IL CONFLITTO STRATEGICO NELLA STORIA DI ROMA.UNA RIFLESSIONE ATTUALE. a cura di Luigi Longo (versione integrale)

Qui sotto il testo integrale curato da Luigi Longo. Coloro che avessero già letto la prima parte del testo e non intendessero rileggerla possono passare direttamente  al testo di Sallustio “la congiura di Catilina” a metà dell’articolo_Buona lettura, Giuseppe Germinario

Ho ritenuto opportuno presentare alcuni passi* tratti dal testo di Sallustio, La congiura di Catilina (Mondadori, Milano, ventisettesima edizione 2018), preceduti da alcune parti della introduzione di Lidia Storoni Mazzolani (studiosa e antichista, 1911-2006), perché li ritengo una buona riflessione per comprendere meglio la fase storica attuale del multicentrismo con il conflitto strategico tra agenti detentori del potere e del dominio (inteso nella logica gramsciana di coercizione e di consenso) per l’egemonia mondiale.

Ricordo, en passant, che la congiura di Catilina si inserisce nella fase di passaggio, nella storia di Roma, da uno Stato repubblicano ad uno Stato imperiale (dal 70 a.C. al 27 a.C.), caratterizzata da una crisi politica, sociale, economica, istituzionale e culturale, dal conflitto tra agenti strategici (con peso sempre più decisivo della sfera militare come sintesi del blocco dominante), da nuove idee di sviluppo, da nuovi rapporti sociali, da una diversa organizzazione statale e territoriale.

Di fatto la nostra fase storica è una fase di passaggio d’epoca: da una fase di egemonia mondiale statunitense (soprattutto a partire dal 1990-1991 con l’implosione non sorprendente dell’Urss), una sorta di centro di coordinamento mondiale conquistato sia con la prima guerra industriale quale fu quella di secessione (1861-1865) sia con le due guerre mondiali, ad una nuova fase, tutta da definire in termini di sviluppo e di idea di relazioni sociali reali, che vedrà l’affermarsi o di una sorta di centro di coordinamento mondiale condiviso tra le potenze configurate nella fase multicentrica o di un centro di coordinamento assoluto del vincitore del conflitto mondiale tra le potenze consolidate nella fase policentrica (spero nell’avverarsi della prima ipotesi).

La storia del genere umano sessuato [dalla preistoria fino ad oggi ad eccezione di un breve periodo del neolitico con l’autorità femminile (non potere)] va vista come un lungo legame sociale basato sui rapporti di potere e di dominio, che sono le molle del conflitto, derivanti dalle diverse sfere sociali (potere) che compongono l’insieme di una società (dominio) storicamente determinata.

La storia è, a mio avviso, da intendere in maniera aporetica (né lineare né ciclica) nella logica lagrassiana del tutto torna ma in modo diverso.

 

 

*L’impostazione e i titoli dei paragrafi sono miei.

 

 

 

Dall’Introduzione di Lidia Storoni Mazzolani

 

 

La crisi e il cambiamento sociale

 

Sallustio conobbe le leve segrete della politica, le connivenze, le tortuose miserie; ebbe modo di constatare la instabilità d’uno stato che non era più, come lo descrive schematicamente, diviso tra due gruppi d’interesse, i patrizi e la plebe, ma presentava una realtà sociale molto più complessa: dominavano ancora i <<nobiles>>, categoria alla quale si apparteneva per aver avuto uno o più consoli (o comunque alti magistrati) tra gli antenati, ma senza precisa definizione giuridica: essi si trasmettevano led alte cariche di padre in figlio. Ma contava molto anche l’alta finanza, formata di quella classe equestre che, essendo vietata ai senatori qualsiasi attività lucrosa, rappresentava la parte produttiva della società romana: erano appaltatori, banchieri, imprenditori, costruttori, importatori, creatori di società anonime – gente che non aveva le << imagines >> degli antenati nell’atrio della casa né indossava la toga pretesta e i calzari regali, ma praticamente maneggiava le finanze dell’impero, ne promuoveva l’espansione, ne sfruttava le risorse […] Impoverito, il ceto medio declinava e intanto cresceva il peso politico dell’esercito, ormai permanente e quindi finanziato dallo stato, pronto a sostenere il più prodigo, se non il più valoroso, dei comandanti; e aumentava la massa dei disoccupati, perché il fabbisogno di manodopera era saturato dagli schiavi, affluiti in gran numero dopo le conquiste, e c’erano piccoli possidenti vittime di confische e di espropri, e nobili decaduti, e politicanti frustrati, e, infine, un sottoproletariato urbano indolente e facinoroso, pronto a farsi strumento dei peggiori demagoghi: una massa di analfabeti privi di assistenza, di scuole, di educazione civile e politica, che campavano alla meglio con le distribuzioni annonarie gratuite e le regalie, e si davano al mercimonio, alla rapina; tutti sicari possibili, tutti oberati di debiti e assillati dagli usurai.[pag.7]

 

 

La sinistra

 

[…] Appunto perché viveva [Sallustio] in un’epoca di crisi e ne era consapevole, preferì farne oggetto di indagine e di riflessione anziché essere attore. Tedio e chiaroveggenza lo inibivano: a che pro impegnarsi in una competizione, nella quale prevalevano i peggiori? << adoprarsi senza alcun costrutto, farsi cattivo sangue per non accogliere che odio, è pura follia…>> […] Tutto è marcio attorno a lui: ripete mille volte che l’oligarchia senatoriale deteneva in esclusiva un potere che non sapeva esercitare; ma gli uomini della sinistra, i suoi, non valevano di più: sotto i loro slogans umanitari e i programmi innovatori, si celava soltanto il desiderio di arraffare posti lucrosi: furtim et per latrocinia […]. [pp.9-10]

 

 

 

La lotta faziosa tra i gruppi di potere

 

[…] Sallustio contesta tutto il sistema, la politica dei partiti che fa perdere di vista ai contendenti il fine supremo che la storia imponeva a Roma: governare l’impero. Non si tratta di azzannarsi per decidere chi dovrà governarlo, ma piuttosto in che modo si possa far meglio. La faziosità, l’inasprimento della lotta politica provocano sperpero di energie, discredito morale.

I due episodi [la guerra contro Giugurta e il colpo di stato preparato da Catilina, mia precisazione], più che il malgoverno d’una classe di agrari improduttivi, sono significativi di quel malessere sociale, di quel disagio economico e di quel declino morale che, per Sallustio, ebbe inizio con la caduta di Cartagine, nel 146 a.C.; venuta meno la minaccia nemica, ambizione e avidità dilagarono, disunirono gli animi.

Alle riforme promosse da Gracchi, per limitare l’estensione del latifondo senatoriale, basato su territori annessi in guerra, e dare terra ai contadini, il senato si irrigidì nel più miope conservatorismo; ne seguirono condanne, esili, iniquità di ogni genere […]. Il dovere categorico del romano – esercitare degnamente il dominio – era stato accantonato da chi pensava soltanto a sostituire la classe dirigente oligarchica con quella a cui apparteneva. [pp.10-11]

 

 

La rivoluzione dentro il sistema costituito

 

[…] l’autore [non è certo che sia Sallustio a scrivere le due lettere a Cesare, mia precisazione] riflette le istanze dei popolari: vuole la moralizzazione del costume, l’ordine, l’eliminazione di qualsiasi monopolio di potere; vuole che la ricchezza non costituisca un titolo per il potere politico; che le magistrature siano accessibili a tutti, che sia rinsanguato il senato con elementi nuovi e abolito il voto segreto. La plebe urbana, che rappresentava una seria minaccia per l’ordine e la proprietà, propone di sparpagliarla in nuove colonie, mescolandola a elementi di altri paesi: isolato dall’ambiente di Roma, trasferito in un poderetto di sua proprietà, qualsiasi sovversivo diventa conservatore. Era la tesi dei Gracchi, desiderosi di giustizia, non d’un diverso assetto costituzionale; sdegnati per l’ottuso egoismo della classe a cui appartenevano, ma non promotori di un rovesciamento totale delle istituzioni repubblicane. [pag.13]

 

 

Il debito pubblico

 

Cesare agì con molta prudenza, un occhio alle masse e uno ai ceti possidenti: dopo che aveva vinto Pompeo, era la destra a diffidare di lui. Dissipato il terrore che rinnovasse gli orrori del regime sillano, perdurava la paura che adottasse le misure radicali già prospettate da Catilina. La più grave sarebbe stata quella del condono dei debiti. Le ragioni di tutti coloro che avevano motivo di sperarlo le espone un seguace di Catilina, Manlio, con accorata fermezza, in una lettera che Sallustio sembrerebbe disposto a sottoscrivere […] In violazione della legge antica, il pretore urbano, un reazionario, aveva imposto l’esproprio e persino il carcere per gli insolvibili. Cesare decretò che gli interessi già versati fossero detratti dal capitale, alleviando la situazione dei debitori, senza peraltro annullare completamente il debito pubblico [Catilina era per l’abolizione totale del debito, precisazione mia]; ciò avrebbe comportato l’esproprio totale dei creditori, cosa che, secondo Cicerone, in realtà era nei suoi propositi sin da quando congiurava nell’ombra con Catilina: l’insicurezza del proprio avere avrebbe infirmato uno dei principi fondamentali dello stato.[pp.13-14]

 

 

Il governo del mondo

 

[…] Si può essere aperti alle rivendicazioni economiche proletarie senza sovvertire lo stato; si può auspicare il rinnovamento della società e l’abolizione dei privilegi senza rinnegare una tradizione che ha assunto un valore etico perenne; si può condannare lo sfruttamento coloniale senza abdicare alla supremazia: a prescindere dal profitto economico e dal prestigio nazionale, essa era vista come un compito storico, una missione di civiltà. Il pensiero dell’impero prevaleva su tutti gli altri: riforme sociali, rivendicazioni economiche, rivalità di potere, lotta di classe apparivano manifestazioni feconde del vivere libero, a patto che non facessero ostacolo all’adempimento dei doveri primari: difesa e amministrazione delle province. Nella scala delle priorità, la politica interna era subordinata al governo del mondo. Che si potesse raggiungere una nuova stabilità sociale basta su gerarchie capovolte era un’ipotesi che non si poneva se non sul piano dell’utopia. [pp.15-16]

 

 

La plebe strumento dei dominanti

 

Nei due episodi scelti a soggetto delle due monografie [la guerra di Giugurta e la congiura di Catilina, precisazione mia], lo scrittore ravvisò i prodomi dei due grandi sconfitti del secolo: la guerra contro Giugurta aveva messo in evidenza il contrasto di interessi tra classi medie e senato: espansionisti, i primi, per gli investimenti che andavano facendo nelle province; astensionisti, i secondi – come sempre i conservatori – per arginare la ulteriore ascesa del ceto imprenditoriale, gli abusi di potere di comandanti e proconsoli. Dei primi, si fece patrono e portavoce Mario, i secondi, di lì a poco, favorirono una dittatura di destra, quella di Silla.

La guerra civile che ne derivò << sconvolse tutte le leggi divine e umane e giunse a tal punto di violenza che solo la guerra e la devastazione dell’Italia misero fine alle guerre civili >> […] La congiura di Catilina, invece, aveva rilevato la minacciosa presenza di altre forze nella società romana, ancora disperse, ma più numerose, più temibili della borghesia italica: i facinorosi potevano puntare su di esse per impadronirsi del potere assoluto. Bisognava stroncarle con mano ferma, e cercare di appagare, nei limiti del giusto, le loro istanze, se si voleva assolvere a quella missione unica e sovrana che incombeva al governo di Roma: esercitare con giustizia il dominio del mondo. […] La società è guasta; essa contiene in gran numero seguaci potenziali d’un movimento estremista: << la plebe, vogliosa di mutamenti, era tutta per Catilina: è nella sua natura, poiché, in qualsiasi gruppo umano, chi non ha invidia chi possiede e porta ad emergere gli elementi più abbietti…a Roma, come in una fogna, erano convenuti tutti coloro che s’erano segnalati altrove per azioni criminose commesse con imprudenza …c’erano poi i nostalgici del regime sillano. Essi ricordavano bene che alcuni, da semplici gregari, erano saliti ad alti gradi o avevano ammassato fortune tali da potersi permettere un tenore di vita principesco: speravano di potere fare altrettanto, qualora avessero partecipato al colpo di stato. C’erano giovani che avevano percepito salari da fame come braccianti, e s’erano trasferiti nell’Urbe, attratti dalle largizioni pubbliche e private…>> [pp.17-18-30]

 

 

La nazione di etnie diverse

 

[…] Quell’ambiente naturale, quegli odori, quello stile di vita gli saranno [a Sallustio] parsi quelli del villaggio che diventò Roma. La città crudele e opulenta […] era, alle origini, una comunità di aborigeni e di Troiani: di stirpe diversa e d’altra lingua, alieno l’uno all’altro il costume; eppure << incredibile a dirsi, da quella moltitudine eterogenea e dispersa con la concordia fu fatta una nazione >>. [pag.19]

 

 

Il nuovo che viene dall’Oriente

 

Nel 36 a.C., Antonio mosse a sua volta contro i Parti e, in una ritirata disastrosa, perdette venticinquemila uomini. Si ridestavano nel deserto siriano i fantasmi dei caduti di Crasso: << l’Oriente tornerà a dominare >> dice l’oracolo di Istapse << e l’Occidente servirà. Il potere mondiale sarà trasferito all’Asia. Sarà cancellato il nome di Roma >>. […] Mitridate si presentava come il vero antagonista dell’impero romano: << noi >> gli fa dire Sallustio << siamo i rivali di Roma. Saremo immancabilmente i vendicatori >> […] Tale posizione gli derivava dallo stato di inferiorità sociale e di sfruttamento economico nel quale erano tenute le province: << l’Asia ci attende >> prosegue il re di Ponto << e ci invoca: a tal punto hanno saputo farsi odiare i romani con l’avidità dei proconsoli, le estorsioni dei gabellieri, le ingiustizie dei magistrati…>>.

Lo scontento dei provinciali, ammesso da altri autori, riproduce su scala più vasta, l’odio di classe che divampa all’interno; Sallustio, come faranno poi Lucano, Giovenale e Tacito, si associa a quelle proteste: << da giusto e ottimo che era, il governo di Roma è diventato crudele e intollerabile >> […] Non sono le parole di un rinunciatario astensionista, né si tratta di solidarietà umana verso gli oppressi: è apprensione presaga che un giorno quelle genti si uniranno e prenderanno il sopravvento: << ai nemici di Roma >> fa dire al console Filippo << non manca che un capo >>. [pp. 24-25]

 

 

Le maschere e i giochi del potere

 

Catilina avanza sulla scena con la maschera del sanguinario; ma, più che a persuaderci sulla verosimiglianza del suo carattere, Sallustio mira a descrivere in lui l’esempio umano espresso da una società negatrice dei valori morali, il risultato d’una dittatura cruenta. E’ divorato da un’ambizione smisurata, in uno stato nel quale i deboli non sono ascoltai; le cricche nobiliari per quattro volte l’hanno escluso dal consolato: forse, se fosse riuscito, avrebbe proposto e attuato in sede legale rivendicazioni giuste in sé, ma esasperate dalla frustrazione. E’ dominato dall’assillo del denaro, in una società che ha fatto della ricchezza il metro dei valori; un perverso, ma forse reso tale dalle ingiustizie viste e subite. […] La visuale di Sallustio è più vasta, meno legata a voci allarmistiche, a fattori contingenti; il suo assillo profondo è il decline and fall; anche a lui la congiura appare, momentaneamente, un piano criminoso, una minaccia per gli abbienti, e ci tiene a dissociare se stesso e Cesare da quelle rivendicazioni estreme; ma pone l’accento sulla singolarità dell’impresa, che rivela l’inasprimento della lotta politica: per la prima volta un audace, forse più esasperato che scellerato, attentava allo sicurezza dello stato. Sallustio vede in lui il prototipo di tutti gli avventurieri rapaci che pensano di poter osare perché altri aspirano al potere totalitario: dietro di lui, tramano in ombra Pompeo, Cesare, Crasso, uomini senza scrupoli, che si sganciano in tempo e si tengono pronti per il momento propizio. [pp. 29-33]

 

 

Sallustio, La congiura di Catilina, a cura di, Lidia Storoni Mazzolani, Mondadori, Milano, 2018.

 

 

Il potere e il declino della Repubblica

 

Ma come la repubblica, con la tenacia e la giustizia, si fu ingrandita e i re più potenti furono soggiogati e genti barbare e grandi nazioni sottomesse con la forza, e la rivale dell’impero romano, Cartagine, fu distrutta dalle fondamenta e si erano aperti tutti i mari, tutte le terre, la sorte incominciò a infierire e a sovvertire ogni cosa. Quelli stessi che avevano sopportato senza un lamento fatiche, pericoli, sorti incerte e avverse, nella tranquillità, nel benessere – beni d’altro canto desiderabili – non trovarono se non angustie e sciagure. La sete di denaro e di potere aumentò e con essa, si può dire, divamparono tutti i mali. Fu la cupidigia a spazzar via la buona fede, la rettitudine e tutte le norme del vivere onesto, indusse gli uomini all’arroganza, alla crudeltà, alla negligenza degli dèi, alla convinzione che non c’è cosa che non sia in vendita. L’ambizione indusse molti a fingere, a tener chiuso in cuore un pensiero e manifestarne un altro, a considerare amici e nemici non per i loro meriti ma per il vantaggio che potevano ricavarne, a parere onesti più che esserlo.

Sulle prime, questi vizi aumentarono lentamente; a volte, furono anche puniti. Ma poi il contagio si diffuse a guisa di pestilenza, la città mutò volto e quel governo che era il più giusto, il migliore, divenne crudele e intollerabile. [pp. 93-95]

 

 

Il denaro come mezzo del potere

 

Nei primi tempi, peraltro, più della cupidigia turbava gli animi l’ambizione, un difetto sì ma non molto lontano da un pregio: alla gloria, infatti, agli onori, al potere aspirano tutti allo stesso modo, i valenti e gli inetti; ma i primi vi tendono percorrendo la retta via, i secondi, privi di qualità, cercano di raggiungere la mèta con la frode e il raggiro. L’avidità altro non è che amore del denaro; e il saggio non ne ha desiderato mai. Essa, quasi fosse intrisa di veleni mortali, snerva il corpo e l’anima più virile; non conosce limiti né sazietà, non l’attenuano né l’opulenza né il bisogno.

Ora, quando Silla si fu impadronito del potere delle armi e ai suoi fasti inizi fecero seguito fatti atroci, tutti si misero a commettere stupri e rapine.

Chi voleva una casa, chi un podere; i vincitori non conoscevano freno né misura e si macchiavano di atti turpi e feroci a danno dei concittadini. Silla, inoltre, per attivarsi il favore delle truppe che aveva condotte in Asia, contrariamente al costume degli avi nostri le aveva trattate con indulgenza eccessiva. L’amenità dei luoghi, i piaceri, l’ozio ben presto fiaccarono lo spirito fiero di quei soldati. Laggiù per la prima volta un esercito del popolo romano sperimentò piaceri che non conosceva, l’amore e il vino; imparò ad apprezzare opere d’arte, statue, quadri, vasellame cesellato, e incominciò a portarli via sia dalle case private sia dallo Stato, a spogliare templi, a profanare ciò che apparteneva agli dèi e agli uomini. Quei soldati, dopo la vittoria, non lasciarono nulla ai vinti. La prosperità corrompe persino l’animo del saggio: potevano moderarsi nella vittoria uomini degenerati? [pp. 95-97]

 

 

Il potere della distruzione

 

Quando i beni di fortuna diventarono un merito e procurarono gloria, potere e prestigio, i valori morali incominciarono a scadere, la povertà fu ritenuta un disonore, l’integrità parve un’ostentazione malevola. Dalla ricchezza derivarono edonismo, cupidigia, tracotanza e si propagarono tra i giovani, i quali si abbandonarono ad atti di violenza, incominciarono a dar fondo al patrimonio della famiglia, a non tenere conto di ciò che possedevano, a volere ciò che apparteneva ad altri, a sovvertire le cose divine e umane, a non aver più modestia e rispetto di sé. Quando si vedono case d’abitazione, ville, costruite a misura di città, val la pena di visitare i santuari religiosi degli dèi edificati dagli avi nostri, i più religiosi tra i mortali; ai loro tempi, il lusso dei templi consisteva nella fede, quelle delle case nella gloria. Ai vinti si toglieva una sola cosa, la possibilità di nuocere. Oggi, al contrario, uomini ignavi, suprema ignominia, portano via ad alleati tutto ciò che i prodi d’un tempo, per essendo vincitori, avevano lasciato: come se esercitare il dominio consistesse nel commettere soprusi. [pp. 97-99]

 

 

 

Il degrado sociale

 

A che citare fatti che solo chi li ha visti potrà crederli veri, semplici privati che spostano monti e colmano mari, quasi, si direbbe, a ludibrio della propria ricchezza, quasi volessero dilapidare oltraggiosamente quei beni che avrebbero potuto impiegare a fini onorati? Si era introdotta in pari misura l’inclinazione a turpi amori, la consuetudine del bordello e di tutti i piaceri del genere: uomini dediti alla prostituzione, donne spudoratamente in mostra, terre e mari esplorati in cerca di vivande rare; si dormiva prima d’aver sonno, non si aspettava la fame, la sete, il freddo e la stanchezza per soddisfarli. I giovani avvezzi a questo tenore di vita, quando le sostanze erano sfumate, si davano ad azioni criminose; l’animo ormai depravato non sapeva rinunciare ai piaceri e non arretrava davanti a qualsiasi mezzo pur di procurarsi denaro da sperperare. [pag. 99]

 

 

La plebe in balia dei potenti

 

In una città così grande e così corrotta, non era stato difficile a Catilina raccogliersi attorno tutti i dissipati e i criminali e farne, si può dire, la sua guardia del corpo. Non c’era degenerato, adultero, puttaniere, scialacquatore del patrimonio al gioco, al bordello, a tavola, non c’era un indebitato fino al collo per riscattarsi dall’infamia o dal delitto, non un parricida, un sacrilego d’ogni paese, condannato o in attesa di giudizio, non uno di quei sicari e spergiuri che prosperano sul sangue dei cittadini, non c’era infine coscienza inquieta per il disonore, il bisogno, i rimorsi che non fosse dei suoi.

E se capitava a qualcuno, ancora immune da colpe, d’entrare nel giro, i rapporti quotidiani, le tentazioni, ben presto lo facevano diventare come gli altri.

Cercava, più di tutto, di attirare i giovani. Le loro menti ancora informi e malleabili cadevano facilmente nella pania; ed egli gli assecondava nelle loro passioni, a uno procurava donne, a un altro comperava cani e cavalli, insomma non lesinava denaro né badava alla dignità pur di farsene amici fidati. […] Quei giovani che, come abbiamo detto, aveva attirati a sé, li addestrava al malfare in mille modi, a prestare false testimonianze e firme false, a mancar di parola, a non curarsi dei casi della vita e dei pericoli. Quando ne aveva compromesso il buon nome e distrutto il senso d’onore, affidava loro incarichi sempre più iniqui: e se al momento non si presentava l’occasione di delinquere, circuiva innocenti e colpevoli, li dominava e per impedire che nella inattività si intorpidissero l’animo e la mano, preferiva commettere atti malvagi e crudeli senza motivo.

Sicuro di amici e complici di quella risma e per il gran numero di gente oberata di debiti per ogni dove, e perché molti veterani di Silla, dilapidato ogni avere, rimpiangevano le ruberie commesse da vincitori e auspicavano la guerra civile, Catilina concepì il disegno di impadronirsi della repubblica: in Italia, nessun esercito; Cn Pompeo alla guerra, in capo al mondo; lui stesso nutriva molte speranze di ottenere il consolato; il senato non sospettava di nulla; regnava la calma e la sicurezza; la situazione era propizia. [pp. 99-103]

Il conflitto tra potenti

 

Così [… Catilina, mia precisazione] incominciò a chiamare i suoi uno a uno. […] Li mise al corrente dei mezzi di cui disponeva, li informò che la repubblica era indifesa, fece balenare i profitti immensi d’una congiura. Come fu certo di ciò che gli premeva sapere, convoca tutti quelli che si trovarono nelle peggiori strettezze e i più spregiudicati: dell’ordine senatorio […]; dell’ordine equestre [Gli equestri, erano un ordine istituito nel II sec. a.C. Il nome deriva dall’antica organizzazione militare per censo, nella quale gli equites militavano con cavallo proprio, armi a spese proprie; alcuni furono gradatamente assorbiti dalla nobiltà, mentre altri, non riuscendo ad accedere alle cariche, acquistarono coscienza di classe e si posero in antagonismo contro la classe senatoria: questa, che possedeva soltanto terra, esercitava un potere oligarchico ormai inadeguato a un impero mondiale, ricco di forze economiche attive. Gli equites crearono l’alta finanza romana: l’invenzione delle società per azioni (alla quale, attraverso prestanome, partecipavano anche i nobili) consentiva loro di fondare grandi imprese: appalti di lavori pubblici, linee di navigazione, rete daziaria, miniere, edilizia, commercio, trasporti, forniture militari, banche, impianti portuali, era tutto nelle loro mani. La loro posizione politica non si discostava da quella del senato se non in quanto mirava ad allargare la base del governo, ma in sostanza erano altrettanto conservatori, da nota n.12 di pag. 105, corsivo mio] […] e molti altri, infine, venuti da colonie e municipi dove appartenevano alle migliori famiglie. Partecipavano alla cospirazione, ma con maggior circospezione, anche molti nobili, mossi più dalla speranza del potere che dal bisogno o da altri motivi impellenti. Gran parte dei giovani, del resto, specie tra i nobili, simpatizzava per i progetti di Catilina: pur avendo la possibilità di vivere senza pensieri, nel lusso e nei divertimenti, preferivano l’incerto al certo, la guerra alla pace.

Vi fu all’epoca, chi credette che M. Licinio Crasso non fosse all’oscuro del complotto: geloso di Pompeo, che a quell’epoca comandava un grande esercito, vedeva di buon occhio il formarsi d’una forza da contrapporre al suo potere, da qualsiasi parte venisse; qualora la congiura avesse avuto buon esito, del resto, non dubitava che sarebbe riuscito ad assumere il comando. [pp. 103-105]

 

 

La possibilità di ribellarsi

 

[…dal discorso di Catilina, mia precisazione] Da quando la repubblica è caduta in balia d’un pugno di potenti, a loro versano i tributi i re e i tetrarchi, a loro pagano imposte popoli e nazioni; gli altri, noi tutti, coraggiosi, onesti, nobili e non nobili, non siamo stati che volgo, senza autorità, senza prestigio, sottomessi a coloro i quali, se lo stato fosse efficiente, dovremmo far paura. Così, influenze, potere, onori, ricchezze appartengono a loro e a quelli che godono dei loro favori; a noi hanno lasciato sconfitte elettorali, insicurezza, processi, miseria. Fino a quando, o miei prodi, siete disposti a sopportar? Non è preferibile morire da forti che consumare ignominiosamente un’esistenza misera, oscura, fatti zimbello dell’altrui superbia?

[…] C’è un uomo al mondo, un vero uomo intendo, disposto a tollerare che vi sia chi anche dopo aver profuso tesori per edificare sul mare, per spianare i monti, guazza nell’oro mentre a noi manca persino il necessario? Che quelli mettono in comunicazione palazzo e palazzo per abitarvi, e noi non abbiamo neppure un tetto? Per quanto comprino quadri, statue, argenteria cesellata, demoliscano case nuove per costruirne altre, insomma spendano in tutti i modi, ad onta di questi sprechi non riescono mai a esaurire i patrimoni. Noi, invece, a casa siamo nelle strettezze, fuori casa nei debiti; avversità d’ogni genere e un domani ancora più fosco: che cosa ci resta, se non questa grama esistenza? [pp. 111-113]

 

 

L’esasperazione della plebe

 

[ dal messaggio di C. Manlio a Marco Re, mia precisazione] << Chiamiamo a testimoni gli dèi e gli uomini, imperator, che non abbiamo preso le armi contro la patria né vogliamo far male ad alcuno, ma per difenderci dalle ingiustizie: siamo sventurati, stretti dal bisogno. Gli usurai esosi, inesorabili, hanno tolto a molti di noi la patria, a tutti l’onore e le sostanze. A nessun è stato concesso di fruire della legge in base alla quale, secondo l’uso degli avi nostri, chi aveva perduto il patrimonio restava libero: tanta fu la crudeltà degli usurai e del pretore. I vostri antenati, presi da pietà per la plebe di Roma, spesso con i loro decreti vennero incontro ai suoi bisogni; anche recentemente, a memoria nostra, l’entità dei debiti fu tale che, con il consenso di tutti gli ottimati, il debito d’argento fu pagato in bronzo [ Nell’86 a.C., una legge emanata da L. Valerio Flacco aveva ordinato di estinguere i debiti fatti in sesterzi (d’argento) con assi (di bronzo) riducendo così l’ammontare del debito, da nota n.26 di pag.133, corsivo mio]. Spesso la plebe, desiderosa di esercitare il potere o esasperata per la durezza dei magistrati, prese le armi e fece secessione dai patrizi: ma noi non vogliamo il governo dello stato né le ricchezze, che sempre suscitano guerra e conflitti tra gli uomini. […] [pp. 131-132]

 

 

La composizione sociale della plebe

 

E non era sconvolta la mente dei congiurati soltanto. La plebe al completo, avida di cambiamenti, approvava l’iniziativa di Catilina. In questo atteggiamento, non si discostava dal suo costume: nello stato, infatti, chi non possiede nulla immancabilmente invidia i benestanti e porta alle stelle i miserabili; detesta l’antico ordine, agogna alle novità. Esasperati per la loro situazione, mirano a sovvertire ogni cosa; nei torbidi, nei disordini si trovano a loro agio, poiché la miseria rende immuni da perdite. Ma la plebe dell’Urbe, a dire il vero, si precipitava nell’avventura per molte ragioni: prima di tutto, quelli che in altri luoghi s’erano resi tristemente celebri per azioni disoneste e prepotenze, altri che avevano dilapidato vergognosamente i beni di famiglia, infine tutti quelli che avevano dovuti allontanarsi da casa per le malefatte e gli scandali, tutti erano affluiti a Roma come in una sentina. Molti si ricordarono ancora della vittoria di Silla e poiché vedevano alcuni soldati semplice essere diventati senatori, altri così ricchi da passarsela con fasto regale, speravano, se prendevano le armi, di arraffare con la vittoria una situazione analoga; i giovani di campagna, poi, che avevano sofferto la fame per il magro salario del bracciante, attirati dalle largizioni pubbliche e private, avevano preferito l’ozio di Roma alla loro dura fatica: tutta gente che prosperava sulla sventura pubblica. E quindi non c’è da meravigliarsi se uomini miserabili, di cattivi costumi, ma animati da immense speranze, gettavano allo sbaraglio se stessi e la repubblica. Poi, c’erano quelli che avevano avuti i genitori proscritti da Silla e gli averi confiscati: menomati nei diritti civili, non aspettavano certo con animo diverso l’esito della guerra; poi, tutti coloro che appartenevano a correnti [Partes, usato il più delle volte al plurale, può indicare “una parte” e cioè una divisione in classi, in categorie, in gruppi di potere; ma non ha il significato tecnico di “Partito” come s’intende oggi. Alcuni studiosi riconoscono una maggiore frequenza di questo termine riferito ai populares, factio invece ai nobiles…; ma la differenza consiste specialmente nel fatto che partes indica strati sociali più vasti, meno solidali di factio, che significa cricca con interessi e finalità identici. Nota n. 30 di pag. 139] diverse dal senato, pronti a sovvertire lo stato pur di non perdere la propria posizione influente: fu così che dopo molti anni era tornato il male tra i cittadini. [ pp. 137-139]

 

 

L’opportunismo della plebe

 

Dopo che la congiura fu scoperta, la plebe, che prima, desiderosa di rivolgimenti, era tutta per la guerra, cambiò d’avviso e si mise a imprecare contro Catilina e i suoi progetti, a portare alle stelle Cicerone, festosa e giubilante che pareva l’avessero strappata dalla schiavitù; per la verità, dalle altre azioni di guerra s’aspettava profitti più che perdite, ma l’incendio le appariva d’una crudeltà disumana e portatore di danni immensi, dato che possedeva soltanto oggetti d’uso e miseri panni. [ pag.155]