MEGLIO DENG, di Teodoro Klitsche de la Grange
MEGLIO DENG
Diceva Deng Tsiao Ping, con un’espressione rimasta famosa, che l’importante non è il colore del gatto, ma che acchiappi i topi. Con ciò il grande statista, padre dell’attuale potenza (e “sistema) cinese, cui è riuscita la conversione di un immenso paese da una economia agraria (e povera) a una post-industriale, intendeva che, nella scelta e selezione delle classi dirigenti, la capacità di raggiungere gli obiettivi fissati e/o voluti (dall’agente) debba prevalere su quello della conformità ad imperativi – nella specie politico-ideologici – ma potrebbero essere anche a fondamento religioso, estetico o della corrispondenza ad una “causa” (e ai relativi “precetti”) – intesi come superiori e determinanti.
Quando, da tanto tempo, e se in particolare con la pandemia del Covid, si ammira (anche) la capacità della Cina di affrontare con efficacia le conseguenze del virus, le spiegazioni (prevalenti) hanno carattere ideologico: la possibilità di un regime autoritario che comanda senza o pochi limiti – naturali a quelli di sistemi più rispettosi dei diritti individuali. Salvo poi a mettere in guardia contro il consenso all’autoritarismo che ne può derivare. Giustificazione (e preoccupazione) declinata in diverse forme, non esclusa – anzi forse la più ricorrente – del comunismo che, per le proprie istituzioni-tipo (centralismo, gerarchia, assenza di opposizione politica) è ancora (in parte) vivo nel sistema cinese.
Non si può escludere del tutto l’incidenza di tale fattore: anzi occorre concordare che è una componente importante del successo. Tuttavia si pensi a cosa sarebbe successo in Cina se il grande paese fosse stato fermo al comunismo agrario di Mao-Dse-Dong: il Covid avrebbe fatto un’ecatombe o comunque causato una mortalità assai superiore, un po’ come capitato all’India – paese per dimensioni demografiche paragonabili – la cui percentuale di decessi (e contagiati) da Covid è assai peggiore di quella cinese: per cui anche lo sviluppo economico (e di condizioni di vita) dovuto all’abbandono del modello comunista e l’adozione di un “socialismo di mercato” ha avuto conseguenze positive nel contenimento della pandemia.
Senza insistere nell’elencare cause concorrenti (probabili o possibili), occorre considerare quanto può aver inciso la massima – pragmatica e laica di Deng sul modello di sviluppo.
E qua occorre rifarsi a Max Weber. Scriveva il grande sociologo che “come ogni azione anche l’agire sociale può essere determinato” in modo “razionale rispetto allo scopo” ossia da aspettative sul successo rispetto al fine voluto e considerato razionalmente; ovvero “in modo razionale rispetto al valore – dalla credenza consapevole nell’incondizionato valore in sé – etico, estetico, religioso, o altrimenti interpretabile – di un determinato comportamento in quanto tale, prescindendo dalle sue conseguenze”; e poi affettivamente (da affetti e da stati attuali del sentire); o tradizionalmente (da un’abitudine acquisita). Pur non potendosi escludere contaminazioni tra i diversi tipi (per cui spesso l’agire è determinato in base sia a valori quanto allo scopo, ovvero razionale rispetto ai valori, ma allo scopo (scelto) per i mezzi da impiegare1.
Tuttavia, sostiene Weber “Dal punto di vista della razionalità rispetto allo scopo, però, la razionalità rispetto al valore è sempre irrazionale – e lo è quanto più eleva a valore assoluto il valore in vista del quale è orientato l’agire; e ciò poiché essa tiene tanto minor conto delle conseguenze dell’agire, quanto più assume come incondizionato il suo valore” (il corsivo è mio); il quale di solito è “la pura intenzione, la bellezza, il bene assoluto, l’assoluta conformità al dovere”.
Proprio l’attenzione dell’agire razionale rispetto allo scopo ai (probabili) risultati e la valutazione decisiva (per confermarne la congruità) delle conseguenze rende, a un tempo, tale agire più “utile” e più verificabile. Se per giudicare una razionalità rispetto al valore è sufficiente confrontare valori e (intenzioni) dell’agire, nel primo caso sono le conseguenze, il risultato/i concreto/i a misurarne la validità – e quindi l’effettiva razionalità. Per cui una comunità che tenga nella maggiore considerazione – ed orienti le scelte dei dirigenti – in base alla massima di Deng ha una superiore capacità di affrontare la realtà e conseguentemente l’emergenza (cioè la fortuna machiavellica), predisponendo argini, terrapieni e canali per contenerne l’effetto distruttivo.
Dai risultati economici (e non solo) della Cina negli ultimi quarant’anni (dopo la “sterzata” di Deng) risulta che il “criterio del gatto”, evidentemente applicato, ha contribuito all’eccellenza cinese. Dato che a partire dagli anni ’90 è cominciata la stagnazione-recessione dell’Italia, occorre vedere quale dei tipi weberiani dell’agire sociale sia stato qui più praticato (e predicato). Scriveva Weber che “Per agire «sociale» si deve però intendere un agire che sia riferito – secondo il suo senso, intenzionato dall’agente o dagli agenti – all’atteggiamento di altri individui, e orientato nel suo corso in base a questo”; per chiarire quale sia il criterio (prevalente) applicato può dare un notevole aiuto l’immagine e i messaggi comunicati dalla classe politica (più che dalla classe dirigente). I quali prevalentemente sono riconducibili alla “razionalità” rispetto al “valore”. È chiaro che i valori sono, in parte, col tempo cambiati. Un tempo prevalevano bontà, rivoluzione, socialismo, comunismo, resistenza, nazione, potere, cristianesimo, libertà, costituzione (e così via), dopo il crollo del comunismo, buona parte dei “vecchi” sono stati sostituiti dal mercato, dai diritti dell’uomo, dall’ambiente.
È interessante notare come, con qualche eccezione, pur cambiando i valori di riferimento (in particolare a sinistra, più colpita dal crollo del comunismo) l’attitudine (e perfino l’apparenza) a propagandarli sia cambiata – o sia mutata di poco. Tra le rarità (parzialmente) contrarie rispetto alla regola Berlusconi, il quale rivendica per se d’essere l’ “uomo del fare” (anche se, spesso, quel fare era il minimo sindacale).
Tutti (quasi) gli altri, ancor più quelli dell’area sinistra appaiono nel linguaggio, nella mimica e nell’immagine dei predicatori2.
Tali prediche, come scriveva Hobbes sono il mezzo di comunicazione dei sacerdoti i quali hanno il compito di persuadere ed insegnare (la parola di Cristo) ma cui Dio non ha mai dato il potere di costringere, concesso al potere temporale. Questo così ha la responsabilità: a predicare fa bene ma dimezza (almeno) la propria funzione: che è quella di proteggere, anche con la forza.
Diversamente dalla razionalità rispetto allo scopo, quella ai valori si misura sulla conformità della condotta ai valori (indipendentemente dalle conseguenze) e sull’intenzione dell’agente, ossia sulla “purezza di cuore”. È chiaro che con un criterio del genere, ogni profeta disarmato (scriveva Machiavelli), ogni predicatore di successo diventa un buon governante.
Certo si potrebbe notare che spesso su quelle buone intenzioni si sono costruite fortune (economiche), come recita un detto americano sul bene perseguito dai quaccheri. Ma questo è un altro – anche se assai spesso ricorrente – discorso.
Resta il fatto che conformare la propria condotta non al perseguimento degli interessi concreti della comunità, ma ai valori esternati è una buona strada per “trovare la ruina più tanto che la preservazione sua”, predicando una condotta sostanzialmente indifferente al concreto risultato – il bene comune – (concreto) degli individui e dell’insieme sociale. Per cui portarlo a modello diventa la via maestra per la decadenza della comunità: come applicare il detto di Deng inverso.
Il solo predicarlo (prevalentemente) è già un errore, perché induce il pensiero che per ben governare occorre essere buoni (predicatori): a comportarsi di conseguenza si agevola l’emergere di una classe dirigente composta di simil-preti, buoni ma poco utili, con parecchi ipocriti che vi si nascondono. Proprio la categoria che assicura quanto capitato all’Italia, che da trent’anni ristagna. Meglio meno buone intenzioni e prediche, ma più risultati.
Teodoro Klitsche de la Grange
1 Ovvero, come scrive Weber: “individuo che agisce può – prescindendo da qualsiasi orientamento razionale rispetto al valore, in vista di «imperativi» e di «esigenze» – disporre gli scopi concorrenti e contrastanti, considerati” per cui “di conseguenza può orientare il suo agire in maniera che essi siano soddisfatti, se possibile, in tale successione principio dell’«unità marginale»” Wirtschaft und Gesellshaft trad. it. Economia e società, vol. I, Milano 1980, p. 23.
2 D’altra parte già un secolo orsono il Presidente Wilson, con la sua insistenza sui principi da applicare nella pace di Versailles appariva a un acuto economista come J. M. Keynes un “predicatore presbiteriano”; quando Keynes descrive Wilson è palese – riportandolo alla pagina di Weber sui “tipi ideali” dell’agire – che non aveva coordinato scopo e mezzi. Perché sostiene Keynes “non aveva nessun piano, nessun progetto, non idee costruttive di sorta per rivestire di carne viva i comandamenti che aveva tuonato dalla Casa Bianca. Avrebbe potuto fare un sermone su ognuno di essi o rivolgere all’Onnipotente una solenne preghiera per il loro adempimento; ma non era in grado di formulare la loro concreta applicazione allo stato effettivo dell’Europa”, v. ora trad. it. in J. M. Keynes Sono un liberale?, Milano 2010, p. 43.