Julian Assange e le colonne (i colonnisti) infami, di Giuseppe Germinario
È sicuramente presto per stilare una graduatoria, ma di sicuro l’arresto di Julian Assange sarà in ottima posizione per conquistare il primato dell’evento più infame dell’anno. Si spera in qualche copertina alternativa al Time o al Financial Time. Anche il lato oscuro deve meritare almeno una lama di luce caravaggesca.
È la conferma di una amara constatazione. Il potere consolidato solitamente sa e può aspettare meglio di chi gli si oppone nel decidere tempi e modi di azione.
Perché tanto accanimento su Julian Assange?
In fondo, in questi dieci anni, è stato solo il punto terminale, dedito alla diffusione imparziale di un flusso immane e sorprendente di informazioni riservate e segrete rilasciate da ambienti specifici dei servizi di “intelligence” americani.
La Ragion di Stato del resto aveva individuato e neutralizzato i trafugatori e messaggeri di quel tesoro: Edward Snowden, rifugiato in Russia e Chelsea Manning, condannata, graziata da Obama e reincriminata recentemente con Trump. I pesci in realtà, a prima vista, paiono troppo piccoli per gestire da soli una simile impresa.
Pare che il destino, piuttosto che la Giustizia o la faida interna, abbia sentenziato provvidenzialmente la sorte di Rich Seth, il probabile vero responsabile di quelle fughe. Morto di una morte violenta, rimasta oscura nella dinamica e negli autori soprattutto per la frettolosità e il disinteresse con i quali sono state archiviate le indagini.
Perché, quindi, continuare nella persecuzione?
Le divergenze di strategie tra i diversi centri decisionali statunitensi si stanno rivelando inconciliabili sino a ridurre la lotta politica sullo scenario istituzionale ad una guerriglia pretestuosa e senza regole con una fazione disposta a prediligere, in mancanza di argomenti, l’arma giudiziaria e la diffamazione come strumento di eliminazione dell’avversario; le conseguenze distruttive sulla credibilità, la autorevolezza e la capacità di sintesi degli apparati e delle istituzioni sono disastrose. La traduzione operativa degli indirizzi da parte degli apparati si è trasformata in una lotta di potere senza esclusione di colpi sempre più ostentata e sempre meno propensa alla riservatezza necessaria a rendere l’esercizio del potere presentabile ed accettabile. Siamo alla parziale emersione dello stato profondo e della disarmonia della sua azione tipica delle crisi di sistema.
Da qui le crisi di coscienza di alcuni e l’ostentata arroganza e sicumera di altri. Uno dei motivi di tanta protervia nasce quindi dalla consapevolezza che le schegge impazzite e i grilli parlanti sono destinati a proliferare e diventare sempre più incontrollabili. Non rimane quindi che tentare di stringere ulteriormente la morsa sul sistema mediatico e di eliminare le voci dissenzienti, specie quelle non schierate, almeno apertamente e quindi più esposte.
Il grande merito di Julian Assange e della sua squadra è di aver creato un sistema di acquisizione e diffusione delle informazioni schermato in modo tale da rendere difficoltosa l’individuazione delle gole profonde.
Inizialmente la sua attività di divulgazione sembrava orientata ai danni della componente neocon repubblicana e delle sue avventure militari in Afghanistan e Iraq. Da qui la tolleranza e la popolarità negli ambienti democratici americani e progressisti in Europa. La condizione di Assange da paladino della libertà e della democrazia a strumento di potere e burattino nelle mani di Putin e dei suoi utili idioti si è ribaltata con la divulgazione delle malefatte del clan dei Clinton ai danni degli avversari interni al Partito Democratico e dei presunti suoi avversari repubblicani in grado di minacciare le sue ambizioni presidenziali. Trump non era tra questi ultimi; era ritenuto, anzi, l’avversario più debole e di comodo. Alle malefatte di piccolo cabotaggio si è aggiunta la pubblicità su quelle di calibro più pesante legate al suo ruolo di segretario di stato, in particolare durante l’intervento in Libia e nell’intreccio di relazioni con i sauditi.
In realtà lo straordinario patrimonio di informazioni detenuto da Wikileaks, composto da centinaia di migliaia, se non da milioni di file, non copre il solo spazio prettamente politico ed istituzionale americano; ospita diversi ambiti di azione strategica nei più vari angoli del mondo, compresi quelli di altri stati e delle multinazionali, in particolare quelle impegnate nel campo della elaborazione e gestione dei dati, sempre più sorprese a colludere e fare affari mettendo a disposizione i propri dati. Si deve dar atto ad Assange e Wikileaks della veridicità di tutte le informazioni sino ad ora diffuse e della trasparenza di accesso ad esse.
Si sa però che l’informazione non è mai neutra. È soggetta alle pratiche di divulgazione, di interpretazione rispetto ai contesti e di manipolazione. Il dato viene individuato è costruito all’interno di queste dinamiche.
L’ulteriore contributo di wikileaks è stato quello di distribuire in pacchetti le informazioni. Sono il sistema mediatico e i singoli organi di informazione ad interpretare, selezionare, contestualizzare e diffondere i vari contenuti di wikileaks. Il loro problema, però, è che da almeno dieci anni non dispongono più del monopolio dell’informazione grazie alla diffusione delle reti social, a cominciare da Facebook e Twitter. Se queste reti da una parte, assieme alle agenzie di stampa, liberano in gran parte dall’onere, dai rischi e dalla gratificazione del lavoro di inchiesta gli organi di informazione, dall’altra consentono la proliferazione di canali alternativi spesso alternativi ed in competizione con quelli classici, almeno sino a quando i furori censori e la manipolazione sapiente della disponibilità dei dati avrà preso compiutamente il sopravvento. Sono dinamiche che assieme al potere di formazione della opinione pubblica stanno erodendo irreversibilmente le basi economiche del sistema e svelando pericolosamente i cordoni ombelicali e i meccanismi che legano la stampa libera e i centri di potere. Un arretramento che produce il riflesso incondizionato della partigianeria tanto settaria quanto più avulsa e dell’ulteriore perdita di autorevolezza.
Queste strategie e dinamiche, nella loro individuazione oggettiva, sono comunque il frutto di scelte soggettive degli attori in campo; di uomini con la loro intelligenza e con la loro stupidità, con il loro senso di opportunità e con la loro incomprensione dei tempi, con i loro propositi e le loro rivalse, con la loro generosità e la loro cattiveria, con la loro schiettezza e infine la loro infamia.
Julian Assange è caduto purtroppo nella morsa costrittiva della rivalsa dei centri di potere più cinici e dei detrattori, i più meschini dei quali sono proprio quelli che hanno fruito sino ad un minuto prima delle sue informazioni.
Le schiere di avversari livorosi si sono infoltite paurosamente offrendo agli strateghi della persecuzione nuovi strumenti e coperture per procedere nel loro disegno di annichilimento fisico e psicologico. Tanto più la fetta di privilegio da difendere è risicata tanto più il gelido cinismo si trasforma in livorosa rivalsa ed infamia.
Appena un anno fa abbiamo apprezzato il ventriloquo Soros lamentare l’eccessiva libertà e il pericolo conseguente di manipolazione dei social network. Appena un mese dopo è scattata l’operazione di rigorosa normalizzazione dell’azione di questi, i cosiddetti GAFA i quali ovviamente pretendono il necessario lucro dal mercimonio. Una pratica che ha messo però a nudo la superiorità strategica legata alla straordinaria capacità di controllo e manipolazione dei dati delle aziende statunitensi e la diretta connivenza con gli apparati di intelligence. Un mondo che Assange aveva iniziato a disvelare. Un mondo che non tollera scorribande, in grado di presentare la vendetta su un piatto freddo.
IL GELIDO CINISMO
Hanno atteso sette anni. Con le dovute pressioni sono riusciti a trasformare l’asilo politico nell’ambasciata equadoregna a Londra in una prigionia sempre più insostenibile e sofferente sino al tradimento della revoca dello status di rifugiato. Dal cinismo delle alte sfere si passa quindi all’infamia da kapò del Presidente Moreno. Un primo obbiettivo è stato raggiunto: consegnare Assange alla Gran Bretagna; un paese che consente l’estradizione di fatto per decisione politica e che permette al paese richiedente, nella fattispecie gli Stati Uniti, di ricalibrare nel tempo i capi di accusa. Il modo meno compromettente per prolungare a tempo indeterminato le detenzioni ritardando la chiusura dei processi dalle costruzioni probatorie improbabili e dall’esito incerto.
IL RISENTIMENTO RANCOROSO E IMPOTENTE
Il caleidoscopio dei cattivi sentimenti si arricchisce a questo punto di un altro elemento: il risentimento rancoroso. In prima linea Hillary Clinton; non ha ancora introiettato il fiele della sconfitta. Lungi dal giustificare e riconoscere le proprie malefatte, rivelatesi alla fine così disastrose per gli interessi stessi del suo paese, non riesce a far altro che riversare la propria collera isterica e impotente ai danni del malcapitato che le ha svelate. Una anziana puerile e capricciosa che non riesce a rassegnarsi all’oblio. Una manifestazione per altro tanto rumorosa ma tutto sommato la meno nociva
IL VILE TRADIMENTO
Scendendo di un gradino la scala delle gerarchie di influenza subentra la viltà del tradimento. Tocca ai tanti giornalisti fruitori a buon mercato dei servizi di WikiLeaks e lesti voltagabbana pronti a spalleggiare e sostenere al momento opportuno gli argomenti capziosi degli inquisitori. Si distinguono tra questi Luke Harding e David Leigh, giornalisti del Guardian i quali hanno costruito la propria fortuna e reputazione su un libro e su un film costruito sui file di Assange per poi non solo avallare la tesi infondata dei legami tra WikiLeaks e Putin, ma addirittura passare a Scotland Yard le crittografie con le quali Assange riusciva ad acquisire le informazioni e che incautamente aveva trasmesso ai due paladini dell’informazione.
LO SCIACALLAGGIO
Buon ultima per importanza, primeggia per meschinità la vigliaccheria degli sciacalli. Una qualità presente in quell’area estesa del giornalismo di periferia che ha certificato il proprio servilismo di passatori di veline, ignorando elegantemente la mole di informazioni compromettenti a carico dei politici e delle classi dirigenti del proprio paese offerta di WikiLeaks. Primeggiano su tutte la quasi totalità delle testate italiane, ormai in gran parte impegnate a riportare più che altro i titoli e le interpretazioni delle testate estere, con alcuni manutengoli di alto rango dell’informazione a fungere da maramaldi. Si passa dalla perfida compostezza di un editorialista della Stampa, transfuga dal Corriere, al commento saccente di un critico di regime del Corriere, all’attacco sbracato di firme del Giornale sempre pronti ad assecondare le badogliate del loro finanziatore. A ciascuno il proprio stile, ma concordi e solidali nella missione. Un discorso a parte meritano i giornalisti di Repubblica. Stranamente rinunciano alle filippiche, ma stigmatizzano la parabola discendente di Assange, in debito di autorevolezza e popolarità dal momento in cui ha scelto come bersagli Obama e Clinton. Un giudizio viziato dall’accecamento ideologico che induce all’identificazione della fazione democratico-progressista con quella di popolo.
Nell’affare Assange rimane comunque una zona grigia tutta da esplorare: il silenzio di Trump e dello staff a lui più vicino. Il Presidente americano avrebbe potuto prolungare, probabilmente con una semplice telefonata al presidente equadoregno, la segregazione nel rifugio dell’ambasciata.
Il costo politico con il Russiagate in dirittura d’arrivo ma non concluso avrebbe potuto essere pesante. Potrebbe essere in corso un tentativo di portare Assange negli Stati Uniti, ma di farlo uscire dalla condanna all’esilio senza fine con una condanna simbolica simile a quella subita dalla Manning. Un disegno reso impalpabile dall’incertezza e dalla ferocia dello scontro politico in corso negli States. Rimane l’altra ipotesi, la più inquietante: che il sacrificio di Assange sia l’obolo in cambio del sacrificio di qualche pesce minore tra gli artefici della macchinazione del Russiagate. Trump ha pagato un prezzo molto alto con il sacrificio di Flynn in avvio di presidenza. Buona parte della vecchia guardia che lo aveva portato alla vittoria si era defilata e solo di recente si era riconciliata. Le veementi proteste di quell’area per l’arresto di Assange lasciano intuire che un altro cedimento di Trump della stessa natura rischia di creare una frattura irreparabile nella propria compagine in cambio di una tregua del tutto improbabile con i nemici. Un dilemma che si scioglierà probabilmente nei prossimi mesi.
Nelle more la posta in palio è particolarmente importante. Passa dalla pretesa di extraterritorialità della giurisdizione statunitense al tentativo di restringere drasticamente le possibilità di accesso alle fonti della stampa, all’arbitrarietà della costruzione giuridica necessaria all’estradizione. Una costruzione che sta suscitando qualche perplessità, non si sa quanto sincera, anche in quella stampa che negli ultimi tempi ha perso ogni ritegno nella faziosità della propria narrazione.