdf?VersionId=nVUH7XPQ7U.22FQnIGJycXakubOycvpQ,  p. 1).

 

Nel giugno 2022 il Nicaragua ha rilasciato una nuova autorizzazione all’ingresso nel Paese di un numero limitato di truppe ed equipaggiamenti russi per missioni di addestramento e altre forme di supporto (https://csis-website-prod.s3.amazonaws.com/s3fs-public/congressional_testimony/ts220720_Ellis.pdf?VersionId=nVUH7XPQ7U.22FQnIGJycXakubOycvpQ,  p. 1). L’autorizzazione ha ampliato una precedente autorizzazione e ha permesso a 180-230 truppe russe, nonché ad aerei, navi e armi russe di operare sul suolo nicaraguense da luglio a dicembre 2022 e di fornire supporto per la lotta al narcotraffico, le comunicazioni militari, l’addestramento e altre misure militari (https://csis-website-prod.s3.amazonaws.com/s3fs-public/congressional_testimony/ts220720_Ellis.pdf?VersionId=nVUH7XPQ7U.22FQnIGJycXakubOycvpQ,  pp. 2-3).

 

La Russia ha fatto progressi diplomatici anche in America Latina, tra Paesi tipicamente non ben disposti nei confronti della Russia come Cuba, Nicaragua, Ecuador e Venezuela. A prescindere dall’appartenenza del Brasile ai BRICS e dall’astensione dei BRICS da qualsiasi critica alle azioni russe in Ucraina, i governi del Brasile e dell’Argentina hanno dato sostegno politico a Putin e hanno visitato Mosca mentre le truppe russe si preparavano a invadere l’Ucraina nell’inverno 2021-2022, nel caso in cui le proposte di Putin all’Occidente avessero avuto una risposta insoddisfacente, come alla fine è stato. Il presidente argentino Alberto Fernandez ha offerto il suo governo come “porta” per l’ingresso della Russia in America Latina. Il messicano Andres Manuel Lopez Obrador (AMLO) ha definito “immorale” l’assistenza militare della NATO all’Ucraina nella guerra con la Russia (https://csis-website-prod.s3.amazonaws.com/s3fs-public/congressional_testimony/ts220720_Ellis.pdf?VersionId=nVUH7XPQ7U.22FQnIGJycXakubOycvpQ,  pp. 4-5). L’avanzata della Russia nella regione è forse meglio rappresentata dal fatto che, come osserva un osservatore, “praticamente nessun governo della regione ha fornito sostegno militare agli ucraini che resistono all’invasione russa del loro Paese” (https://csis-website-prod.s3.amazonaws.com/s3fs-public/congressional_testimony/ts220720_Ellis.pdf?VersionId=nVUH7XPQ7U.22FQnIGJycXakubOycvpQ,  p. 5). Sembra che la Russia sia più popolare tra i governi latinoamericani di quanto non lo siano gli Stati Uniti, e questa sconfitta strategica è stata consolidata dalla competizione diplomatica e militare russa con Washington, intensificatasi dall’inizio della guerra ucraina tra NATO e Russia.

 

Questa sconfitta strategica potrebbe adesso persistere, approfondirsi e si sta espandendo anche oltre l’America Latina.

Quasi tutti i paesi dell’America Latina sono in crisi, mentre la maggior parte di loro si sposteranno verso la posizione di “dissenso” moderato assunta da Brasile e Argentina ovvero assumeranno una posizione di dissenso radicale detenuta da paesi come Venezuela, Nicaragua e Cuba, la Russia (e la Cina) saranno ancora più vicine ad essere in grado di utilizzare i paesi della regione per scopi di escalation asimmetrica mentre la NATO e i suoi alleati promuovono escalation dentro e intorno all’Ucraina (https://csis-website-prod.s3.amazonaws.com/s3fs-public/congressional_testimony/ts220720_Ellis.pdf?VersionId=nVUH7XPQ7U.22FQnIGJycXakubOycvpQ,  pag. 7).

 

Un simile scenario sembra delinearsi in Africa e in Asia, con numerosi Paesi che cercano cooperazione sia con la Russia che con la Cina, nonostante le tensioni di quest’ultime con l’Occidente, che chiede l’attuazione di sanzioni draconiane. Tra i più potenti Stati del Terzo mondo il sostegno alla Russia e ancor più alla Cina, è diventato ben chiaro alla riunione del G-20 di settembre, dove alcun tipo di critica alle azioni della Russia in Ucraina è stata più inserita nella risoluzione finale della riunione, nonostante la richiesta degli stati occidentali del G-20 di includere una condanna nel documento (https://news.yahoo.com/g20-consensus-declaration-calls-peace-144325325.html?fr=sycsrp_catchall).

Le battute d’arresto strategiche sono visibili in termini di sicurezza energetica dell’Occidente. Come già notato, Mosca e Pechino sono riuscite a trascinare il gigante petrolifero Arabia Saudita lontano dall’Occidente e nell’orbita ‘orientale’. La Russia e l’amichevole Algeria controllano i prezzi del gas naturale. La Russia ha sottratto l’Arabia Saudita e l’OPEC al sistema commerciale occidentale. Ciò consente a Mosca di manipolare e far salire i prezzi dell’energia e l’inflazione in Occidente, accentuandone difficoltà economiche, crisi e declino. Allo stesso tempo, l’Occidente è gravato da contro-sanzioni russe, dall’aumento dei prezzi del petrolio e del gas naturale e dal sostegno fornito all’economia, allo stato, alla società ed all’esercito dell’Ucraina, mentre questa è impegnata una terribile guerra di logoramento.

Inoltre, il principale alleato della NATO contro la Russia sta attraversando un periodo di difficoltà che si avvicina alla grande rovina della seconda metà del XVII secolo, durante la quale i cosacchi soffrirono il controllo polacco e russo e la guerra civile.

IN APPENDICE

Sessione plenaria dell’8° Forum economico orientale

Il discorso di Vladimir Putin alla sessione plenaria dell’8° Forum economico orientale.
12 settembre 2023
11:45
Isola Russkij, Territorio di Primorye
Prima della sessione plenaria dell’8° Forum economico orientale.
Sessione plenaria dell’8° Forum economico orientale.
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Sessione plenaria dell’8° Forum economico orientale.

Alla sessione plenaria ha partecipato anche il Vicepresidente della Repubblica Democratica Popolare del Laos Pany Yathotou.

Il moderatore della discussione è Ilya Doronov, amministratore delegato del canale televisivo RBC.

* * *

Ilya Doronov: Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera a tutti.

È bello che quest’anno ci sia più gente al nostro forum rispetto all’anno scorso. Credo che l’anno scorso in questa sala ci fosse più spazio tra le sedie. Oggi siamo seduti più vicini.

Benvenuti all’8° Forum economico orientale. Avevo previsto di iniziare in modo diverso, ma le notizie in arrivo hanno cambiato i miei piani. Come avrete letto, un volo Sochi-Omsk ha dovuto effettuare un atterraggio di emergenza in un campo nella regione di Novosibirsk. A bordo c’erano 159 persone, nessuna delle quali è rimasta ferita. Ho letto che solo una persona ha avuto un problema di pressione sanguigna. Applaudiamo i piloti.

(Applausi.)

C’è un altro problema con gli aerei, ma possiamo parlarne più tardi.

Quindi, questo forum e questa sessione non sono standard. Perché? Il motivo è che è stato annunciato esattamente 10 anni fa che l’Estremo Oriente e l’Artico sono una priorità per noi. Yury Trutnev è stato nominato inviato plenipotenziario presidenziale nel Distretto federale dell’Estremo Oriente 10 anni fa e il Presidente ha dichiarato nel suo discorso all’Assemblea federale che l’Estremo Oriente è stato dichiarato una priorità.

Do quindi la parola al Presidente della Russia e gli chiedo di raccontarci, come si usa dire, cosa è stato fatto in questi due quinquenni.

Presidente della Russia Vladimir Putin: Buon pomeriggio, amici, signora Yathotou,

Sono lieto di dare il benvenuto al nostro ospite e chiedo anche ai partecipanti di farlo.

Il nostro moderatore ha salutato il pubblico dicendo “buon pomeriggio, buongiorno, buonasera” – e in effetti, quando si arriva in Estremo Oriente, qui tutto diventa confuso e disorientante. Ma una cosa è chiara: l’Estremo Oriente è la priorità strategica della Russia per tutto il XXI secolo, e noi la rispetteremo.

Vorrei dare il benvenuto ai partecipanti e agli ospiti dell’8° Forum economico orientale, che tradizionalmente riunisce leader economici, esperti e alti funzionari del nostro Paese e di decine di altri Stati di tutto il mondo per discutere di aree promettenti e strategiche per lo sviluppo dell’Estremo Oriente russo, dell’Artico e dell’intera regione Asia-Pacifico. Nelle mie osservazioni di oggi, in un modo o nell’altro, citerò anche altre regioni russe, perché fanno parte di un unico complesso economico nazionale. Siamo qui riuniti per valutare le principali tendenze che determinano l’ulteriore sviluppo delle relazioni commerciali internazionali.

Siamo tutti consapevoli dei cambiamenti che l’economia globale ha sperimentato negli ultimi anni e continua a sperimentare ora, anche a causa di alcuni Paesi, in primo luogo quelli occidentali, ovviamente, che stanno distruggendo il sistema di relazioni finanziarie, commerciali ed economiche che avevano costruito con grande impegno.

È molto importante che in queste condizioni il mondo veda espandersi lo spazio per un’effettiva cooperazione commerciale tra Stati che non cedono alle pressioni esterne ma perseguono i propri interessi nazionali, con un numero crescente di Stati di questo tipo in diverse regioni del mondo.

Nelle loro attività e politiche, essi danno priorità agli sforzi per promuovere i propri progetti nei settori dei trasporti, dell’energia, dell’industria, della finanza e della sfera umanitaria, che portano benefici diretti a lungo termine alle loro nazioni, invece di essere guidati da questioni politiche correnti.

In sostanza, stiamo assistendo a un nuovo modello emergente di relazioni e di integrazione – e non per i modelli occidentali, per le élite, per il “miliardo d’oro” prescelto, ma per l’intera umanità e per l’intero mondo multipolare esistente e in via di sviluppo. Questo modello offre l’energia creativa, l’apertura e la concentrazione su un risultato specifico come un potente vantaggio competitivo della regione Asia-Pacifico, un fattore chiave che determina e sono sicuro determinerà per lungo tempo la sua leadership globale nella crescita economica.

In particolare, l’anno scorso il commercio della Russia con i Paesi dell’Asia-Pacifico è aumentato del 13,7% e nei primi sei mesi di quest’anno è aumentato di un altro 18,3%. L’anno scorso era aumentato del 13,7% e quest’anno è aumentato del 18,3% solo nei primi sei mesi.

Mi aspetto che il nostro commercio con i Paesi dell’APR e le relazioni economiche in generale si espandano ulteriormente, perché la Russia, il nostro Estremo Oriente, è aperta a rafforzare i legami commerciali e di cooperazione, e il potenziale di tale cooperazione non può essere sopravvalutato.

Il distretto federale dell’Estremo Oriente rappresenta il 40% del territorio russo. Qui si trova quasi la metà delle nostre foreste e delle riserve aurifere, più del 70% del pesce e dei diamanti e più del 30% del titanio, del rame e così via. Qui si trovano imprese strategiche di importanza cruciale, porti marittimi e ferrovie. In breve, il ruolo dell’Estremo Oriente per il nostro Paese e per il suo futuro, per la posizione della Russia in un mondo multipolare, è immenso. Ne siamo ben consapevoli. Per questo vorrei ripetere ciò che ho detto nel mio discorso all’Assemblea federale dieci anni fa, nel dicembre 2013, e ciò che ho detto all’inizio: lo sviluppo avanzato dell’Estremo Oriente è la nostra priorità assoluta per tutto il XXI secolo, la nostra responsabilità condivisa e il lavoro del Governo, delle regioni e delle principali aziende russe, sia statali che private.

Per organizzare questo lavoro, negli ultimi anni è stato creato un quadro normativo e giuridico serio e sono stati definiti approcci moderni allo sviluppo economico e sociale dell’Estremo Oriente e dell’Artico, che è un’altra priorità strategica.

Quali sono i risultati? Il moderatore ha chiesto quali risultati siamo riusciti a ottenere lavorando insieme in questa regione negli ultimi dieci anni. Il primo riguarda l’economia. Abbiamo creato speciali preferenze fiscali, amministrative e doganali in Estremo Oriente per promuovere lo sviluppo di siti industriali e di impianti di produzione ad alta tecnologia e per creare nuovi posti di lavoro, e ci siamo occupati della costruzione di infrastrutture e di portare servizi ai siti industriali. Questo sostegno alle imprese viene fornito nelle aree di sviluppo prioritario e nel porto franco di Vladivostok, sebbene siano stati aggiunti anche altri territori.

L’anno scorso è stato lanciato uno speciale regime preferenziale sulle Isole Curili, a condizioni ancora più favorevoli rispetto alle aree di sviluppo prioritario: la durata dei benefici è più lunga, gli sgravi fiscali sono maggiori, e così via. Non entrerò nei dettagli ora, per non perdere tempo.

Grazie al sostegno del Governo ai progetti dell’Estremo Oriente, sono stati firmati accordi di investimento per oltre 7.700 miliardi di rubli, di cui 3.400 miliardi già investiti. Sono stati creati 125.000 posti di lavoro e sono diventate operative circa 700 nuove imprese. Tra questi, progetti di riferimento come uno dei più grandi impianti di lavorazione del gas al mondo e un complesso chimico per il gas nella regione dell’Amur, l’impianto di fertilizzazione minerale di Nakhodka e il complesso navale Zvezda per la costruzione di navi di grande capacità, che si trova proprio qui accanto. Si stanno sviluppando giacimenti di rame e altri minerali, tra cui Udokan, Baimskoye e Malmyzhskoye.

Importanti progetti sono stati avviati anche nel settore agroalimentare. Tra questi, le aziende agricole in serra nella Regione di Sakhalin e nel Territorio di Primorye, la lavorazione del pesce in Kamchatka e Magadan, la produzione di carne suina nel bacino del fiume Amur e l’aumento della produzione di soia nella Regione di Amur. Tutte queste aree sono promettenti sia per l’approvvigionamento del mercato interno che per l’esportazione.

In generale, la dinamica degli investimenti in Estremo Oriente, e vorrei sottolinearlo, è tre volte più veloce di quella della Russia nel suo complesso. Mentre dal 2014 al 2022 la crescita degli investimenti in capitale fisso in tutto il Paese è stata del 13%, in Estremo Oriente è stata del 39%.

Ciò si riflette anche sulla produzione. I tassi di crescita industriale in Estremo Oriente superano anche la media russa.

Secondo i risultati degli ultimi cinque anni, la maggior parte delle nostre regioni orientali – le regioni di Magadan e Amur, il Territorio Trans-Baikal, la Regione Autonoma Ebraica, il bacino del fiume Amur, la Chukotka e la Kamchatka – sono tra le prime 20 entità costitutive della Federazione Russa in termini di tassi di crescita del prodotto regionale lordo, e la Regione di Magadan è in cima a questa classifica.

Ecco alcune cifre che parlano da sole. In 10 anni, il fatturato dei porti marittimi dell’Estremo Oriente è aumentato di 1,6 volte, la messa in funzione delle abitazioni di 1,3 volte, il consumo di elettricità di 1,2 volte, la produzione annuale di oro nell’est del Paese è aumentata di 1,6 volte e quella di carbone di 2,8 volte. Capite bene di cosa stiamo parlando: non si tratta dell’aumento percentuale della crescita, tutto sta crescendo in modo esponenziale.

Vorrei sottolineare che la percentuale media di risorse esplorate nel sottosuolo dell’Estremo Oriente è ora del 35%. Capite bene che solo il 35% del sottosuolo è stato esplorato. Cosa significa questo? Che le industrie minerarie hanno tutte le possibilità di crescere a dismisura, anche per quanto riguarda le materie prime strategiche che scarseggiano e che saranno richieste dall’economia del futuro.

Tutto ciò non è solo una garanzia della sovranità delle risorse del Paese, ma anche una base per la produzione di nuovi materiali, microelettronica e fonti energetiche promettenti, per la promozione di tecnologie e sviluppi scientifici nazionali a tutela dell’ambiente e della natura, per la creazione di buoni posti di lavoro e per lo sfruttamento dei vantaggi competitivi naturali dell’Estremo Oriente e di tutta la Russia a un nuovo livello.

Al fine di aumentare la portata dell’esplorazione geologica, abbiamo lanciato una strategia frontale, chiamata così in modo splendido: Geologia. La rinascita di una leggenda. Chiedo al Governo di inserirvi una sezione separata, dedicata allo studio del sottosuolo dell’Estremo Oriente e di iniziare a preparare una sezione simile per la Siberia.

Le prospettive per l’Estremo Oriente e l’Artico sono legate non solo allo sviluppo dei giacimenti minerari, che, senza dubbio, godono di un’elevata domanda sia nell’industria nazionale che a livello internazionale.

Per ribadire che la potente base di materie prime per lo sviluppo economico che stiamo creando ci permette di andare avanti, di aumentare la profondità della lavorazione delle risorse, come dicono gli esperti, di aumentare il valore aggiunto nelle imprese nazionali, anche e soprattutto, ovviamente, in Estremo Oriente. Questa è la cosa più importante.

Per poterlo fare, dobbiamo migliorare costantemente le condizioni per fare affari nella macroregione, mantenerle a un livello competitivo a livello globale e fornire finanziamenti a lungo termine e a basso costo per i progetti di investimento, accessibili sia alle piccole e medie imprese che alle grandi aziende di produzione in tutte le aree e settori, territori e distretti.

Come forse saprete, abbiamo lanciato una piattaforma federale per gli investimenti nei cluster. Questo meccanismo è destinato a finanziare grandi progetti di importanza sistemica, principalmente per la produzione di materiali, componenti e prodotti finiti nell’industria manifatturiera.

Quest’anno, nell’ambito di questa piattaforma di investimento, dovrebbero essere finanziati progetti per la produzione prioritaria del valore di almeno 2.000 miliardi di rubli. Vorrei che il Governo utilizzasse questo strumento per espandere l’economia dell’Estremo Oriente, in modo da creare qui impianti di produzione più sofisticati con posti di lavoro moderni e ben retribuiti. È necessario promuovere progetti che richiedono grandi investimenti multimiliardari che, a loro volta, diventano punti di attrazione per i settori collegati, l’industria delle costruzioni, le società di servizi e i produttori di attrezzature, ma anche per le piccole imprese.

Vorrei anche sottolineare che la petrolchimica e la conversione del gas naturale, la metallurgia, la costruzione di macchine e altri settori dell’industria manifatturiera sono tutte industrie ad alta intensità energetica. Tuttavia, è bene ricordarlo, la maggior parte delle regioni dell’Estremo Oriente, che, come ho detto prima, stanno costruendo abitazioni, aprendo nuovi impianti di produzione e siti industriali, devono ancora far fronte alla carenza di energia e questo, ovviamente, è un problema.

La portata dei progetti che stiamo realizzando in Estremo Oriente richiede un aggiornamento altrettanto radicale del sistema energetico dell’Estremo Oriente. Allo stesso tempo, esistono opportunità davvero uniche per lo sviluppo di energia idroelettrica, nucleare e rinnovabile rispettosa dell’ambiente.

Chiedo al Governo, insieme alle nostre principali compagnie energetiche e alla comunità imprenditoriale, di preparare un programma per lo sviluppo delle capacità energetiche in Estremo Oriente. Il programma dovrebbe coprire un periodo a lungo termine, fino al 2050, per espandere al massimo le capacità economiche dei nostri territori dell’Estremo Oriente. Chiedo inoltre al Governo di sviluppare meccanismi di finanziamento dei progetti per questo programma strategico.

I piani prevedono il collegamento dei gasdotti Sila Sibiri (Potenza della Siberia) e Sakhalin-Khabarovsk-Vladivostok e la loro inclusione nel sistema integrato di approvvigionamento di gas del Paese. Questo risolverà – oserei dire – un compito storico e globale per il nostro Paese: integrare le reti di distribuzione del gas russe occidentali e orientali in una sola.

Insieme alla costruzione di Sila Sibiri-2, ci consentirà non solo di operare in modo flessibile sui mercati energetici globali, cosa che oggi è rilevante, come sappiamo, ma anche di espandere in modo significativo il programma di collegamento delle comunità della Buriazia, del Territorio Trans-Baikal e di altre regioni dell’Estremo Oriente al sistema di distribuzione del gas, fornendo alle industrie locali dell’Estremo Oriente risorse aggiuntive e alle città e ai villaggi locali combustibile ecologicamente pulito. Le capacità del terminale GNL, già costruito da una delle nostre società, saranno utilizzate per collegare la Kamchatka alla rete di distribuzione del gas,

Questo settore si sta sviluppando attivamente, anche nell’Artico. Dopo il successo del progetto Yamal LNG, è stato avviato un nuovo importante progetto per la costruzione di un terminale GNL nell’Artico: la prima linea tecnologica del progetto Arctic LNG 2. La linea è già stata consegnata alla produzione di gas naturale. È già stata consegnata al sito di produzione e i lavori di avviamento sono in corso, giusto? È fantastico.

Voglio sottolineare che la linea è in realtà un impianto galleggiante per la liquefazione del gas naturale. Questo progetto è l’unico al mondo nel suo genere, è sicuro, ed è costruito con tecnologia e capacità russe. Il progetto viene realizzato dal Murmansk LNG Construction Centre, che produce treni di liquefazione GBS.

Entro il 2030, la produzione di GNL nella zona artica russa dovrebbe aumentare del 200%, fino a 64 milioni di tonnellate all’anno. A questo proposito, è stata presa la decisione di principio di costruire nuove linee di GNL presso il centro di Murmansk per operare nei giacimenti artici. Naturalmente, ciò darà un grande contributo allo sviluppo delle nostre regioni settentrionali e migliorerà la sovranità tecnologica della Russia.

Nella regione di Murmansk verrà costruito un centro di produzione di GNL ad alta capacità. La questione non è direttamente collegata all’Estremo Oriente, ma a tal fine sarà costruito un gasdotto Volkhov-Murmansk-Belokamenka.

Non entrerò nei dettagli, ma spero vivamente che le nostre aziende, con l’aiuto del Governo, trovino un accordo tra loro su chi e come sarà impegnato nella costruzione di questa importante infrastruttura. È molto importante per Murmansk e per le comunità locali, oltre che per la Carelia.

I progetti di trasporto sono importanti come strumento di sostegno alle iniziative imprenditoriali e in generale all’economia dell’Artico e dell’Estremo Oriente e ai residenti locali. È necessario ampliare le rotte logistiche esistenti e aprire nuovi corridoi per le operazioni di carico.

Tra questi progetti, lo sviluppo della Northern Sea Route ha certamente una priorità speciale. L’anno scorso sono stati trasportati su questa rotta trentaquattro milioni di tonnellate di merci. Nei prossimi anni, il traffico merci su questo corridoio di trasporto globale non potrà che crescere, il che richiede la priorità della costruzione di una moderna flotta di rompighiaccio, nonché il potenziamento dei porti artici e delle loro infrastrutture.

Entro il 2030, prevediamo che la capacità generale dei porti marittimi nelle acque artiche raddoppierà. Se l’anno scorso questa capacità era di 123 milioni di tonnellate, entro la fine del decennio dovrebbe raggiungere i 252 milioni di tonnellate, grazie anche alla costruzione di nuovi terminal e all’espansione dell’accesso ferroviario. Entro il 2027, prevediamo di aumentare sostanzialmente la capacità del porto di Murmansk, da 56 a 110 milioni di tonnellate all’anno.

Continueremo a modernizzare la linea principale Baikal-Amur e la ferrovia transiberiana. Certamente, il ritmo deve essere accelerato, anche attraverso concessioni e attirando capitali privati per la costruzione di ponti, gallerie e cavalcavia. Ne abbiamo appena discusso con i moderatori delle rispettive sessioni.

A questo proposito, vorrei sottolineare che, grazie all’iniziativa di investitori privati, stiamo costruendo la Ferrovia del Pacifico e un nuovo porto sul Mare di Okhotsk, che ci permetterà di utilizzare le risorse della Yakutia e delle regioni settentrionali del Territorio di Khabarovsk, e di assicurarci un accesso diretto ai mercati dell’Asia-Pacifico.

Le nostre principali aziende stanno attualmente costruendo un nuovo porto a Taimyr e modernizzando la ferrovia Pangody-Nadym a Yamal. Sono molti gli esempi di imprese che effettuano investimenti a lungo termine in logistica, trasporti, progetti energetici, costruzione di ferrovie e autostrade, terminali marittimi e aeroporti.

Vorrei chiedere al Governo e ai nostri colleghi delle regioni di fare affidamento su questa risorsa e di fare in modo che gli investimenti statali e privati creino un effetto sinergico per il rinnovo delle infrastrutture e delle strutture sociali e per lo sviluppo territoriale delle regioni e del Paese in generale.

Ho già detto agli imprenditori russi, molti dei quali stanno subendo pressioni da parte di alcuni dei nostri partner, e voglio ribadire oggi che è sicuramente meglio e più affidabile investire in Russia, sia in grandi e ambiziosi progetti infrastrutturali che in progetti locali ma importanti legati allo sviluppo urbano e al turismo. Abbiamo visto cosa succede con i capitali e come e dove vanno a finire. Non commettete lo stesso errore due volte.

Proprio di recente abbiamo aperto un tratto dell’autostrada ad alta velocità da Mosca ad Arzamas. Entro la fine di quest’anno, la strada raggiungerà Kazan, e poi Ekaterinburg e Tyumen. Voglio dire che continueremo sicuramente questo grande progetto e costruiremo strade ad alta velocità attraverso la Siberia e l’Estremo Oriente fino a raggiungere l’Oceano Pacifico. Il corridoio di trasporto integrato Rossiya sarà creato da San Pietroburgo a Vladivostok. Contribuirà allo sviluppo del turismo, collegherà i centri logistici, agricoli e produttivi, darà impulso all’imprenditoria e alla rinascita di città e villaggi.

Una questione a parte è lo sviluppo del trasporto aereo tra l’Estremo Oriente e la parte europea della Russia, nonché il miglioramento dell’interconnessione diretta delle regioni dell’Estremo Oriente, in modo che le persone non debbano volare verso le regioni vicine attraverso gli aeroporti di Mosca o della Siberia.

A tal fine, come sapete, abbiamo creato una compagnia aerea integrata dell’Estremo Oriente. Le sue rotte più importanti sono sovvenzionate dallo Stato, in modo che i biglietti aerei diventino più accessibili, e ci sono ulteriori opportunità di creare nuove rotte, anche locali.

Suggerisco di continuare questo importante lavoro e di renderlo di sistema. Chiedo al Governo di mettere a punto un piano completo di misure per lo sviluppo del trasporto aereo nella regione dell’Estremo Oriente entro il 1° marzo 2024. Il piano dovrebbe riguardare la costruzione di nuovi aeroporti e l’ammodernamento di quelli esistenti, il miglioramento degli standard dell’aviazione generale, la fornitura di aerei ed elicotteri di fabbricazione russa e, naturalmente, l’aumento dell’accessibilità economica dei viaggi aerei, riducendo le spese delle compagnie aeree per il leasing degli aeromobili.

I parametri e gli obiettivi esatti sono ancora da definire, ma credo che sarebbe opportuno pianificare che entro il 2030 il flusso di passeggeri sui voli interni dell’Estremo Oriente dovrebbe crescere fino a raggiungere almeno 4 milioni di persone all’anno.

Colleghi,

L’obiettivo più importante e integrale dei nostri piani, che stiamo attuando nell’economia, nei trasporti e nelle infrastrutture dell’Estremo Oriente, è quello di migliorare la qualità della vita, di creare condizioni confortevoli e moderne per lo studio e il lavoro, il tempo libero e la crescita dei figli, e di ottenere una crescita demografica sostenibile nelle regioni russe dell’Estremo Oriente.

A tal fine, sono stati lanciati diversi meccanismi, tra cui il programma Far Eastern Hectare. Più di 119.000 persone hanno ricevuto appezzamenti di terreno per fare affari, aprire strutture produttive e turistiche o costruire le proprie case.

Vorrei ricordarvi il compito che ci attende: quest’autunno dobbiamo creare un quadro normativo per sostenere la costruzione di abitazioni individuali in tutto il Paese. Mi riferisco ai conti vincolati utilizzati per la costruzione di condomini. Questi conti proteggeranno ulteriormente i risparmi dei cittadini e creeranno l’opportunità di ottenere prestiti ipotecari per costruire le proprie case.

Richiamo l’attenzione dei colleghi del Governo sul fatto che questi meccanismi devono essere sviluppati entro la fine di quest’anno e, per ribadire, in tutto il Paese, comprese le regioni dell’Estremo Oriente.

In particolare, nell’Estremo Oriente sono disponibili condizioni ipotecarie speciali, con un importo del prestito fino a sei milioni di rubli, una durata fino a 20 anni e un tasso di interesse del 2%. Con l’aiuto di questo strumento, più di 78.000 famiglie hanno acquistato o costruito nuovi alloggi.

Propongo di adeguare i parametri del programma di prestiti ipotecari dell’Estremo Oriente e di renderlo più attraente. Ieri io e i miei colleghi ne abbiamo discusso. Si tratta di innalzare il limite massimo del prestito a nove milioni di rubli per coloro che vogliono acquistare un alloggio di proprietà con una superficie superiore ai 60 metri quadrati. In questo modo, le famiglie avranno più opportunità di scegliere un appartamento sul mercato primario o di costruire la propria casa.

Inizialmente il programma di prestiti ipotecari per l’Estremo Oriente era pensato solo per le giovani famiglie, ma dall’anno scorso anche gli insegnanti e i medici che lavorano in Estremo Oriente possono accedere a questo tipo di prestito.

Propongo di fare un passo avanti e di ampliare ancora una volta la copertura di questo programma, rendendo disponibili i mutui al due per cento anche ai dipendenti delle imprese dell’industria della difesa dell’Estremo Oriente. Per ribadire, per tutti i dipendenti dell’industria della difesa dell’Estremo Oriente, indipendentemente dall’età o dallo stato civile, proprio come abbiamo fatto per i medici e gli insegnanti.

Poi. Abbiamo suggerito meccanismi speciali per lo sviluppo dell’edilizia abitativa, tra cui il cosiddetto progetto del quartiere dell’Estremo Oriente, in cui le aziende impegnate nello sviluppo globale ricevono i benefici disponibili per le aziende residenti nelle aree di sviluppo prioritario. Di conseguenza, la fase di progettazione comprende abitazioni, un ambiente urbano confortevole e infrastrutture sociali, come asili, ambulatori, centri sportivi e altro ancora.

Sostenuta dai meccanismi del Quartiere dell’Estremo Oriente, è in costruzione una città satellite vicino a Vladivostok. Ospiterà circa 80.000 persone in un ambiente di vita all’avanguardia.

Vorrei aggiungere che il cosiddetto sussidio presidenziale è stato introdotto per contribuire allo sviluppo globale delle infrastrutture sociali in Estremo Oriente. Nell’ambito di questo programma, sono state costruite, riparate e attrezzate oltre 1.500 strutture in tutte le regioni dell’Estremo Oriente. Si tratta di scuole, ospedali, palestre, centri per il fitness e la salute, case della cultura, ecc.

Ecco alcune strutture inaugurate di recente: un centro cardiovascolare a Yakutsk, un centro di medicina nucleare a Ulan-Ude, un centro per gli sport di squadra e le arti marziali a Komsomolsk-on-Amur. In Chukotka sono stati costruiti alloggi per i lavoratori del settore sociale. È stato inaugurato il Parco Mayak sulla costa del Mare di Okhotsk a Magadan.

Un’area di lavoro separata e importante che abbiamo lanciato è la rinascita di 25 agglomerati e città dell’Estremo Oriente. Non le elencherò ora; ne abbiamo discusso pubblicamente ieri. Le città dovrebbero avere un nuovo look grazie allo sviluppo di piani regolatori qualitativi basati sui problemi e sui vantaggi di ciascuna città. I piani regolatori sono più o meno pronti, ne abbiamo parlato ieri. È necessario finalizzarli, delineare le fonti di finanziamento e procedere con i lavori il più rapidamente possibile.

Durante la ristrutturazione delle città, è necessario utilizzare il meccanismo delle concessioni dell’Estremo Oriente. Suggerisco inoltre di stanziare risorse aggiuntive per i piani regolatori prioritari nei prossimi tre anni; ieri ho incaricato il Governo di mettere a punto questi meccanismi. In seguito, valuteremo la possibilità di aumentare i finanziamenti per il periodo fino al 2030.

E, naturalmente, è necessario prestare particolare attenzione alle entità municipali, comprese quelle piccole. Per esempio, nell’ambito del programma Mille cortili, l’anno scorso sono stati migliorati 1.245 spazi pubblici; altri 562 saranno migliorati quest’anno. Naturalmente, questo lavoro deve essere continuato.

Vorrei sottolineare che qualche tempo fa abbiamo deciso che tutti i nostri principali programmi di sviluppo avrebbero dovuto includere una sezione speciale sull’Estremo Oriente. Questo ci ha permesso di ottenere una discreta crescita degli investimenti governativi nei progetti realizzati in Estremo Oriente. Dovremmo mantenere questi livelli e queste dinamiche e continuare a dare priorità all’Estremo Oriente per quanto riguarda gli investimenti statali.

Un’altra cosa: l’Estremo Oriente russo non deve essere solo un territorio in cui l’economia, il settore sociale e l’ambiente urbano si stanno sviluppando rapidamente. Nel perseguire questi piani e progetti, non dovremmo trascurare gli sforzi per prenderci cura di ecosistemi unici e preservare centinaia di specie animali e vegetali rare. Tra l’altro, il forum internazionale Falcon Day si è tenuto per la prima volta nell’ambito dell’attuale Eastern Economic Forum, con l’obiettivo di discutere la conservazione e la crescita della popolazione di specie di uccelli predatori e rari.

Vorrei ringraziare i nostri amici e colleghi del Medio Oriente, che stanno prestando particolare attenzione a questo tema. E ovviamente lavoreremo con voi, colleghi, su questa questione umanitaria ma molto coinvolgente.

L’Estremo Oriente russo possiede più di 60 aree naturali protette di importanza federale, molte delle quali incluse nell’elenco dei siti del Patrimonio Naturale dell’Umanità, come il Lago Baikal, il Parco Naturale dei Pilastri della Lena, la Riserva dell’Isola di Wrangel, i vulcani della Kamchatka e altri. Tutto questo è la nostra principale ricchezza nazionale e, allo stesso tempo, è patrimonio globale; siamo obbligati a preservarlo, offrendo al contempo opportunità per la ricerca scientifica, per l’educazione e la ricreazione dei bambini e dei giovani, e per i turisti e i visitatori russi e stranieri di conoscere la meravigliosa natura del nostro Estremo Oriente.

Ho detto che l’Estremo Oriente russo dovrebbe diventare una piattaforma per nuovi settori economici, tra cui lo sviluppo del turismo nei parchi nazionali dei territori di Primorye e Khabarovsk, della Yakutia, della Buryatia, della Kamchatka, delle Isole Curili e di altre regioni.

Il 1° settembre è entrata in vigore una legge per fornire condizioni adeguate e un quadro legislativo per l’ecoturismo e creare le basi per liberare il potenziale scientifico e turistico delle aree protette. È importante dotarle di infrastrutture adeguate.

A questo proposito, propongo che l’anno prossimo vengano stanziati ulteriori fondi per i parchi nazionali dell’Estremo Oriente, e non attraverso la ridistribuzione dei fondi destinati ad altri siti naturali, ma fornendo fondi aggiuntivi rispetto al finanziamento previsto.

E qualche parola sullo sviluppo di nuove industrie in Estremo Oriente. La mostra Sviluppo dell’economia creativa in Russia, che si è svolta a fine maggio, ha incluso una discussione approfondita in cui i giovani imprenditori, compresi quelli delle regioni dell’Estremo Oriente, hanno avanzato proposte interessanti.

Ad esempio, la Yakutia vanta una delle migliori pratiche di promozione delle industrie creative, come la programmazione informatica, l’architettura, il design industriale e simili, grazie agli sforzi delle autorità regionali e all’iniziativa dei suoi imprenditori. Questa esperienza costituirà la base per lo sviluppo di uno standard regionale per le industrie creative, che sarà poi esteso ad altre entità costitutive della Federazione. Il compito più importante è quello di migliorare il riconoscimento del marchio russo.

Ho incontrato i nostri colleghi moderatori – ho accennato a questo incontro in precedenza – e hanno condiviso con me la buona notizia che questo processo sta procedendo a un ritmo abbastanza veloce con buoni risultati.

È importante sostenere la domanda di prodotti e servizi nazionali, ad esempio attraverso mostre, fiere e così via. Continueremo sicuramente a portare avanti questo processo.

La prima fiera delle industrie creative si è tenuta a Novosibirsk in agosto. Vi hanno partecipato 70 produttori russi e 17.000 persone l’hanno visitata in tre giorni.

La seconda fiera è stata ospitata di recente a Vladivostok e l’evento è stato inserito nel programma culturale del nostro forum. Penso che queste iniziative saranno riprese da altre regioni.

Parlando dell’Estremo Oriente in particolare, è stata presa un’altra decisione che riguarda lo sviluppo di nuove industrie nell’economia, nella cultura e nello sport. Abbiamo deciso che ogni anno nel Distretto Federale dell’Estremo Oriente si terrà un torneo di cyber sport.

Questa tendenza è molto popolare in tutto il mondo e i nostri atleti cibernetici sono in testa alla classifica. Sono certo che organizzare competizioni di alto livello in Russia contribuirà a promuovere gli sport informatici nel nostro Paese e a livello internazionale.

Il primo torneo si terrà nel corso dell’anno. Vorrei che le aziende informatiche nazionali e quelle a partecipazione statale prestassero attenzione a questo sport e lo sostenessero.

Colleghi,

Negli ultimi dieci anni è stato fatto molto per l’Estremo Oriente e l’Artico. È stato dato un forte impulso allo sviluppo dell’economia, della sfera sociale e delle infrastrutture, e l’ambiente per fare affari che è stato creato non ha eguali nel nostro Paese. Non ho paura di usare questa parola: è un ambiente senza precedenti. Abbiamo lanciato grandi progetti di riferimento nella produzione di risorse naturali e nell’industria manifatturiera, nella costruzione di abitazioni e nel potenziamento della rete dei trasporti. Sono stati elaborati e sono in corso di attuazione piani di modernizzazione delle città e dei paesi.

Un ruolo fondamentale nel raggiungimento di questi risultati spetta agli abitanti dell’Estremo Oriente, le cui famiglie vivono qui da molte generazioni e a coloro che sono arrivati di recente da altre regioni per lavorare, studiare o gestire le proprie attività.

Vorrei ringraziare tutti coloro che credono nel futuro dell’Estremo Oriente, nelle sue vaste opportunità e potenzialità, e che contribuiscono al suo sviluppo.

Per ribadire che l’Estremo Oriente rimane la nostra priorità strategica per il resto del XXI secolo. Vorrei concludere le mie osservazioni con le righe iniziali. Sono certo che il suo ruolo, così come il ruolo e l’importanza del nostro Paese nel mondo, non potranno che crescere.

Grazie.

Ilya Doronov: Signora Vicepresidente, le darò la parola un po’ più tardi, se possibile.

Ora vorrei porre al Presidente della Russia alcune domande sul suo discorso.

Signor Presidente, è molto positivo che lei abbia menzionato l’importanza prioritaria dell’Estremo Oriente, perché molti potrebbero pensare che la nostra priorità sia nell’altra parte del mondo, in Occidente, e che tutti i nostri sforzi siano concentrati su di essa.

Vladimir Putin: Abbiamo molte priorità, ma l’Estremo Oriente è una delle priorità principali.

Ilya Doronov: È la terza volta che lo dice, e ora sapremo che è davvero così.

Lei ha parlato dell’autostrada M-12. Vorrei ringraziare lei e il signor Khusnullin, che è qui con noi oggi, per questo. Io sono di Vladimir, che si trova a 180 chilometri da Mosca, ma ci volevano sei o sette ore di macchina per percorrerla, ad esempio, durante le vacanze di maggio. Era un vero mal di testa. Ora useremo la nuova autostrada e vedremo se è meglio.

Ho diverse domande correlate.

Nel suo discorso, lei ha detto – ho preso nota delle sue parole – “un compito storico e globale” per quanto riguarda l’Estremo Oriente. Questo mi ha fatto pensare a un’analogia, cioè che i piani che avete reso pubblici possono essere paragonati a ciò che Stolypin fece per lo sviluppo della Siberia, o al piano di industrializzazione sovietico.

Ecco la mia domanda: Pensa che questi piani nazionali globali sarebbero stati realizzati e attuati se non fossero state adottate sanzioni [contro la Russia], prima nel 2014 e poi nel 2022, se non fossero state chiuse le frontiere e se non ci fosse stato impedito di depositare capitali [all’estero]?

Ecco le statistiche che dimostrano quanto ho affermato nella mia domanda. Riguardano il distretto amministrativo speciale dell’Isola Russkij, dove il numero di residenti è aumentato da 43 a 60, una crescita a valanga che ha avuto luogo dopo l’adozione delle sanzioni.

Vladimir Putin: Innanzitutto, abbiamo lanciato questo progetto 10 anni fa. Mi avete chiesto di parlarne e vi ho risposto che abbiamo iniziato a farlo molto prima degli eventi che si sono verificati negli ultimi anni, nel 2014, e lo abbiamo fatto perché abbiamo visto le tendenze dello sviluppo economico globale. Abbiamo visto l’ascesa di nuovi centri di influenza e di sviluppo economico. Credo di non dover fare i nomi di questi Paesi, che tutti conoscono. Abbiamo visto cosa stava cambiando e come, e oggi possiamo vedere che queste tendenze non sono rallentate, ma stanno prendendo slancio.

Ma cosa è successo dopo il 2014, dopo che i Paesi occidentali hanno sostenuto un colpo di Stato in Ucraina e hanno iniziato la guerra nel Donbass: molti processi hanno iniziato ad accelerare. A questo proposito, possiamo solo rammaricarci di non aver attuato per tempo i piani di sviluppo delle infrastrutture, compresa la rete ferroviaria verso l’Estremo Oriente.

Perché, onestamente, il Governo ha sbagliato in parte i calcoli e ha creduto che il volume delle spedizioni di merci non sarebbe stato così elevato; anche negli ultimi anni è stato molto più grande di quanto si potesse immaginare. Ma va bene così, stiamo facendo in modo che funzioni, ci sono piani che sono stati sviluppati in precedenza e di conseguenza sarà più facile per noi attuarli anche in tempi brevi.

Proprio ora, insieme ai moderatori e ai nostri colleghi, abbiamo discusso i piani di sviluppo del Dominio Operativo Orientale. I soldi ci sono, gli investitori sono interessati perché c’è un mercato e sono pronti a investire il proprio denaro perché possono vedere i profitti di un così grande giro di merci. Un buon ritorno sull’investimento è garantito. Ecco perché questo lavoro è iniziato molto tempo fa, e gli eventi dell’economia globale degli ultimi anni hanno dato un impulso al nostro lavoro in Estremo Oriente.

Ilya Doronov: Anche oggi è stata pronunciata due volte la frase “non commettere due volte lo stesso errore”. Non si è accorta di questo tutti, o no?

Vladimir Putin: Se vi interessa, e probabilmente interessa a molti uomini d’affari, c’è una tendenza: prima molti dei nostri uomini d’affari hanno creato delle piattaforme per se stessi e poi hanno visto che il loro denaro guadagnato legalmente è stato confiscato. Sapete, non si tratta del mio denaro, ma di quello delle nostre aziende e dei nostri imprenditori, ed è semplicemente oltre il limite. Le persone che hanno agito in questo modo non capiscono che ci saranno conseguenze negative per loro, sembra che ancora non lo capiscano.

Prendiamo, ad esempio, le restrizioni sulle transazioni in dollari. A cosa porterà? A una situazione in cui tutti i Paesi stanno valutando la possibilità di creare strumenti propri, nuovi sistemi di regolamento e stanno valutando se tenere i propri risparmi negli Stati Uniti o in Europa, e se sia conveniente investire nei titoli di questi Paesi.

Posso assicurarvi che so che questo sta accadendo. Naturalmente, tutti ci penseranno. Le nostre riserve di oro e di forex sono state congelate, ma abbiamo già guadagnato il doppio. Non si tratta di questi 300 miliardi, ma della fiducia infranta in coloro che lo stanno facendo. Stanno minando la fiducia nei loro confronti. Lo stesso sta accadendo nel commercio e nelle restrizioni al commercio.

Quindi, Dio solo sa, è colpa loro se inevitabilmente andranno incontro a conseguenze negative, sta già accadendo. Non è quello che volevamo, ma è un processo oggettivo legato al numero crescente di centri economici in rapido sviluppo.

Ilya Doronov: E coloro che vengono qui, che tornano in Russia…

Vladimir Putin: Ora parlerò di calpestare un rastrello.

Tuttavia, possiamo constatare che le catene logistiche e le consegne di merci sono state praticamente ripristinate e tutto si è normalizzato. Vediamo che questo è legato anche al tasso di cambio della valuta nazionale, compreso il ritorno limitato delle entrate in valuta estera, per usare un eufemismo, e il desiderio di depositare di nuovo qualcosa all’estero… Lo vediamo e capiamo tutto. Dobbiamo raggiungere un accordo con la comunità imprenditoriale, che dovrebbe capire e procedere partendo dalla premessa che è più affidabile operare qui. Di conseguenza, non dovrebbero calpestare lo stesso rastrello. Sono certo che coloro ai quali mi rivolgo mi capiscono.

Ilya Doronov: In realtà, la mia prossima domanda riguarda i rapporti tra lo Stato e la comunità imprenditoriale, compresi coloro che stanno tornando qui, che stanno arrivando sull’Isola Russa, ecc.

Ho intervistato Andrei Belousov prima del Forum economico internazionale di San Pietroburgo e gli ho chiesto come dovrebbero interagire lo Stato e la comunità imprenditoriale. Mi ha risposto che dovrebbero collaborare come partner, con lo Stato come senior partner e la comunità imprenditoriale come junior partner.

Vladimir Putin: Ha detto questo?

Ilya Doronov: Sì, ha detto questo.

Vladimir Putin: Parla come un ex funzionario del Comitato di pianificazione statale. Dovremmo essere partner alla pari.

Ilya Doronov: Dovrò chiedere la sua opinione dopo la sua dichiarazione.

Vladimir Putin: Sa che scherzo sempre in questo modo. È una battuta.

Ilya Doronov: Tuttavia, lei ha già detto che dovrebbero essere partner paritari. In linea di principio, ha l’impressione che la presenza dello Stato nell’economia e negli affari stia diventando eccessiva?

Vladimir Putin: Lo sentiamo dire e ne parlano in continuazione. Sì, abbiamo grandi aziende, soprattutto nel settore energetico; tuttavia, le aziende private si stanno sviluppando rapidamente e noi le sosteniamo, anche qui in Estremo Oriente.

Per tutti gli investimenti in Estremo Oriente forniamo investimenti infrastrutturali sostenuti dallo Stato. Negli ultimi tre anni circa, abbiamo investito circa 15 miliardi in infrastrutture di supporto alle imprese, non ricordo la cifra esatta. Inoltre, solo dall’inizio del 2023 abbiamo investito 8,5 miliardi. Per quanto ne so, investiremo altri 33 miliardi nei prossimi tre anni. Questo riguarda anche molti altri settori. Stiamo incentivando il lavoro delle nostre aziende e creando privilegi per loro, soprattutto qui, nella regione dell’Estremo Oriente. Restiamo qui, su questo territorio.

Prima ho citato le aree di sviluppo prioritario. Esse godono di molti benefici relativi al pagamento dei contributi sociali, dell’imposta sugli utili o dell’imposta sulla proprietà. Se prendiamo le isole Curili, esse godono di un numero doppio di benefici rispetto alle aree di sviluppo prioritario. Quindi, la cooperazione tra Stato e imprese porta buoni risultati. Continueremo a farlo.

Sa cos’altro è di fondamentale importanza? Credo che sia importante che negli ultimi dieci anni, o forse anche un paio di decenni, si sia sviluppato un ottimo dialogo tra il Governo e la comunità imprenditoriale. Il Governo non prende quasi mai decisioni economiche senza consultare preventivamente le associazioni imprenditoriali. Ci sforziamo sempre di prendere in considerazione le opinioni dei nostri partner commerciali e dei sindacati.

Ilya Doronov: Lei ha parlato di aree di sviluppo prioritarie e di preferenze fiscali. Tutto ciò suona bene. Ma ho parlato con esperti del settore e mi hanno detto che è necessario fare di più. Ad esempio, è necessario costruire infrastrutture – gas, elettricità e tutto il resto – in queste aree. Questo non è sufficiente.

Vladimir Putin: Ecco perché l’ho detto.

A proposito, mi è venuta in mente la cifra di 25 miliardi. È quanto abbiamo speso per le infrastrutture negli ultimi anni. Nei primi sei mesi di quest’anno abbiamo speso 8,5 miliardi e altri 33 miliardi sono stati accantonati. È così che stiamo facendo e continueremo a farlo. Ci rendiamo conto che investire nelle infrastrutture dovrebbe essere il nostro modo di sostenere le imprese. Quindi, lo stiamo facendo e continueremo a farlo in futuro.

Ilya Doronov: Ho una domanda sul tasso di cambio del rublo.

Un anno fa, quando eravamo su questo palco, il dollaro era a circa 60 rubli. Quest’estate è salito a 100, o anche di più. Ho controllato prima della sessione e ora è a 93 rubli per il dollaro. La volatilità è estremamente elevata e, alla fine del 2022, la valuta russa era la più volatile del mondo.

Come si possono fare proiezioni in una situazione in cui non si ha idea di cosa accadrà alla valuta nazionale?

Vladimir Putin: Sì, questa è ovviamente una domanda che richiede una ricerca approfondita come quella della Banca Centrale o del Governo, cioè delle autorità finanziarie. Nel complesso, non credo che ci siano problemi o difficoltà che non possano essere superati.

Questo è legato a molti fattori, tra cui il fatto che i nostri principali esportatori debbano o meno rimpatriare parte dei loro proventi in valuta estera. È legato al fatto che durante la prima fase, che lei ha citato, quando il dollaro era a 60 rubli, le catene logistiche per le importazioni non erano ancora state create. Ora le importazioni arrivano sul nostro mercato in volumi maggiori, il che significa che la valuta estera è più richiesta. Ci sono altri fattori, ma sono gestibili. Li vediamo e li capiamo, e li vede anche la Banca Centrale.

Naturalmente, la Banca Centrale ha dovuto aumentare il tasso di interesse di riferimento al 12%. Tra l’altro, ha dovuto farlo perché l’inflazione era aumentata un po’. Dove si trova ora? È al 5,4% o al 5,2%? Non ricordo il numero esatto, ma si aggira intorno al 5,2% in termini annuali. Quindi, la Banca Centrale non poteva non rispondere a questi sviluppi. Credo che la sua decisione sia stata corretta e anche tempestiva. Questo significherà che ci saranno meno opportunità di contrarre prestiti, limiterà l’economia e ne inibirà lo sviluppo in una certa misura. Tuttavia, questo fattore ha un peso importante nel mitigare i rischi inflazionistici. Tutto deve arrivare al momento giusto.

Ciò significa che manteniamo il controllo della situazione, e non entrerò troppo nei dettagli perché si tratta di un argomento piuttosto delicato. Ma nel complesso abbiamo tutte le carte in regola per mitigare questi rischi.

Ilya Doronov: Tuttavia, a quanto vedo, lo Stato intende svolgere il suo ruolo di regolamentazione. Ci saranno delle restrizioni? Faccio questa domanda perché l’ultima volta che il rublo ha iniziato a perdere valore, l’assistente del Presidente Maxim Oreshkin ha dovuto scrivere un articolo e il rublo è salito il giorno stesso. Anche il presidente della VTB Bank, Andrei Kostin, ha dichiarato ieri in un’intervista alla RBC che ci sono scappatoie per portare il denaro fuori dal Paese.

Vladimir Putin: Cosa stanno facendo? Stanno solo cercando di spaventare le persone proponendo loro di cooperare in termini pacifici e di intraprendere azioni specifiche, altrimenti, dicono, imporremo restrizioni e vi obbligheremo a rimpatriare le vostre entrate, ecc. Tuttavia, nessuno farà mosse improvvise in questo senso.

Ilya Doronov: Parliamo della Banca Centrale e del tasso di interesse del 12%. Venerdì ci sarà un’altra riunione e può darsi che il tasso salga ancora di più, rendendo i prestiti ancora più costosi. Come si fa a espandere la produzione e a contrarre nuovi prestiti in questo contesto? I finanziamenti stanno diventando sempre più costosi.

Vladimir Putin: Ho già detto che il tasso di interesse di riferimento influisce sui costi di finanziamento e sui tassi applicati dalle banche private, che a loro volta limitano i prestiti e soffocano la crescita economica. Nel complesso, vediamo che i prestiti sono stati abbastanza attivi. Questo è il mio primo punto.

In secondo luogo, vediamo che i prestiti al consumo sono cresciuti ancora più rapidamente. Anche in questo settore abbiamo gli strumenti per mitigare questi rischi. Non mi dilungherò troppo su questo punto, parlate pure con [il governatore della Banca di Russia] Nabiullina, ve lo dirà lei.

Certo, dobbiamo influenzare le cose, ma se non riusciamo a trovare una situazione che porti a una crescita incontrollabile dell’inflazione, alla fine sarà ancora peggio per l’economia, perché è quasi impossibile fare piani aziendali in un contesto di inflazione elevata. Non ci sono decisioni buone o ottime in questo caso; ci sono solo decisioni difficili, che devono essere adottate tempestivamente. Finora, sia la Banca Centrale che il Governo lo hanno fatto, e in modo piuttosto efficace.

Ilya Doronov: Vorrei anche fare una domanda sui prestiti ipotecari…

Vladimir Putin: Mi scusi se la interrompo, volevo solo aggiungere qualche parola.

A fronte dell’aumento dei costi dei mutui, abbiamo creato un’intera serie di strumenti per le grandi industrie e i più grandi progetti che servono gli interessi dell’intera economia nazionale. Abbiamo una serie di misure di sostegno per l’ottenimento di prestiti, con alcune condizioni preferenziali e una serie di strumenti per sostenere le aziende che effettuano investimenti significativi, e questo viene attuato insieme al governo. Ho già parlato di piattaforme industriali e così via. Le imprese ne sono a conoscenza e continueranno a farlo.

Il fatto è che se i costi dei prestiti aumentano, il Governo dovrà probabilmente considerare di aumentare i fondi per questi strumenti. Questo significherebbe spese aggiuntive, e c’è l’altra faccia della medaglia, ovvero la sostenibilità e l’equilibrio del bilancio, e così via. Ma tutto questo può essere risolto.

Ilya Doronov: Per quanto riguarda i mutui, ho iniziato a fare la mia domanda e lei ha menzionato il programma di espansione dei mutui agevolati qui in Estremo Oriente. I dirigenti della Banca Centrale probabilmente hanno fatto una smorfia, perché hanno ripetutamente espresso la loro opinione che i mutui agevolati sono gonfiati in Russia, e vedono dei rischi. Lei vede dei rischi qui?

Vladimir Putin: Sì, ci sono alcuni rischi, ma li vediamo e li affrontiamo.

Per quanto riguarda l’Estremo Oriente, abbiamo solo 12,5 milioni di persone che vivono al di là degli Urali; questo non è un peso per l’intero Paese e la sua economia.

Ilya Doronov: E l’ultima domanda di questa sezione prima di dare la parola al Vicepresidente. È una domanda che riguarda le imprese: le tasse saranno aumentate o non è necessario?

Vladimir Putin: Per ora il governo non ne vede la necessità.

Ilya Doronov: Questa risposta è importante per l’intera comunità imprenditoriale.

(Rivolgendosi alla signora Pany Yathotou) Ora le darò la parola, ma prima vorrei citare alcuni fatti interessanti sul Laos per il pubblico. Credo sia importante.

Innanzitutto, le relazioni diplomatiche tra l’Unione Sovietica e il Laos sono state stabilite il 7 ottobre 1960. Abbiamo trovato un altro motivo per celebrare questo giorno, non è vero?

Vladimir Putin: Festeggeremo insieme.

Ilya Doronov: D’accordo.

Nel 2011, la Russia e il Laos hanno stabilito un partenariato strategico nella regione Asia-Pacifico.

Il secondo dato che ho scoperto è che il Laos è il Paese più bombardato al mondo. Gli Stati Uniti hanno sganciato oltre 200 milioni di bombe sul Laos durante la guerra del Vietnam, e 350.000 laotiani sono stati uccisi in questi bombardamenti.

Terzo. Il Partito Rivoluzionario del Popolo del Laos al potere rimane impegnato nel socialismo.

Quarto. Il Laos ha un movimento di pionieri. Francamente, non ne sapevo nulla. L’ho scoperto durante la preparazione di questa sessione.

Quinto. I laotiani amano ancora le baguette e il pane bianco. È un’ottima eredità della Francia.

Il caffè laotiano è considerato uno dei migliori al mondo, se ho capito bene.

Infine, per noi russi è importante poter soggiornare in Laos per 30 giorni senza visto, quindi benvenuti in Laos e benvenuti sul pulpito.

Prego, signora Vicepresidente, a lei la parola.

Vicepresidente del Laos Pany Yathotou (ritradotto): Grazie mille.

Sono lieto di partecipare all’8° Forum economico orientale. È un privilegio per me.

Il Laos è un membro dell’ASEAN. È un Paese con una popolazione di soli 7 milioni di abitanti.

Il nostro Paese è ricco di risorse naturali, risorse idriche, risorse energetiche, minerali, legname. Abbiamo anche molte destinazioni turistiche attraenti.

Per quanto riguarda il significato della Russia per il Laos e le relazioni con la Russia per noi. Sin dall’era sovietica, abbiamo mantenuto relazioni tradizionali forti che hanno poi raggiunto il livello di un partenariato strategico in materia di sicurezza nella regione Asia-Pacifico.

Stiamo cooperando in molti settori, tra cui l’economia, il turismo, lo sviluppo del capitale umano, inoltre entrambi i Paesi condividono informazioni e competenze acquisite in molte altre aree di interesse reciproco.

La cooperazione tra Laos e Russia ci permette di sostenerci e aiutarci a vicenda. Costruiamo la nostra cooperazione sulla base dell’interesse reciproco.

Allo stesso tempo, il Laos è un Paese in via di sviluppo e il nostro governo attribuisce grande importanza allo sviluppo socioeconomico. A tal fine, stiamo attirando investimenti da molti altri Paesi, tra cui la Russia. I nostri Paesi stanno investendo in settori importanti come l’energia, le risorse idriche e le risorse di idrocarburi.

La Russia ci ha aiutato a smantellare il nostro territorio. L’aiuto è stato fornito senza alcun vincolo; abbiamo ancora a che fare con mine e ordigni inesplosi che incidono sulla vita della nostra gente.

Con il sostegno della Russia, siamo riusciti a liberare dalle mine più di 20.000 ettari del nostro territorio. Dopo lo sminamento, abbiamo restituito questi 20.000 ettari alla nostra gente. In questo modo, bonificando il nostro territorio dagli ordigni inesplosi, stiamo affrontando il compito più importante per noi, ovvero eliminare il pericolo rappresentato dagli ordigni inesplosi.

Ilya Doronov: La parola laotiana per “grazie” è “khob chai”.

Signor Presidente, questa domanda è per lei. (Rivolgendosi a Pany Yathotou) Anche io le farò una domanda più tardi.

Negli anni ’90 abbiamo smesso di essere amici e di sostenere molti altri Paesi, ad esempio Cuba e il Laos. Pensa che sarebbe difficile ricostruire ora queste relazioni e migliorarle al livello che abbiamo mantenuto durante l’era sovietica?

Vladimir Putin: Negli anni ’90 abbiamo guadagnato molte cose, tra cui soprattutto l’emancipazione e la libertà, ma purtroppo abbiamo anche perso molto, sprecando e addirittura dilapidando ciò che avevamo ottenuto nei decenni precedenti durante l’era sovietica.

Ma, come sapete, la memoria storica delle nazioni con cui siamo stati amici, abbiamo collaborato e aiutato nel loro sviluppo è stata conservata. Non sarà difficile ripristinare le nostre relazioni sulla base dei nuovi principi, perché la gente di questi Paesi lo vuole. Mi riferisco al Laos, dove vediamo molti amici, alla regione Asia-Pacifico nel suo complesso e all’Africa.

Di recente si è svolto il vertice Russia-Africa. Francamente, sono rimasto ancora una volta sorpreso dall’apertura degli africani e dal loro desiderio di lavorare con noi. Ho riflettuto anche su questo. Vedete, il punto non è solo che abbiamo fatto qualcosa per l’Africa, aiutando il loro popolo a riconquistare la libertà e l’indipendenza e a lottare contro il colonialismo, sebbene anche questo sia importante. Si ricordano di questo, ma anche di altre cose.

Qual è, a mio avviso, il punto principale? Il punto principale è che non abbiamo mai agito da colonizzatori in nessun luogo. La nostra cooperazione si è sempre basata sull’uguaglianza o sul desiderio di fornire aiuto e sostegno. I Paesi che cercano di competere con noi, anche adesso, hanno avuto una politica completamente diversa. Quando si guarda a ciò che è accaduto in passato durante la cooperazione con la Russia, o l’Unione Sovietica come si chiamava allora, e con altri Paesi, la bilancia pende a favore della Russia, cosa che oggi dobbiamo certamente tenere in considerazione e ricordare.

Se guardiamo all’Africa e alla nostra cooperazione, vediamo che l’abbiamo aiutata. Cosa hanno fatto gli ex colonizzatori? Nel 1957 – di recente mi è stata mostrata una fotografia – hanno portato persone dall’Africa in gabbia nei Paesi europei, ad esempio in Belgio. È uno spettacolo orribile, bambini messi in mostra in gabbie.

Ilya Doronov: Sì, c’era una mostra speciale, con un intero villaggio esposto.

Vladimir Putin: Sì, portavano le persone in gabbia e le esponevano, intere famiglie e bambini in gabbie separate. Come si può dimenticare questo? Nessuno in Africa lo dimenticherà mai.

E ora stanno cercando di impartire ordini e di portare avanti la loro politica neocoloniale. Hanno indebitato tutti i Paesi africani per migliaia di miliardi di dollari. In altre parole, hanno creato un sistema di credito finanziario per l’Africa in base al quale i Paesi africani non potranno mai ripagare i loro prestiti. Non si tratta affatto di un sistema di credito, ma di una forma di contributo, se capite cosa intendo.

Abbiamo usato e usiamo tuttora un approccio completamente diverso, che ci dà alcuni vantaggi quando lavoriamo con i nostri partner, compresi quelli con cui avevamo relazioni speciali durante l’era sovietica e quelli con cui stiamo rilanciando le relazioni ora. Anche i nostri amici ne sono consapevoli.

Pertanto, non prevedo grandi difficoltà, anche per quanto riguarda la riconquista delle nostre precedenti posizioni.

Ilya Doronov: Visto che abbiamo comunque toccato questo argomento, posso farle una domanda: Cosa farete con coloro che non la pensano così? Per esempio, che dire degli Stati baltici, della Repubblica Ceca o dell’Ungheria, che dicono che la Russia ha agito come una potenza colonizzatrice quando ha ordinato ai suoi carri armati di invadere Praga o Budapest?

Vladimir Putin: Abbiamo riconosciuto da tempo che questa parte della politica dell’Unione Sovietica è stata un errore e non ha fatto altro che aumentare le tensioni. La politica estera di un Paese non deve contraddire direttamente gli interessi di altre nazioni. Questo è quanto.

Tuttavia, se parliamo di calpestare i rastrelli, questo è il caso oggi delle principali potenze occidentali, in primis gli Stati Uniti. Hanno esercitato pressioni sui loro alleati e sui loro cosiddetti partner – dopo tutto, non hanno amici, ma solo interessi. Si tratta di un’estensione di una nota formula britannica.

Ilya Doronov: Grazie.

Signora Vicepresidente, ho una domanda per lei. Che cosa ci guadagna la Repubblica Democratica del Laos dalla collaborazione con la Russia? Ad esempio, perché avete deciso di rilanciare i corsi di lingua russa nel vostro Paese? Il fatto che il Presidente del Laos parli russo non è stato il motivo, vero?

Pany Yathotou (ritradotto): Il Presidente Putin ha già detto che la Repubblica Democratica Popolare del Laos ha effettivamente mantenuto relazioni molto buone e affidabili con l’URSS e la Federazione Russa, e io concordo con questa valutazione. Intendiamo basarci sui nostri successi passati e sulla nostra fruttuosa cooperazione per andare avanti.

Naturalmente, questo include gli aiuti umanitari che riceviamo. Gli scambi commerciali tra i nostri Paesi sono aumentati e anche gli investimenti sono cresciuti in una certa misura. Ci aspettiamo anche che un maggior numero di turisti russi visiti il nostro Paese.

Naturalmente, apprezziamo molto tutti i vantaggi che queste relazioni ci hanno offerto. È anche ovvio che la cooperazione che abbiamo avuto nell’era sovietica per lo sviluppo delle capacità e delle risorse umane è stata uno dei nostri maggiori successi, che merita una menzione speciale. Lei ha giustamente notato che molti dei leader che hanno guidato la Repubblica Democratica Popolare del Laos hanno studiato in un modo o nell’altro in Unione Sovietica.

Forse sapete anche che abbiamo costruito una ferrovia che collega il Laos alla Cina. Si tratta di un progetto strategico e volevamo usarlo per espandere questa rotta fino all’Australia. Siamo convinti che l’estensione di questa ferrovia al territorio della Federazione Russa avrebbe un impatto positivo sui flussi commerciali e di investimento tra i nostri due Paesi.

Ciò aumenterebbe anche il flusso di passeggeri dalla RDP del Laos verso la Cina attraverso il territorio russo. Vorremmo discutere la questione in modo più approfondito per poter sfruttare questo potenziale nelle nostre relazioni commerciali e di investimento. Spero che i nostri Paesi esplorino questa opportunità in modo da ottenere risultati tangibili.

Vladimir Putin: Lei ha appena parlato dei Giovani Pionieri che operano in Laos come organizzazione. La signora Vicepresidente ha recentemente visitato il nostro campo per bambini di Okean e ha notato con piacere che i bambini del Laos trascorrono le loro vacanze lì. Le condizioni a cui sono sottoposti sono ottime e hanno stretto grandi amicizie con i loro coetanei russi.

Ma posso anche aggiungere che i bambini laotiani non solo frequentano il campo Okean, ma studiano anche nelle scuole Suvorov della Federazione Russa.

Ilya Doronov: Cadetti laotiani delle scuole Suvorov.

Vladimir Putin: Sì. Lo spiegherò ai nostri ospiti stranieri: sono scuole militari per bambini dove studiano e si sentono molto a loro agio.

Ilya Doronov: Grazie.

Visto che abbiamo parlato di…

Vladimir Putin: Quindi, stiamo facendo tutto questo a un ritmo facile e continueremo a ripristinare le relazioni con i nostri amici.

Ilya Doronov: È meraviglioso.

Visto che abbiamo parlato di logistica: Belt and Road, l’iniziativa cinese, compie quest’anno il suo decimo anniversario. Abbiamo il progetto del Grande partenariato eurasiatico. Ma dopo il Vertice del G20 è stato annunciato che – specificherò i Paesi – gli Stati Uniti, l’Unione Europea, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, Israele, la Giordania e l’India hanno concluso i lavori per un accordo storico, come è stato detto, su un nuovo corridoio economico India-Medio Oriente-Europa. La Russia non è inclusa, così come la Cina. Pensa che questa iniziativa influenzerà la realizzazione dei nostri progetti e di quelli cinesi e cosa significa per noi in generale?

Vladimir Putin: Penso che sia un bene per noi; ci aiuterà a sviluppare la logistica.

Innanzitutto, questo progetto è stato discusso a lungo, forse da diversi anni. A dire il vero, gli americani vi hanno aderito all’ultimo momento. Ma non vedo perché dovrebbero volerne far parte, se non forse per qualche interesse commerciale.

Nel frattempo, il traffico aggiuntivo di merci lungo questo corridoio sarà di fatto un’aggiunta al nostro progetto Nord-Sud. Non vediamo nulla che possa danneggiarci in alcun modo.

Il corridoio Nord-Sud va verso il Golfo Persico e poi verso l’India. Se c’è un’altra rotta, credo che includa Israele, potremo raggiungere il Mediterraneo attraverso il Mar Nero e utilizzare questo corridoio.

Non lo so, i colleghi che hanno presentato questo progetto devono valutarlo attentamente. Per ora si tratta solo di un memorandum di intenti.

Ilya Doronov: Sì.

Vladimir Putin: Ma dovremmo vedere l’economia di questo progetto, perché il carico dovrebbe raggiungere il mare su rotaia, per poi essere caricato su navi marittime e quindi viaggiare verso gli Emirati Arabi o l’Arabia Saudita, per poi essere nuovamente caricato su rotaia. Occorre calcolare questo doppio trasbordo e il suo impatto economico.

Il capo della nostra azienda leader, le Ferrovie russe, Oleg Belozyorov, sta annuendo, quindi sembra che io abbia colto nel segno e che si tratti davvero di una questione economica, che dovrebbe essere accuratamente calcolata.

In termini di tempo, se andiamo dal Nord Europa, da San Pietroburgo a Mumbai, impiegheremo lo stesso tempo che con la rotta Nord-Sud. Ribadisco che bisogna considerare l’aspetto economico. Penso che la nostra rotta possa essere più efficiente.

Inoltre, l’interesse per l’utilizzo del Canale di Suez non andrà da nessuna parte. Non credo che questo avrebbe un impatto negativo sul Canale di Suez. Non credo che ciò accadrà.

E, infine, l’ultima cosa. I volumi delle spedizioni di merci crescono ogni anno e penso che più rotte di questo tipo ci sono, meglio è.

Ilya Doronov: Grazie.

Le prossime domande ci riporteranno nel nostro Paese. Siamo a Vladivostok, dove molte persone hanno la guida a destra. Spiegherò l’essenza della mia domanda, e molto probabilmente il pubblico si dividerà in due parti uguali o disuguali. Una penserà a cosa fare, l’altra sorriderà perché questo non la riguarda.

Prima di tutto, lei è fortunato ad avere un Aurus, una Niva e una Volga. Molti altri funzionari russi non sono così fortunati, se si considera quanto lei ha detto a proposito della guida di auto di fabbricazione russa.

Il primo tentativo in tal senso è stato fatto negli anni ’90, ma è fallito. Chi può garantire che questa volta ci riusciremo? E quali auto dovrebbero guidare?

Vladimir Putin: Sa, allora non avevamo auto di produzione nazionale, ma ora sì. È vero che hanno un aspetto più modesto rispetto alle Mercedes o alle Audi, che abbiamo acquistato in grandi quantità negli anni ’90, ma questo non è un problema. Penso che dovremmo emulare molti dei nostri partner, ad esempio l’India. Loro si concentrano sulla produzione e sull’utilizzo di veicoli di fabbricazione indiana. Penso che il Primo Ministro Modi stia facendo la cosa giusta nel promuovere il programma Make in India. Ha ragione.

Abbiamo automobili [di produzione russa] e dobbiamo usarle; questo va assolutamente bene. Questo non comporterà alcuna violazione dei nostri obblighi nell’ambito dell’OMC, assolutamente no. Riguarda gli acquisti di Stato. Dobbiamo creare una certa catena per quanto riguarda le auto che le diverse classi di funzionari possono guidare, in modo che utilizzino auto di produzione nazionale.

Probabilmente conoscete le proposte di continuare ad acquistare queste auto. Sarebbe facile da fare, perché la logistica è snella.

Ilya Doronov: Intende l’acquisto di auto straniere?

Vladimir Putin: Sì, è così. Ma ho anche detto che ho dei dubbi sul fatto di continuare questa pratica, per usare un eufemismo.

Il Governo e la Direzione della gestione delle proprietà presidenziali hanno coordinato un sistema che indica la classe di auto che i funzionari possono guidare. Che usino auto di fabbricazione russa.

Ilya Doronov: Quando vedremo il primo funzionario farlo?

Vladimir Putin: Inizieranno a farlo ora. Le acquisizioni inizieranno a breve.

Si tratta di questioni pratiche. Le acquisizioni inizieranno a breve. Franky, non so quando esattamente, ma inizieranno presto.

Ilya Doronov: Vorrei fare una domanda sulle auto cinesi.

Quest’anno le importazioni di auto cinesi sono aumentate del 543%. Secondo le previsioni, quest’anno verranno importati quasi mezzo milione di auto cinesi. C’è il rischio che dominino il nostro mercato e che diventiamo dipendenti dall’industria automobilistica cinese?

Vladimir Putin: No, stiamo lavorando a questo progetto insieme.

Prendiamo le auto della Grande Muraglia, che hanno iniziato a essere assemblate vicino a Mosca.

Ilya Doronov: La Haval viene assemblata a Tula.

Vladimir Putin: Sì, a Tula. Il governatore me ne ha presentata una.

È una buona auto. Stiamo sviluppando la nostra industria automobilistica. Per fortuna, lo stiamo facendo sempre più su basi proprie e stiamo aumentando la localizzazione. Presto verranno prodotte anche auto di Moskvich. Il sindaco di Mosca mi ha detto di recente come sta procedendo il progetto. E le nostre auto Lada saranno migliorate. Dobbiamo farlo sulla nostra base.

Certo, quando assemblavamo le auto quasi al 100% con componenti stranieri, com’era la nostra produzione? Aumenteremo i livelli di localizzazione. Certo, ci vuole tempo, ma è la cosa giusta da fare dal punto di vista dello sviluppo dell’industria automobilistica del nostro Paese sulle nostre basi.

Non abbiamo intenzione di chiudere completamente, né di dedicarci al fai-da-te.

Abbiamo prodotto Aurus? Sì, l’abbiamo fatto.

Ilya Doronov: Ma quanto costa?

Vladimir Putin: Sì. Il prezzo è alto perché non ne producono abbastanza. Quando entrerà in produzione di serie, il prezzo si dimezzerà. Certo, ci vuole tempo, ma sarà il nostro stesso sviluppo. Si tratta di acquisire e ripristinare competenze, di tasse e di posti di lavoro. Non c’è bisogno che ve lo dica. Tutti sanno cosa c’è dietro. Ma allo stesso tempo, collaboreremo con chi vuole lavorare con noi.

Ilya Doronov: Chiederò…

Vladimir Putin: I funzionari devono certamente guidare auto nazionali.

Ilya Doronov: Anche i prezzi del carburante sono legati alle auto. Lei se ne è occupato personalmente, ma il diesel ha già superato i 61 rubli e anche la benzina sta diventando più cara. Vedo che molte persone hanno una domanda negli occhi: cosa sta succedendo? E lo vedo in ogni tipo di conversazione a tavola, dove si discute del prezzo del carburante.

Perché sta succedendo? Riusciremo a risolvere il problema?

Vladimir Putin: Sì, certo, il governo ci sta lavorando. Credo che i nostri produttori di prodotti petroliferi abbiano ragione. Il Governo avrebbe dovuto reagire tempestivamente. Sono state prese decisioni appropriate, ma non molto tempo fa, per mantenere la parità tra i prezzi del mercato esterno e quelli del mercato interno. Poi, questi meccanismi sono stati cancellati. Il Governo non ha reagito tempestivamente ai cambiamenti del mercato globale dovuti all’aumento del prezzo del petrolio.

Tuttavia, questa è una posizione regolamentata, e proprio ieri ho parlato con il signor Sechin, che ha una sua posizione. Ma in generale, i produttori e il Governo si sono accordati tra loro sulle azioni da intraprendere nel prossimo futuro.

Per noi è molto importante fornire ai produttori agricoli il gasolio.

Ilya Doronov: Sì, il Ministero dell’Agricoltura ha già lanciato l’allarme.

Vladimir Putin: Sì. C’era una carenza fisica di gasolio. Ma ora è fisicamente disponibile, e il problema è la regolazione dei prezzi.

Prima c’erano diversi meccanismi. Nel 2009, quando ero a capo del Governo, è stata presa una decisione – un intero faldone – sulla nostra interazione con le compagnie di carburante e di energia, e tutto è stato definito nei dettagli.

Tra l’altro, questa risoluzione è ancora in vigore, ma non viene applicata. Vengono utilizzati altri strumenti, il cosiddetto ammortizzatore. Vi ho già detto che si tratta di trovare un equilibrio tra prezzi esterni e interni. Ma è stato dimezzato e ha perso la sua efficacia precedente.

Gli strumenti sono noti e gli accordi sono in vigore. Spero che questo faccia la differenza nella situazione attuale.

Ilya Doronov: Ho una domanda sulla Camera dei Conti: è senza capo dal novembre dello scorso anno. Qual è il motivo? Alexei Kudrin era così bravo che non riescono a trovare un sostituto? Se è così, perché lo hanno lasciato andare a Yandex?

Vladimir Putin: Prima di tutto, la Russia non ha un sistema di schiavi: se voleva andare a lavorare nel mondo degli affari, non potevamo costringerlo a restare. Anche se era davvero il più adatto per quel lavoro; era stato anche un buon ministro delle Finanze.

La Camera dei Conti sta lavorando ed è abbastanza efficace. Ha effettuato circa 1.000 audit. Non sono sicuro della cifra, ma credo che abbiano rivelato violazioni per 1.600 miliardi di rubli.

La Camera dei Conti ha un presidente ad interim, ma questo non influisce sulla qualità del suo lavoro. Credo che la questione del personale sarà risolta al momento opportuno, quando il Parlamento e il Governo selezioneranno i candidati adatti. Non è un problema che ostacola il lavoro dell’agenzia.

Ilya Doronov: Ho citato Yandex per un motivo. Recentemente, Arkady Volozh ha creato il suo sito web ufficiale, dove dice – cito testualmente – di essere “un imprenditore tecnologico israeliano nato in Kazakistan” che “ha co-fondato Yandex N.V., quotata al NASDAQ, una delle più grandi società internet in Europa”. Vi ricordo che Volozh è nato nel 1964, quando il Kazakistan faceva parte dell’Unione Sovietica, ma nella sua pagina biografica non c’è alcun riferimento all’Unione Sovietica.

Ci sono altri uomini d’affari che esprimono pubblicamente la loro opinione, compresa quella sull’operazione militare speciale.

Qual è, secondo lei, il limite da non superare? Una linea che anche coloro che hanno contribuito al valore della nazione come Yandex non dovrebbero oltrepassare?

Vladimir Putin: Non sta a me tracciare questa linea. Dovrebbe essere nella mente e nella coscienza di chi fa certe affermazioni.

Vorrei sottolineare che nella maggior parte dei casi le persone fanno queste dichiarazioni perché vogliono preservare i loro affari, preservare i loro beni, soprattutto se si sono trasferiti e hanno deciso di legare la loro vita a un altro Paese.

Lui vive in Israele e posso immaginare che, per vivere una vita buona e prospera lì e avere buoni rapporti con le autorità, debba fare certe dichiarazioni. È rimasto in silenzio per molto tempo prima di decidere di fare una dichiarazione. Dio gli conceda la salute e che possa vivere bene lì. Francamente, non siamo particolarmente infastiditi da ciò che ha detto.

Ma in generale, se una persona è cresciuta su questo suolo, ha ricevuto un’istruzione e ha avuto successo, dovrebbe avere un certo rispetto per il Paese che gli ha dato tutto. Non mi riferisco a Volozh – è una persona di talento che ha creato un’ottima azienda e ha selezionato un team – ma in generale.

Sì, si può immaginare che una persona non sia d’accordo con l’operato delle autorità attuali. Ha il diritto di esprimere le sue opinioni? Certamente. Ma qui ci sono alcuni punti fermi.

Possiamo schierarci con i nostri avversari geopolitici e stare al loro fianco, danneggiando così gli interessi del nostro Paese, oppure possiamo agire diversamente. Le sfumature sono molte. Le persone decidono da sole chi sono. Hanno un senso di identità nazionale? O preferisce imitare e sentirsi un’altra persona, non un russo nato nell’Unione Sovietica? Una persona fa le sue scelte.

Siate certi che i cittadini comuni della Russia, il nostro popolo, capiscono tutto perfettamente e non c’è modo di ingannare nessuno. Se qualcuno ha scelto un nuovo destino, che provi a farsi conoscere lì, a mettersi alla prova e a ottenere risultati. Perché chiunque sia, qualsiasi risultato abbia ottenuto, l’ha ottenuto qui e non è garantito che otterrà lo stesso risultato in un altro luogo. Questa è la loro scelta.

Ilya Doronov: Un’altra domanda sul tema dei nuovi destini: a luglio è stato pubblicato sulla rivista russa Voprosy Ekonomiki un articolo di un esperto indipendente di Glasgow. Glasgow è la Scozia.

Vladimir Putin: Ne sono consapevole.

Ilya Doronov: Lo dico per il pubblico. Non ho dubbi che lei ne sia a conoscenza.

L’articolo si intitola “I mancati pagamenti nell’economia russa degli anni Novanta: Un’istituzione imprevista”. Sapete chi l’ha scritto? Anatoly Chubais. In questo articolo viene presentato come un ricercatore britannico indipendente.

Ho una domanda: lei si fida dei ricercatori britannici?

Vladimir Putin: Sa, mi fido dei ricercatori indipendentemente dalla loro nazionalità. Se sono persone serie, ricercatori seri, non solo mi fido di loro, ma ammiro il loro lavoro, la loro vita e i risultati del loro lavoro, perché un vero scienziato è immerso nell’argomento su cui sta lavorando. Queste persone mettono tutta la loro vita nella causa a cui si dedicano, anche a costo della loro stessa vita. Gli esempi nel nostro Paese e all’estero abbondano.

Se si divertono, non sono certo scienziati, ma piuttosto quasi-scienziati che intrattengono il pubblico. Non è nemmeno una cosa negativa, lasciateli divertire. Anche se una scelta migliore sarebbe quella di andare al circo e assistere a uno spettacolo.

Il fatto che il signor Chubais si stia nascondendo per qualche motivo… Mi è stata mostrata una foto online in cui non è più Anatoly Borisovich Chubais, ma un certo Moshe Israelievich che vive da qualche parte… Non sono sicuro del motivo per cui lo sta facendo e del motivo per cui è scappato.

Vedete, potrebbe anche avere a che fare con il fatto che ci sono processi complessi in corso nell’industria delle nanotecnologie che lui ha diretto per molti anni. C’è un grosso buco lì, un enorme buco finanziario, davvero. Non vi dirò nemmeno le cifre, grandi cifre. Per fortuna, non ci sono casi penali o procedimenti giudiziari in corso. Forse è collegato a questo, e teme che alla fine si arrivi a un caso penale e per questo si è dato alla clandestinità in Israele. Francamente, non ho idea del perché l’abbia fatto.

Ilya Doronov: L’opinione di un uomo che ha lavorato a Dresda, giusto?

Vladimir Putin: Beh, è un’assurdità. Scrive anche… Non è uno sciocco. Non ho letto questo articolo, forse ha scritto qualcosa di utile. Ma, a quanto pare, ha fallito nel suo compito di capo di una grande azienda creata per sviluppare le nanotecnologie. Almeno dal punto di vista economico e finanziario ha fallito.

Ilya Doronov: La domanda riguarda la privatizzazione e, stranamente, la deprivazione. La nuova privatizzazione in Russia è un’idea ampiamente discussa, ma la deprivatizzazione – il processo con cui lo Stato si appropria dei beni – è oggi una preoccupazione molto più grande per le imprese. Se ne discute sia qui, a margine dell’EEF, sia a Mosca. Ci sono diversi precedenti.

Gli imprenditori dicono di non essere sicuri che alcune regole siano cambiate e di essere incerti sul futuro. La questione è critica. Come commenterebbe la questione?

Vladimir Putin: No, non è prevista alcuna privazione, non ci sarà alcuna privazione, posso dirlo con certezza.

L’ufficio del procuratore sta indagando su alcuni casi, su alcune aziende, ma è un’altra cosa: le forze dell’ordine sono autorizzate a indagare su ciò che accade nell’economia in casi specifici, ma questo non ha nulla a che fare con una politica di privatizzazione. Questo non accadrà, e Igor Krasnov [Procuratore generale] conosce il mio approccio. Signor Krasnov?

Ilya Doronov: Sì, è in questa sala e sta annuendo.

Vladimir Putin: Sta facendo cenno di saperlo.

Ilya Doronov: Quindi, le imprese possono essere sicure che nessuno renderà la loro vita un incubo, come lei ha detto più volte?

Vladimir Putin: Nessuno renderà la vita di nessuno un incubo, ma tutti devono rispettare le leggi della Federazione Russa. E se non lo fanno, devono essere pronti ad affrontare le indagini della Procura, del Comitato Investigativo e della Camera dei Conti su ciò che sta accadendo, anche nella sfera economica, ed esortare tutti a rispettare la legge russa. Ma nessuno sarà perseguito semplicemente per aver fatto affari.

Inoltre, vorrei sottolineare ancora una volta, soprattutto nelle condizioni attuali: in generale, le aziende russe si comportano in modo altamente responsabile – cercano di mantenere i loro team, di creare nuove catene logistiche e di essere attive. Certo, in molti casi le imprese hanno bisogno di una nuova classe, una classe giovane di imprenditori – anche questo è vero. Ma nessuno sta dicendo che abbiamo bisogno di una privazione o di una ridistribuzione. No, questo non succederà.

Ilya Doronov: Anche il capo dell’Unione russa degli industriali e degli imprenditori Alexander Shokhin è stato intervistato dalla RBC. L’intervista è stata rilasciata oggi. Cito: “Ci sono domande sui nuovi proprietari dei beni nazionalizzati. Se un bene diventa proprietà dello Stato, dove va a finire?”. Questa è una grande preoccupazione per le imprese.

Vladimir Putin: Se un bene diventa di proprietà dello Stato, viene sottoposto alle procedure previste dalla legge. Se il bene viene affidato alla gestione di agenzie statali, queste lo gestiscono in conformità alla legge, che prevede gare d’appalto pubbliche.

Ilya Doronov: Il prossimo tema è quello delle imprese e dell’iniziativa privata. Oggi, guarda caso, è la data – chiedo anche a voi di applaudire – in cui il 12 settembre 1959 l’Unione Sovietica ha lanciato la stazione interplanetaria Luna-2. È stato il primo veicolo della storia ad aver lanciato la stazione interplanetaria. Fu il primo veicolo della storia a raggiungere la superficie della Luna. Ringraziamo coloro che hanno costruito quella stazione.

E come sappiamo, Luna-25 non è riuscita nell’intento.

Quindi, la domanda è: non è forse giunto il momento di pensare di introdurre l’iniziativa privata anche nell’esplorazione spaziale? Elon Musk sta lanciando con successo veicoli spaziali. Non è turbato dal fatto che abbiamo iniziato a perdere la nostra posizione di leader nell’esplorazione spaziale?

Vladimir Putin: No. L’esplorazione spaziale è un’impresa complessa e responsabile, legata all’alta tecnologia. Qui non abbiamo solo esperienza pratica, ma anche competenze eccellenti.

Per quanto riguarda l’atterraggio in un sito dove nessuno è mai atterrato prima, sì, è un lavoro difficile, ovviamente, e sarà analizzato di conseguenza, e il lavoro continuerà. È un peccato, naturalmente, che l’allunaggio non abbia avuto luogo, ma questo non significa che intendiamo porre fine al programma. Continueremo a lavorarci. Non si sono verificati incidenti di questo tipo in altri Paesi, anche più gravi e con gravi conseguenze? Certo, si tratta sempre di affrontare l’incertezza. Quindi, non c’è nulla di strano in questo caso, anche se vorremmo che la prossima volta tutto riuscisse.

Ma continueremo questo lavoro e ne rafforzeremo alcune aree.

Per quanto riguarda gli affari privati, Elon Musk è certamente una persona eccezionale, va riconosciuto, credo che questo sia riconosciuto in tutto il mondo. È un uomo d’affari energico e di talento e sta realizzando molte cose, anche con il sostegno dello Stato americano. Da parte nostra, anche noi abbiamo intenzione di sviluppare questo settore. Roscosmos ha portato avanti progetti sostenuti dal governo per attirare investitori privati in questo settore di attività, e li stiamo già attirando con successo.

Ilya Doronov: È giunta notizia che lei visiterà il [cosmodromo] di Vostochny. Cosa dobbiamo aspettarci da questa visita?

Vladimir Putin: Ho un programma per la mia visita, e scoprirete tutto quando sarò lì.

Ilya Doronov: Bene, d’accordo.

Il problema della demografia riguarda sia la Russia che l’Estremo Oriente. Lei ha appena detto che 12 milioni di persone vivono al di là degli Urali. Ci sono statistiche ufficiali: secondo Rosstat, nell’ultimo anno la popolazione russa è diminuita di 555.000 persone.

Perché secondo lei, nonostante tutte le misure adottate dallo Stato, non riusciamo a invertire la situazione demografica?

Vladimir Putin: In generale, penso che si stia fallendo ovunque: se c’è una tendenza al ribasso, è molto difficile da superare. Questo è dovuto all’enorme numero di input che sono difficili da comprendere per i non addetti ai lavori.

Ciò è dovuto al tenore di vita e alle molte priorità che hanno le famiglie e le donne in età fertile e riproduttiva. Perché è necessaria un’istruzione, poi è necessario iniziare una carriera, quindi il primo figlio arriva a 30 anni, non c’è tempo per il secondo e così via. Ci sono molti fattori.

Per quanto riguarda la Russia, ne ho già parlato molte volte, gli esperti lo sanno: abbiamo avuto due grandi cali, che ci hanno dato un numero relativamente basso di persone in grado di riprodurre nuova prole: negli anni 1943-1944, quando c’è stato un forte calo del tasso di natalità, e nei primi anni ’90, purtroppo.

I primi anni ’90 sono anche il periodo in cui Anatoly Chubais e il suo team erano attivi. Possiamo ridere, ma hanno fatto molto per compiere passi verso una netta transizione verso l’economia di mercato in Russia. È difficile dire chi avrebbe potuto fare meglio e come. È sempre più facile criticare.

In ogni caso, hanno adottato misure dure, che hanno portato, tra l’altro, al collasso quasi totale del sistema sociale, all’impoverimento di massa e al forte calo del tasso di natalità: come durante la Grande Guerra Patriottica, nel 1943-1944.

Quindi, questi due grandi cali si susseguono a ondate, di volta in volta, e così ci troviamo di nuovo di fronte a questa insidia demografica dopo qualche anno – credo dopo 10 o 15 anni: le persone raggiungono l’età fertile, ma sempre meno per definizione, e ora ci troviamo in questa fase.

Tuttavia, molto è stato fatto per questo. C’è stato un momento in cui il nostro tasso di natalità è aumentato e ha raggiunto numeri positivi.

Ciò a cui dobbiamo prestare attenzione è l’aspettativa di vita, che in Russia sta crescendo. Nel 2021, l’aspettativa di vita media era di 71 anni, mentre ora è di oltre 73, credo addirittura di 73,6 anni. C’è stato un momento, credo a giugno, in cui ha superato di poco i 74 anni, se si calcola anno per anno.

In secondo luogo, è necessario, ovviamente, ridurre il tasso di mortalità e aumentare il tasso di natalità. C’è un altro modo: un afflusso migratorio. Quindi, dobbiamo lavorare su tutti i fattori.

Lei ha accennato al fatto che stiamo attuando tutta una serie di misure a sostegno delle famiglie con bambini, della maternità e dell’infanzia; non mi dilungherò ora, perché si tratta di un’intera grande raccolta. Abbiamo introdotto il capitale di maternità, che stiamo aumentando; abbiamo introdotto il capitale di maternità per il primo figlio, e così via. Dobbiamo intensificare queste misure e lavorare nel settore sanitario per sostenere la maternità e l’infanzia. Faremo tutto questo.

Solo di recente abbiamo registrato una crescita naturale della popolazione. Purtroppo non siamo riusciti a mantenere questa tendenza. Dobbiamo lavorare sodo in tutti i settori, compreso, tra l’altro, quello dell’informazione, aumentando il prestigio della maternità e della paternità con il sostegno dell’opinione pubblica e dei media, per…

Ilya Doronov: Per ispirare.

Vladimir Putin: Ispirare le persone ad avere una buona famiglia sana, promuovere i valori tradizionali, compresi quelli religiosi. Si tratta di una serie di azioni. Ci lavoreremo, ma questo deve essere fatto dall’intera società.

Ilya Doronov: Ho una nonna di 96 anni che era la decima figlia della famiglia. Oggi non si vedono praticamente più famiglie di questo tipo.

Vladimir Putin: Perché, esistono. Cerchiamo di sostenere le famiglie numerose, dove ci sono dieci o più figli.

Ilya Doronov: Una domanda che va oltre il tema della demografia.

I demografi della Scuola Superiore di Economia hanno calcolato che per mantenere la popolazione russa a 146 milioni di persone, ogni anno per 80 anni dovranno entrare 390.000 migranti. Nello scenario negativo, saranno necessari 1,1 milioni di migranti all’anno.

Non riuscite a vedere il pericolo che c’è in tutto questo? Non diventeremo come alcune zone degli Stati Uniti o del Belgio? Ad esempio, ad Anversa sta accadendo qualcosa con i migranti e la polizia non può entrare nell’area.

Vladimir Putin: Sì, certo, dobbiamo tenerlo presente e non permettere in nessun caso che ciò accada in Russia. Questo è un momento molto delicato nella vita dello Stato russo. L’economia, ovviamente, richiede l’impiego di lavoratori immigrati in alcuni settori, soprattutto in quello delle costruzioni. Credo che lì lavori il 33% di tutti gli immigrati.

In generale, non abbiamo così tanti migranti che lavorano nel mercato del lavoro: solo il 3,7% del numero totale di lavoratori. Si tratta di una questione molto delicata, legata all’economia, alla sfera sociale e alla condizione morale della società.

Tra l’altro, per noi è più facile che per i Paesi europei o gli Stati Uniti, perché abbiamo un afflusso di lavoratori dalle ex repubbliche sovietiche. Per noi è più facile lavorare con loro; i leader di questi Paesi comprendono la situazione e sono pronti a collaborare.

Stiamo offrendo programmi di formazione pre-immigrazione con molti Paesi. A cosa servono? Aiutano le persone che intendono lavorare in Russia a imparare la lingua russa e le leggi della Federazione Russa. Abbiamo bisogno che queste persone capiscano che se si trasferiscono in un altro Paese devono rispettare le nostre tradizioni, la nostra cultura e così via. C’è molto lavoro da fare. Dobbiamo continuare a lavorare con loro.

Tra l’altro, questo è importante anche per i nostri cittadini, i cittadini della Federazione Russa, affinché gli immigrati non rappresentino un fattore di disturbo per loro. Questa è la nostra priorità. Dobbiamo certamente pensare prima agli interessi dei cittadini russi.

Quindi, se accettiamo gli immigrati, dobbiamo certamente scegliere quelli che contribuiranno a migliorare lo sviluppo economico della Russia.

C’è un’altra alternativa, semplice e complicata allo stesso tempo. La parte semplice è che potremmo non aver bisogno di una forza lavoro così grande di immigrati se introduciamo una nuova tecnologia che elimina molta manodopera.

Questo ci porta a risolvere un altro problema: lo sviluppo della tecnologia, l’aggiornamento delle strutture e delle attrezzature e così via. Questa è la parte difficile, perché non si può fare da un giorno all’altro. Richiede investimenti consistenti, azioni sicure e duro lavoro. Ci sono molti modi per affrontare questo difficile problema: dobbiamo solo lavorarci. E lo faremo.

Ilya Doronov: Ora farò una domanda che diventa ogni giorno più rilevante e pressante.

Inizierò con le elezioni regionali che si sono appena concluse. Diverse regioni del Distretto Federale dell’Estremo Oriente hanno votato nel giorno delle elezioni nazionali – di fatto, quest’anno i russi hanno potuto votare nell’arco di tre giorni. Congratuliamoci con i candidati vincitori.

Tre anni fa, quando le è stato chiesto se avrebbe cercato la rielezione, ha risposto che non aveva ancora deciso. Ora mancano sei mesi alla campagna presidenziale. È ancora indeciso se candidarsi?

Vladimir Putin: La legge dice che il Parlamento deve designare le prossime elezioni alla fine dell’anno. Quando la decisione sarà presa, le elezioni saranno annunciate, la data sarà stabilita e poi ne parleremo.

Ilya Doronov: Ok, allora possiamo chiederle.

Ho una domanda sulle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Quali sono le sue aspettative in merito? Si svolgeranno l’anno prossimo e stanno accadendo cose strane; sappiamo che Trump potrebbe essere arrestato in qualsiasi momento.

Vladimir Putin: Perché dovremmo preoccuparci? Credo che non ci saranno cambiamenti fondamentali nella politica estera degli Stati Uniti nei confronti della Russia, indipendentemente da chi diventerà Presidente.

È vero che sentiamo il signor Trump dire che può risolvere molti problemi gravi, tra cui la crisi ucraina, in pochi giorni. Beh, c’è di che essere contenti. Sarebbe un bene. Ma, nel grande schema delle cose, noi… tra l’altro, nonostante le accuse di avere legami speciali con la Russia, che sono un’assurdità assoluta, ha imposto il maggior numero di sanzioni alla Russia durante la sua presidenza. Quindi, è difficile dire cosa aspettarsi da un nuovo Presidente, chiunque esso sia. È improbabile, tuttavia, che si verifichi un cambiamento cruciale, perché le autorità attuali hanno condizionato la società americana a essere anti-Russia per natura e spirito; le cose stanno così. L’hanno fatto e ora sarà molto difficile per loro invertire la rotta. Questo è il primo punto.

In secondo luogo, considerano la Russia come un avversario esistenziale e costante o addirittura un nemico e impiantano questa idea nella testa degli americani comuni. Questo non è positivo perché favorisce l’ostilità. Ciononostante, in America ci sono molte persone che desiderano costruire relazioni commerciali buone e amichevoli con noi e, inoltre, condividono molte delle nostre posizioni, soprattutto dal punto di vista della conservazione dei valori tradizionali. Abbiamo molti amici e persone che la pensano come noi. Ma, ovviamente, vengono soppressi.

Non abbiamo quindi modo di sapere chi sarà eletto, ma chiunque sia, è improbabile che la politica antirussa degli Stati Uniti cambi.

Per quanto riguarda la persecuzione di Trump, beh, nelle condizioni attuali, a mio avviso, è una buona cosa.

Ilya Doronov: Perché?

Vladimir Putin: Perché rivela il marcio sistema politico americano, che non dovrebbe pretendere di insegnare agli altri la democrazia.

Tutto ciò che sta accadendo a Trump è la persecuzione politica di un rivale politico. Ecco cos’è. E sta avvenendo sotto gli occhi dell’opinione pubblica statunitense e del mondo intero. Hanno esposto i loro problemi interni. In questo senso, se stanno cercando di combatterci, è un bene perché mostra, come si diceva in epoca sovietica, l’aspetto bestiale dell’imperialismo americano, la sua smorfia bestiale e ringhiosa.

Ilya Doronov: Sì, me lo ricordo.

Visto che ha sollevato questo argomento, mi permetta di condividere con lei un’altra citazione, ma questa volta non le dirò a chi appartiene, e lo faccio di proposito. “Quando si studia la storia e la cultura della Cina, o della Thailandia, o di un qualsiasi Paese africano, si ritiene essenziale provare un certo rispetto per i tratti distintivi di quella cultura. Ma quando si parla dei mille anni di cristianesimo orientale in Russia, i ricercatori occidentali provano per lo più solo stupore e disprezzo: perché mai questo strano mondo, un intero continente, si è ostinato a rifiutare la visione occidentale delle cose? Perché si è rifiutato di seguire il percorso manifestamente superiore della società occidentale? La Russia è categoricamente condannata per ogni caratteristica che la distingue dall’Occidente”.

Lei ha appena parlato di un nemico esistenziale. Questa citazione, tra l’altro, appartiene a Solzhenitsyn, che ha lasciato il Paese, ha vissuto in Occidente e poi è tornato.

Da dove deriva, secondo lei, questo atteggiamento nei nostri confronti?

Vladimir Putin: Innanzitutto, vorrei dire che le conversazioni che ho avuto con Alexander Solzhenitsyn mi hanno convinto che era onesto e sincero nei suoi sentimenti patriottici verso la Russia. In un certo senso, era un nazionalista, ma nel senso positivo e civile del termine. Per questo motivo, non mi sorprende che questa citazione gli appartenga. Questo è il mio primo punto.

In secondo luogo, tutto ciò che riguarda le relazioni della Russia con l’Occidente ruota attorno agli interessi geopolitici dei Paesi occidentali. Questo vale per tutti questi attacchi, anche in ambito spirituale: sono tutti un’estensione di questo confronto geopolitico. Naturalmente, l’Occidente ha cercato a lungo di convertire la Russia al cattolicesimo e di portarla sotto il dominio della Santa Sede. E quando ciò è fallito, si è cominciato a cercare il modo di presentare il nostro Paese come l’Impero del Male. È stato Reagan a coniare questa frase, ma in realtà lo vediamo fin dal Medioevo, o forse anche prima.

Ogni volta che la Russia ha alzato la testa ed è emersa come un vero concorrente geopolitico, e sto parlando di concorrenza e nient’altro, la Russia si è immediatamente scontrata con le politiche di contenimento di qualcuno. Allo stesso modo, l’Occidente sta cercando di contenere la Cina nel suo sviluppo, visto che sotto la guida del Partito Comunista Cinese e con il nostro amico Presidente della Repubblica Popolare Cinese al timone, il Paese ha fatto grandi passi avanti nel suo sviluppo. Per loro questo è uno shock e stanno facendo di tutto per rallentare lo sviluppo della Cina. Ma non sono stati in grado di farlo, sono in ritardo. È un’occasione persa per loro, ed è già troppo tardi. Questo è un processo oggettivo.

Non si tratta solo della Cina. C’è anche l’India e l’Indonesia. Emergeranno nuovi centri di potere e nel tentativo di contenere questi processi alcuni Paesi occidentali, guidati dagli Stati Uniti, non faranno altro che farsi del male.

Ilya Doronov: Possiamo chiederle di condividere con noi un segreto?

Ricorda la visita di Xi Jinping…

Vladimir Putin: Non condivido mai informazioni segrete. Come potete pensare il contrario? Dopotutto, lavoravo per il KGB.

Ilya Doronov: Capisco. In questo caso, se possibile, può condividere con noi un’intuizione.

Xi Jinping ha visitato la Russia, e ricordiamo il video in cui lo avete visto partire, e ha detto: abbiamo avviato un cambiamento che non si vedeva da 100 anni. Cosa intendeva dire?

Vladimir Putin: Sa, ci siamo parlati a tu per tu per quattro ore. C’erano così tante sfumature e dettagli.

Posso solo dire che negli ultimi anni abbiamo raggiunto un livello senza precedenti nelle nostre relazioni. Questo vale per le nostre interazioni in tutti i loro aspetti.

Oggi abbiamo avuto un incontro con la delegazione cinese. Rispetto alle nostre statistiche, quelle cinesi mostrano un volume di scambi commerciali ancora maggiore tra i nostri Paesi. Abbiamo tutte le possibilità di raggiungere forse i 200 miliardi di dollari di scambi commerciali quest’anno, anche se non posso essere sicuro che ci riusciremo perché dipende da vari fattori mutevoli come le fluttuazioni dei prezzi o i tassi di cambio delle valute, quindi dovremo aspettare e vedere come influiscono. Ma ciò che conta è che siamo proattivi nel promuovere la nostra cooperazione, piuttosto che le cifre specifiche.

In effetti, abbiamo raggiunto un livello notevole nelle nostre relazioni sulle questioni di sicurezza internazionale e in termini di coordinamento delle nostre posizioni. Agiamo nel reciproco interesse e cerchiamo di ascoltarci su molte questioni importanti. Ciò significa sia ascoltare e sentire, sia rispondere a livello governativo, a livello di capi di Stato, a livello ministeriale, nonché nei contatti tra le agenzie e le istituzioni militari e di sicurezza. Abbiamo migliorato la nostra cooperazione e raggiunto livelli senza precedenti in questo senso.

Ma c’è un fatto interessante: non stiamo creando alcuna alleanza militare o cercando di usare la nostra amicizia contro qualcuno. La nostra amicizia è pensata per servire il nostro popolo. Questo è il modo in cui possiamo andare avanti.

Ilya Doronov: Tutto sembra perfetto per quanto riguarda le nostre relazioni con la Cina, ma ci sono anche dei problemi. Ho parlato con i dirigenti d’azienda e cosa mi hanno detto? Per esempio, la Cina non ha fretta di portare la sua produzione in Russia e cerca soprattutto di esportare qui più prodotti finiti. E non possiamo dire che il mercato interno cinese sia completamente aperto ai nostri prodotti non di base. Inoltre, non vediamo molta voglia da parte degli investitori cinesi di utilizzare gli strumenti offerti dal mercato azionario russo.

Qual è il problema?

Vladimir Putin: La Cina è un Paese indipendente e dà priorità ai propri interessi. Lo stesso vale per la Russia, che persegue i propri interessi.

Sarebbe sbagliato sostenere che non rispondiamo alle richieste dell’altro. Permettetemi di citare una questione delicata che riguarda l’apertura del mercato cinese alle nostre compagnie carbonifere e minerarie. Anche la Cina deve affrontare alcune sfide nell’industria del carbone e vuole che i suoi minatori forniscano i loro prodotti al mercato interno, ma ha comunque aperto il suo mercato ai nostri produttori di carbone, e questo è stato uno sforzo notevole. In effetti, non abbiamo ancora raggiunto un accordo sulla carne di maiale, ma loro hanno i loro contratti e il governo è stato riluttante a interferire in questi affari, dato che queste aziende hanno legami di lunga data. Dobbiamo risolvere il problema della peste suina africana. Dobbiamo affrontare queste sfide? Sì, le affrontiamo. E dobbiamo affrontarle.

Sono tutte questioni attuali e in corso, e dobbiamo affrontarle al livello corrispondente. Stiamo facendo progressi su tutti questi fronti e non ho dubbi che riusciremo a risolvere le questioni da lei citate.

Tuttavia, dobbiamo fare la nostra parte e dimostrare i vantaggi che abbiamo da offrire. I nostri partner cinesi si sono dimostrati piuttosto ricettivi nei confronti delle nostre iniziative. Lei ha detto che si astengono dall’avviare attività produttive in Russia, ma non lo hanno fatto anche a Tula?

Ilya Doronov: Uno stabilimento automobilistico.

Vladimir Putin: Una fabbrica di automobili. Come fa a dire che non aprono impianti di produzione qui? In effetti lo fanno.

Ma devono esplorare il mercato, valutare l’investimento che sono disposti a offrire e i potenziali ritorni, giusto? Ciò significa che dobbiamo affrontare alcune questioni da parte nostra per offrire agli investitori condizioni favorevoli.

Siamo stati abbastanza bravi nell’alta tecnologia, e il progetto di costruire centrali nucleari in Cina va avanti, e in effetti ce ne sono parecchie. Naturalmente, la Russia è un fornitore leader in questo settore con prestazioni eccellenti, sia a livello nazionale che internazionale. I nostri partner cinesi lo riconoscono e ci offrono questi progetti e ci permettono di utilizzare questi siti, nonostante il fatto che anche loro stiano sviluppando il loro settore nucleare. Tuttavia, sono stati disposti a venirci incontro perché le nostre proposte presentano vantaggi competitivi.

Per esempio, dobbiamo trovare un terreno comune sul progetto degli aerei a fusoliera larga. Si tratta di un compito impegnativo, ma stiamo facendo progressi, anche se i colloqui vanno avanti da tempo, ma dobbiamo comunque ottenere risultati. Per fare un altro esempio, nella produzione di elicotteri abbiamo un chiaro vantaggio competitivo sul mercato internazionale, ma questo non ci ha impedito di lavorare con la Cina. Produrremo elicotteri per il trasporto pesante – c’è un accordo anche in questo senso. Abbiamo lavorato insieme nel settore spaziale e, nonostante alcune sfide, anche in questo caso abbiamo dei vantaggi competitivi. Sono abbastanza disposti a lavorare con noi.

Ancora una volta, dobbiamo riconoscere che la Repubblica Popolare Cinese ha raggiunto molti risultati nell’alta tecnologia sotto la guida del suo attuale leader. È nostro dovere parlarne con loro, e questo lavoro è in corso. Dobbiamo capire in che modo possono trarre vantaggio dalla collaborazione con noi, per offrire loro condizioni favorevoli. È una normale prassi commerciale. Il fatto che poggi su una solida base di fiducia reciproca non può essere sottovalutato. Sono certo che andremo avanti.

Ilya Doronov: Lei ha parlato di alta tecnologia. Probabilmente non sa che i cinesi hanno sconvolto gli Stati Uniti quando hanno prodotto da soli un chip a 7 nanometri e lo hanno utilizzato nei loro nuovi smartphone.

Vladimir Putin: Non è questo che ha spaventato gli americani. Gli Stati Uniti hanno paura della Cina perché qui vivono 1,5 miliardi di persone e questa economia sta facendo passi da gigante nel suo sviluppo. È questo che spaventa gli Stati Uniti. È una sfida per gli Stati Uniti, questo è certo. Anche i chip sono importanti, naturalmente, ma sono solo una parte della storia.

Ilya Doronov: Bene.

Alcune domande sulla questione di Solzhenitsyn.

A luglio, il corrispondente speciale del quotidiano Kommersant, Andrei Kolesnikov, che domani scriverà su Kommersant un bellissimo articolo su questa sessione plenaria che leggeremo, ha parlato con lei e ha fatto dei paralleli tra oggi e il 1937. Lei ha risposto dicendo che oggi siamo nel 2023.

Non sono d’accordo con Andrei in questo senso; quello che mi viene in mente è il 1922, il “piroscafo dei filosofi”, in realtà ce n’erano più di uno, e le persone venivano mandate fuori dal Paese non solo sui piroscafi; i bolscevichi facevano lasciare il Paese sovietico.

Oggi i dissidenti se ne vanno di loro spontanea volontà e nessuno li obbliga a farlo, ma il Paese sta nuovamente perdendo persone di talento. Come pensa che questa perdita influirà sulla Russia?

Vladimir Putin: Sa, ogni persona fa la sua scelta, e ne abbiamo già parlato. Secondo varie stime condotte da giornalisti, circa 160-170 personalità della cultura hanno lasciato l’estero perché in disaccordo con le politiche dello Stato russo.

Si può essere in disaccordo con le politiche dello Stato russo e continuare a stare qui e a parlarne; nessuno lo vieta. Ma alcuni hanno scelto di andarsene. Questo non è solo legato alla posizione delle persone del mondo dell’arte che non sono d’accordo con l’operato della leadership russa, ma ha anche a che fare con considerazioni materiali.

Negli ultimi anni, molti hanno comprato case o appartamenti all’estero e hanno aperto conti bancari lì. Vogliono tenerseli stretti, hanno paura di perderli. Questa è una delle ragioni, e non dico che sia l’unica. Partono per preservare i loro beni. Sono tenuti – è risaputo – a rilasciare dichiarazioni, a criticare e a denunciare. Quindi, criticano e denunciano.

Per ribadire che ci sono persone che sono sinceramente in disaccordo con ciò che lo Stato russo e le autorità russe stanno facendo. Ma, ripeto, nessuno impedisce loro di criticare mentre sono qui, eppure hanno scelto di andarsene. Così sia, è una loro scelta.

La cultura russa ne ha risentito? Probabilmente sì. Se se n’è andata una persona di talento che avrebbe potuto fare qualcosa qui, probabilmente abbiamo perso qualcosa.

D’altra parte, francamente, forse è meglio che servano gli interessi del Paese che vogliono servire all’estero, piuttosto che qui, dove influenzerebbero milioni di nostri cittadini e promuoverebbero valori non tradizionali. È una questione complessa, ma alla fine ognuno è padrone del proprio destino. Se hanno deciso di andarsene, così sia.

Per fortuna qui tutto funziona, compresi i teatri, le sale da concerto e le sedi espositive. Molti artisti si recano nella zona di operazioni militari speciali per sostenere i nostri eroi in prima linea. Hanno fatto questa scelta. E senza dubbio stanno facendo tutto nell’interesse del popolo russo.

Ilya Doronov: Molto probabilmente, domani o oggi, i membri della nuova ondata di emigrazione guarderanno o leggeranno di questa sessione plenaria sui media occidentali. È importante che sappiano: la strada del ritorno in Russia è aperta per tutti loro, oppure no?

Vladimir Putin: Nessuno l’ha chiusa; ci sono andati da soli. Chi ha detto loro di non tornare? Non possiamo farlo. Di cosa stiamo parlando? La questione è che, secondo la legge russa, un cittadino russo può vivere dove vuole, ma nessuno può revocargli la cittadinanza o negargli l’ingresso nella Federazione Russa.

Ilya Doronov: Ho un’altra domanda.

Riguarda la cosiddetta trasformazione della pena. Ci ricordiamo, o meglio, ne abbiamo letto, che nella Russia zarista c’erano i trasporti penali (esilio) e i katorga (lavori forzati); poi nell’Unione Sovietica c’è stato il Terrore Rosso, le rappresaglie e poi gli ospedali psichiatrici. E ora, nella Russia moderna, abbiamo gli agenti stranieri.

Facendo i conti, ho scoperto che nel nostro Paese il numero di persone e organizzazioni che portano questa denominazione ha superato le 400 unità. Ogni venerdì si aggiungono nuovi nomi e nuovi volti all’elenco.

Non credete che stiamo tirando dentro tutti quelli che ci ostacolano? C’è un meccanismo in atto? Ok, qualcuno è diventato un agente straniero, ma come può smettere di esserlo? Cosa devono fare?

Vladimir Putin: Non stiamo tirando dentro nessuno. Chi stiamo tirando dentro? Questa legge è in vigore negli Stati Uniti dal 1937 o 1938. La nostra legge è quasi una copia, solo che è molto più liberale, e continuiamo a parlarne. Negli Stati Uniti, la legge prevede l’azione penale e la reclusione per determinate azioni.

Chi è un agente straniero in Russia? È una persona che si impegna in attività pubbliche per denaro di uno Stato straniero. E questa legge non vieta loro di continuare a svolgere questa attività, ma impone solo di rivelare le fonti di finanziamento. Sappiamo bene che chi paga il pifferaio chiama la musica. Se sono pagati qui, all’interno del Paese, per svolgere attività pubbliche, dovrebbero almeno mostrare la fonte dei loro finanziamenti. Non c’è nulla di strano in questo.

Tuttavia, ci sono molte sfumature e gli attivisti per i diritti umani me le hanno ripetutamente segnalate. Alcune persone che non sono realmente coinvolte in attività pubbliche, ma che si impegnano nel lavoro ambientale e in altre cose, si ritrovano in questa legge. Sì, la stiamo modificando. Continuo a chiedere alle forze dell’ordine, alla procura e agli organi investigativi di proporre modi per migliorare questa procedura.

Ma se mi sta chiedendo se è possibile revocare questo status, sì, è possibile, e ci sono stati dei precedenti attraverso le sentenze dei tribunali.

Ilya Doronov: Ho una domanda relativa all’Ucraina.

Il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha recentemente visitato l’Ucraina e poi ha rilasciato un’intervista alla ABC, in cui ha affermato che l’Ucraina è pronta a colloqui con la Russia, aggiungendo che i termini e i futuri confini dipenderanno dall’opinione dell’Ucraina. Tuttavia, ha anche affermato che i colloqui di pace non sono attualmente un’opzione, poiché, cito testualmente, “Bisogna essere in due per ballare il tango”, sottintendendo che la Russia non è disposta a impegnarsi in questi colloqui. Ho due domande. Può commentare questo fatto? E secondo, secondo lei, cosa c’è dietro la posizione del Segretario di Stato americano? L’ha sentita dire a Sochi che la controffensiva è fallita ed è ora di iniziare a parlare?

E la terza domanda: perché il Segretario di Stato americano fa queste dichiarazioni a nome dell’Ucraina?

Vladimir Putin: Dovreste chiedergli perché fa dichiarazioni a nome dell’Ucraina; non ho modo di saperlo.

Per quanto riguarda il processo negoziale: se gli Stati Uniti ritengono che l’Ucraina sia pronta a parlare, allora comincino a revocare l’ordine esecutivo del Presidente ucraino che vieta i colloqui. Esiste un ordine esecutivo presidenziale in cui egli vieta a se stesso e a chiunque altro di tenere colloqui. Blinken dice di essere pronto. Bene, che inizino cancellando questo decreto o ordine esecutivo, o come lo chiamano; questo sarebbe il primo passo.

Ora, per quanto riguarda la situazione generale. Molte persone, me compreso, lo capiscono: L’Ucraina sta conducendo quella che chiamano una controffensiva. Non ci sono risultati, ovviamente. Evitiamo di definirla un fallimento o meno. Non ci sono risultati. Ci sono state perdite significative. Dall’inizio della controffensiva, hanno perso 71.500 uomini. E vogliono ottenere risultati ad ogni costo, come si suol dire. A volte sembra che non siano nemmeno i loro uomini quelli che stanno lanciando in questa controffensiva; è come se non fossero i loro uomini. Francamente… questo è ciò che mi dicono i comandanti in prima linea. È incredibile.

Ilya Doronov: Parla con loro al telefono?

Vladimir Putin: Sempre.

Hanno subito perdite significative, tra cui 543 carri armati e quasi 18.000 veicoli blindati di varie classi, e così via. Sembra quindi che vogliano, come dicono i loro curatori occidentali, azzannare quanto più territorio possibile, scusate il linguaggio. E poi, quando tutte le risorse, sia di personale che di equipaggiamento e munizioni, saranno prossime allo zero, cercheranno di fermare le ostilità, dicendo di volere i negoziati da molto tempo ormai, ma useranno questi colloqui solo per guadagnare tempo e per rifornirsi di risorse e ripristinare le capacità di combattimento delle loro forze armate.

Questa tattica è possibile. In ogni caso, è una possibilità. Ancora una volta, se c’è un sincero desiderio di ottenere qualcosa attraverso i colloqui, allora che lo facciano. Ma perché Blinken dice questo?! Lasciamo che siano gli ucraini stessi a dire che stanno revocando l’ordine esecutivo che ho citato e a dirlo.

Hanno dichiarato pubblicamente che non si impegneranno in colloqui. Ora lasciamo che dichiarino pubblicamente di volerlo fare. Non vedo nulla che possa danneggiare la loro immagine.

Ilya Doronov: Quale potrebbe essere il primo passo da parte loro, dopo il quale saremmo pronti ad avviare i negoziati?

Vladimir Putin: Ascoltate, da tutte le parti le persone con cui comunichiamo, che vorrebbero agire come intermediari, ci chiedono: siete pronti per un cessate il fuoco? Come possiamo cessare le ostilità se l’altra parte sta conducendo una controffensiva? Cosa dovremmo fare? Loro continueranno la loro controffensiva e noi diremo che ci fermiamo? Non siamo dei trotzkisti che dicevano che il movimento è tutto e l’obiettivo finale è niente. È una teoria sbagliata.

Ilya Doronov: Quindi, significa che prima Kiev dovrebbe fermare le ostilità, dimostrarlo, e poi saremmo pronti a parlare?

Vladimir Putin: Ascoltate, vi ho già detto che per prima cosa dovrebbero revocare l’ordine esecutivo che vieta i colloqui e annunciare di volersi impegnare in negoziati, e questo è tutto. Poi vedremo cosa succederà.

Ilya Doronov: Chiederò delle forniture di armi e poi farò una domanda al Vicepresidente perché è un argomento delicato anche per lei; ne ha parlato brevemente. È stata presa la decisione di inviare proiettili all’uranio impoverito. Ora si dice che l’Ucraina potrebbe ricevere anche missili a lungo raggio, con una gittata fino a 300 chilometri.

Innanzitutto, come pensa che questo possa influenzare la situazione sul fronte? E in secondo luogo, come risponderemo a questa eventualità?

Vladimir Putin: Ne abbiamo già parlato, ma devo ripeterlo. Non molto tempo fa, l’amministrazione statunitense considerava l’uso delle munizioni a grappolo un crimine di guerra, lo ha detto pubblicamente. Ora stanno inviando munizioni a grappolo nell’area di combattimento in Ucraina.

Ilya Doronov: Tuttavia, dicono che né gli Stati Uniti né noi abbiamo firmato un trattato che le vieta.

Vladimir Putin: Ora sto parlando di una questione diversa. Hanno annunciato pubblicamente che si tratta di un crimine, ma lo fanno lo stesso. In generale, non si preoccupano di ciò che la gente pensa di loro; fanno sempre tutto solo nel loro interesse. Hanno fatto delle stime e, poiché le munizioni da 155 mm si stanno esaurendo ed è difficile produrle in Europa o negli Stati Uniti, stanno fornendo ciò che hanno nei loro arsenali. Beh, hanno le bombe a grappolo, quindi ci sono. Lo stesso vale per l’uranio impoverito. Usarlo è un crimine, hanno detto, non io, hanno detto che è un crimine. Ma ora lo stanno facendo lo stesso.

Non c’è niente che funzioni. Naturalmente, ci sta costando un pedaggio. Lo stesso vale per l’uranio impoverito. Contamina il terreno. È un male? È molto grave.

Ilya Doronov: A proposito, il capo dell’AIEA [Rafael Mariano] Grossi ha detto: “No, non succederà nulla del genere”.

Vladimir Putin: Sappiamo di cosa si tratta. Il terreno sarà comunque contaminato.

E che dire? Ha modificato la situazione? Gli inglesi inviano queste granate da molto tempo. È cambiato qualcosa sul campo di battaglia? No. Ora stanno per mandare gli F-16. Cambierà qualcosa? No. Sta solo prolungando il conflitto.

Il loro processo elettorale inizia a novembre e hanno bisogno di mostrare qualche risultato ad ogni costo. Stanno spingendo l’Ucraina a continuare le ostilità, indipendentemente da ciò che dicono pubblicamente, perché non si preoccupano degli ucraini. Sorprendentemente, nemmeno l’attuale leadership ucraina sembra preoccuparsi del proprio popolo; lo getta come legna da ardere in una stufa, semplicemente.

Cambierà qualcosa? Io penso di no. Sono sicuro che non cambierà. Trascinerà il conflitto? Sì, lo farà.

Ma ciò che ci preoccupa è il fatto che non hanno freni. Permettetemi di raccontare una storia.

Non molto tempo fa, sul nostro territorio, il Servizio di Sicurezza Federale, durante uno scontro armato, ha eliminato diverse truppe e catturato le altre. Si è scoperto che si trattava di un gruppo di sabotatori dei servizi speciali ucraini. Sono in corso gli interrogatori. Quali erano i loro obiettivi? La loro missione era danneggiare una delle nostre centrali nucleari, facendo saltare una linea elettrica, una linea di trasmissione ad alta tensione, con l’obiettivo di interrompere il funzionamento della centrale. Non era il loro primo tentativo in questo senso. Durante l’interrogatorio, hanno detto di essere stati addestrati da istruttori britannici. Si rendono conto di cosa stanno giocando? Stanno cercando di provocarci per indurci a intraprendere azioni di ritorsione contro gli impianti nucleari ucraini?

Il governo britannico e il Primo Ministro sanno cosa stanno facendo le loro agenzie di intelligence in Ucraina, o sono all’oscuro di tutto? Prendo addirittura in considerazione la possibilità che le agenzie di intelligence britanniche agiscano sotto le istruzioni degli americani, e sappiamo chi è il beneficiario finale. Capiscono con cosa hanno a che fare o no? Credo che stiano semplicemente sottovalutando la situazione.

Ilya Doronov: Non hanno vissuto Chernobyl.

Vladimir Putin: Sapete che sono consapevole che una volta detto questo, inizieranno a gridare che si tratta di un’altra minaccia, di un ricatto nucleare e così via. Vi assicuro che quello che ho appena detto è la verità completa e non adulterata.

Questi individui sono sotto la nostra custodia e stanno collaborando. Conosco la probabile reazione: “Diranno tutto quello che volete sotto la minaccia delle armi”. No, non è così e i vertici delle agenzie di intelligence britanniche sanno che sto dicendo la verità. Ma non sono sicuro che i leader britannici capiscano veramente cosa sta succedendo.

Queste cose ci preoccupano molto perché non sanno dove fermarsi e questo potrebbe portare a gravi conseguenze.

Ilya Doronov: Ma sappiamo che non prenderemo di mira le infrastrutture nucleari.

Vladimir Putin: Le ho detto che potrebbero provocarci a intraprendere tali azioni.

Ilya Doronov: Signora Vicepresidente, una domanda per lei. Lei ha menzionato la questione delle munizioni a grappolo. Se non ricordo male, la guerra in Vietnam è finita nel 1975. Quanto hanno influito i bombardamenti in Laos sulla vita dei civili, e continuano a influire sulla loro vita ancora oggi?

Pany Yathotou (ritradotto): Per quanto riguarda le munizioni a grappolo e le granate inesplose, queste vestigia della guerra, credo che il numero rimanente sia ancora molto elevato. Non le abbiamo ancora disarmate tutte. Naturalmente, queste munizioni inesplose ci creano seri problemi. Riceviamo assistenza umanitaria e tecnica dalla Russia e dalle organizzazioni internazionali, ma finora non siamo riusciti a bonificare il nostro territorio.

Le conseguenze più devastanti per la nostra popolazione sono varie ferite e, ovviamente, molte vite sono andate perse. Per questo motivo, nella Repubblica Democratica Popolare del Laos ci sono molti orfani i cui genitori sono stati uccisi da munizioni inesplose.

Inoltre, queste munizioni stanno ostacolando lo sviluppo della nostra agricoltura perché molti terreni agricoli sono stati gravemente danneggiati dalle munizioni a grappolo. A questo proposito, il governo del Laos sta lavorando duramente per affrontare questa sfida umanitaria, in particolare in collaborazione con la Russia e le organizzazioni internazionali.

Ilya Doronov: Il governo del Laos può dire quanti anni ci vorranno ancora per smantellare completamente il Paese?

Pany Yathotou (ritradotto): La guerra in Laos è durata oltre 30 anni. È stata una delle guerre più lunghe della storia.

L’uso di munizioni a grappolo faceva parte delle tattiche utilizzate in quella guerra. Non possiamo dire quanti anni ancora ci vorranno per disinnescare le vestigia inesplose della guerra. Non c’è dubbio che il governo laotiano continuerà a lavorare in stretta collaborazione con i Paesi amici e le organizzazioni internazionali per risolvere la questione il prima possibile.

Ilya Doronov: Grazie.

Vuole fare un commento?

Vladimir Putin: No. Vorrei solo aggiungere che noi – i nostri esperti – non solo aiutiamo a disinnescare le mine, ma stiamo anche formando il personale locale. Abbiamo già formato 150 professionisti locali dello sminamento.

Ilya Doronov: Signor Presidente, ora le chiederò dell’Armenia. Un anno fa, Nikol Pashinyan era su questo palco e l’ho vista parlare in disparte. Sembrava che steste avendo una conversazione perfettamente normale.

Ora leggiamo delle esercitazioni armeno-statunitensi che sono iniziate ieri, credo. La moglie di Pashinyan si è recata a Kiev. Il presidente del parlamento armeno ha fatto commenti molto sfavorevoli sul nostro ministero degli Esteri.

Da dove deriva questa svolta nella politica armena? Come influirà sulla situazione al confine con l’Azerbaigian? E dove potrebbe portare l’Armenia?

Vladimir Putin: Non credo che ci sia stata alcuna svolta. Vediamo e capiamo cosa sta succedendo. Posso dire molte cose su questo argomento. Abbiamo proposto una serie di soluzioni di accordo.

Francamente – e credo sia un fatto noto – l’Armenia controllava sette distretti che ha ottenuto dopo il conflitto armeno-azero in questione. Abbiamo proposto di raggiungere un accordo con l’Azerbaigian in modo che due distretti – Kalbajar e Lachin – restino sotto la giurisdizione dell’Armenia, così come l’intero Karabakh. Tuttavia, la leadership armena non ha accettato, anche se abbiamo cercato di convincerli a farlo per 10 o addirittura 15 anni. C’erano diverse opzioni, ma tutte si riducevano a questo. Alla domanda su cosa avrebbero fatto, hanno risposto che avrebbero combattuto. Bene, d’accordo.

Alla fine, tutto si è risolto nello stato di cose che vediamo oggi. Ma non si tratta solo degli esiti del recente conflitto; si tratta anche del fatto che la leadership armena ha sostanzialmente – beh, non sostanzialmente, ma effettivamente – riconosciuto la sovranità dell’Azerbaigian sul Karabakh e lo ha documentato nella dichiarazione di Praga.

A dire il vero, ne siamo consapevoli. Ora, il Presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev ci dice: siete consapevoli che l’Armenia ha riconosciuto il fatto che il Karabakh è il nostro territorio e che lo status del Karabakh non è più una questione rilevante. È stata risolta. I leader armeni lo hanno dichiarato pubblicamente e hanno riconosciuto che il territorio antecedente al 1991 che include il Karabakh – hanno fornito le cifre – fa parte dell’Azerbaigian. Questo è effettivamente avvenuto, e non è stata una nostra decisione; è una decisione presa dall’attuale leadership armena. E se così fosse, ci dicono, dovreste risolvere con noi ogni questione in sospeso relativa al Karabakh su base bilaterale. Ebbene, cosa possiamo dire? Non possiamo dire nulla. Se l’Armenia stessa ha riconosciuto il Karabakh come parte dell’Azerbaigian, cosa possiamo fare?

Certo, ci sono altre questioni legate all’aspetto umanitario e al mandato delle nostre forze di pace. Questo è vero. Il mandato è ancora in vigore. Le questioni umanitarie, compresa la prevenzione della pulizia etnica, sono rimaste irrisolte, e su questo sono pienamente d’accordo. Spero che la leadership azera – ce lo ha sempre detto e continua a dirlo – non sia interessata alla pulizia etnica. Anzi, al contrario, sono interessati a che questo processo si svolga senza intoppi.

Ilya Doronov: Quanto sono giustificate, secondo lei, le affermazioni di Erevan secondo cui la Russia e la CSTO non hanno aiutato, e non è stato nemmeno tolto l’assedio al Nagorno-Karabakh, che ha portato a un disastro umanitario?

Vladimir Putin: Dal momento che l’Armenia ha riconosciuto il Nagorno-Karabakh come parte dell’Azerbaigian, cosa c’è da discutere? Questo è l’aspetto chiave della questione. L’Armenia ha determinato lo status del Karabakh stesso. Non c’è altro da dire.

Ilya Doronov: Una domanda personale, se posso. Il signor Pashinyan ha parlato con lei di recente? Glielo chiedo perché ha parlato con il Presidente della Francia Emmanuel Macron e con il Presidente dell’Iran.

Vladimir Putin: Mi ha inviato un messaggio dettagliato. Manteniamo la comunicazione. Non abbiamo problemi con l’Armenia o con il Primo Ministro Pashinyan a questo proposito; rimaniamo sempre in contatto.

Ilya Doronov: C’è un’altra domanda importante sugli sviluppi in Ucraina. Si dice che sia possibile una nuova mobilitazione in Russia.

Cosa può dire a coloro che ci stanno osservando?

Vladimir Putin: Guardi, in Ucraina è in corso una mobilitazione forzata. Arriva a ondate, una dopo l’altra, e non so se ci sia ancora qualcuno da chiamare.

Abbiamo effettuato una mobilitazione parziale. Come sapete, abbiamo richiamato 300.000 persone. Negli ultimi sei o sette mesi, 270.000 persone si sono offerte per il servizio a contratto nelle Forze Armate e nelle unità di volontariato.

Ilya Doronov: Questo si aggiunge alla mobilitazione parziale?

Vladimir Putin: Sì, certo, si sono arruolati negli ultimi sei o sette mesi. Le persone si recano negli uffici di reclutamento militare e firmano i contratti. Ben 270.000 lo hanno fatto. Inoltre, il processo continua. Ogni giorno, tra le 1.000 e le 1.500 persone vengono a firmare, ogni giorno.

Lei sa che questo è il tratto distintivo del popolo russo, della società russa. Non so se questo sia possibile in qualsiasi altro Paese, perché la nostra gente si arruola consapevolmente nella situazione attuale, sapendo che alla fine sarà mandata in prima linea. I nostri uomini, i nostri uomini russi, rendendosi pienamente conto di ciò che li aspetta e comprendendo che potrebbero morire per difendere la loro Madrepatria o essere gravemente feriti, fanno comunque questa scelta, volontariamente e consapevolmente, per proteggere gli interessi del loro Paese.

Lei ha parlato di elezioni. Si sono tenute ovunque, anche nelle regioni di Zaporozhye e Kherson e nelle repubbliche di Lugansk e Donetsk. Si sono svolte in condizioni difficili e ammiro il coraggio del personale dei seggi elettorali. Quando sono iniziati i bombardamenti – il nemico ha preso di mira anche i seggi elettorali – la gente si è rifugiata negli scantinati, per poi riprendere il lavoro una volta terminati i raid. La gente si è recata ai seggi e si è messa in fila nonostante la possibilità che venissero attaccati.

Perché dico questo? Perché i nostri soldati, i nostri uomini, i nostri eroi che combattono in prima linea sanno che ci sono persone che devono proteggere, e questo è il punto chiave. Stiamo proteggendo il nostro popolo.

Ilya Doronov: Tra poco finiremo. Ma ho ancora diverse domande.

Il 1° settembre è stato consegnato alle scuole un nuovo testo di storia. Non ne parlerò nel dettaglio perché abbiamo intervistato il suo aiutante, Vladimir Medinsky, che ha specificato la posizione ufficiale.

Ma contiene la seguente frase. Cito: “Sapete, la vita è sempre più complicata di qualsiasi stereotipo ideologico o giornalistico. Passerà un decennio e il nostro tempo sarà sottoposto a un esame rigoroso. Gli storici si chiederanno quali passi compiuti dai leader mondiali, compresa la leadership del nostro Paese, siano stati giusti e tempestivi, e in quali casi si sarebbe dovuto intraprendere un diverso corso d’azione”.

Se possibile, volevo chiederle di non aspettare gli storici del futuro. Dal suo punto di vista, cosa è stato fatto correttamente e dove sono stati commessi errori in questo periodo?

Vladimir Putin: No, aspettiamo gli storici del futuro. Solo le generazioni future saranno in grado di valutare in modo obiettivo ciò che abbiamo fatto per questo Paese.

Ricordo quello che il principe Potyomkin scrisse a Caterina la Grande sull’annessione della Crimea. Non sarò in grado di riprodurre la citazione esatta, ma posso trasmetterne il significato. Egli scrisse quanto segue: Il tempo passerà e le generazioni future vi rimprovereranno per non aver annesso la Crimea nonostante foste in grado di farlo, e voi vi vergognerete. Gli interessi dello Stato vengono prima di tutto. Noi siamo guidati proprio da queste considerazioni, diamo loro la massima priorità, e di certo non ce ne vergogniamo.

Ilya Doronov: Ho una domanda relativa allo sport. Mi riferisco ai Giochi Olimpici che si terranno in Francia l’anno prossimo.

Prima di porre la mia domanda, vorrei che tutti noi applaudissimo il nostro tennista, Daniil Medvedev, che si è battuto nella finale degli US Open a New York. È stata una bella finale, con un russo e un serbo, due credenti ortodossi, che hanno giocato.

Ringraziamo Daniil per questo. È vero, non c’era nessuna bandiera – ho visto la trasmissione – né alcun riferimento al fatto che è russo.

Anche il presidente francese Emmanuel Macron ha detto che ai Giochi Olimpici che il suo Paese ospiterà l’anno prossimo non ci saranno bandiere russe o bielorusse – niente.

Cosa dire ai nostri atleti, per i quali le Olimpiadi sono davvero l’obiettivo della loro vita? Stanno aspettando e dovranno mancare.

Vladimir Putin: Dirò questo. Data la situazione, dovremmo innanzitutto farci guidare dagli interessi degli atleti. Ognuno di loro, che si è allenato per anni o addirittura decenni in vista di queste competizioni cruciali, dovrebbe prendere una decisione autonoma.

Per quanto riguarda il Movimento Olimpico stesso, vorrei dire questo. Credo che l’attuale gestione delle federazioni internazionali e del Comitato Olimpico Internazionale stia distorcendo l’idea originale di Pierre de Coubertin, secondo cui lo sport deve essere al di là della politica, non deve disunire le persone, ma unirle.

Cosa è successo negli ultimi decenni? Il Movimento Olimpico è stato preso nella trappola degli interessi finanziari. Lo sport internazionale e il Movimento Olimpico internazionale sono stati commercializzati, il che è inaccettabile, e questa commercializzazione ha portato a… Di cosa sto parlando? Gli sponsor, le trasmissioni commerciali, le principali aziende occidentali, che in ultima analisi forniscono la base per il funzionamento del Comitato Olimpico Internazionale e del movimento nel suo complesso, dipendono direttamente dalle organizzazioni politiche e dai governi dei loro Paesi.

Questa combinazione ha creato una situazione in cui lo sport internazionale e il Movimento Olimpico sono in declino e non svolgono più le loro funzioni principali. L’idea principale [dello sport] non è solo quella di battere i record, ma di unire le persone, ma il Movimento olimpico internazionale non sta più facendo questo. Questo è deplorevole per il Movimento Olimpico stesso, perché si creeranno movimenti alternativi, in un modo o nell’altro, e non si può fare nulla al riguardo perché è un processo oggettivo.

L’anno prossimo si terranno i Giochi Mondiali dell’Amicizia; si terranno competizioni nell’ambito dei BRICS, e coloro che sono depoliticizzati vi parteciperanno volentieri. Questo avrà un effetto distruttivo sulle attuali organizzazioni internazionali. Devono essere ringiovanite, anche in termini di personale.

È deplorevole che ciò stia accadendo, ma proteggeremo gli interessi dei nostri atleti. Questo è il primo punto. In secondo luogo, creeremo possibilità alternative per loro, anche in termini di risultati finanziari dei loro successi.

Ilya Doronov: Il Ministero dello Sport ha fornito le statistiche relative all’EEF o a prima dell’EEF, secondo le quali 55 atleti olimpici russi hanno cambiato la loro cittadinanza, e il numero comprendente anche gli atleti non olimpici è di oltre 100. Lei comprende queste persone?

Vladimir Putin: Ho detto all’inizio della mia risposta che le persone hanno lavorato per decenni per raggiungere i loro obiettivi, ma sono state impedite per motivi politici.

Sa, c’è un altro elemento in tutto questo. Non so se posso dirlo, ma alcuni dicono che lo sport e le competizioni internazionali sono diventate la sublimazione della guerra. C’è qualcosa in questo.

Non giudico nessuno, ma è importante che gli atleti, soprattutto quelli di alto livello, sentano l’inno e vedano la bandiera del loro Paese quando salgono sul podio. Ma alla fine ognuno fa la sua scelta. Questo è ciò che credo.

Ilya Doronov: Le farò un’ultima domanda.

Abbiamo aperto la sessione plenaria di oggi affermando che dieci anni fa abbiamo proclamato l’Estremo Oriente, la Siberia e l’Artico come nostre priorità.

Vorrei dare uno sguardo al futuro e parlare di come potrebbero essere l’Estremo Oriente, la Siberia e la Russia tra dieci anni.

In questo momento stiamo assistendo a una sorta di reincarnazione in una nuova fase, forse paragonabile a quella dell’Unione Sovietica, quando c’era un movimento di giovani pionieri, e ora abbiamo il Movimento dei Primi. Qualche tempo fa abbiamo riportato in auge la musica dell’inno sovietico. Alla VDNKh si sta preparando una mostra intitolata Russia, che ci ricorda anche il passato.

L’immagine futura dell’Ucraina, ad esempio, è chiara e comprende l’adesione alla NATO e all’UE. Anche in Occidente l’immagine del futuro appare, per così dire, rosea.

Qual è l’immagine del futuro per la Russia?

Vladimir Putin: Lei ha appena detto che per alcuni Paesi l’immagine del loro futuro comprende l’appartenenza a organizzazioni come la NATO o l’UE. Si rende conto di ciò che ha appena detto? In altre parole, il loro futuro è legato non solo all’interazione con gli altri, ma alla loro completa dipendenza dagli altri.

Nella sfera della difesa, hanno bisogno di qualcuno che li copra, altrimenti falliranno. Nella sfera economica, hanno bisogno di qualcuno che invii loro fondi, altrimenti non saranno in grado di sollevare la loro economia. Tra l’altro, nessuno vuole la pace in Ucraina perché, se la guerra finirà, dovranno rispondere al loro popolo degli aspetti economici e sociali, e non c’è molto da dimostrare. Dubito che, una volta terminate le ostilità, si assisterà a una ripresa dell’economia ucraina. Chi li sfamerà? Ne dubito.

Siamo noi gli artefici del nostro futuro. Di recente ho incontrato dei giovani scienziati a Sarov. Anche loro mi hanno fatto delle domande, almeno abbiamo parlato di questo. Di che cosa? Voglio dire questo, forse in un formato diverso, ma l’idea di fondo sarà la stessa. Gli scienziati si occupano di ricerca e sviluppo. Gli industriali lavorano nella sfera della produzione materiale, nell’agricoltura, nel settore industriale, ecc. Le figure culturali creano immagini per preservare i nostri valori, che danno forma alla vita interiore di ogni persona e di ogni cittadino della Russia. Tutto questo insieme darà sicuramente un risultato. Tutto questo dovrebbe concretizzarsi nell’autosufficienza del nostro Paese, anche nei settori della sicurezza e della difesa. Ma questo non significa che il Paese si autoisoli. Significa che svilupperemo il nostro Paese e lo renderemo ancora più forte in collaborazione con i nostri partner e amici e in integrazione con la stragrande maggioranza dei Paesi che rappresentano la maggior parte della popolazione mondiale.

Ho già parlato di industria, scienza e così via. Ma nel farlo, dobbiamo in ogni caso preservare l’anima della Russia, l’anima della nostra nazione multietnica e multiconfessionale. Questa componente umanitaria, insieme alla scienza, all’istruzione e alla produzione reale, sarà la base su cui questo Paese avanzerà, sentendosi e considerandosi uno Stato sovrano e pienamente indipendente con buone prospettive di sviluppo. Sarà così.

Guardate, nonostante tutte le restrizioni imposte alla Russia… Cosa speravano? Si aspettavano che il nostro sistema finanziario andasse in pezzi, che l’economia crollasse, che gli impianti industriali si fermassero e che migliaia di persone rimanessero senza lavoro. Ma non è successo nulla di tutto ciò. La performance dello scorso anno ha collocato la Russia tra le prime cinque grandi economie mondiali in termini di parità di potere d’acquisto e di volume dell’economia. È molto probabile che continueremo su questa strada. Ho detto che l’inflazione in Russia è cresciuta un po’, ma è nei limiti degli indicatori rilevanti. La disoccupazione è al minimo storico del 3%. Si tratta di un dato senza precedenti: un tasso di disoccupazione nazionale del tre per cento.

Naturalmente, a questo proposito, emergono altre questioni legate alla forza lavoro, ma anche queste vengono affrontate. I redditi reali stanno aumentando per la prima volta da diversi anni. Certo, si tratta di redditi modesti, come ho detto, ma la tendenza è nella giusta direzione. Anche i redditi reali disponibili e i salari reali stanno crescendo. Nel complesso, tutto questo ci dà ragione di pensare che la Russia non solo ha un futuro sostenibile e positivo, ma anche che questo futuro è assicurato dagli sforzi di tutto il nostro popolo multietnico.

Ilya Doronov: In conclusione, ci si sente di dire che questo sembra un programma elettorale. Ma non possiamo parlarne fino a dicembre.

Grazie. Concludiamo la sessione plenaria. Abbiamo parlato per quasi tre ore e abbiamo cercato di rispondere a molte domande, ma non si può abbracciare l’infinito.

Signora Vicepresidente del Laos, grazie per essere venuta. Signor Presidente, grazie per aver risposto a tutte le mie domande.

Grazie a lei. Buona serata a tutti.

http://en.kremlin.ru/events/president/transcripts/72259

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IN BOLIVIA TRIONFA LA SINISTRA INDIGENISTA, di Giuseppe Angiuli

IN BOLIVIA TRIONFA LA SINISTRA INDIGENISTA

DOPO UN PERIODO DI CRISI E DESTABILIZZAZIONE

 

A sinistra Luis Arce, nuovo Presidente della Bolivia e già ministro dell’Economia nei Governi a guida di Evo Morales

A destra nella foto, il nuovo vice-Presidente David Choquehuanca

 

Le elezioni presidenziali tenutesi in Bolivia domenica 18 ottobre 2020 hanno visto la chiara vittoria senza contestazioni di Luis Arce Catacora, candidato del M.A.S. – I.P.S.P. (Movimiento al Socialismo – Instrumento Político por la Soberanía de los Pueblos), ministro di lungo corso nei governi diretti dell’ex Presidente Evo Morales.

Luis Arce, economista di solida formazione teorica, guiderà il Paese per i prossimi cinque anni e sarà affiancato dal suo vice David Choquehuanca, storico lìder dei movimenti contadini indigeni del Paese e già ministro degli Esteri con Evo Morales.

Queste ultime elezioni si sono celebrate in un clima di forte polarizzazione nel Paese andino e sono giunte al termine di un periodo di circa un anno contraddistinto da grande incertezza ed instabilità politica, dopo che l’ex Presidente Evo Morales (rimasto saldamente alla guida della Bolivia dal 2006 fino al 2019) era stato costretto a dimettersi a novembre dello scorso anno, appena dopo avere apparentemente vinto per la quarta volta consecutiva le elezioni presidenziali e quando le aspre contestazioni di piazza, unitamente alle pressioni dei vertici di Polizia e dell’esercito, lo avevano costretto alla fuga all’estero.

A partire dalla prima vittoria elettorale alla fine del 2005 di Evo Morales – soprannominato el indio, storico sindacalista dei contadini che abitano i vasti altipiani del Paese e primo Presidente indigeno (di etnia haymara) ad ascendere ai vertici di una nazione sud-americana – la Bolivia aveva imboccato un percorso politico di netta inversione di marcia rispetto al suo lungo passato di dominio coloniale ed aveva fornito un suo contributo decisivo al processo politico di integrazione continentale con gli altri Paesi del cono sur delle Americhe.

La Bolivia ha inscritta nel suo stesso nome tale propensione verso l’ideale dell’unità politica del sub-continente indio-latino e non per caso, circa due secoli fa, la nazione per un breve periodo era stata battezzata República de Bolívar, con un espresso riferimento alla figura mitica del libertador Sìmon Bolívar.

Anche in virtù del solido rapporto di amicizia che lo legava al compianto lìder venezuelano Hugo Chavez, Evo Morales non aveva avuto dubbi nel condurre la Bolivia all’interno del blocco dei Paesi latino-americani contraddistinti dal più enfatico radicalismo anti-U.S.A. e riuniti nell’ALBA (Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América).

Da tale percorso politico, la Bolivia aveva tratto una forte spinta all’emancipazione dalla storica piaga del sottosviluppo e aveva saputo intraprendere con efficacia un programma di massiccia redistribuzione dei proventi delle sue copiose ricchezze naturali e minerarie, consentendo forse per la prima volta dopo secoli, alle componenti più povere della sua società, di riscattarsi socialmente e di recuperare un diffuso spirito di fierezza e dignità.

Alla base dell’azione politica di Evo Morales e del Movimiento al Socialismo (un movimento politico da lui stesso fondato nel 1997) vi è sempre stata una miscela ideologica sincretica data dalla fusione di alcuni principi del marxismo classico con gli storici ideali del nazionalismo indigeno latino-americano: nella comunicazione politica del M.A.S., assume da sempre una consueta centralità il richiamo alla necessità di recuperare una piena sovranità del popolo boliviano rispetto alle entità straniere che storicamente lo hanno sottomesso e umiliato, depredandolo delle sue risorse umane e materiali.

L’avvento di Morales alla Presidenza aveva dunque segnato un complessivo rovesciamento del paradigma di rappresentanza degli interessi interni al Paese, avendo egli messo al centro del suo programma per la prima volta i diritti delle popolazioni rurali di origine dell’altopiano andino – in particolare le rivendicazioni dei piccoli poveri contadini cocaleros, ossia i coltivatori di coca, una pianta tipica della cultura andina – e non più gli interessi delle componenti elitarie di etnia bianca indo-europea, da lungo tempo assolute dominatrici nella conduzione della politica e del modello economico  estrattivista del Paese.

Erano state proprio queste elites bianche di origine europea, molto presenti soprattutto nell’area industrializzata della città di Santa Cruz de la Sierra e da sempre assai legate agli U.S.A., a non digerire fin dal primo istante l’ascesa di Morales alla più alta carica governativa del Paese nel 2006: fin da quel momento, le classi dirigenti di quella ricca regione dell’est della Bolivia avevano pertanto dato vita ad una forte conflittualità e ad una radicale delegittimazione delle scelte del Governo centrale di La Paz, non mancando di alimentare anche delle pericolose spinte secessioniste.

Evo Morales, Presidente della Bolivia dal 2006 al 2019

 

Il primo evento di grande impatto simbolico che aveva suggellato l’avvio del nuovo corso della Bolivia era stato senz’altro l’avvento della nuova carta costituzionale nel 2009, allorquando il Paese aveva assunto per la prima volta la denominazione di Stato plurinazionale di Bolivia, a testimonianza della composizione pluri-etnica e del carattere multi-culturale della sua popolazione[1].

Con lo storico passaggio a tale nuova dominazione ufficiale dello Stato e con l’approvazione della nuova Costituzione indigenista (che presenta non pochi punti di contatto con le coeve nuove carte costituzionali adottate da Venezuela ed Ecuador), la nuova Bolivia di Morales aveva dunque segnato il riconoscimento della sua natura di Stato di diritto unitario, plurinazionale e comunitario fondato sul pluralismo politico, economico, giuridico, culturale e linguistico.

 

Non per caso, fin dai suoi primi articoli la nuova carta costituzionale del 2009 menziona espressamente le nazioni e i popoli indigeni quali originari abitanti della Bolivia pre-coloniale e sancisce il diritto di tali componenti autoctone alla conservazione di alcune sfere intangibili di autonomia politico-amministrativa, al mantenimento della loro cultura originaria e ad esercitare delle forme di autogoverno tramite il riconoscimento di istituzioni proprie e tramite il consolidamento di entità territoriali autonome pur nel quadro di una pacifica convivenza all’interno dell’unità statale.

In altri passaggi della stessa magna carta, non manca una espressa consacrazione del diritto inalienabile delle comunità autoctone alla proprietà collettiva sulle terre ancestrali.

Come è tristemente noto, i percorsi rivoluzionari ispirati da una forte spinta ideologica di stampo egualitario  partono quasi sempre con degli ottimi propositi ma molto spesso – non soltanto alle latitudini latino-americane –  non riescono a raggiungere gli auspicati risultati in termini di benessere e sviluppo economico.

Anche in tempi recenti, altre esperienze di Governo delle sinistre in America Latina – tra tutte il Venezuela e il Brasile – a dispetto dei proclami enfatici di marca anti-imperialista, non sono state in grado di promuovere la nascita di nuovi modelli di sviluppo efficienti e dalle gambe solide.

Viceversa, nel caso della Bolivia di quest’ultimo quindicennio, pur senza volere indulgere verso qualsiasi atteggiamento di faziosità ideologica, è lecito senz’altro affermare che l’esperienza dei Governi a guida socialista non aveva oggettivamente deluso le attese anche sul terreno socio-economico, facendo conseguire al Paese degli indici di sviluppo e di crescita economica – pari a circa il 5% annuo in media – davvero invidiabili e che trovano difficilmente un riscontro all’interno di analoghi contesti nazionali dei Paesi latino-americani di questo XXI° secolo.

Nello stesso periodo, secondo i dati generalmente accettati dalla comunità internazionale e dalle principali testate giornalistiche del globo, i governi a guida del M.A.S. erano riusciti a mantenere sotto controllo sia l’inflazione che il tasso di disoccupazione e inoltre erano stati in grado di ottenere una drastica riduzione dell’indice di povertà interno al Paese: sotto quest’aspetto, è significativo ricordare che nel giugno del 2015, in occasione della 39^ Conferenza Generale della F.A.O. (organismo delle Nazioni Unite che si occupa di elaborare programmi per l’alimentazione e per lo sviluppo dell’agricoltura), il Governo boliviano era stato insignito del riconoscimento ufficiale per avere saputo ridurre di più della metà il dato percentuale della popolazione sotto-alimentata, che era passato dal 34% al 15% prendendo in esame un periodo compreso tra il 1990 ed il 2015.

Il celebre incontro tra Evo Morales e Papa Bergoglio nel 2015

 

Altrettanto significativo e per certi versi clamoroso era stato il riconoscimento pervenuto in tempi non sospetti ai governi socialisti a guida di Morales – che avevano visto proprio nell’attuale neo-Presidente Arce lo stratega della crescita economica nella sua qualità di ministro per l’Economia – perfino dalle colonne del Wall Street Journal, che nel 2014 aveva definito Luis Arce «il principale architetto del risorgimento economico del Paese»[2].

Tra le più significative misure di marca anti-liberista adottate negli anni di Governo a guida di Evo Morales va senz’altro segnalata la nazionalizzazione non solo dei giacimenti di gas naturale e di idrocarburi ma anche delle riserve di preziosi minerali e metalli strategici come litio, stagno e cobalto, oltre alla completa ri-pubblicizzazione delle risorse idriche del Paese, che prima dell’avvento dei governi di marca socialista erano finite anch’esse nel mirino delle società multinazionali, dando vita ad un forte rincaro dei costi di accesso all’acqua e così scatenando la protesta di ampie fasce del popolo boliviano.

L’immenso deserto di sale Salar de Uyuni in Bolivia, la più grande riserva di litio al mondo

 

Nel 2016, Evo Morales aveva provato a fare approvare con referendum consultivo una modifica alla Costituzione con l’obiettivo di consentire a se stesso di lanciarsi in una quarta ricandidatura consecutiva alle elezioni presidenziali (non permessa dalla magna carta da lui stesso promossa).

In quell’occasione, il popolo boliviano, votando a maggioranza per il NO al referendum costituzionale, aveva inviato al lìder un chiaro messaggio di presa di distanza dalla deriva auto-referenziale del suo potere personale.

Nell’occasione, si era registrato l’errore politico più evidente di Evo Morales, forse dettato da un suo eccesso di sicurezza e di spavalderia: il Presidente indio, anziché accettare di buon grado il responso dell’elettorato, aveva inaspettatamente forzato la mano, rivolgendosi alla Corte Suprema della Bolivia, dinanzi alla quale era riuscito a fare affermare il discutibile principio per cui il diniego alla sua possibilità di ri-presentarsi ancora una volta alle elezioni presidenziali avrebbe costituito una presunta «violazione dei suoi diritti umani» (sic).

Questa inaccettabile forzatura costituzionale aveva costituito la più imperdonabile delle sviste per Evo Morales ed aveva messo a rischio il funzionamento dei meccanismi di partecipazione democratica nel Paese, facendolo scivolare verso forme di caudillismo nella sua accezione deteriore (una strada già tristemente seguita dall’attuale Venezuela di Maduro).

Un vero peccato per il Presidente indigeno il quale, pure avendo bene governato per circa un quindicennio, non aveva saputo resistere alle tentazioni personalistiche e col suo comportamento aveva purtroppo creato un primo serio vulnus nel rapporto di fiducia fino ad allora sapientemente instaurato con la maggioranza della popolazione boliviana.

Morales in compagnia di Hugo Chavez e Rafael Correa

 

 

Alle elezioni presidenziali del 20 ottobre 2019, Morales si era dunque ri-presentato agli elettori provando ad essere ri-eletto per la quarta volta consecutiva.

Al termine del processo di conta dei voti, che aveva subito un andamento anomalo per via di alcuni poco facilmente spiegabili rallentamenti, secondo i dati diffusi dal C.N.E. (Consiglio Nazionale Elettorale) il Presidente uscente avrebbe conseguito il 47,08% dei voti contro il 36,51% del suo principale rivale e con tale scarto di voti, superiore al 10% dei votanti, non ci sarebbe stato bisogno di celebrare un secondo turno di ballottaggio ma Morales sarebbe stato rieletto Presidente al primo turno per la quarta volta consecutiva.

A quel punto, la sua controversa quarta proclamazione come Presidente dello Stato plurinazionale della Bolivia non era stata riconosciuta dalle opposizioni che, forti del sostegno esterno di Luis Almagro e della Organizzazione degli Stati Americani (O.S.A.) da lui presieduta, avevano presto incitato alla rivolta di piazza, da cui era scaturito un clima di forte polarizzazione dello scontro politico, con scontri violenti nelle principali città del Paese andino che in pochi giorni avevano provocato almeno alcuni morti e diverse centinaia di feriti.

In seguito, in un clima di aspra contestazione del risultato che non accennava a placarsi, a convincere Evo Morales ad annunciare il 10 novembre 2019 le sue dimissioni dalla carica presidenziale, aveva assunto una valenza decisiva la pressione esercitata su di lui dai vertici delle Forze Armate e della Polizia, che avevano disconosciuto la validità della sua rielezione, mettendo così in atto, in forme analoghe a quanto già avvenuto nella storia più recente dei Paesi dell’America Latina, una sorta di Golpe morbido istituzionale.

Al momento di lasciare il suo Paese per rifugiarsi momentaneamente in Messico e per poi stabilirsi in Argentina, Evo Morales aveva denunciato al mondo di essere stato costretto a rinunciare alla sua carica a causa di un «colpo di Stato».

 

Un’immagine delle proteste di piazza in Bolivia dopo la deposizione di Evo Morales nel novembre 2019

 

 

La defenestrazione repentina di Evo Morales – come detto, senza dubbio favorita da un suo evidente errore politico – si era inserita in un vasto disegno di destabilizzazione dell’arco dei Governi progressisti dell’America Latina messa in agenda in questi ultimi anni dal Dipartimento di Stato U.S.A., con l’obiettivo di disarticolare quel processo di integrazione politica su base continentale che aveva preso vita nel primo decennio di questo secolo sotto il decisivo impulso del compianto Presidente venezuelano Hugo Chavez.

Nel corso del mandato presidenziale di Donald Trump alla Casa Bianca, l’amministrazione in carica a Washington, quantunque abbia sposato in molti casi un approccio più soft alla sua politica estera in aree lontane come il medio oriente e la Corea del Nord, ha palesato la consapevolezza sulla necessità di riassumere al più presto possibile il pieno controllo politico di quell’ampia area compresa tra il fiume Río Bravo e la Patagonia e che già 2 secoli fa veniva ufficialmente considerata dall’establishment U.S.A. come il proprio «backyard» («il cortile di casa»), secondo una celebre definizione data dal Presidente James Monroe nel 1823.

James Monroe, Presidente degli Stati Uniti d’America tra il 1817 e il 1825

 

Se tale esigenza di asservimento geopolitico dell’intera America Latina ha costituito da sempre un punto irrinunciabile per la proiezione imperiale degli U.S.A., tanto più la riassunzione di un pieno controllo sul subcontinente latino-americano ha necessitato di essere ribadita con forza in questi ultimi tempi, quando i consiglieri più in sintonia con Trump – sul punto in dissenso con i vertici del Pentagono – si sono convinti della insostenibilità per gli Stati Uniti della compresenza di troppi fronti di guerra in giro per il globo e sulla conseguente inevitabilità di un parziale e progressivo rientro a casa delle forze armate regolari già dislocate in alcune aree-chiave del pianeta (Siria e Afghanistan su tutte).

Sta di fatto che la netta vittoria popolare alle elezioni in Bolivia del 20 ottobre 2020 del nuovo Presidente socialista Luis Arce, successore espressamente designato da Evo Morales (oggi ancora in esilio in Argentina), sta a dimostrare che per gli U.S.A. forse è ormai davvero finito il tempo in cui in una qualsiasi nazione dell’America Latina bastava registrare una qualche sintonia di intenti tra i vertici dell’esercito e una ristretta elite indo-europea per sequestrare la volontà di un intero popolo, ancorchè questo fosse desideroso di voltare pagina: in questo senso, gli esempi di Governi filo-U.S.A. impostisi in America Latina nel secolo scorso per il semplice volere di falchi come Henry Kissinger sono innumerevoli, a cominciare dalla triste dittatura militare nel Cile di Augusto Pinochet.

 

Il popolo boliviano – che ha dovuto attendere quasi un anno per poter tornare ad esprimersi nelle urne, dopo che le elezioni già fissate al 3 maggio 2020 erano poi state rinviate per l’emergenza sanitaria da Covid –  avendo tributato dei generosi consensi pari al 52% a favore di Luis Arce, con circa 20 punti di distacco dal principale sfidante di destra, ha senza dubbio inteso esprimere un forte desiderio di continuità con le politiche anti-liberiste e di segno integrazionista che avevano contraddistinto quasi un quindicennio di azione politica di Evo Morales.

Vista la profonda sintonia di vedute tra il neo-Governo progressista boliviano e quelli dello stesso orientamento politico già al potere in Argentina e in Messico, adesso il quesito che resta da sciogliere è quale futuro attende il continente latino-americano, alla luce di un quadro politico alquanto variegato e composito, che ad oggi contraddistingue l’intera regione a sud del Rìo Bravo.

 

 

Giuseppe Angiuli

[1] All’articolo 8 della nuova Costituzione dello Stato plurinazionale di Bolivia, si legge: «Lo Stato si fonda sui valori di unità, uguaglianza, inclusione, dignità, libertà, solidarietà, reciprocità, rispetto, complementarità, armonia, trasparenza, equilibrio, pari opportunità, uguaglianza sociale e di genere nella partecipazione,
benessere comune, responsabilità, giustizia sociale, distribuzione e ridistribuzione dei
prodotti e beni sociali, per vivere bene
».

[2] Cfr.  l’articolo a firma di John Otis, «Luis Alberto Arce, l’uomo dietro il successo di Evo Morales», The Wall Street Journal, 9 ottobre 2014.

 

CONTRATTI DERIVATI ED ENTI LOCALI, di Giuseppe Angiuli

I contratti derivati sono uno strumento finanziario utilizzato purtroppo sempre più diffusamente dallo Stato e dalle amministrazioni periferiche negli ultimi due decenni. Dietro la parvenza di una assicurazione e l’illusione di poter sfuggire ai vincoli draconiani di spesa e per la verità in parte anche alle necessità di riorganizzazione della spesa e dei servizi si nascondono troppo spesso contratti dalle clausole capestro in grado di pregiudicare ulteriormente l’equilibrio delle finanze pubbliche a vantaggio della finanza speculativa. Qui sotto un commento dell’avvocato Giuseppe Angiuli, uno dei pochi protagonisti di una battaglia giudiziaria e di informazione riguardante la liceità di questi contratti_Giuseppe Germinario

CONTRATTI DERIVATI ED ENTI LOCALI: LE SEZIONI UNITE DELLA CASSAZIONE FISSANO DEI PUNTI FERMI

 

 

Commento a cura dell’avv. Giuseppe Angiuli

Con la sentenza pubblicata il 12 maggio 2020, n. 8770, le sezioni unite civili della Corte di Cassazione si sono espresse sul tema dei contratti derivati stipulati dalle pubbliche amministrazioni con una storica pronuncia che fungerà senza dubbio da spartiacque tra una vecchia fase del dibattito giuridico, contraddistinto da un ricco confronto tra posizioni dottrinali e giurisprudenziali variamente articolate ed una nuova fase in cui tutti gli operatori del diritto dovranno giocoforza uniformarsi ad alcuni principi oggi fissati quali punti fermi dal supremo consesso della giurisprudenza di legittimità.

Tali punti fermi, a ben vedere, non concernono unicamente i contratti di finanza derivata negoziati dagli enti pubblici territoriali giacchè i giudici ermellini, pur essendo stati chiamati a dire l’ultima parola su un contenzioso specificamente connesso all’ambito pubblicistico, hanno colto l’occasione per prendere una posizione finalmente chiarificatrice su alcune tra le questioni di diritto più centrali e decisive per il mondo dei derivati, primo fra tutti il concetto di mark to market (MTM).

La vicenda approdata al vaglio delle sezioni unite riguarda alcuni contratti interest rate swap (IRS) stipulati dal Comune di Cattolica nel periodo compreso tra il 2003 e il 2004, sulla cui legittimità si era pronunciata nella fase di merito la Corte d’Appello di Bologna con sentenza n. 734 del marzo 2014, già commentata su questo sito[1], che aveva accolto le ragioni dell’ente locale, dichiarando la nullità e l’inefficacia dei contratti.

Dopo che il contenzioso era giunto al vaglio della Corte nomofilattica, con ordinanza del 10 gennaio 2019, la I^ sez. civile della Cassazione aveva avvertito la necessità di rimettere gli atti al Primo Presidente per la successiva trasmissione del ricorso alle sezioni unite, essendosi ritenuto necessario dirimere dei contrasti giurisprudenziali che attenevano in buona sostanza ai seguenti punti:

  • se i contratti swap (in particolare quegli swap a cui è connessa l’erogazione di un premio di liquidità a favore del cliente detto up front) costituiscano per l’ente locale una forma di indebitamento funzionale a finanziare spese diverse da quelle di investimento e dunque atta ad eludere il divieto posto dall’art. 119, comma 6, della Costituzione (per la cui violazione è prevista la sanzione della nullità contrattuale ex art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002);
  • se per l’approvazione dei contratti swap negli enti locali fosse o meno necessaria l’adozione di una delibera del consiglio comunale, implicando dette operazioni degli impegni di spesa anche per i bilanci degli esercizi successivi e tenuto conto del disposto di cui all’art. 42, comma 2, lett. i), del Testo Unico sugli enti locali (TUEL).

Nella prima parte della sentenza, le sezioni unite si sono intrattenute su una descrizione rigorosa e analitica del contratto derivato interest rate swap, analizzandone alcuni tratti distintivi quali il suo carattere atipico, la mancanza di una sua definizione generale all’interno del nostro ordinamento giuridico, la sua caratteristica di consistere in uno strumento finanziario solitamente negoziato al di fuori dei mercati regolamentati (in inglese: over the counter) e «rispetto al quale l’intermediario è tendenzialmente controparte diretta del proprio cliente».

Con riguardo alla decisiva definizione del concetto di mark to market, i giudici ermellini l’hanno fatta coincidere con «la stima del valore effettivo del contratto ad una certa data», con la contestuale precisazione per cui il MTM sarebbe «tecnicamente un valore e non un prezzo, una grandezza monetaria teorica calcolata per l’ipotesi di cessazione del contratto prima del termine naturale».

Volendo mettere a fuoco la causa dei contratti interest rate swap, i giudici delle sezioni unite hanno preliminarmente escluso che essa possa coincidere con quella della scommessa classica disciplinata dagli articoli 1933 e segg. del codice civile.

Piuttosto, la causa di tali negozi giuridici deve a loro avviso essere individuata «nella negoziazione e nella monetizzazione di un rischio» e affinchè i contratti IRS superino il vaglio del giudizio sulla loro liceità e meritevolezza ai sensi dell’art. 1322 cod. civ. diventa essenziale non solo che la scommessa finanziaria abbia ad oggetto un valore di mark to market indicato secondo criteri matematici univocamente intesi ma occorre altresì che l’accordo contrattuale investa direttamente la misura dell’alea del negozio nel suo senso più ampio, ossia che definisca gli scenari probabilistici sul futuro andamento dei tassi di interesse in connessione alla passività sottostante (mutuo, finanziamento, leasing, ecc.).

Con la sentenza in commento, le sezioni unite della Cassazione hanno mostrato di accreditare come buono quell’orientamento della giurisprudenza di merito che già da qualche anno, a partire da una celebre pronuncia della Corte d’Appello di Milano del settembre 2013 (a suo tempo commentata su questo sito[2]), aveva attribuito un’importanza centrale, al fine di valutare la validità della scommessa finanziaria racchiusa nel contratto di swap, al fatto che tra le parti del contratto fosse stato concluso un accordo attorno ad un’alea razionale e consapevole, senza che peraltro potesse assumere una valenza decisiva, almeno per i clienti privati, la finalità concretamente perseguita dallo strumento finanziario (se speculativa ovvero di copertura del rischio).

Oggi, con la sentenza n. 8770 del 2020, apponendo un imprimatur alla tesi in discorso, la Suprema Corte nomofilattica, nel suo consesso apicale, ha dunque concluso nel senso che, dovendosi sempre accertare la liceità delle operazioni interest rate swap caso per caso, osservandone la struttura concreta, «in mancanza di una adeguata caratterizzazione causale, detto affare sarà connotato da una irresolutezza di fondo che renderà nullo il relativo contratto perché non caratterizzato da un profilo causale chiaro e definito (o definibile)».

Nella seconda parte della sentenza in commento, i giudici delle sezioni unite hanno dapprima ricostruito il quadro normativo che, a partire dall’avvento dell’art. 2, d.m. n. 420 del 1996 (regolamento attuativo dei principi di cui all’ 35, legge n. 724 del 1994, che aveva autorizzato gli enti locali ad emettere prestiti obbligazionari destinati a finanziare investimenti), aveva consentito per un certo periodo agli enti pubblici territoriali di operare nel campo della finanza derivata, inizialmente con dei margini di relativa libertà d’azione, che si sono via via più ristretti man mano che è cresciuta la consapevolezza sui rischi esponenziali che il ricorso a tali strumenti generava per gli equilibri delle finanze pubbliche (come evidenziato in una delle prime circostanze da una pronuncia della Corte Costituzionale del 2010, la n. 52).

La Cassazione ha poi dato atto di come la gran parte delle operazioni di finanza derivata in cui sono rimasti coinvolti i Comuni italiani si sono perfezionate dopo l’avvento dell’articolo 41, legge n. 448 del 2001 (legge finanziaria per il 2002) e prima che intervenissero, nell’ordine, la legge n. 244 del 2007 – che per la prima volta impose agli enti di dichiarare espressamente nei bilanci la loro esposizione in operazioni di finanza derivata – l’art.62, comma 10, d.l. n. 112 del 2008 – che introdusse delle prime forti limitazioni al ricorso ai derivati da parte di regioni ed enti locali – e l’art. 1, comma 572, della legge n. 147 del 2013 – che infine, modificando il prefato articolo 62, vietò stabilmente alle pubbliche amministrazioni la stipula di contratti relativi a strumenti finanziari derivati, fatte salve alcune eccezioni rigorosamente indicate dalla stessa norma.

E poiché la vicenda del Comune di Cattolica oggi sottoposta al vaglio di legittimità della Suprema Corte era maturata nel suddetto quadro normativo antecedente alle prime restrizioni del 2007/2008, ecco che i giudici ermellini hanno avuto occasione di chiarire come anche nel periodo di piena vigenza dell’art. 41, legge n. 448/2001, il potere della P.A. di negoziare strumenti derivati incontrava senza dubbio dei limiti rigorosi attinenti al principio di convenienza economica delle operazioni finanziarie.

Anzi, a detta delle sezioni unite, «i contratti derivati, in quanto aleatori, sarebbero già di per sé non stipulabili dalla P.A., poiché l’aleatorietà costituisce una forte disarmonia nell’ambito delle regole relative alla contabilità pubblica, introducendo delle variabili non compatibili con la certezza degli impegni di spesa».

Al fine di verificare la regolarità di tutti i contratti derivati negoziati dalle pubbliche amministrazioni prima dell’avvento del generale divieto di cui alla legge n. 147 del 2013, occorre dunque verificare prima di tutto che tali contratti contenessero i seguenti elementi indefettibili, attinenti all’oggetto del negozio ex art. 1346 cod. civ.:

  1. un criterio matematico univoco per il calcolo del mark to market;
  2. una concreta misurabilità degli scenari probabilistici sul futuro andamento dei tassi d’interesse alla data di stipula dell’accordo;
  3. una precisa misurabilità dei costi impliciti del contratto.

All’atto di esplicare gli invocati chiarimenti sui due quesiti di diritto posti alla loro attenzione, le sezioni unite hanno sancito che i derivati contenenti una clausola di up front, implicando in sé e per sé una forma di finanziamento per l’ente locale, «costituiscono indebitamento ai fini della normativa di contabilità pubblica e dell’art. 119 Cost.» e che, per tale stessa ragione, la loro approvazione non poteva che implicare sempre e comunque una preventiva deliberazione del consiglio comunale, ai sensi del disposto di cui all’art. 42, comma 2, lett. i), TUEL.

In base all’intervento della Suprema Corte, deve altresì ritenersi che per tutte le operazioni in derivati stipulate dai Comuni italiani negli anni tra il 2002 e il 2013, la competenza inderogabile dei consigli comunali debba essere affermata anche in tutti quei casi di contratti che, pur in assenza dell’erogazione di un iniziale up front, siano stati approvati al fine di estinguere anticipatamente (ovvero di rinegoziare/ristrutturare) delle precedenti situazioni di indebitamento.

Per quanto detto, la sentenza in commento segna un passaggio giurisprudenziale decisivo senz’altro a favore delle ragioni dei numerosi enti pubblici territoriali del nostro Paese, impegnati da anni in una discreta mole di contenzioso giudiziario nei confronti degli istituti bancari.

* * *

Clicca qui per leggere la sentenza in forma integrale

[1] www.derivati.info/la-corte-dappello-di-bologna-annulla-le-operazioni-in-derivati-del-comune-di-cattolica/.

[2] www.derivati.info/per-la-corte-dappello-di-milano-il-derivato-otc-e-una-scommessa-legalmente-autorizzata/#a2

nb http://www.derivati.info/contratti-derivati-ed-enti-locali-le-sezioni-unite-della-cassazione-fissano-dei-punti-fermi/?fbclid=IwAR3fRd4rlJLjrifrA2xVRG7FFgxaM-77fDTC5MpxL5mGh_gNf0QQUtKyvmg#_ftnref2

LO SHOW DELLA LIBERAZIONE DI SILVIA ROMANO: UNA UMILIAZIONE INACCETTABILE PER L’ITALIA, di Giuseppe Angiuli

LO SHOW DELLA LIBERAZIONE DI SILVIA ROMANO:

UNA UMILIAZIONE INACCETTABILE PER L’ITALIA

 

 

Un curioso destino ha voluto che la nostra connazionale Silvia Romano, a distanza di circa un anno e mezzo dal suo sequestro avvenuto in Kenya per mano di rapitori mercenari e dopo il suo passaggio nelle mani del gruppo di fanatici terroristi qaedisti di Al Shabaab, sia stata finalmente rilasciata nella notte tra l’8 ed il 9 maggio scorso, ossia a 42 anni esatti di distanza da quella notte del maggio 1978 in cui il nostro insigne statista Aldo Moro trovò la morte al termine di un ben più celebre ed intricato sequestro di persona.

Non disponiamo di molti particolari e dettagli sulle fasi conclusive del rilascio della cooperante milanese ma tutte le fonti giornalistiche appaiono concordi quanto meno su alcuni elementi: il rilascio sarebbe avvenuto in una località a circa 30 chilometri da Mogadiscio (Somalia), avrebbe visto il determinante ruolo dei servizi segreti della Turchia del neo-sultano ottomano Recep Tayyip Erdoğan (che avrebbero preso in consegna la ragazza per poi passarla nelle mani degli uomini del nostro servizio estero, l’AISE) e nell’occasione il Governo italiano avrebbe versato al gruppo di rapitori un ingente riscatto che i più prudenti tra gli analisti quantificano tra i 2 e i 4 milioni di euro.

Come si sa, nel nostro Paese le regole ed i princìpi etico-morali hanno le maglie larghe e trovano applicazione con modalità non sempre coerenti e uniformi.

Nel 1978, quando era in gioco la vita di Aldo Moro, la gran parte della classe politica italiana dell’epoca – con poche eccezioni, tra cui vanno ricordati Bettino Craxi e l’allora Presidente della Repubblica Giovanni Leone – si trincerò in una ipocrita e gesuitica “linea della fermezza” onde giustificare al Paese la radicale impossibilità per le istituzioni di avviare una qualsiasi forma di trattativa con le Brigate Rosse: col senno di poi, in tanti abbiamo compreso che l’invocazione di quel severo e rigoroso principio era servito in realtà come foglia di fico per i tanti che a quel tempo smaniavano dalla voglia di liberarsi del troppo ingombrante statista democristiano e che grazie a quel sequestro così anomalo riuscirono a coronare il loro cinico desiderio.

In verità, se vogliamo evitare di prenderci in giro, occorre ammettere che quasi tutti i Governi al mondo, anche quelli apparentemente più ligi al canonico rispetto delle regole, quando viene sequestrato un loro cittadino in contesti di guerra o guerriglia, trattano eccome coi rapitori, ancorchè fingano di non farlo e/o dichiarino di non poterlo fare.

L’opinione pubblica del Belpaese è sempre stata emotivamente partecipe, per ragioni antropologiche congenite, a questo genere di vicende, finendo quasi sempre per immedesimarsi inesorabilmente nella vittima del sequestro, spesso per pure ragioni istintive di genuina empatia umanitaria.

Se così stanno le cose, poniamo subito un punto fermo nella ricostruzione del caso della giovane Silvia Romano, affermando che è stato oltremodo giusto e sacrosanto che il nostro Stato – come peraltro già avvenuto in molti casi analoghi nel recente passato – si sia attivato sul campo per ottenere la sua liberazione, anche al prezzo di avere dovuto attingere ai fondi riservati che ogni Governo solitamente mette a disposizione dei nostri servizi di intelligence per fare fronte a necessità di questo tipo.

Un gruppo di miliziani islamisti del gruppo somalo Al Shabaab, affiliato ad Al Qaeda

 

Pertanto, al fine di sgomberare il campo dai consueti argomenti manipolatori che in questi giorni hanno fatto strappare i capelli ad una certa stampa conformista e ad una certa opinione pubblica di casa nostra, è bene chiarire che, nella vicenda di Silvia Romano, non è stato l’intervento sul campo del Governo Conte a lasciarci perplessi in sé e per sé, né ci ha scandalizzati più di tanto la assai verosimile circostanza dell’avvenuto pagamento di un riscatto quale condizione irrinunciabile per l’ottenimento del rilascio della ragazza.

Piuttosto, in questa vicenda dai contorni assai ambigui, a lasciarci basiti sono state le modalità spettacolari e insolite dell’arrivo della nostra concittadina all’aeroporto di Ciampino, la quale è apparsa tutta agghindata con una vistosa tunica dallo stile castigato, esplicitamente richiamante ai simboli di quel medesimo gruppo di fondamentalisti islamici che l’hanno detenuta quanto meno nella seconda parte del suo sequestro e che infine l’hanno rilasciata nelle mani dei servizi segreti turchi, previo incameramento dei milioni di euro (due? quattro?) di riscatto.

Sono apparse altrettanto stupefacenti le dichiarazioni che la ragazza milanese ha rilasciato a caldo, appena dopo avere abbracciato i suoi congiunti, sotto lo sguardo compiaciuto del nostro Presidente del Consiglio e dell’inquilino della Farnesina, quando ha alluso, nell’ordine, all’ottimo trattamento ricevuto dai suoi rapitori, ad una sua presunta e sbandierata conversione all’islam e al suo non celato desiderio di fare rientro appena possibile nello stesso contesto in cui è maturato il suo sequestro.

Nella civiltà delle immagini e della comunicazione, soprattutto in casi delicati come questo, ogni particolare assume inevitabilmente un significato politico e allora sorgono spontanei i seguenti quesiti: come è stato possibile che a nessuno degli uomini della nostra intelligence sia venuto in mente di riferire a Silvia Romano, a ridosso della sua presa in consegna, che non era proprio il caso di presentarsi allo scalo di Ciampino con indosso degli abiti che richiamano esplicitamente non già all’islam in quanto tale (né tanto meno ai costumi tradizionali delle donne somale) bensì alla tenuta ufficiale della formazione islamica fondamentalista Al Shabaab, ossia la filiale somala della galassia terroristica di Al Qaeda?

Donne somale libere dai condizionamenti del fondamentalismo islamico con indosso il tipico abito locale Dirac

 

E che dire del nostro ineffabile Presidente del Consiglio Giuseppe Conte (così smanioso di annunciare su twitter la liberazione della ragazza e di correre a farsi fotografare con lei sulla pista di Ciampino) nonché del nostro Ministro degli Esteri, Luigi Di Maio? E’ mai possibile che essi non abbiano provato nessun imbarazzo nel fare da contorno, col loro pesante ruolo istituzionale, a quello che è stato oggettivamente un atto di propaganda mediatica a favore di una tra le più brutali organizzazioni del fanatismo jihadista?[1]

A questo proposito, è bene chiarire che non è stata nemmeno la conversione di Silvia alla religione di Maometto (vera o falsa che sia) ad averci scandalizzati in sé e per sè.

Anche l’islam merita tutto il nostro rispetto in quanto cultura religiosa millenaria.

Ma si dà il caso che i rapitori della nostra connazionale non pratichino l’islam autentico bensì una forma di islam spurio, artificiale, creato in laboratorio per evidenti finalità di destabilizzazione geopolitica, un tipo di islam fondamentalista e fanatico che, da quando è stato messo in circolazione sotto la regia dello spregiudicato turco Erdogan e della vecchia amministrazione USA Clinton-Obama, agendo col terrore e con le stragi, ha seppellito decenni di conquiste e di diritti civili di molti dei popoli dell’Africa e del medio oriente.

Trattasi peraltro di quella stessa branca di islam jihadista che spesso ha agito impunemente – giacchè purtroppo munito di alcune coperture inconfessabili – anche nel cuore dell’Europa, con l’obiettivo di creare caos e terrore, come i numerosi attentati di questi ultimi anni (che fino ad ora hanno colpito prevalentemente Parigi e la Francia ma che molto presto, Dio non voglia, potrebbero interessare anche l’Italia) stanno a dimostrare.

Inoltre, trattasi di quella stessa forma di islam oppressivo e jihadista che la Turchia di Erdogan promuove e supporta non solo nel Corno d’Africa ma anche in Libia, dove il nostro Paese, dopo avere subito ignominiosamente e passivamente (agendo contro i suoi stessi interessi) la defenestrazione di Gheddafi nel 2011, vede oggi legare i suoi destini proprio a quelli del Governo filo-islamista di Al Serraj, uomo prediletto da Erdogan e arroccato a Tripoli per gestire il presente e il futuro della ex colonia italiana nel cuore del Mediterraneo.

E allora, una volta chiarito che la tunica verde indossata da Silvia Romano al momento del suo arrivo in Italia non c’entra un bel nulla con i costumi tradizionali delle donne somale bensì è identificabile unicamente con l’abito che i miliziani fondamentalisti di Al Shabaab impongono di indossare alle povere donne che finiscono tra le loro mani ed una volta accertato il ruolo di protagonisti rivestito dai servizi segreti turchi nella risoluzione del suo sequestro, ecco allora che la sceneggiata o show di Ciampino svela tutto il suo significato propagandistico tanto ripugnante quanto inquietante.

Abbiamo più di una buona ragione per potere ipotizzare che la conversione all’islam di Silvia Romano, esibita dinanzi alle telecamere e a cui ha poi fatto eco la rivendicazione compiaciuta dei miliziani somali di Al Shabaab, possa avere fatto parte integrante del riscatto, cioè sia stata tra le condizioni imposte dai sequestratori jihadisti e dai servizi segreti turchi per il suo rilascio.

Più precisamente, possiamo legittimamente ritenere che la ex sequestrata, al momento di mettere piede nel nostro Paese, si sia fatta portatrice di un messaggio o avvertimento sinistro rivolto a noi italiani da Erdogan, il vero protettore dell’islamismo jihadista che ha già sconquassato Siria, Libia e Corno d’Africa.

L’arrivo a Ciampino di Silvia Romano il 10 maggio 2020

In ogni caso, come già saggiamente osservato in un condivisibile articolo comparso sul sito Analisi Difesa[2], la gestione mediatica che il Governo Conte ha fatto della liberazione della ragazza è stata a dir poco disastrosa e costituisce la rappresentazione icastica dello stato di profonda decadenza morale e culturale, prima che della perdita di influenza geopolitica, del nostro Paese.

Altrettanto condivisibile ci è sembrato il parere espresso da Maryan Ismail, docente di antropologia dell’immigrazione, donna di origine somala, intervenuta la sera del 12 maggio alla trasmissione televisiva Quarta Repubblica condotta da Nicola Porro: «L’esibizione dell’arrivo di Silvia data in pasto all’opinione pubblica senza alcun pudore o filtro è stato uno spettacolo immorale e devastante»[3].

A nostro avviso, se la scelta di collaborare con i servizi segreti di Erdogan deve essere apparsa al nostro Governo come una strada inevitabile, visti i rapporti di forza nel territorio della ex Somalia italiana – e infatti sul punto non possiamo che rispettare la decisione dei nostri servizi di sicurezza impegnati all’estero – non possiamo tuttavia ritenere accettabile che il nostro Paese, per mano dei suoi rappresentanti istituzionali più altolocati, abbia accettato di farsi umiliare con uno show grottesco allestito sul nostro territorio sotto il diktat di una delle bande più sanguinarie del jihadismo globale.

Con grande mestizia e imbarazzo, dobbiamo dunque registrare che mentre l’Italia appena 40/50 anni fa era protagonista sia nel Mediterraneo che nel Corno d’Africa e con uomini come Moro e Craxi riusciva a tutelare degnamente i nostri interessi nazionali, sviluppando delle ottime strategie di politica estera che ne salvaguardavano l’onore e la autorevolezza nel campo delle relazioni internazionali, oggigiorno, al fine di salvare la vita di una nostra concittadina in mano a dei sequestratori in una ex colonia italiana, siamo stati costretti a prostrarci a Erdogan e a mendicare l’intervento mediatore decisivo dei suoi servizi segreti, accettando di pagare una cambiale in termini di immagine che dovrebbe apparire umiliante a tutti quegli italiani che ancora conservano almeno un briciolo di dignità e fierezza.

Il logo ufficiale della formazione islamista al Shabaab

 

A tutto ciò si aggiunge infine un ulteriore elemento, tra i più paradossali che dobbiamo registrare a conclusione della vicenda della liberazione della cooperante milanese: il Governo Conte, avendo in questo caso agito in perfetta sintonia con i servizi di intelligence della filo-islamista Turchia e contro il parere ufficiale di Washington, sta riuscendo nel capolavoro politico di voltare le spalle agli USA proprio adesso che alla Casa Bianca c’è un Presidente che, in evidente intesa di ruoli con la Russia di Putin, mostra di avere deciso seriamente di porre un netto freno alle scorrerie dell’islamismo jihadista in giro per il mondo.

In conclusione, dobbiamo per lo meno auspicare che la cambiale che Conte e Di Maio si sono impegnati a pagare a Erdogan per ottenere la salvezza di Silvia Romano non debba comportare chissà quali altre umiliazioni e sottomissioni per l’Italia nello scenario libico, in un  periodo di inesorabile decadenza per il nostro Paese che somiglia ogni giorno di più ad una buia notte senza fine, in cui l’alba sembra non volere arrivare mai.

 

Giuseppe Angiuli

[1] Per un approfondimento sulle caratteristiche essenziali del gruppo islamista radicale Al Shabaab, operante in Somalia e in Kenya ed affiliato ad Al Qaeda, rimandiamo al dossier intitolato Storia, struttura e obiettivi del gruppo jihadista del Corno d’Africa, a cura di Gaetano Magno, pubblicato su www.osservatorioglobalizzazione.it

[2 ]Gianandrea Gaiani, L’Italia fa un regalo (anzi due) ai jihadisti, rintracciabile all’indirizzo http://www.analisidifesa.it/2020/05/litalia-fa-un-bel-regalo-anzi-due-ad-al-qaeda/?fbclid=IwAR1lAgGxwvJoLsyn5Uc5wfjaCNnHt6A9g4UEc9YDjjODJquO8VbisdtQPyQ

[3]www.liberoquotidiano.it/news/personaggi/22600704/silvia_romano_maryan_ismail_immorale_devastante_islam_falso_conversione_non_scelta_liberta_

GOOD BYE U.E.!, di Giuseppe Angiuli

GOOD BYE U.E.!

 Il periodo che stiamo vivendo in questo primo semestre del 2020, ricco di tumultuosi cambiamenti del nostro stile di vita in coincidenza con l’influenza globale da coronavirus, sarà senz’altro ricordato sui libri di storia come un momento topico di spartiacque da una fase storica ad un’altra, un momento in cui un vecchio ordine in decomposizione cede spazio ad un nuovo ordine che prende forma e definizione in tempo reale sotto i nostri occhi.

A distanza esatta di un secolo dall’influenza spagnola – che fece da sfondo alla ridefinizione degli equilibri geo-politici successivi al primo conflitto mondiale – un’altra pandemia dalla natura ed origine ancora non ben chiarite sta facendo da contorno ad un passaggio storico in cui tanti nodi gordiani stanno venendo finalmente al pettine, lasciando stupefatti molti tra noi, a cominciare da coloro che Bettino Craxi 25 anni fa ebbe a definire «i declamatori retorici dell’Europa», fautori di un «delirio europeistico che non tiene conto della realtà».

Come i fatti nudi e crudi stanno a dimostrare anche agli occhi dei più duri di comprendonio, un’Europa politicamente unita è sempre stata ben distante dall’esistere realmente, se non nella fantasia dei ben foraggiati burocrati di Bruxelles, giacchè troppo distanti sono sempre stati i tratti distintivi umani, linguistici, culturali e antropologici che storicamente connotano le sue sedicenti componenti fondanti.

Nel frangente più duro per i popoli del continente europeo, stanno crollando come castelli di sabbia tutti i principali luoghi comuni che hanno segnato un’epoca: il dovere di solidarietà tra Paesi vicini, i presunti effetti virtuosi dell’austerità finanziaria, lo stesso vincolo del pareggio di bilancio, la demonizzazione in sé e per sé della spesa pubblica e degli aiuti di Stato all’economia, tutti questi discutibili assunti su cui si è basata la narrazione conformista dell’europeismo retorico che ci stiamo lasciando alle spalle, stanno dimostrando improvvisamente il loro carattere fallace.

Al futuro remoto non possiamo mettere mani ma oggigiorno diventa senz’altro evidente che un’Europa davvero unita non potrà sicuramente esistere nel XXI° secolo, giacchè per i sistemi economici opulenti dei Paesi nordici come Germania, Olanda e loro satelliti risulterà sempre più conveniente camminare da soli con le loro gambe (apparentemente) forti piuttosto che mettere a disposizione dei popoli sottomessi della fascia latino-mediterranea i loro surplus di bilancio.

Questa U.E. è sempre stata come la fattoria degli animali di George Orwell, ossia una pseudo-comunità in cui ci sono sempre stati dei soggetti «più uguali degli altri».

Ormai il re è nudo e forse qui in Italia soltanto i visionari del PD potranno ancora non per molto raccontarci le loro frottole e panzane sullo spirito solidale dell’Europa comunitaria.

Se ormai perfino un ultra-europeista come Mattarella è giunto a mettere all’indice apertamente gli egoismi dei Paesi nordici in diretta TV, vuol dire che il super-lager U.E. è ad un passo dalla sua implosione, con tutti i suoi folli corollari a cominciare da quella maledetta moneta unica che a noi italiani in questo ventennio è costata la rinuncia ad una parte molto significativa del nostro tenore di vita e del nostro welfare (ahi, quanto erano belli gli anni ’80 del secolo scorso, vero?!).

Al punto in cui la crisi delle istituzioni comunitarie è ormai giunta, risulta oltremodo difficile immaginare o prefigurare qualsiasi ripensamento o accomodamento della Germania sulle folli regole di austerità dei trattati U.E.: i tedeschi nella storia hanno sempre perso quasi tutte le guerre decisive (e credo che perderanno anche quella in corso) giacchè troppo spesso hanno dimostrato di mancare di un requisito fondamentale di natura pre-politica, ossia la duttilità di cervello.

Hitler non riuscì a mutare strategia militare nemmeno quando i carri armati sovietici erano già a 5 chilometri di distanza da Berlino ed egli continuava ad assicurare con sussiego e baldanza ai suoi sodali che la Germania avrebbe senz’altro vinto la guerra.

Chi può pensare seriamente che la sig.ra Merkel e la Ursula Von der Lakrimen possano oggi dimostrare, alla vigilia dell’implosione del lager U.E., più duttilità di cervello di quanta ne dimostrò il Fuhrer nel 1945?

La Germania ha segato essa stessa il ramo su cui era seduta.

E’ giunto il momento per noi italiani di mollarla al suo destino, esattamente come abbiamo fatto alla nostra solita maniera ignominiosa nel 1943-45 (ossia decidendoci all’ultimo momento, quando i giochi sono ormai fatti e senza ancora avere deciso una vera strategia di uscita).

E dobbiamo farlo non perchè gli anglo-americani (che sono gli unici veri fautori di questa manovra che porterà al prossimo collasso della U.E.) siano buoni e caritatevoli o perchè intendano venire a «liberarci»: piuttosto, dobbiamo farlo perchè, esattamente come nel 1943-45, oggi non abbiamo altra scelta che quella di uscire il prima possibile dal lager a conduzione germanica in cui ci siamo fatti rinchiudere per nostra insipienza e temerarietà.

 

STA NASCENDO UN ASSE POLITICO DRAGHI-MATTARELLA?

In tanti sono sobbalzati sulla sedia dopo avere letto l’intervento di Mario Draghi sulle colonne del Financial Times di mercoledì 25 marzo 2020.

«Davanti a circostanze imprevedibili, per affrontare questa crisi occorre un cambio di mentalità, come accade in tempo di guerra», ha pontificato il super Mario nazionale con il tono stentoreo di chi non ha bisogno finanche di dimostrare la fondatezza dei propri assunti, potendo contare unicamente sul senso di prestigio e sulla deferenza suscitati nell’establishment italico dal suo ruolo e dalla sua stessa personalità.

Non crediamo di sbagliare se affermiamo che Draghi sia effettivamente uno degli uomini pubblici in assoluto più influenti tra quelli di nazionalità italica, da sempre legato ai circuiti più altolocati della finanza anglo-americana, a cominciare dal colosso Goldman Sachs con cui ha lavorato per un lungo periodo.

E quel cambio di mentalità oggi ritenuto così indispensabile ed improcrastinabile consisterebbe, ad avviso dell’ex Governatore della BCE, nel fatto che il principale problema da affrontare per le economie dei Paesi dell’eurozona non debba essere più individuato nell’inflazione (come da qualche decennio a questa parte ci era stato assicurato a reti unificate da tutti gli economisti neo-liberisti di scuola ortodossa) bensì nel pericolo imminente che «la recessione si trasformi in una depressione duratura».

E per scongiurare tale pericolo, lo stesso Draghi, ribaltando di 180 gradi quei medesimi postulati che sino ad ora lo avevano reso celebre quale sacerdote indefesso dell’austerità e dei vincoli di bilancio, ha proposto che i Governi dei Paesi europei ricorrano senza indugio ad «un aumento significativo del debito pubblico».

Pur non avendo egli spiegato attraverso quali forme e modalità dovrebbe realizzarsi tale auspicato incremento del debito pubblico, le sue parole hanno indubbiamente assunto l’oggettivo significato di una svolta strategica, di quel tipo di svolte a cui ricorrono i grandi generali, per l’appunto, in tempo di guerra.

Le reazioni a caldo degli osservatori più ingenui ed istintivi, quelli solitamente abituati a guardare il dito anziché la luna, si sono presto incentrate sulle critiche – legittime quanto ovvie e scontate – alle scellerate politiche di privatizzazioni e di austerità finanziaria che per un lungo periodo hanno visto nell’insigne super Mario uno dei più strenui interpreti ed assertori, quanto meno a partire dalla sua partecipazione al noto meeting che si tenne sul panfilo Britannia nel giugno 1992 (un consesso al quale, secondo alcuni bene informati, avrebbe discretamente preso parte anche Beppe Grillo, oggi sedotto dalle formose sirene orientali).

Ma volendo andare un po’ a fondo e provare a leggere tra le righe quale significato politico potrebbe racchiudersi nelle clamorose esternazioni di Draghi, noi proveremmo quanto meno a porci alcune domande.

Quali scenari per il breve e medio periodo si lasciano intravedere nel discorso dell’ex Governatore della BCE?

Che tipo di convergenze politiche inedite – se ve ne sono – risultano sottintese alle sue dichiarazioni?

C’è un nesso logico-politico-temporale tra l’intervento di Draghi sul Financial Times del 25 marzo scorso ed il quasi contestuale anatema anti-tedesco pronunciato da Sergio Mattarella in diretta TV la sera del 27 marzo, allorquando l’inquilino del Quirinale è apparso rivolgere un ultimo e disperato appello alle entità che reggono le sorti dell’€urozona, con delle parole che non lasciano scampo ad equivoci di sorta (avendo egli auspicato che esse «comprendano la gravità della minaccia prima che sia troppo tardi»)?

E come è spiegabile l’accoglienza positiva che verso un ipotetico Governo Draghi si è presto manifestata da personalità euroscettiche tra cui si segnalano il leader della Lega Salvini (intervenuto pubblicamente in Parlamento a favore di un ipotetico Governo guidato da super Mario) ed il direttore del quotidiano La Verità Maurizio Belpietro (autore di un editoriale con stile di panegirico, lo stesso giorno del discorso in TV di Mattarella)?

Sta forse nascendo un asse politico Mattarella-Draghi-Salvini-Meloni (con quest’ultima apparentemente più fredda di altri rispetto all’idea di un Governo di unità nazionale) che avrà il compito di accantonare la stagione di Giuseppi Conte e di assumere le redini del Paese nella fase immediatamente successiva ad una ormai assai probabile e quasi imminente implosione dell’€urozona?

Noi non disponiamo della palla di cristallo per potere fornire una compiuta risposta a ciascuno dei suddetti interrogativi.

Ciò nondimeno, siamo certi che nelle fucine della politica italiana ed internazionale oggi è in fase di preparazione uno scenario di grandi e importanti novità di portata storica.

Quanto al probabile ruolo che Mario Draghi intende ritagliarsi nella nuova stagione, riteniamo decisivo soffermarci su quella parte del suo intervento sul Financial Times in cui l’ex Governatore della BCE ha precisato che «livelli molto più alti di debito pubblico diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e dovranno essere accompagnati dalla cancellazione del debito privato».

A quale componente del debito privato ha inteso riferirsi Draghi?

Forse a quel debito oggi detenuto dalle grandi banche d’investimento internazionali, i cui bilanci (a cominciare da quelli di Deutsche Bank) sono pieni zeppi  di derivati tossici e di cui oggi la comunità finanziaria occidentale intende scongiurare il fallimento a catena?

 

 

Giuseppe Angiuli

BETTINO CRAXI, UNO DEGLI UOMINI POLITICI PIU’ ONESTI NELLA STORIA DEL NOVECENTO ITALIANO, di Giuseppe Angiuli

 

BETTINO CRAXI, UNO DEGLI UOMINI POLITICI PIU’ONESTI NELLA STORIA DEL NOVECENTO ITALIANO

 

 

Il ventesimo anniversario della morte di Bettino Craxi è stato accompagnato da un inatteso clima di curiosità, attenzione e partecipazione emotiva nell’opinione pubblica del nostro Paese, lasciandoci forse intravedere per la prima volta dei barlumi circa la possibilità di aprire finalmente un serio dibattito che conduca ad una radicale riscoperta e ad una giusta ri-valorizzazione della figura del leader socialista, con cui porre fine ad un lungo periodo di ingiusto oblio e di inaccettabile damnatio memoriae nei suoi riguardi.

A determinare tale clima nel Paese non penso abbia contribuito unicamente la programmazione nelle sale cinematografiche della pregevole pellicola di Gianni Amelio dal titolo Hammamet, contraddistinta da una interpretazione straordinariamente realistica dell’attore Pierfrancesco Favino e che, lungi dal fare luce sui torbidi retroscena del Golpe morbido del 1992 passato alla storia come Mani Pulite, è riuscito quanto meno nell’intento di risarcire parzialmente la dignità di Bettino Craxi restituendolo in tutta la sua nuda umanità all’immaginario collettivo degli italiani.

In realtà, a distanza di 20 anni esatti dalla tragica dipartita dello statista milanese – a cui fu di fatto reso impossibile il rientro in Italia per curarsi, senza correre il contestuale rischio di farsi arrestare – vi sono ormai tutte le condizioni per trarre finalmente un serio ed onesto bilancio sulle vicende che portarono alla fine della cosiddetta Prima Repubblica, con tutto quel che ne è conseguito in termini di trionfo del neo-liberismo e della globalizzazione nonché in termini di drastica riduzione della sfera delle opportunità economiche e dei diritti sociali degli italiani.

In particolare, i nostri concittadini con un po’ di capelli bianchi sul cranio sono oggi perfettamente in grado di operare un serio e crudo confronto fra le condizioni generali di vita in cui si trovava il Belpaese nei tanto vituperati anni ’80 del secolo scorso, quando i socialisti craxiani erano collocati a Palazzo Chigi (all’epoca l’Italia era la quinta potenza industriale al mondo) e le condizioni miserevoli e patetiche in cui esso si trova oggigiorno, dopo una lunga fase di sistematica spoliazione delle nostre ricchezze e di umiliazione della nostra sovranità nazionale e dopo quasi un trentennio di idiozie e scempiaggini (prima fra tutte quella sui meccanismi che avrebbero dato vita alla spirale dell’incremento del nostro debito pubblico) che hanno preso il totale sopravvento nel dibattito politico di casa nostra su qualsiasi ragionamento strategico minimamente dotato di buon senso.

Negli anni ’30 del secolo scorso, Benedetto Croce, con una saggia riflessione che al giorno d’oggi si attaglierebbe perfettamente a tutti i post-dipietristi travagliati ed in particolar modo ai grilloidi a cinque stelle, affermava che la frequente richiesta di onestà in politica altro non è che un «ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli».

E a chi gli domandava che cosa fosse per lui, in fondo, l’essere onesti nella vita politica, il filosofo nativo di Pescasseroli rispondeva così: «L’onestà politica non è altro che la capacità politica, come l’onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e di chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze».

Noi siamo d’accordo con Croce e ci permettiamo di aggiungere che a nostro avviso l’uomo politico onesto fino in fondo è colui il quale si dedica con passione alla lotta politica perseguendo una sua precisa visione del mondo e del Governo della cosa pubblica, che è capace di comunicare con trasparenza tale visione ai suoi elettori o seguaci e che, una volta acquisite delle responsabilità dirette verso la collettività, è in grado di ancorare nel modo più possibilmente coerente i suoi atti e comportamenti alle sue parole.

 

La tomba di Bettino Craxi nel cimitero cristiano di Hammamet

Ebbene, se ci si potesse trovare tutti quanti concordi con questa definizione del concetto di onestà nella vita politica, ecco che dovremmo quasi inevitabilmente pervenire alla conclusione per cui Bettino Craxi non soltanto poteva a giusta ragione qualificarsi come un uomo politico di grande onestà intellettuale ma con buona probabilità è stato senz’altro tra i più onesti e capaci fra tutti i dirigenti politici che il nostro Paese abbia avuto nella storia del novecento.

Craxi è stato onesto e capace prima di tutto nell’avere saputo approntare per tempo una rielaborazione critica, seria e lineare del retaggio ideologico ereditato dal pensiero positivista ottocentesco e dai movimenti politici di matrice marxiana[1].

Senza operare alcuna comoda o frettolosa abiura – come avrebbero fatto i post-comunisti appena dopo il collasso della cortina di ferro nel 1989 – appena dopo avere assunto la guida del P.S.I. nel 1976, Craxi seppe rapidamente dotare il suo partito di una visione moderna e realistica del socialismo riformista, una visione che riusciva a collegare sapientemente i meriti con i bisogni, la giustizia sociale con la salvaguardia delle libertà degli individui, le esigenze della crescita, della produttività e dello sviluppo con quelle legate al welfare ed all’ambizione di ascesa dal basso verso l’alto della piramide sociale.

Tale operazione di saggio revisionismo storico del pensiero marxiano – alla cui elaborazione concorse senz’altro in misura determinante l’apporto dottrinale di pensatori del calibro di Luciano Pellicani e Norberto Bobbio – consentì ai socialisti italiani di giungere bene attrezzati alla responsabilità di guidare il nostro Paese, nel corso degli anni ’80 del secolo scorso, muniti di grande credibilità, di sano realismo e di un’indubbia solidità politico-programmatica.

Il contesto che i detrattori di Craxi oggi descrivono in modo caricaturale come quello degli anni bui della «Milano da bere», della corruzione e delle tangenti fu in realtà un periodo di straordinaria ed impetuosa crescita economica dell’intero Paese, un periodo in cui al successo del Made in Italy nel mondo si associavano un’efficace mobilità sociale ed un potere reale d’acquisto dei salari dei lavoratori italiani impensabilmente alto se posto al confronto con quello odierno, un periodo in cui, in fin dei conti, anche alle famiglie di operai italiani era concesso ogni anno il lusso di farsi almeno due settimane di vacanza in riviera romagnola o sulle Dolomiti.

 

 

Sbaglia peraltro chi pensa di potere accostare politicamente ed ideologicamente in modo perfetto le figure di Bettino Craxi e di Silvio Berlusconi, che erano due personalità molto diverse e per certi versi di natura opposta.

Il rapporto di amicizia, complicità e di reciproca convenienza che Craxi strinse con Berlusconi fu dettato in primo luogo dallo stato di necessità in cui venne a trovarsi lo statista socialista: giunto a Palazzo Chigi nel 1983, egli si trovò a dover fronteggiare il fuoco di sbarramento dell’intero gotha economico-finanziario italiano, a cominciare da Cuccia-Mediobanca, Agnelli e De Benedetti con tutto il corollario della grande stampa ad essi connessa: Corriere, Stampa, Repubblica-L’Espresso.

Fu così che Craxi si trovò di fronte alla scelta obbligata di cercare una sponda mediatica nel parvenu Berlusconi, il quale a sua volta, non essendo mai riuscito a fare ingresso in certi salotti che contano, dapprima utilizzò l’amicizia con Craxi per conquistare terreno nel settore televisivo ma poi nel 1992 mollò presto il suo vecchio amico al suo triste destino, cavalcando anch’egli la prima fase dell’ondata giustizialista di Mani Pulite.

Ma Craxi fu un leader di grande onestà anche e soprattutto per il merito di non avere mai smarrito nella sua azione un forte senso della difesa dell’interesse nazionale, in un Paese come l’Italia che da almeno un migliaio di anni si contraddistingue per una strutturale e atavica propensione al particolarismo, al tradimento, ad un’esterofilia figlia della nostra debole autostima come italiani, un sentimento patologico che molto spesso ci induce perfino a vantare e sbandierare pubblicamente la nostra intelligenza col nemico, all’insegna del celebre motto «Franza o Spagna, purchè se magna».

La sua visione dirigista, statalista ed anti-liberista in economia non venne mai meno nel corso degli anni di Governo a partecipazione socialista, allorquando Bettino non mancò di protendersi coraggiosamente a difendere i gioielli delle nostre partecipazioni statali dalle grinfie e dagli appetiti famelici di uomini senza scrupoli del calibro di Carlo De Benedetti il quale già nel 1985, platealmente agevolato da Romano Prodi, con il tentativo maldestro di acquisizione del comparto alimentare dell’IRI (SME) provò con impudenza a mettere in atto le prime prove tecniche di privatizzazioni-svendita.

 

Craxi in compagnia dello storico leader palestinese Yasser Arafat

La notevole abilità e destrezza con cui Bettino Craxi si muoveva sui più complessi scenari della politica estera costituisce la prova più evidente del carattere genuino della sua passione politica, coltivata fin da quando era un ragazzino e che negli anni lo condusse ad instaurare una rete assai fitta e articolata di rapporti politici, in cui un posto d’onore era riservato ai leader laici e socialisteggianti dell’area mediterranea e dei Paesi in via di sviluppo, su tutti il palestinese Yasser Arafat, il somalo Siad Barre e il libico Muhammar Gheddafi (a quest’ultimo Craxi salvò la vita nel 1986, avvertendolo per tempo dell’intenzione degli USA di bombardare il suo quartiere generale a Tripoli).

Con la visione craxiana della politica estera euro-mediterranea l’Italia ha saputo esprimere il meglio della sua credibilità nel campo delle relazioni internazionali, agendo all’insegna di uno spirito di mutua cooperazione con tutti i popoli del bacino mediterraneo, una modalità d’azione che riusciva a coniugare la legittima difesa dei nostri interessi nazionali col rispetto della sacra aspirazione dei popoli del sud del mondo a coltivare il loro diritto alla conquista della sovranità ed il definitivo affrancamento dal colonialismo.

Secondo l’analista Luca Pinasco, «il grande sogno di Craxi era la costruzione di una “terza via socialista” definita “Socialismo Mediterraneo” che vedeva l’Italia leader di un terzo polo, socialista, il quale aggregava Paesi del sud Europa e i Paesi arabi più laici a sud e a est del Mediterraneo, proseguendo nella via già tracciata qualche decennio prima da Enrico Mattei»[2].

Sfortunatamente per Craxi e per il nostro Paese, agli inizi degli anni ’90 del Novecento, dopo il crollo del Muro di Berlino, gli USA iniziarono a guardare all’Europa con un’ottica del tutto nuova,  in un contesto inedito nel quale il nostro Paese aveva ormai perso la sua funzione strategica di contenimento dell’avanzata del comunismo sovietico verso ovest.

 

Antonio Di Pietro a cena con Bruno Contrada e con altri amici fidati il giorno del primo avviso di garanzia a Craxi (dicembre 1992)

L’operazione sporca Mani Pulite, nella cui orchestrazione furono coinvolti senza alcun dubbio alcuni apparati investigativi e/o informativi d’oltre-oceano, si configurò dunque come una precisa strategia di destabilizzazione degli equilibri politici dell’Italia, alla cui guida era previsto che si collocasse una nuova classe politica docilmente addomesticabile o comunque non in grado di opporre alcuna resistenza a tutte le principali dinamiche che avrebbero contraddistinto la successiva fase storica della Seconda Repubblica, nel contesto generale della globalizzazione neo-liberista: privatizzazioni scriteriate, de-industrializzazione del Paese, smantellamento del welfare e delle tradizionali garanzie del mondo del lavoro dipendente e, in politica estera, sudditanza euro-atlantica senza se e senza ma (la manifestazione più clamorosa di tale sudditanza l’avremmo avuta nel 1999 col bombardamento NATO di Belgrado, avvenuto giusto in coincidenza con l’ingresso del primo Presidente del Consiglio “comunista” a Palazzo Chigi).

Bettino Craxi, una volta compresa la natura sostanzialmente e politicamente eversiva – ancorchè formalmente confinata entro i limiti del diritto positivo – dell’azione dei magistrati del pool di Mani Pulite, si rese conto che per lui, soprattutto se fosse andato in carcere, il destino avrebbe riservato una fine assai simile a quella del caffè al cianuro già dispensato a personaggi del calibro di Michele Sindona e Gaspare Pisciotta e fu così che egli, essenzialmente al fine di salvaguardare la sua incolumità fisica, decise di rifugiarsi stabilmente in Tunisia sotto la protezione dell’amico Presidente Ben Alì (il quale nel 1987 era stato aiutato proprio da Craxi e dal nostro SISMI ad ascendere al potere a Tunisi, facendo infuriare i francesi).

Negli anni del suo esilio malinconico di Hammamet, Craxi seppe riordinare i suoi pensieri e ci regalò delle pillole di verità così chiarificatrici sulla natura oligarchica e profondamente penalizzante per l’Italia del processo di costruzione dell’Unione Europea al punto da apparire oggigiorno preveggenti.

Su tutte merita di essere ricordata la sua infausta previsione sui profondi squilibri economici e sociali che l’incauta adozione dell’euro avrebbe ineluttabilmente creato: «Affidare effetti taumaturgici e miracolose resurrezioni alla moneta unica europea, dopo aver provveduto a isterilire, rinunciare, accrescere i conflitti sociali, è una fantastica illusione che i fatti e le realtà economiche e finanziarie del mondo non tarderanno a mettere in chiaro»[3].

Nell’Italia del 2020, la riscoperta della figura di Craxi potrebbe costituire il miglior viatico per l’auspicabile imbocco di una nuova strada per il Paese all’insegna del recupero della dignità nazionale e del rilancio della stessa dimensione della politica al cospetto di organismi oligarchici a carattere sovranazionale che in questi ultimi decenni ci hanno colpito al cuore con delle «limitazioni di sovranità» che sono andate ben aldilà dei confini semantici dettati dall’articolo 11 della nostra carta costituzionale.

Ecco perché per i nostri giovani è oggi essenziale studiare a fondo la figura politica di Bettino Craxi sotto tutti i suoi profili quale dirigente socialista riformista, uomo di Governo, statista, stratega in politica estera, patriota e infine martire dell’indipendenza nazionale.

Per i giustizialisti pedanti come Marco Travaglio, che con la loro voce stridula ancora oggi strepitano e ululano alla luna ripetendo il consueto ritornello stantio del Craxi uomo corrotto e «latitante», la migliore risposta la si può forse attingere da una celebre riflessione di Indro Montanelli (che proprio del Travaglio fu a suo tempo maestro protettore nel periodo di avvio della sua carriera di giornalista), il quale soleva ripetere: «Nella mia vita ho conosciuto farabutti che non erano moralisti ma raramente dei moralisti che non erano farabutti».

 

Giuseppe Angiuli

 

[1] Si legga il significativo discorso tenuto da Craxi nel 1977 a Treviri, in occasione del 30° anniversario della ricostruzione della casa natale di Karl Marx, dal titolo «Marxismo, socialismo e libertà» (http://www.circolorossellimilano.org/MaterialePDF/marxismo_socialismo_liberta_bettino_craxi.pdf). Più noto di tale discorso è il celebre articolo Il Vangelo socialista, pubblicato sul settimanale L’Espresso nel 1978.

[2] L. Pinasco, Bettino Craxi e Giulio Andreotti: il Mediterraneo come spazio vitale, pubbl. in AA. VV., L’Italia nel Mondo – L’altra politica estera italiana dal dopoguerra ad oggi, Circolo Proudhon, 2016, p. 135.

[3] Citazione riportata nel libro Io parlo e continuerò a parlare – Note e appunti sull’Italia vista da Hammamet, a cura di A. Spiri, Oscar Mondadori, 2016.

LA PAZZA CRISI DI FERRAGOSTO, di Giuseppe Angiuli

LA PAZZA CRISI DI FERRAGOSTO

 La clamorosa crisi di Governo innescata dalla inattesa decisione di Matteo Salvini, assunta alla vigilia di ferragosto, di staccare la spina al Governo giallo-verde dopo appena 14 mesi di vita è stata espressione, prima di ogni altra cosa, della atavica situazione di instabilità politica che contraddistingue il Belpaese.

La strutturale sudditanza dell’Italia a centri decisionali stranieri, l’erosione irreversibile dei suoi spazi di sovranità, la carenza di una classe dirigente autonomamente dotata di una propria visione strategica di medio-lungo periodo sono tutti fattori che rendono il nostro contesto nazionale perennemente esposto a scosse telluriche innescate da costanti fenomeni di condizionamento e di ingerenza (più o meno diretta) di forze esterne in tutti i passaggi più delicati della nostra vita politica.

Che il Governo giallo-verde si reggesse su delle fondamenta alquanto fragili lo avevamo compreso in tanti e già da tempo: i toni bellicosi sfoderati dai Cinque Stelle contro l’alleato leghista nel corso della campagna elettorale per le europee ci avevano lasciato presagire una non più lunga durata per l’esecutivo guidato dall’avvocato civilista foggiano distintosi più per le sue pochettes che per le sue idee politiche piuttosto labili e indefinite.

Anche l’elezione della nuova Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Layen – nella cui circostanza i voti dei parlamentari europei del M5S erano risultati decisivi per salvare i fragili equilibri politici della più importante istituzione comunitaria – ci aveva fatto intendere che fra il PD e i pentastellati erano già in corso da tempo delle trattative politiche ad uno stadio molto avanzato, tese a disarticolare la maggioranza giallo-verde e “normalizzare” finalmente la situazione politica del Paese, ingabbiando ancora una volta l’Italia imponendole l’ennesimo Governo di marca tecnocratica, un tipo di Governo (come quelli a guida Monti, Letta, Renzi e Gentiloni) senz’altro gradito più a Bruxelles che al popolo italiano.

Eppure, nonostante tali evidenze, la decisione del “Capitano” leghista di staccare la spina al Governo l’8 di agosto è apparsa sorprendente, intempestiva e per certi versi poco comprensibile anche a molti degli addetti ai lavori solitamente abituati a dare sempre una spiegazione logica e coerente a tutti gli intrighi che ruotano attorno al Potere.

A tal riguardo, non v’è dubbio che a rendere non del tutto intelligibile la improvvida decisione agostana di Salvini deve esservi senz’altro qualche retroscena che è inevitabilmente sfuggito alla vista di molti di noi comuni mortali spettatori.

Salvini avrà forse temuto di essere cotto a bagnomaria con il prossimo e probabile arrivo delle puntate successive del Russia Gate all’italiana?

Salvini non avrà sopportato l’idea di dovere votare a favore di una legge di bilancio il cui impianto rigorista e austeritario era già stato garantito da Conte e Tria con la nota lettera di impegni alla Commissione Europea del 2 luglio scorso?

Salvini avrà ricevuto da Zingaretti la garanzia fallace sul fatto che il PD mai e poi mai avrebbe cercato l’accordo parlamentare per un nuovo Governo coi Cinque Stelle?

Probabilmente in ciascuna di queste ipotesi vi è un fondo di verità oggettiva ma ciò non muta la sostanza dei fatti: l’esperimento italiano di un Governo “populista” concepito soprattutto al fine di innescare una crisi strutturale nella U.E. (ormai una entità vista quasi come nemica strategica dagli anglo-americani) pare cedere il passo ad una riproposizione del consueto schema di un Governo del tutto prono ai desiderata dell’euroburocrazia brussellese oltre che dei suoi principali azionisti di maggioranza, ossia le cancellerie di Berlino e Parigi.

Premesso che l’avvento dell’€uro è stata senza dubbio una sciagura per l’economia italiana, i bene informati sanno che nessun Governo – finanche quello più marcatamente patriottico – avrebbe oggi la forza politica per farci uscire dall’€uro dalla sera alla mattina, magari per decreto-legge ovvero promuovendo un referendum popolare (come incautamente proposto da Beppe Grillo negli anni scorsi, in realtà con il surrettizio intento di incastrarci ancora di più nelle gabbie dell’eurozona).

L’Italia non avrebbe infatti la forza per attuare un’uscita unilaterale ed improvvisa dalla moneta unica, in quanto ciò ci esporrebbe a forti attacchi speculativi e a fughe di capitali che ci metterebbero in seria difficoltà.

L’unica modalità realistica di provocare l’implosione dell’€urozona (con l’indispensabile sostegno politico dell’amministrazione Trump e, magari, del nuovo governo inglese) sarebbe stata quella di iniziare a violare unilateralmente le sue assurde regole di austerità (come erano ben determinati a fare i sagaci economisti della Lega, fra tutti Borghi e Bagnai) così innescando un processo di progressiva ed irreversibile messa in crisi dei santuari della U.E., a cominciare dalla Commissione Europea: una eventuale paralisi politica dei famigerati organismi di Strasburgo che da anni ci propinano sempre le solite demenziali ricette economiche tutte lacrime, sangue e austerità avrebbe verosimilmente potuto condurre, nel breve o medio periodo, ad un agognato collassamento generalizzato della U.E., consentendo finalmente al nostro Paese di tornare almeno a somigliare a quella locomotiva industriale qual era 30 anni fa, ai tempi dei tanto vituperati (non certo dal sottoscritto) Craxi e Andreotti.

Sta di fatto che, accordandosi a Strasburgo con la “kapò” tedesca Ursula Von der Leyen (da me ribattezzata Von der Lakrimen) – cioè una tecnocrate che nel 2015 si era spinta addirittura fino a proporre di pignorare le isole greche nella fase del decisivo assedio economico-finanziario ai nostri poveri cugini ellenici – a cui hanno fornito i loro voti decisivi, collocandola alla Presidenza della Commissione Europea, Giuseppe Conte e  il Movimento 5 Stelle hanno gettato la maschera, mostrando a noi tutti di volere agire per puntellare le traballanti istituzioni comunitarie, anzichè per assestare il colpo decisivo a farle crollare, come sarebbe stato certamente nell’interesse del popolo italiano.

Con il voto decisivo alla Von der Leyen, dunque, il Movimento Cinque Stelle aveva di fatto già sancito anzitempo la fine della maggioranza governativa giallo-verde.

Soltanto gli ingenui possono sorprendersi della clamorosa propensione al trasformismo dimostrata in questo frangente da Giuseppe Conte e dal partito (o psicosetta) orwelliano fondato dal sedicente comico Beppe Grillo.

Quanto al giurista devoto di Padre Pio, in questi ultimi tempi – come svelato dal quotidiano “La Verità” nell’edizione del 31 agosto 2019 – si è appreso di suoi vecchi rapporti piuttosto stretti e cordiali con Renzi e con il PD, instaurati proprio quando questi compievano i più grandi disastri economici e sociali sulla pelle degli italiani, con i Governi guidati dal “bullo” fiorentino a partire dal 2014.

Prendendo spunto dai suoi rapporti altrettanto stretti con Angela Merkel e con Ursula Von der Leyen, di recente Maurizio Belpietro ha definito Giuseppe Conte come “il nuovo Badoglio” che consegnerà l’Italia ai tedeschi[1].

L’evocazione di Federico II di Svevia all’interno del discorso di Conte pronunciato in Senato il giorno della parlamentarizzazione della crisi unitamente all’utilizzo di veicoli Volkswagen nel corso dei suoi frequenti spostamenti fra Palazzo Chigi e il Quirinale costituiscono a nostro avviso degli evidenti messaggi esoterici che svelano la subordinazione politica dello stesso Conte agli attuali interessi neo-imperiali tedeschi.

Quanto al partito pentastellato, non essendoci qui lo spazio per approfondirne compiutamente la natura di vero e proprio maxi-esperimento di manipolazione delle coscienze e di democrazia totalitaria in salsa orwelliana, basti ricordarne – per fermarci sul terreno più squisitamente politico – gli storici legami di organicità ai Democrats americani.

La fazione lib/dem americana ha sempre orientato fin dalle origini tutte le principali decisioni politiche del partito di Grillo e Casaleggio e ciò avvenuto – ancorchè a qualcuno possa apparire strano – anche quando i grillini venivano spinti a contrapporsi istericamente al PD renziano: infatti, una delle più antiche tecniche a cui ricorrono da sempre i cosiddetti “poteri forti” è quella di agire su una stessa scacchiera muovendo più pedine apparentemente contrapposte tra loro, con il fine di inscenare uno scontro fittizio da dare in pasto alle masse e così assicurandosi il controllo dell’intera scacchiera.

Per inquadrare la natura ab origine perversa del Movimento 5 Stelle, forse la riflessione più calzante ce l’ha regalata il prof. Alberto Bagnai sul suo blog Goofynomics, allorquando ha rammentato di averci detto già in tempi non sospetti “che i 5 Stelle fossero la continuazione del PD con altri mezzi. La loro impostazione secondo cui la crisi dipende dal debbitopubblico che dipende da lacoruzzzzione si basava su due passaggi falsi (la crisi non è stata scatenata dal debito pubblico e questo non dipende dalla corruzione), ma facilmente comunicabili, sostanzialmente volti a delegittimare la politica e l’azione dello Stato nell’economia, e quindi, in definitiva, a sostenere quel progetto ultraliberale, hayekiano, di società, tutto web e distintivo, che poi è oggi sostenuto anche dagli ex “comunisti”. Le affinità ideologiche ci sono[2].

Di sicuro, un’attenta osservazione delle vicende di questi ultimi mesi ci ha chiarito oltre ogni ragionevole dubbio che i Cinque Stelle, oltre ad essere stati da sempre funzionali alla visione globalista dei Democrats americani, si sono dimostrati altresì molto sensibili ai richiami di Berlino (con la spudorata operazione Ursula Von der Leyen) e di Pechino (vista la grande disponibilità offerta al Presidente cinese Xi Jinping, giunto qualche mese fa apposta in Italia per siglare l’intesa sulla nuova Via della Seta).

E’ lecito dunque arguirne che se e quando vedrà effettivamente la luce, il nuovo Governo Conte bis, visti i presupposti da cui potrebbe nascere, non potrà che adottare un’agenda politico-economica sostanzialmente incline ad una contrazione degli investimenti produttivi (in modo tale da non irritare Germania e Francia, che sono già alle prese con una seria recessione) e ad una deregulation dei mercati (in modo tale da compiacere Pechino e gli investitori finanziari più globalizzati).

D’altro canto, secondo la visione dell’ottimo prof. Giulio Sapelli, alla luce della palese sudditanza a Parigi di buona parte dello stato maggiore dei piddini (sopratutto Gentiloni e Letta), “a insediarsi a Palazzo Chigi non sarà tanto un Conte bis quanto piuttosto un governo Macron“.

L’obiettivo finale – osserva Sapelli – è quello di trasformare l’Italia in una piattaforma logistica per l’entrata della Francia in Africa e la svendita di ciò che resta del nostro apparato industriale a Francia, Germania e Cina“.

Alla luce dell’attuale fase geopolitica disordinata e convulsa, non siamo in grado di prevedere quale durata potrà eventualmente avere un prossimo Governo PD-Movimento 5 Stelle e se e quanto esso si dimostrerà effettivamente in grado di servire gli interessi dei suoi ispiratori: quel che è certo è che ci attendono anni difficili contraddistinti da un generale riposizionamento di tutti i principali centri strategici, cosa che verosimilmente produrrà di per sé un lungo periodo di generale instabilità a tutti i livelli, con conseguenze in termini di caos sociale di cui per ora possiamo soltanto intravedere i contorni.

 

 

Giuseppe Angiuli

 

[1] Cfr. l’editoriale sul quotidiano “La Verità”, edizione del 31 agosto 2019.

[2] https://goofynomics.blogspot.com/2019/08/qed-fuoriserie.html?fbclid=IwAR1ZDDbrZt78zFHXGj0CYwTZBHpP-OdOHmwDf5rSrmXEJ4S1hk7CwGtqV_A

PUO’ ESISTERE OGGI UNA SINISTRA SOVRANISTA?, di Giuseppe Angiuli

PUO’ ESISTERE OGGI UNA SINISTRA SOVRANISTA?

 

 

L’attuale fase che stiamo vivendo è contrassegnata da una crisi generale e irreversibile del processo di globalizzazione neo-liberista e da uno scontro frontale in atto fra un capitalismo produttivo e manifatturiero, desideroso di affermare la sua centralità e che in ambito politico trova espressione nel campo cosiddetto “populista” ed un capitalismo finanziario e speculativo, di carattere trans-nazionale, che trova sponda politica nei vertici della U.E. e nelle forze della “sinistra” globalista ed arcobalenata, in tutte le sue forme.

A partire dall’avvento di Mr. Trump alla Casa Bianca, abbiamo avuto davanti ai nostri occhi la materializzazione evidente di una previsione che in tanti avevano formulato già da diverso tempo su come le forze del campo cosiddetto “populista” siano le uniche oggigiorno a volere realmente candidarsi alla guida del processo di fuoriuscita dell’occidente dalla globalizzazione; d’altro canto, ci sembra di potere legittimamente rilevare che tutto ciò che oggi da “sinistra” mostra di contrapporsi con virulenza al cosiddetto “populismo” altro non è che un’espressione più o meno diretta – e più o meno velata – degli interessi del capitalismo finanziario speculativo e globalista.

Sul teatro dello scontro politico qui in occidente, le forze sovraniste e anti-globaliste sono riuscite in misura sempre più crescente ad occupare la scena e l’immaginario dei popoli europei facendosi alfiere del recupero di concetti come la nazione, la patria, la difesa dei confini, la famiglia naturale, il protezionismo in economia, la difesa dei valori della tradizione, ecc.: non può sottacersi che ad imprimere tali concetti sull’agenda politica dei sovranisti abbia assunto un ruolo oltremodo decisivo la figura di Steve Bannon, leader carismatico del movimento mondiale Alt Right (ossia Alternative Right, “destra alternativa”), una locuzione in cui l’alternatività è da intendersi affermata in contrapposizione alle correnti Neocons che per almeno un quindicennio avevano dominato il campo conservatore-repubblicano negli Stati Uniti.

In tale contesto generale, la messa in crisi dello schema della globalizzazione avrebbe potuto teoricamente fornire l’occasione anche alle malconce soggettività della “sinistra” post-marxista novecentesca di provare a riconquistare un po’ di spazio politico caratterizzando la propria azione attorno ad un rilancio dei bisogni delle classi popolari lavoratrici, che in questi ultimi decenni contraddistinti dal dominio assoluto dell’ideologia neo-liberista e dall’avvento delle istituzioni anti-democratiche della U.E. hanno assistito inermi ad una umiliante e sistematica opera di smantellamento delle principali conquiste sociali storiche del movimento operaio.

Si sarebbe infatti potuto legittimamente prevedere che le classi subalterne – unitamente ai partiti di “sinistra” ed ai sindacati che di tali classi sociali da sempre si dicono espressione – potessero cogliere finalmente l’occasione storica di ritornare protagoniste della scena politica, approfittando degli effetti di rottura sistemica indotti dall’ondata “populista”, interpretando in tale contesto un proprio ruolo originale e attivo e magari differenziandosi in qualche modo dai tratti politico-culturali ritenuti meno accettabili del sovranismo di marca “populista”.

Sfortunatamente, l’osservazione della realtà di questi ultimi tempi ci dice che nulla di tutto ciò è avvenuto: anzi, al contrario, tutte le soggettività storicamente appartenenti al campo della “sinistra” stanno mostrando paradossalmente proprio in questa decisiva congiuntura storica la loro natura di strumento posto a difesa del vecchio ordine globalista in fase di decomposizione per via dell’azione dei “populisti”.

In altre parole, come affermavo in un mio intervento di circa un anno fa, tutte le odierne forze sedicenti progressiste o di “sinistra” ossia tutte quelle forze organizzate che nell’attuale quadro politico italiano si collocano in uno spazio che va dal Partito Democratico post-renziano fino alla galassia antagonista dei centri sociali, costituiscono la componente “sinistrata” della globalizzazione neo-liberista[1].

E come affermavo sempre nel citato intervento, l’ideologia della odierna “sinistra” arcobalenata è un impasto demenziale di liberismo economico, europeismo acritico, omosessualismo corporativo, femminismo isterico, immigrazionismo fanatico e, dulcis in fundo, di antifascismo ossessivo-paranoico in assenza di fascismo.

La prova della strutturale inettitudine dell’odierna “sinistra” a sapere leggere correttamente l’attuale fase di messa in crisi della globalizzazione neo-liberista possiamo ricavarla dall’osservazione per cui tutte le residue ed attuali forze sedicenti progressiste – per l’appunto, dal P.D. fino all’ultimo dei centri sociali – sembrano oggigiorno mosse da un unico obiettivo tattico o di breve periodo che è quello di contrapporsi strenuamente – e spesso con toni virulenti – al “populismo” in ascesa e, in particolare in Italia, facendo della demonizzazione di Matteo Salvini (un po’ come nei decenni scorsi avveniva per Silvio Berlusconi) il proprio unico motivo di esistere.

Di forze politiche dichiaratamente filo-globaliste o e sfacciatamente eterodirette dalla tecnocrazia U.E. come il Partito Democratico o la + Europa di Emma Bonino non mette conto finanche parlarne, giacchè tutti possono dare per scontata la loro strutturale funzionalità al capitale finanziario speculativo ed alla fazione americana lib-dem impersonata da Mr. Obama, Hillary Clinton e dal grande speculatore-finanziatore “filantropo” George Soros.

Quanto agli epigoni post-dalemiani raccolti attorno a figure scialbe e prive di carisma quali Nicola Fratoianni o Stefano Fassina, essi si apprestano quasi certamente, il primo nel breve periodo il secondo forse nel medio periodo, a fare rientro alla chetichella nella casa-madre P.D., così palesando la natura chiaramente strumentale (molto probabilmente ispirata fin dall’inizio da un’intuizione del sempiterno “baffino” malefico) della loro manovra di differenziarsi in questi anni dallo stesso P.D. fingendo di fargli la guerra ma in realtà coprendolo a “sinistra”[2].

Quanto alle sparute forze della “sinistra” ultra-radicale, una mesta menzione la meritano i fautori del cartello elettorale Potere al Popolo, presto sostanzialmente dissoltosi dopo il pessimo risultato riportato alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 e i cui padri fondatori vanno identificati nella rete dei centri sociali dell’area antagonista, nel piccolo ma ben determinato gruppo di ideologi marxisti-leninisti riuniti nella Rete dei Comunisti e in quei settori del sindacalismo radicale espressi dall’U.S.B. e dalla figura un tempo carismatica ed oggi alquanto patetico-eversiva di Giorgio Cremaschi.

Con il lancio dell’operazione Potere al Popolo, alcune menti raffinatissime hanno provato – apparentemente fallendo nell’impresa – a livellare ideologicamente e poi ad assorbire in un unico contenitore di marca radical-globalista la maggior parte delle sigle e siglette di quel poco che rimane nel panorama della disastrata area marxista-leninista post-novecentesca.

Col pretesto di indicare a propri modelli sociali di riferimento le esperienze storiche del mutualismo tardo-ottocentesco e brandendo il seducente slogan del controllo popolare “dal basso”, gli ideologi di Potere al Popolo hanno in realtà provato a forgiare un nuovo soggetto politico che, incline ad una nozione “liquida” di popolo tanto cara a Toni Negri, riuscisse a rendere la “sinistra” radicale italiana del tutto compatibile con i principali desiderata della finanza globale e del cosmopolitismo contemporaneo, sterilizzando su binari morti di velleitarismo parolaio il malessere popolare verso le politiche di austerità U.E. ed irridendo in modo blasfemo al concetto di sovranità nazionale, non a caso definito dalla portavoce Viola Carofalo “un feticcio”[3].

Un discorso a parte lo meritano altri gruppuscoli politicamente più lucidi ma inesorabilmente auto-referenziali della stessa area radicale, animati da intellettuali che almeno apparentemente ci tengono a presentarsi come distinti e contrapposti a tutte le principali formazioni dell’odierna “sinistra” filo-globalista ed arcobalenata ma il cui operato lascia tuttavia molto perplessi non già per la loro copiosa produzione teorica – che è assolutamente apprezzabile e degna di nota – bensì per le modalità alquanto ambigue e contraddittorie del loro consueto modo di agire.

Da diversi anni a questa parte, attorno al gruppo dei due fini politologi Moreno Pasquinelli e Leonardo Mazzei ha preso vita un’agguerrita micro-area di sedicente sinistra no euro al cui interno si è sviluppato un fecondo dibattito teorico di altissimo spessore, senza dubbio quello qualitativamente più elevato in tutto ciò che è stato dato vedersi in quest’ultimo decennio a “sinistra”.

Ai numerosi convegni di Chianciano Terme susseguitisi sempre per iniziativa del duo Pasquinelli-Mazzei e dei loro sparuti seguaci riuniti attorno al noto blog politico dal nome Sollevazione[4], in questi ultimi anni si sono affacciate le più brillanti intelligenze del mondo sovranista italiano, dall’attuale Presidente della Commissione Finanze al Senato Alberto Bagnai (il quale proprio in quei convegni ha iniziato ad avere un po’ di visibilità come uomo pubblico impegnato sui temi della critica alla moneta unica) all’attuale sottosegretario agli Affari Europei Luciano Barra Caracciolo, dal prof. Antonio Maria Rinaldi (oggi eletto deputato europeo con la Lega) all’economista keynesiano Nino Galloni.

Moreno Pasquinelli

Riflessioni di altissimo livello hanno accompagnato per anni gli appuntamenti convegnistici del gruppo di Sollevazione, nel corso dei quali non è mancato di assistere alla più severa e rigorosa critica verso la grave collusione ideologica dell’odierna “sinistra trans-genica” (una sagace definizione dello stesso Pasquinelli) con i poteri oligarchici dell’attuale Europa a trazione franco-tedesca: fatto sta che, a fronte di un livello analitico indubbiamente elevato espresso da questa piccola ma agguerrita area e nonostante il costante coinvolgimento nelle sue iniziative di alcuni fra i migliori cervelli della cultura sovranista del nostro Paese, alle innumerevoli kermesse di Pasquinelli e Mazzei ha sempre fatto seguito un sistematico e tragicomico fallimento politico-organizzativo di qualsiasi annunciato tentativo volto a trasformare tale collage di idee euroscettiche ed anti-liberiste in una vera e propria forza politica organizzata ed attiva nella società.

L’ultimo e il più clamoroso di questi fallimenti si è consumato alla vigilia delle elezioni politiche del marzo 2018, per via del capotico tentativo dello stesso Pasquinelli e del suo sodale Mazzei di coinvolgere a tutti i costi nell’erigendo cartello elettorale della neonata Confederazione per la Liberazione Nazionale[5] un coacervo di gruppi e gruppuscoli – dal Movimento Roosevelt diretto dal massone progressista Gioele Magaldi ai Forconi Siciliani di Mariano Ferro, dal Fronte Sovranista Italiano del prof. Stefano D’Andrea ai post-brigatisti dei CARC, senza disdegnare un collegamento a distanza perfino con la galassia della Fratellanza Musulmana protagonista delle note Primavere Islamiste nei primi anni di questo decennio – dal carattere talmente variopinto ed eterogeneo da non potere (ovviamente) mantenersi in piedi per più di una settimana.

Pertanto, per diretta responsabilità di Pasquinelli, per via della sua clamorosa inettitudine a sapere scegliere con cura i soggetti da mettere assieme al fine di assemblare un cartello politico-elettorale della “sinistra” patriottica, alle elezioni del 4 marzo dello scorso anno tutti gli elettori con una formazione “di sinistra” e sensibili alle tematiche della sovranità nazionale, non trovando sulle schede elettorali alcuna offerta politica credibile, hanno finito per convogliare inevitabilmente i loro voti nella Lega salviniana o nel Movimento 5 Stelle.

Uno degli innumerevoli convegni della “sinistra no euro” organizzati da Pasquinelli

da cui non è mai emersa alcuna seria iniziativa politica a carattere aggregativo.

 

A tale risultato ha contribuito altresì il catastrofico fallimento politico-organizzativo della microscopica Lista del Popolo per la Costituzione guidata in modo più che dilettantesco dalle due figure ormai consumate di Giulietto Chiesa e Antonio Ingroia (un’esperienza politico-elettorale dagli esiti davvero tragicomici alla quale anche il sottoscritto, suo malgrado, ha avuto la sventura di partecipare, sia pure per un brevissimo periodo).

Ma per tornare a Pasquinelli e Mazzei, non può sottacersi che questa loro metodologia politico-organizzativa clamorosamente bizzarra e caotica – che in qualche occasione non aveva mancato di fare infuriare il suscettibile prof. Bagnai – costantemente diretta ad assemblare micro-forze così ideologicamente eterogenee e così palesemente incompatibili fra loro al punto da non potere (ovviamente) dare vita ad alcun gruppo dirigente coeso e credibile, è stata da essi messa in atto talmente tante volte nel recente passato al punto da lasciarci sospettare a giusta ragione che i due politologi di formazione trozkista, la cui intelligenza sopraffina non può certo essere messa in dubbio da chicchessia, in questi anni possano avere agito scientemente con una finalità maliziosa e perversa in quanto rivolta deliberatamente ad impedire in ogni modo – anzichè a favorire – la costruzione e la discesa nell’agone elettorale di un’autentica “sinistra” patriottica o sovranista, di cui in realtà il nostro Paese avrebbe un grande bisogno.

La conferenza stampa di presentazione del Manifesto per la Sovranità Costituzionale

 

Da ultimo, fra tutte le micro-iniziative di questi ultimi tempi sorte nell’area della sedicente “sinistra” euro-scettica, merita di essere menzionata quella che ha visto in Stefano Fassina, nell’ex deputato bolognese di Rifondazione Comunista, Ugo Boghetta e nello scrittore Thomas Fazi i suoi più significativi fautori.

A tale iniziativa aggregativa, che ha preso vita in questi ultimi mesi con la pubblicazione del Manifesto per la Sovranità Costituzionale e che più di recente, dopo la rottura registratasi fra Fassina e il duo Fazi-Boghetta, annuncia di sfociare nel lancio di un soggetto politico denominato Nuova Direzione, hanno aderito diversi fini intellettuali come gli accademici Carlo Formenti, Alessandro Visalli e Andrea Zhok.

Spiace molto dovere rilevare che questa nuova area che si auto-definisce socialista e patriottica, a dispetto delle aspettative suscitate in alcuni attivisti speranzosi e in buona fede, sta mostrando fin dai suoi primi passi di risentire di un eccessivo pregiudizio ideologico verso l’azione del Governo giallo-verde e, ciò che è ancor più discutibile, sembra volere caratterizzarsi per una tattica politica tutta basata sulla contrapposizione frontale non già al PD ed ai poteri eurocratici (come ci si attenderebbe in questa particolare congiuntura) bensì alla Lega di Salvini con il non celato auspicio di favorire una quanto più rapida disarticolazione/decomposizione dell’attuale quadro politico “populista” ed una contestuale caduta in disgrazia dell’attuale maggioranza di Governo.

In buona sostanza, anche questa neo-componente di sedicente “sinistra” social-patriottica, da quel che sembra guidata da Fazi e Boghetta, nei fatti sta dimostrando di volere agire secondo il più classico schema cripto-globalista: di fatti, essa non nasconde di lavorare nel breve periodo per far sì che il Movimento 5 Stelle – ossia quello stesso soggetto che di recente a Strasburgo ha generosamente messo a disposizione i voti dei suoi parlamentari per garantire l’elezione della “kapò” tedesca Von der Leyen alla Presidenza della Commissione Europea – rompa il prima possibile il suo patto di Governo con la Lega di Salvini e dia vita ad una nuova alleanza politica e parlamentare col PD post-renziano, con la benedizione dall’alto di Papa Bergoglio e del figlio di don Bernardo Mattarella.

Al fine di manipolare i loro ingenui attivisti sinistrati colti ed euroscettici (siamo certi che Gianfranco la Grassa in questo caso preferirebbe l’aggettivo semicolti), attratti dalla lettura del Manifesto per la Sovranità Costituzionale, Thomas Fazi e Ugo Boghetta, in un primo momento agendo d’intesa con Stefano Fassina, fin dall’atto dell’insediamento del Governo Conte sono ricorsi ad una tecnica solo apparentemente fine e sofisticata di camuffamento e velamento della realtà.

Ossia, non potendo plaudere alle iniziative governative messe in campo (d’intesa con Trump) per liberare il nostro Paese dalla gabbia dell’austerità – perché ove lo avessero fatto, ciò li avrebbe costretti a considerare le forze di Governo come dei loro legittimi interlocutori politici – essi hanno preferito negare la realtà oggettiva dei fatti e dunque hanno provato a sostenere il presunto carattere fittizio e asseritamente teatrale dello scontro andato in scena in questo ultimo anno fra Palazzo Chigi e la Commissione Europea, della serie: Salvini, Borghi, Bagnai e Savona fingono soltanto di fare i sovranisti ma i veri sovranisti siamo noi!

E’ bene precisare che da certi ambienti politico-culturali dichiaratamente keynesiani ed anti-liberisti, come quelli facenti capo a Boghetta, Fazi e a Fassina, ci si potrebbe legittimamente attendere che essi sostengano l’attuale processo politico di liberazione del Paese dal giogo dell’austerità U.E. e che, al contempo, magari si differenzino dal Governo giallo-verde prendendo le distanze da certi suoi aspetti più discutibili, come il regionalismo differenziato o la privatizzazione dell’acqua pubblica; in alternativa, ci si potrebbe attendere che essi, pur sostenendo l’esecutivo nella sua battaglia campale contro Bruxelles, Berlino e Francoforte, colgano occasione per rimarcare i bisogni più essenziali delle classi popolari, magari reclamando una maggiore attenzione dell’esecutivo verso un piano di investimenti pubblici ovvero verso l’adozione di politiche di spesa sociale ovvero ancora l’integrale abolizione della legge Fornero o del JOB’S ACT.

Questo ci si attenderebbe dall’azione politica di gente come Boghetta, Fazi e Fassina e, se così fosse, saremmo ben lieti di aprire con loro un serio dibattito costruttivo sui limiti dell’azione del Governo giallo-verde.

E invece no, colpo di scena!

Fin da quando si è insediato il Governo Conte, soprattutto Fassina e Fazi, spesso accompagnandosi in convegni pubblici con economisti di chiara scuola bocconiana e in qualche caso con la partecipazione di ex consiglieri economici dei Governi Renzi e Gentiloni[6], in tutti questi mesi non hanno perso tempo per bersagliare quasi ogni giorno l’esecutivo giallo-verde proprio sul terreno decisivo dello scontro in atto con la Commissione Europea e con la BCE, artificiosamente negando l’effettiva esistenza di tale scontro.

Agendo in tal modo, sia Fassina che Fazi, in questa loro azione demolitrice accompagnati dalla complicità passiva del forse inconsapevole Boghetta, hanno palesato la loro implicita funzionalità ai piani strategici dei poteri globalisti, desiderosi di accantonare il prima possibile l’attuale stagione del “populismo” in salsa italiana e smaniosi di aprire la strada ad un nuovo governo tecnico a guida Mattarella-Draghi-Cottarelli ovvero, come sta emergendo più di recente, ad un Governo Conte bis che possa godere del sostegno di un’inedita alleanza fra il PD e un Movimento 5 Stelle ormai del tutto normalizzato attorno al sacro rispetto dei vincoli europei.

Se sul pedigree politico di Stefano Fassina – e sulle ragioni per le quali noialtri non abbiamo mai creduto alla sua sincera intenzione di operare politicamente per contrastare il mostro tecnocratico dei tempi odierni, chiamato U.E. – ci siamo già espressi in un già citato articolo alla cui lettura vi rimandiamo[7], forse qualche parola merita di essere espressa per inquadrare il personaggio emergente Thomas Fazi, attese anche le sue recenti comparsate televisive (specie su La7) che testimoniano come molto probabilmente alcuni ambienti abbiano deciso di puntare sulla sua figura per favorirne la repentina ascesa a ruoli visibili di leader mediatico o comunque di soggetto influencer di una certa area politica di sedicente “sinistra” sovranista.

Tipica aria da esponente navigato della “sinistra” romana radical chic, Thomas Fazi è il rampollo del noto editore Elido Fazi ed entrambi – padre e figlio – non possono certo nascondere una qualche contiguità rispetto all’area politica che fa capo alle fondazioni del magnate George Soros, prova ne è che molti interventi del più piccolo dei Fazi hanno spesso trovato spazio sul sito del noto network globalista/dirittumanista Open Democracy[8], un organismo alla cui creazione non ha concorso il solo Soros ma anche altri ben noti soggetti finanziatori come la Fondazione Ford ed il fondo Rockfeller, come apprendiamo da una semplice lettura di Wikipedia[9].

Negli anni 2013 e 2014, allorquando i temi dell’uscita dall’eurozona stavano faticosamente iniziando ad acquisire notorietà ed i movimenti sovranisti iniziavano a creare una prima significativa massa critica di seguaci, Fazi padre e figlio avviavano una campagna virulenta di attacco politico alla figura di Alberto Bagnai, ad esempio denigrandolo, con i toni sprezzanti tipici di un certo ambiente accademico-salottiero, per il fatto che il professore-divulgatore dei temi no euro insegnasse in un modesto ateneo di provincia quale quello di Pescara anzichè a Oxford o a Cambridge.

Nell’apice della polemica con l’attuale Presidente della Commissione Finanze al Senato, Thomas Fazi in una circostanza arrivava perfino a dichiarare dal suo profilo twitter che Bagnai lo avrebbe “minacciato di morte“.

In quegli stessi anni, proprio mentre prendeva sistematicamente di mira l’attività divulgativa del prof. Bagnai, lo stesso Thomas Fazi investiva il suo impegno di attivista nell’organizzazione di tavole rotonde sul tema del salvataggio dell’eurozona, con la partecipazione di esponenti di spicco della “sinistra” finanziaria come Varoufakis, dell’allora vice-Governatore della BCE, di economisti del FMI e, almeno in un caso, con la chiusura dei lavori affidata all’allora Ministro per le Riforme Costituzionali, la belloccia Maria Elena Boschi (all’epoca, come tutti ricorderanno, molto vicina a Renzi)[10].

Particolare molto importante, è significativo che detti convegni organizzati da Fazi in alcuni casi avvenissero col contributo economico della Commissione Europea, come apprendiamo da una dettagliata ricostruzione a suo tempo offertaci dallo stesso Alberto Bagnai sul suo noto blog Goofynomics, allorquando quest’ultimo cercava di difendersi con le unghie dagli attacchi pubblici ricevuti dallo stesso Fazi[11].

Thomas Fazi

 

E’ forse ancora più significativo ricordare che nell’autunno 2015, a margine della conclusione della tragica estate greca, quello stesso Thomas Fazi che oggi dagli studi di La7 si propone quale rappresentante della sedicente “sinistra” euroscettica, ebbe a pubblicare un pamphlet a quattro mani con l’eurodeputato piddino Gianni Pittella, il quale – lo ricordiamo ai più smemorati – nel 2014 era stato fra i principali sponsors del golpe nazi-atlantista di Piazza Majdan, allorquando non aveva avuto remore nel recarsi a Kiev ad aizzare la folla che in quel momento stava assediando il Parlamento costringendo alla fuga il legittimo Presidente ucraino Viktor Janukovyč.

E dunque, nell’autunno del 2015, quando la Grecia di Tsipras era stata da poco umiliata dalla Troika, mentre per le strade di Atene si cominciavano a vedere le prime mense pubbliche allestite per sfamare i poveri disoccupati e i senzatetto, Thomas Fazi e Gianni Pittella trovavano le energie per dare alle stampe il libro La notte dell’Europa. Perche’ la Grecia deve restare nell’euro (sic)[12].

La grande contiguità del piddino Pittella alla famiglia Fazi è di vecchia data ed è dimostrata anche dal fatto di avere egli scritto nel 2013, a quattro mani col padre-editore di Thomas, il libro Breve storia del futuro degli Stati Uniti d’Europa[13].

 

Poi arrivarono la BREXIT e l’avvento di Trump alla Casa Bianca e dunque è probabile che certi ambienti del mondo salottiero globalista abbiano nel frattempo mutato linea strategica ed oggi dunque abbiano interesse ad accreditarsi in Italia insinuandosi nelle odiate fila nemiche, dando vita a raggruppamenti che assumano le sembianze esterne di una “sinistra sovranista” ma che di fatto, nei momenti cruciali della lotta politica – come quello che sta vivendo l’Italia in questa politicamente calda estate 2019 – risultino funzionali ai disegni tattico-strategici dei poteri globalisti.

 

Concludendo quest’analisi dura e cruda sul mondo della “sinistra” contemporanea e sul mesto ruolo che essa sta recitando nell’attuale fase storica contraddistinta dall’ascesa del “populismo”, vi invitiamo a guardare sempre con attenzione e cautela alla reale natura della merce che siete interessati ad acquistare, specie nel settore cosiddetto di “sinistra”: spesso le apparenze ingannano e, perfino quel nuovo prodotto appena presentato sui banchi del supermercato della politica col fine di intercettare un certo pubblico di consumatori con idee sovraniste, magari munito di un marchio seducente ed inneggiante al patriottismo, sotto la confezione esterna tricolore, gratta gratta, nasconde quasi sempre surrettiziamente i colori della bandiera arcobaleno.

 

 

Giuseppe Angiuli

 

[1] Cfr. G. Angiuli, Il patriottismo costituzionale: per la costruzione di un’area politica di ispirazione popolare, socialista e patriottica, pubbl. in https://patriottismocostituzionale.blog/2018/07/01/il-patriottismo-costituzionale-per-la-costruzione-di-unarea-politica-di-ispirazione-popolare-socialista-e-patriottica/?fbclid=IwAR1vFwHmQqxjOWPGiI7qicCtloqc9ot-l5Jy5de21NDKW8MJOa5E9okoqAw.

 

[2] Sulla figura e sul ruolo politico assai ambigui di Stefano Fassina, mi permetto di rimandare ad un mio scritto del gennaio 2019, Stefano Fassina, il furbo incantatore della sinistra (quasi) euroscettica, pubbl. in https://italiaeilmondo.com/2018/12/30/3201/.

[3] http://temi.repubblica.it/micromega-online/carofalo-potere-al-popolo-noi-sinistra-dal-basso-vogliamo-ridare-speranza-ai-delusi-dalla-politica/.

[4] https://sollevazione.blogspot.com/.

[5] http://confederazioneperlaliberazionenazionale.it/.

[6] http://www.economiaumanista.it/2019/01/il-riscatto-dello-stato-presentazione-del-libro-sovranita-o-barbarie-di-thomas-fazi/.

[7] Stefano Fassina, il furbo incantatore della sinistra (quasi) euroscettica, cit.

[8] https://www.opendemocracy.net/en/author/thomas-fazi/.

[9] https://it.wikipedia.org/wiki/OpenDemocracy.

[10] http://www.eunews.it/how-can-we-govern-europe.

[11] http://goofynomics.blogspot.com/2014/12/una-pacata-risposta.html.

[12] https://www.ibs.it/notte-dell-europa-perche-grecia-libro-gianni-pittella-thomas-fazi/e/9788897931621.

[13]https://www.amazon.it/Breve-storia-futuro-degli-dEuropa/dp/8864118829/ref=tmm_pap_title_0?ie=UTF8&qid=1390920712&sr=8-4.

Venezuela! Apparenze e realtà_intervista a Giuseppe Angiuli

Le informazioni che ci arrivano dal Venezuela devono attraversare un filtro molto selettivo costituito dai partigiani del regime di Maduro e dai suoi più feroci avversari. Comprensibile nel clima di scontro aperto ormai generatosi per la contrapposizione durissima all’interno del paese e per il gioco geopolitico cruciale in atto in una area, l’America Meridionale, sino a poco tempo fa considerata il cortile di casa esclusivo degli Stati Uniti. Quel continente ha conosciuto innumerevoli tentativi di emancipazione quasi tutti naufragati, con l’eccezione di Cuba, in pochi anni. Il Venezuela proseguirà su questa falsariga? Buon ascolto, Giuseppe Germinario

Giuseppe Angiuli aderisce al  Centro Studi per la promozione del Patriottismo Costituzionale. E’ una associazione politica che si pone quale obiettivo fondante il recupero della piena sovranità per l’Italia nell’auspicabile contesto di un nuovo mondo a carattere multipolare. 

Il Centro Studi organizza e promuove dibattiti, convegni e riflessioni prevalentemente sulle seguenti tematiche: critica al modello di  finanz-capitalismo globalista, liberazione dell’Italia dai Trattati ultra-liberisti dell’€urozona, adozione di misure ed interventi di tipo keynesiano in economia, rilancio del ruolo dirigista dello Stato nel campo della programmazione economica, rafforzamento di un sistema di welfare moderno ed inclusivo, ripristino di un modello solidale e garantista delle relazioni di lavoro.

trasformismo in azione, di Giuseppe Angiuli

Riceviamo e pubblichiamo_Giuseppe Germinario

Stefano Fassina, il furbo incantatore della sinistra (quasi)euroscettica


In una fase storica contraddistinta da una contrapposizione frontale e difficilmente sanabile fra i popoli del nostro continente e le oligarchie finanziarie riunite attorno alla tecnocrazia U.E., una delle peggiori disgrazie che sono capitate al popolo italiano è stata quella di essersi trovato fra i piedi la peggiore sinistra politica che sia esistita da almeno due secoli a questa parte.
In questi decenni in cui il grande capitale speculativo trans-nazionale, facendo leva sull’imposizione di un assurdo sistema di vincoli di stabilità finanziaria (elemento connaturato ed ineluttabile per un’eurozona nata fin dal principio su presupposti anti-democratici), ha proceduto come un treno inarrestabile nel percorso di sistematico attacco ai diritti sociali che avevano garantito per un lungo periodo il benessere di buona parte degli italiani, il ceto politico un tempo formatosi fra le fila del vecchio partito comunista più forte dell’occidente ha sempre svolto egregiamente, con uno zelo servile assai gradito ai padroni del vapore, il suo ruolo di cane da guardia degli interessi dei grandi poteri oligarchici euro-atlantisti, accompagnando le classi lavoratrici ed i ceti produttivi del nostro
Paese, fin dai tempi dell’approvazione del Trattato di Maastricht, verso una lenta ed ineluttabile agonia, venduta come il meraviglioso paese di Bengodi.
Ma mentre la maggior parte degli ex comunisti italiani (a partire da Napolitano, D’Alema, Veltroni e Bersani) non hanno mai nascosto la loro cieca e fideistica adesione al processo di sistematica erosione della sovranità popolare man mano che prendeva corpo il sempre maggiore accentramento di poteri in capo agli organismi tecnocratici dell’eurozona – al punto che oggi essi appaiono in grave difficoltà dinanzi ai loro storici elettori e sono quasi costretti a rinunciare ad un impegno politico in prima persona – vi è qualcuno, forse più scaltro e più cinico di loro, che ha sempre avuto l’abilità di preservarsi una immagine di uomo dall’intelligenza duttile e creativa, più al passo coi tempi, al punto da essere oggi accreditato, specie dopo la nascita della inedita associazione politica chiamata Patria e Costituzione, come il più presentabile dei leader della sinistra storica italiana, l’unico apparentemente ancora in grado di dare una lettura articolata della crisi dell’eurozona,
l’unico con una visione generale ancora quanto meno legata alla realtà oggettiva dei fatti.
Stefano Fassina, economista di scuola bocconiana, nonostante sia risaputo il suo contributo
scientifico fornito per alcuni anni al Fondo Monetario Internazionale (tempio dell’ideologia neoliberista mondiale), è riuscito a ritagliarsi un ruolo di nicchia che, nel panorama desertificato della sinistra odierna, lo proietta come potenziale punto di riferimento per tante persone di sensibilità progressista che, disorientate dalla decomposizione degli schemi ideologici novecenteschi, quantunque oggi manifestino ostilità alla Unione Europea ed alle sue politiche di austerità, non se la sentono di unire le loro forze a quelle del cosiddetto campo “populista” (Lega e Movimento 5 Stelle).


Tuttavia, un’attenta rilettura delle scelte e delle vicende nella storia recente di Stefano Fassina dovrebbe fornire a noi tutti una nutrita serie di argomenti per dubitare seriamente dell’effettiva affidabilità del Nostro quale potenziale leader di una possibile o fantomatica area politica di sinistra patriottica o sovranista.
La politica, come insegna il Machiavelli nel suo mai sufficientemente letto Principe, è spesso l’arte della dissimulazione dei propri intenti strategici, ragion per cui i bene accorti sanno che per valutare in modo attendibile i reali intenti di un uomo politico non ci si può solo soffermare sulle parole o sui discorsi che questi pronuncia in pubblico bensì occorre prima di tutto osservare la coerenza nei comportamenti e nelle scelte che ne segnano il percorso.
Ebbene, applicando tale metro di valutazione agli anni più recenti della carriera politica di Stefano Fassina, non può che emergere un ritratto assai poco limpido dell’economista bocconiano, il quale troppo spesso ci ha dato l’impressione di non credere fino in fondo nelle sue improvvise sterzate euroscettiche alle quali ci ha di tanto in tanto abituato ed a cui ha poi sempre fatto seguire degli improvvisi e puntuali rientri nell’ovile sinistrorso, specie in coincidenza con le più importanti scadenze elettorali.
Ci spiace rilevare che quando in questi anni di drammatica crisi si è trattato di affrontare seriamente la Troika e le sue inaccettabili imposizioni ai popoli europei, Stefano Fassina, nonostante le apparenze, non è mai stato in grado di fare seguire alle sue parole i fatti.
Di sicuro, non si può non riconoscergli delle notevoli doti di camaleontismo e di equilibrismo politico con cui è spesso riuscito ad affabulare i sinistri più euroscettici, illudendoli di essere pronto a costruire per loro una vera casa politica per poi lasciarli puntualmente all’addiaccio, privi di una guida e di una strategia, sedotti e abbandonati, mentre lui non ha avuto molti problemi nel farsi rieleggere al Parlamento nelle fila del raggruppamento post-dalemiano Liberi e Uguali.

Stefano Fassina al Roma Pride nel 2015
Eppure, anche ai sinistri più colti ed euroscettici, quelli che hanno compreso le cause strutturali dei guasti della moneta unica leggendo i libri di Bagnai o di Cesaratto, non dovrebbe risultare molto difficile comprendere che in realtà Fassina non ha mai fatto sul serio quando si è trattato di fare i conti con il mostro tecnocratico dei tempi odierni, chiamato U.E.
Se non bastasse il fatto di essere stato un importante dirigente del PD all’atto della nascita del Governo Monti nel 2011, il Nostro sarà a lungo ricordato soprattutto per avere ricoperto il ruolo di vice Ministro dell’Economia (non proprio un dicastero qualsiasi) nel Governo Letta nel 2013, proprio in coincidenza con un periodo terribile per il popolo italiano, in cui le oligarchie di Bruxelles e di Francoforte imponevano l’adozione di due misure draconiane che a tutt’oggi costituiscono una vera camicia di forza per la nostra economia, rendendo di fatto impossibile l’adozione di sensate misure fondate su investimenti pubblici e spesa a deficit: stiamo parlando del fiscal compact e della famigerata modifica dell’art. 81 della Costituzione con l’introduzione dell’obbligo del pareggio di bilancio nella nostra magna charta.
E giusto a proposito di tali interventi esiziali per le sorti dell’economia italiana, Fassina nel 2013 – palesando una sudditanza psicologica verso l’Europa a trazione teutonica – aveva impudentemente dichiarato che tali misure di controllo rigoroso sui conti pubblici, “pur sbagliate sul piano economico”, erano comunque utili sul piano politico al fine di “dare garanzie all’opinione pubblica tedesca” (sic)
Non è difficile rintracciare in quelle parole di Fassina lo stesso cinismo manifestato da Mario Monti quando ebbe a definire la crisi greca come “il più grande successo dell’euro”, giacchè con quella crisi che pure ha fatto tanti morti e feriti si sarebbe comunque riusciti a convincere la Germania della presunta sostenibilità della moneta unica nel medio-lungo periodo.
In altri termini, lo stesso Fassina il quale oggi strepita contro la presunta incapacità del Governo giallo-verde di sapere imporsi con la Commissione Europea, all’epoca in cui il famigerato regime del fiscal compact stava giusto entrando in vigore, difendeva le finalità di fondo di quel tipo di misure austeritarie anti-democratiche, che soffocano sul nascere qualsiasi vagito di sovranità degli Stati nazionali e la cui cogenza costituisce il vero fattore che ha impedito al Governo Conte di imprimere dei connotati maggiormente espansivi alla manovra finanziaria per il 2019.

Stefano Fassina in compagnia di Yanis Varoufakis
Ed anche negli anni successivi alla sua plateale rottura con Renzi e col PD, il Nostro, pur essendosi insistentemente proposto – finora con evidente scarso successo – come possibile guida politica di una nuova area di sinistra patriottica, costituzionalista ed apparentemente anti-eurista, non ha mai mancato di lasciarci basiti per avere sempre immancabilmente assunto, in tutti i passaggi decisivi del suo percorso, delle scelte e delle posizioni politiche oggettivamente funzionali ai desiderata dei poteri finanziari globalisti https://www.youtube.com/watch?v=IJXIvF_-q_0.
Poco più di un anno e mezzo fa, nell’aprile del 2017, quando si era nel pieno svolgimento del ballottaggio alle Presidenziali francesi, Fassina non aveva mancato di esortare la sinistra d’oltralpe a prendere posizione netta contro il presunto “pericolo xenofobo” a suo dire costituito da Marine Le Pen e così, aderendo alla più consunta vulgata dell’antifascismo d’accatto, il Nostro aveva dato anch’egli il suo piccolo contributo alla scalata all’Eliseo di Emmanuel Macron, vero garante della finanza cosmopolita e parassita, oggi investito da una vera e propria insurrezione popolare con delle conseguenze geopolitiche tuttora imprevedibili per le sorti della malconcia Francia2
.
A ben vedere, in quella improvvida uscita che sapeva tanto di implicito sostegno a Macron sta tutto lo spirito gesuitico di Stefano Fassina.
In tale occasione, infatti, il Nostro non aveva dichiarato un sostegno esplicito al rampollo del Gruppo Rothschild – la cui candidatura era stata partorita in tutta fretta, in certi salotti parigini che contano, al fine di scongiurare un pericoloso scivolamento della Francia nel campo “populista” – ma nel rivolgersi al compagno Jean-Luc Mélenchon (leader indiscusso della sinistra anti-eurista francese) aveva impiegato quei tipici toni da aut-aut a cui si è soliti ricorrere negli ambienti conformisti di sinistra per manipolare a dovere gli ingenui militanti di base ed il cui significato era:
“Sì è vero, Macron rappresenterà pure gli interessi della grande finanza ma non vorrai mica
schierarti con la neo-fascista Le Pen”?
Nel marzo dello stesso anno 2017, nell’accogliere il citato Jean-Luc Mélenchon a Roma in
occasione dell’importante convegno internazionale sul Piano B per l’uscita dall’euro, Fassina aveva accettato supinamente il veto alla presenza al convegno del prof. Alberto Bagnai (primo economista italiano ad avere portato all’attenzione della nostra opinione pubblica i guasti sistemici dovuti all’incauta adozione della moneta unica), un veto postogli con toni ultimativi da Eleonora Forenza, euro-deputata eletta a Strasburgo con

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https://www.repubblica.it/politica/2017/04/24/news/elezioni_francia_fassina_le_pen_invotabile_me_lenchon_si_schier
i_-163769308/?fbclid=IwAR1RPAgNf3Y7cizjOzkuGMTol_8RvfU1EYSIhLK713Ep-ZelgeRb7iEYGuo
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Rifondazione Comunista e da sempre distintasi per delle posizioni apertamente filo-globaliste.
In questi ultimi tempi, in piena continuità col suo spirito gesuitico, abbiamo assistito ad un Fassina spesso intento ad attaccare insistentemente e con una veemenza oratoria degna di miglior causa l’azione del Governo Conte, quasi che il suo principale obiettivo tattico fosse quello di mettere in difficoltà l’esecutivo proprio nei momenti più delicati della sua azione di contrapposizione/contrattazione con gli organismi implacabili del mostro tecnocratico
chiamato U.E.
E mentre attacca il Governo giallo-verde vestendo i panni del vero sovranista ferito nella sua dignità, lo stesso ineffabile Fassina non mostra di avere alcun imbarazzo nel proporre delle improbabili tavole rotonde sul tema delle nazionalizzazioni con candidati impegnati nella corsa alla segreteria del PD, così come, appena pochi mesi fa, egli non ha avuto alcun ritegno nel rivolgere una lettera aperta all’attuale Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti per invogliarlo ad accogliere una rinnovata unità d’azione tra la sinistra sparuta e in cerca d’autore e le componenti anti-renziane interne allo stesso PD
Con tutto il rispetto per Fassina, se per lui la ricostruzione della sinistra storica passa per una rinnovata collaborazione con il PD (ossia con quel soggetto politico che agli occhi della storia porterà la principale responsabilità per avere attuato, su diktat dei mercati finanziari, una regressione dei diritti sociali a livelli pre-novecenteschi per decine di milioni di lavoratori e giovani precari italiani), noi ci dichiariamo ormai stufi dei suoi consueti funambolismi e facciamo non poca fatica a credere che il suo vero obiettivo politico sia mai stato effettivamente quello di proporsi come credibile soggetto motore di una eventuale area di “sinistra anti-euro”.
Forse sarà ancora in grado di incantare i sinistri più colti ma ingenui, Fassina, portandoli fuori strada per l’ennesima volta per poi lasciarli privi di un contenitore politico degno delle loro attese ma non potrà farcela ad ingannare i patrioti costituzionali più avveduti, i quali oggigiorno, dopo anni di umiliazioni e di sventure inferte al popolo italiano, hanno finalmente capito da quale parte sta l’economista bocconiano, già in forza all’F.M.I. e pertanto faranno volentieri a meno dei suoi consigli per provare a dare risposte in senso keynesiano al grande bisogno di svolta largamente avvertito dalle classi lavoratrici e dai ceti produttivi del nostro Paese, penalizzati da anni di massacro sociale e di distruzione economica compiuti sull’altare dell’austerità eurocratica.
Non ce ne voglia Stefano Fassina ma noi crediamo che, in fin dei conti, tanto la nostra Patria quanto la nostra Costituzione oggi abbiano bisogno di ben altri alfieri per tornare finalmente a risplendere di luce piena.
Giuseppe Angiuli

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Per il resoconto dettagliato della vicenda che fece infuriare Alberto Bagnai, sospingendolo definitivamente fra le
braccia di Salvini e della Lega, si legga qui: http://goofynomics.blogspot.com/search?q=Fassina+convegno+Piano+B
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https://www.facebook.com/events/301223977164077/
5 Cfr. il testo della “Lettera aperta a Nicola Zingaretti, per una sinistra che riparta”, qui pubblicata:
https://www.huffingtonpost.it/stefano-fassina/lettera-aperta-a-nicola-zingaretti-per-una-sinistra-cheriparta_a_23468974/