I SINDACATI E LA LOGICA DEL più uno, di Giuseppe Germinario

Il 9 febbraio sono riapparse a Roma con una importante manifestazione unitaria le tre confederazioni sindacali CGIL, CISL e UIL. Non accadeva da cinque anni. Un lungo letargo. La gestazione dell’iniziativa ha richiesto cinque lunghi mesi; si era praticamente agli albori del Governo Conte. Di fatto la negazione a prescindere di ogni credito al nuovo arrivato. Eppure lo stesso dibattito congressuale in CGIL aveva coltivato, in diversi momenti di questi ultimi mesi, l’impulso ad una maggiore autonomia del sindacato rispetto al quadro politico cogliendo esplicitamente l’occasione dell’avvento di una compagine governativa costituita da forze politiche prive di cordoni ombelicali nel movimento sindacale. A ben vedere però quel che appare come una professione di una autonomia, è in realtà una confessione di dipendenza da una delle componenti politiche schierate nell’agone. I militanti hanno visto in esso una manifestazione di orgoglio, un risveglio sia pur tardivo degli antichi fasti; si tratta in realtà di una implicita ammissione che quei cordoni sussistono tuttora con le forze avverse al Governo e sono tanto più vincolanti e stringenti quanto più quelle forze sono vicine alle leve di governo e di potere. Lo si è visto chiaramente con il Governo Monti, ma sostanzialmente l’atteggiamento non è cambiato con i tre governi successivi.

È stata ed è stata rappresentata comunque come una iniziativa unitaria. Quale sia lo spirito reale che guida i gruppi dirigenti lo si vedrà. Lo spettacolo offerto dall’avvicendamento degli oratori, accompagnati ciascuno dai propri declamatori, corifei ed angeli custodi, non è stato però convincente. Non sono nemmeno riusciti a garantire una ripresa televisiva comune degli interventi degli oratori. Una immagine a dir poco dimessa rispetto ai rituali solenni offerti dai palchi nell’epopea dei sindacati confederali unitari di quaranta anni fa.

Tutto sembrava avere soprattutto il sapore di una testimonianza piuttosto che la determinazione di un movimento ben determinato, in grado di conseguire propri obbiettivi significativi.

Non che questi mancassero. La piattaforma di ben sedici pagine è nutrita di indirizzi da perseguire, obbiettivi da raggiungere, critiche ai provvedimenti e all’impostazione generale di politica economica del governo. Alcuni fondati, altri pretestuosi, altri ancora espressione di impostazioni da esso divergenti, antitetiche.

La costante che informa il documento non si smentisce. Boccia senza appello la politica di bilancio del Governo come recessiva ed assistenziale. Non è stata necessario un grande esercizio di fantasia per escogitare le soluzioni. Le ritroviamo puntualmente in ogni piattaforma che si rispetti di questi ultimi decenni anche se in forme vieppiù edulcorate e ossequiose del verbo dominante. Un grande piano di investimenti nelle infrastrutture, nei servizi, nel recupero del territorio, nell’economia verde; risorse nazionali aggiuntive rispetto ai finanziamenti europei; sviluppo della ricerca scientifica, specie di base e delle applicazioni in apposite piattaforme industriali; politiche attive di formazione ed avviamento al lavoro. Così come puntualmente ritroviamo la ricorrente tentazione di un gruppo dirigente sindacale a rifugiarsi comodamente nell’autocompiacimento e nella funzione salvifica ed autoavverante degli slogan e delle parole.

Eppure i diversi gruppi dirigenti dovrebbero chiedersi il motivo della sterilità di questi propositi ricorrenti ormai da oltre quaranta anni.

Sono centri decisionali disposti alle più audaci acrobazie verbali, ma riluttanti a riesaminare i presupposti delle loro impostazioni o il contesto politico necessario a realizzarle, quantomeno ad accettare un dibattito aperto su di essi. Una cecità che impedisce loro di scorgere le novità di un Governo disposto a infrangere quei vincoli europei così duramente stigmatizzati. Una faziosità che impedisce loro di cogliere l’importanza del documento “politeia” dell’ex Ministro Paolo Savona, tra l’altro tutto interno alla logica europeista a loro così cara e congeniale. Nei quattro mesi di convulse trattative tra Governo e Commissione Europea non c’è stata una sola presa di posizione convinta, tanto meno una parvenza di mobilitazione a sostegno delle posizioni italiane. Al contrario non si è trovato di meglio che criticare la politica “muscolare” antieuropeista del Governo.

Eppure in momenti di distanze oggettive ben più stridenti e provvedimenti pesanti e provocatori verso il lavoro dipendente del quale si ritengono paladini, messi in atto da governi composti da forze “amiche”, le dirigenze sindacali si sono il più delle volte premurate di sottolineare le “basi comuni di confronto”, una formula gergale tipica di quel mondo, pur di non recidere le occasioni residue di contraddittorio.

Non si è trattata di totale passività. Alcuni passaggi significativi sono stati compiuti. La carta dei diritti universali del lavoro, il mantenimento di un livello sufficiente di contrattazione sono tra questi. Ma tutti sotto tono ed alcuni con una impostazione più aziendalistica che confederale.

Questi gruppi dirigenti si sentono investiti in realtà di una missione: combattere il populismo, il sovranismo e il nazionalismo, non poteva mancare il razzismo e il fascismo, senza alcuna distinzione tra di essi e con una visione dozzinale in nome dell’internazionalismo e dell’europeismo, sua variante continentale, del multilateralismo anch’esso ridotto ad una definizione altrettanto dozzinale, ignara del presupposto unipolarista. Dimentichi della base e della strutturazione nazionali delle relazioni internazionali e delle formazioni sociopolitiche, quindi degli stessi sindacati, vagheggiano di una comunità indistinta di dipendenti e proletari, a seconda della matrice ideologica, europei e mondiali e dell’esistenza di una conseguente funzionale organizzazione sindacale di quelle dimensioni.

Una fuga in avanti nella valutazione e sopravvalutazione di organismi sindacali sovranazionali sorprendente in gente adusa al pragmatismo e al realismo delle trattative e dello scambio.

Il risultato di questo opportunismo e di questi cordoni ombelicali non recisi sono una fuga in avanti per nascondere l’ambiguità nel presente.  Di fronte ad un contenzioso legato alla finanziaria da dirimere in pochi mesi la scelta è di proporre un aumento delle competenze del Parlamento Europeo e di una Commissione Europea di esso espressione. Quali siano il significato e la realizzabilità in tempi storici ragionevoli di tale proposito non viene spiegato; né viene sottolineato che comunque un tale processo dovrebbe essere implementato e gestito dagli stati nazionali europei così vituperati, nella loro varia ed eterogenea coloritura politica e di interessi.

La conseguenza è la fuga nella demagogia del “più uno” a prescindere. Più investimenti senza spiegare la loro realizzabilità con il rispetto dei vincoli di bilancio imposti dagli accordi europei. Non solo. Si rimuove del tutto il pur insufficiente sforzo di investimenti diretti ed indiretti alimentato dal Governo. A dispetto della ridondanza dei centri studi, in particolare della CGIL, ci si guarda bene da una disamina della logica vincolante di impiego dei fondi strutturali e di coesione comunitari anche per la componente integrativa nazionale, orientati ad accentuare la polarizzazione, il dualismo e la fragilità del sistema economico e delle imprese europee piuttosto che l’equilibrio e la coesione. Più spesa sociale e più ricerca connessa all’implementazione di piattaforme industriali è l’altro motivo che guida le danze, senza specificare i limiti e i veti comunitari posti all’intervento dirigistico dello stato e alla possibilità di creazione di imprenditoria autoctona e di sviluppo concordato e pilotato di grandi aziende strategiche in grado di sostenere gli stati e di competere nell’agone mondiale.

Una rimozione ed una fuga che consente il consolidamento sbandierato di sodalizi innaturali con controparti, in particolare Confindustria, costitutivamente incapaci di promuovere quelle stesse “politiche selettive” specie nella ricerca e nella scelta dei settori da potenziare propugnate dal sindacato. Sodalizi una volta inconcepibili o almeno da mantenere pudicamente riservati.

Messi alle strette sugli argomenti più sensibili, come quello dell’immigrazione e dell’emigrazione, piuttosto che porre il problema del controllo e della riduzione dei flussi immigratori secondo la condizione del paese di accoglienza e dando come esito naturale un risultato altrimenti frutto di azione politica recente, si rifugia in un altro marchingegno retorico: “non è questo il problema!”. Quello vero è la fuga all’estero di cittadini italiani, anche se non sono solo più questi soltanto ad andar via. Lo sono anche tanti immigrati formatisi da anni nel nostro paese.

Non rimane, per il resto, che la solita via di fuga della lotta salvifica all’evasione fiscale. La battaglia che consentirebbe di salvare capra e cavoli, il rispetto dei vincoli del deficit e la redistribuzione di reddito e gli investimenti. Nel suo approccio moralistico e ferocemente repressivo, avulso dalle ragioni economiche, politiche e sociali di tale fenomeno, il modo concreto per dissociare definitivamente il mondo del lavoro dipendente da quello autonomo. Una ipoteca definitiva alle ambizioni di rappresentanza generale di questi gruppi dirigenti.

I proclami e le rivendicazioni di autonomia dal quadro politico di questi gruppi dirigenti sindacali lasciano quindi il tempo che trova. Il richiamo della foresta appare irresistible. La stessa filippica di Landini contro le correnti sindacali più che dare alimento a questa esigenza di autonomia sembra dettata dal timore che nei sindacati possano sorgere nuove componenti organizzate secondo le trasformazioni politiche in corso. Uno spauracchio dettato dalla discrasia sempre più evidente tra la formazione politica dei gruppi dirigenti sindacali e l’orientamento politico ed elettorale di parti sempre più consistenti della base sindacale.

Le forze politiche costitutive di questo governo e quindi l’azione politica di quest’ultimo, nell’intento di plasmare la formazione sociale italiana, soffrono di due limiti difficilmente superabili secondo i tempi serrati ormai necessari:

  • la contraddittorietà e la scarsa lucidità politica sia negli obbiettivi che nella tattica da adottare specie nell’agone internazionale, in particolare atlantico ed europeista. Una carenza che rischia di dare assoluta priorità alle logiche meramente redistributive, ripiegate progressivamente secondo forme di assistenzialismo le più deleterie. In questo, l’abbandono di Paolo Savona rappresenta un segnale poco confortante
  • il marchio ideologico delle due forze, caratterizzato dal valore assoluto della democrazia diretta e dall’affermazione dell’autonomismo locale-regionale scevro da una determinazione chiara delle gerarchie e delle competenze rispetto allo stato centrale, elude pericolosamente la funzione delle forze intermedie nel determinare il funzionamento delle formazioni sociali complesse, tanto più in un regime crescente di decentramento e autonomie locali. Un ruolo forte che ad esempio ha consentito alla Germania, in presenza di un regime federalista, di mantenere la necessaria coesione e di essere politicamente più incisiva; almeno sino allo ieri prossimo

Il primo limite offre spazi inattesi alle rivendicazioni e alle denunce politiche nell’azione di forze di opposizione apertamente in crisi e prive di capacità egemonica. Il secondo lascia completo campo libero alla loro azione nelle rappresentanze degli organismi intermedi indispensabili come il sindacato. Le organizzazioni sindacali sono pur sempre strutture capillari di migliaia di funzionari e militanti presenti sul territorio, capaci ancora di una azione di interdizione significativa. Rischia paradossalmente di offrire su un piatto d’argento l’aura di difensori dell’unità nazionale alle forze politiche direttamente responsabili del condizione di degrado e subalternità politica del paese.

La differenza con il sindacato attivo tra gli anni ’60 e ’80 è evidente. Allora, il carattere confederale della loro azione politica era ispirato da una ipotesi di modello di sviluppo in gran parte velleitaria, ma sufficiente a dare un senso unitario e una prospettiva omogenea alle rivendicazioni. Godeva inoltre, pur in una condizione di progressivo degrado, del supporto sostanziale e fattivo di buona parte delle forze del centrosinistra e del PCI.

La asserzione attuale di confederalità, particolarmente vivace nella CGIL, rappresenta poco più di una affermazione di principio realizzata con atti di imperio e di mediazione pattizia, carenti di capacità egemonica. La ragione risiede nella mancanza di volontà di trarre le necessarie conseguenze politiche, specie rispetto alla Unione Europea, di una ipotesi accettabile di sviluppo e di autonomia politica del paese.

Essa è vittima di una visione dualistica delle contrapposizioni su scala planetaria; in pratica una proiezione, una sorta di deformazione professionale che vede il mondo diviso tra dipendenti e padroni, tra pochi grandi ed una moltitudine di poveri e subordinati

Il rifiuto aprioristico e indignato del famoso piano B dell’ex Ministro Savona vale in propsito più di cento proclami di difesa compassionevole “dei deboli”. Un atteggiamento tanto più sorprendente per professionisti della contrattazione adusi, nei più diversi frangenti, a sbandierare ed eventualmente mettere in opera piani di riserva.

Una confederalità, quindi, che rischia di trasformarsi in un simulacro frutto di una sommatoria di rivendicazioni di strati sempre più circoscritti e di iniziative rituali entro cui convogliare il malcontento generale. L’elezione di Landini, un personaggio particolarmente sensibile ed esposto alle intemperie e alla volubilità delle congiunture politiche e sociali, rappresenta per altro la sanzione definitiva di questa tendenza. Una propensione che spinge oggettivamente verso quell’alveo conservatore e reazionario in grado di paralizzare e polverizzare ulteriormente il paese.

https://www.radioradicale.it/scheda/565476/futuro-al-lavoro-intervento-conclusivo-di-maurizio-landini-alla-manifestazione

http://www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2018/06/DocumentiCongrXVIIICGIL1.pdf

http://www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2019/01/Documento-finale-conclusivo.pdf

PIATTAFORMA_UNITARIA_aggiornata

https://www.radioarticolo1.it/audio/2019/01/22/39032/camusso-il-lavoro-e-la-bussola-per-cambiare-il-paese

IL BUON LAVORO, IL BUON SINDACATO_ di Giuseppe Germinario

Il 30 e 31 gennaio scorso la CGIL ha organizzato una conferenza di programma, il “BUON LAVORO”, sul tema delle implicazioni dei processi di digitalizzazione ed informatizzazione sull’organizzazione del lavoro delle imprese, sul mercato del lavoro, sulla contrattazione e sull’organizzazione sociale delle comunità.

Una iniziativa quanto mai necessaria nel mondo sindacale ma dal carattere ancora drammaticamente estemporaneo. Arriva, infatti, a circa trenta anni dall’avvio dei primi significativi processi di riorganizzazione delle attività produttive e di impresa, nonché della vita e dei sistemi di controllo delle varie formazioni sociali.

Un ritardo che si è manifestato in tutta la sua gravità nella qualità della relazione del Segretario Generale, Susanna Camusso e nella gran parte degli interventi, in una iniziativa per altro ancora unica nel mondo sindacale.

http://www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2018/01/20180129relazione-conferenza-programma.pdf

http://www.radioarticolo1.it/jackets/cerca.cfm?str=Buon+lavoro&contenuto=audio

La natura del potere sindacale, decisamente più contrattuale e di condizionamento che decisionale, giustifica solo in parte tale riflesso; contano soprattutto l’impostazione culturale e le chiavi interpretative di una classe dirigente sindacale impegnata a conciliare in qualche maniera gli stereotipi dell’attuale sinistra con il retaggio sempre più vago e oscuro di una visione di classe.

Nella fattispecie la relazione e le conclusioni di Susanna Camusso, nelle approssimazioni, incongruenze e alcune volte addirittura salti logici ivi contenuti, rappresentano il portato evidente di questo limite e dell’incapacità di offrire ai ceti popolari la possibilità di una difesa efficace delle proprie condizioni e un ruolo attivo in un eventuale progetto di sviluppo e di recupero di autorevolezza del paese.

È il momento, quindi, di addentrarsi nei contenuti di essa.

Il contrasto alle diseguaglianze è il filo conduttore dell’iniziativa e di tutto l’impegno sindacale.

Una ambizione caratterizzante il progressismo democratico e di sinistra cui appartiene a pieno titolo il sindacato confederale.

Quando però dalla enunciazione e dagli slogan taumaturgici si passa all’analisi e agli obbiettivi politici iniziano a sorgere i problemi e le incongruenze.

SULLE DISUGUAGLIANZE RISPETTO A CHI

Intanto diseguaglianze rispetto a chi e tra chi?

Camusso riprende pigramente le analisi modaiole di Piketty; l’1%, detentori, per di più bianchi, della ricchezza equivalente posseduta da 3,7 miliardi di persone restanti, quindi, rispetto al resto della popolazione. Un 1% costituito soprattutto da esponenti della finanza e delle banche.

Questa prima affermazione si presta a numerose obiezioni di varia rilevanza.

Sul colore della pelle, visto l’emergere di nuove potenze economiche, soprattutto in Asia e di relativi nuovi patron.

Il dato del 1% è un giochino statistico, dal vago sapore demagogico, realistico nel solo caso in cui tale immane ricchezza dovesse rimanere immobilizzata e tesaurizzata; una condizione legata a specifici cicli economici e fasi geopolitiche. Di regola rappresenta un sistema di drenaggio e riallocazione di risorse in settori e spazi geografici seguendo dinamiche economiche legate a strategie geopolitiche; un sistema, quindi, comunque di redistribuzione e di reinvestimento. Rappresentato come una cupola dominante gli affari e le peripezie del globo terreste, in grado di svuotare e sterilizzare l’azione politica, verrebbe da chiedersi come possa una organizzazione, delimitata territorialmente e circoscritta alla difesa degli interessi del lavoro dipendente, contrastare efficacemente e realisticamente questa divaricazione.

L’implicazione delle più gravi ed evidenti di tale escamotage nell’analisi politica e socioeconomica è infatti l’appiattimento del restante 99% di popolazione in un confuso calderone dagli ingredienti indistinti che impedisce di vedere le articolazioni sociali e le diversità di interessi e rappresentazione dei vari gruppi sociali.

Un’altra grave implicazione riguarda l’incapacità di analizzare e spiegare la conflittualità politica, presente in tutti gli ambiti compreso quello economico, sempre più accesa tra centri di potere in aperta competizione e del tutto incompatibile con una visione totalitaria e verticale dell’azione politica. In questa dinamica i centri economico-finanziari sono solo parte dei vari centri decisionali in competizione e conflitto ai quali partecipano a pieno titolo élites operanti in altri ambiti, dal militare all’accademico, alla sicurezza interna, all’amministrativo; compresi quindi quelli presenti nelle varie istituzioni pubbliche e statali.

La conseguenza di tale impostazione è la formulazione di orientamenti ed obbiettivi politici quantomeno velleitari o mal posti.

DISUGUAGLIANZE TRA CHI

La prospettiva di diseguaglianza interna al blocco del 99% si rivela se possibile ancora più inadeguata. La constatazione ricorrente è quella di una condizione sempre più generalizzata di precariato e di peggioramento dei livelli di sfruttamento e di condizione economica.  Più che di diseguaglianza si tratterebbe quindi di appiattimento generalizzato al ribasso delle condizioni di vita e di lavoro.

Le vie di fuga consentite da queste chiavi di interpretazione sono alla fine scontate.

Si parte dalla aspirazione di un Governo Mondiale che dovrebbe controbilanciare lo strapotere di questa grande cupola, per consolarsi via via con la costituzione degli Stati Uniti d’Europa e ridursi infine ad una generica azione di controllo dei Governi attraverso soprattutto la tassazione; il tutto corroborato e sostenuto dall’azione di un presunto movimento sindacale e di opposizione internazionale.

Sarebbe sin troppo facile sfrucugliare sulle possibilità reali di direzione unitaria di tale movimento, laddove dovesse prender piede e sul fallimento di tali aspirazioni nei momenti più drammatici di conflitto di questi ultimi due secoli. Non è però l’aspetto centrale della questione.

Le ultime vicende legate alla manipolazione di dati dei colossi della comunicazione e alla crisi economica finanziaria degli ultimi dieci anni hanno rivelato la rivalità accesa di questi centri, l’aperta innervazione di essi con gli apparati e i centri di alcuni stati in via di rafforzamento e di altri in via di indebolimento, la loro stessa dipendenza dalle scelte e dal controllo di questi apparati.

Non si tratta quindi di un generico recupero del controllo pubblico, quanto di quello delle prerogative di quegli stati che volenti o nolenti vi hanno rinunciato attraverso la realizzazione di strategie particolarmente complesse ed articolate.

Susanna Camusso invece non trova di meglio che lamentarsi del cosmopolitismo e della libertà di circolazione a senso unico auspicati e perseguiti da questa cupola; applicati quindi ai capitali ma non alla manodopera e alle popolazioni, soggette queste ultime sempre più alle limitazioni dei muri e di vari tipi di barriere. Da qui la conferma di una veemente condanna delle politiche protezioniste, per altro comunque esistenti in varie forme selettive, foriere di guerre e disastri. Una accorata difesa di libertà, costituita nella prosaica realtà da pratiche selettive che hanno garantito il predominio pluridecennale della formazione americana, ma anche l’emergere di nuove potenze sempre più in grado di sostenere la competizione politico-economica. Un vero e proprio accecamento ideologico che impedisce di vedere la natura del conflitto tra centri globalisti e centri strategici più disposti ad accettare una condizione multipolare; di individuare di conseguenza l’interesse che hanno anche gran parte degli strati più popolari e subalterni a veder frenati e strettamente controllati i processi di migrazione e i flussi economici.

Quel che appare una visione universalistica in grado di interpretare adeguatamente la realtà globale e gli interessi della varia umanità, si rivela in realtà una proiezione di una condizione e di un processo riguardante un mondo occidentale in declino o comunque costretto a circoscrivere la propria azione.

La crisi, il diradamento e il depauperamento dei ceti medi, ad esempio, contrariamente alla rappresentazione catastrofica offerta dal Segretario Generale, è un processo che riguarda soprattutto le formazioni occidentali in declino, in netto contrasto con il loro sviluppo nelle formazioni emerse ed emergenti quali la Cina, l’India, la Russia, l’Indonesia ed altre. La competizione e il declino, a volte relativo a volte assoluto delle formazioni occidentali, rende poco sostenibile il sistema di funzioni, di redistribuzione di rendite e redditi che ha contribuito a rimpolpare e garantire lo status di ampi settori di ceti intermedi.

Un processo reso ingovernabile e ulteriormente destabilizzante da due altri fattori a loro volta globali, i quali hanno un influsso diverso su formazioni in via di sviluppo e formazioni sulla via del declino; su formazioni con una folta presenza di ceti medi numerosi ed articolati e formazioni con ceti da creare partendo da una base iniziale più ristretta e meno articolata e diffusa:

  • da processi di mondializzazione delle filiere produttive e dei servizi con la conseguente migrazione di interi comparti produttivi, più o meno evoluti;
  • da processi potenti di robotizzazione e digitalizzazione i quali stanno trasformando radicalmente, più che azzerando, il livello e le gerarchie di competenze professionali nonché la definizione di funzioni e ruoli necessari alla formazione e alla stratificazione dei ceti intermedi sotto mutate spoglie

Per una associazione la quale costitutivamente fonda la propria ragione d’essere sul rapporto più o meno conflittuale tra capitale e lavoro dipendente è molto facile scivolare e proiettare le proprie dinamiche politiche e rivendicative in una visione universalistica di fatto subordinata, grazie all’impostazione dualistica dei rapporti di potere tra capitalisti (ormai finanziari) e salariati (masse diseredate), alle strategie globaliste tipiche invece di centri strategici che ambiscono all’egemonia unipolare. A meno che l’organizzazione non disponga di una classe e di un gruppo dirigente talmente saldo politicamente da essere in grado di ricondurre le dinamiche ed i conflitti di classe, le rivendicazioni settoriali all’interno delle dinamiche geopolitiche che si stanno consolidando.

LE IMPLICAZIONI POLITICHE

Questo gruppo dirigente non appare assolutamente in grado di elaborare una analisi e condurre un’operazione politica di tale portata; di conseguenza non appare in grado di opporre una difesa efficace ed unitaria degli interessi popolari.

Sembra, al contrario, rimuovere dal proprio bagaglio personale quel patrimonio culturale duramente acquisito sino ai primissimi anni ’70 ed utilizzato con buona efficacia per una brevissima stagione, sino a quando, cioè, non prevalsero definitivamente e tardivamente le pulsioni egualitariste più esasperate tipiche dell’operaio-massa e, in forma ancora più avulsa, di ampi settori del pubblico impiego.

L’enfasi con la quale la CGIL, più in generale l’insieme del mondo sindacale, pone l’accento sulle diseguaglianze è il segno della gravità della frammentazione e polverizzazione del mondo del lavoro dipendente e collaterale, ma anche dei gravi limiti dell’attuale azione sindacale.

La precarizzazione della condizione economica e dei diritti dei salariati, degli autonomi e di buona parte dei ceti professionali è la conseguenza pressoché diretta del drastico ridimensionamento dell’apparato produttivo e di servizi del paese, frutto a sua volta di una intrinseca debolezza politica della classe dirigente del paese. Il confronto tra le forze sociali, tra esse il confronto sindacale, si fonda quindi su basi e su margini più ristretti; la forza contrattuale degli strati più fragili e deboli risulta pregiudicata. L’esigenza inderogabile di ammodernamento e riorganizzazione produttiva delle attività superstiti e la perdita di controllo nazionale di gran parte delle imprese più rilevanti hanno per altro sconvolto le basi del sistema di contrattazione e dei rituali sindacali consolidati sino a fine secolo.

Non a caso l’azione più importante su cui è impegnato questo sindacato riguarda la rielaborazione del sistema dei contratti collettivi e individuali di lavoro e il varo di una carta dei diritti. Una azione alla quale, però, manca ormai una sponda politica ed istituzionale, una volta garantita dai partiti operai e popolari, in grado di sostenerla; tanto più necessaria, quanto più e polverizzato il quadro sociale operativo del sindacato.

Si tratta, però, di una operazione di stampo prettamente legalitario, di fatto elitaria che prescinde dal contesto economico e dai rapporti ormai consolidati. Lo sviluppo esponenziale dell’economia informale, una tara storica del paese Italia, è tutta lì a rivelarne la debolezza e la parzialità. Una fragilità rispetto alla quale le modalità di contrasto delle diseguaglianze prospettate da questo gruppo dirigente appaiono distorsive e fuorvianti.

L’aspetto centrale del problema è invece l’appiattimento retributivo ed anche normativo riservato a tante categorie più professionalizzate e specializzate.

Senza porre al centro questo aspetto, difficilmente il sindacato potrà contare sull’apporto delle forze più competenti, più forti e più tenaci del mondo del lavoro; rischia, piuttosto, di essere soggetto al meglio alle vampate e alle fibrillazioni senza respiro dei settori più degradati e meno capaci di sostenere confronti prolungati.

Le cause di questa condizione sono molteplici:

  • la mancata coltivazione ed incentivazione di un ceto imprenditoriale e manageriale nazionale interessato e capace di investimenti strategici, di sviluppo di grandi imprese;
  • la distruzione e l’annichilimento progressivo di quella parte di classe dirigente della nazione in grado di sostenere una collocazione internazionale del paese sufficiente ad offrire spazi e condizioni a questo sviluppo;
  • la destrutturazione piuttosto che la riorganizzazione di gran parte degli apparati e delle strutture necessari a garantire queste politiche;
  • una condizione delle strutture produttive che richiede qualificazioni complesse ma fuori mercato;
  • un serbatoio di manodopera inoccupata del tutto sproporzionato

Da qui lo spreco di competenze e di qualificazioni che sta portando ad un degrado progressivo degli stessi centri di formazione dal costo ormai sempre più insostenibile e meno giustificabile dagli sbocchi.

I primissimi anni ’70 furono i momenti di maggiore forza e lucidità del movimento sindacale. Fu la breve fase nella quale il sindacato godeva dell’apporto militante dei settori più professionalizzati del mondo del lavoro dipendente. In quegli anni maturò la politica del cosiddetto “nuovo modello di sviluppo”, velleitaria e spesso fumosa, ma indicativa delle ambizioni unitarie e generali del movimento. Contestualmente si elaborò la classificazione del personale in un inquadramento unico che tentava da una parte di far corrispondere il salario al livello professionale e di competenza dei dipendenti, siano essi operai, che impiegati, che tecnici, che quadri; dall’altra di riordinare i sistemi di incentivazione individuali. Una epopea che si concluse rapidamente nell’inerzia delle posizioni egualitariste più radicali portate avanti dai settori meno qualificati e/o più istituzionalmente garantiti da un sistema di regolamentazione pubblica proprio degli apparati burocratici ed amministrativi sino all’apoteosi velleitaria del salario considerato “variabile indipendente”. Posizioni via via prevalenti negli ambienti sindacali.

A cosa si sia ridotta progressivamente la cittadella sindacale e la composizione di gran parte dei cortei è sotto gli occhi di chi vuol vedere.

LE OMISSIONI ED I RITARDI

La relazione di Susanna Camusso e la stessa azione sindacale sono lontani da un cambiamento di impostazioni altrimenti indifferibile.

  • Nella relazione non c’è traccia della necessità di tutelare e sviluppare un complesso di grandi imprese, a controllo e di espressione nazionale in grado di garantire adeguate piattaforme industriali nei settori sperimentali e strategici, in grado di competere ma anche di partecipare con pari dignità al sistema di compartecipazioni e di fusioni internazionali.
  • Non c’è traccia del ruolo preminente cui sono chiamati gli stati nazionali nello scacchiere geopolitico e nei sistemi di alleanza che si vanno prefigurando non ostante la vulgata sovranazionale ancora predominante in questi ambienti. Sistemi propedeutici al varo di politiche industriali e alla formazione di grandi complessi di imprese paragonabili a quelle americane, cinesi e in alcuni ambiti russe;
  • lo stesso ruolo pubblico si limita, nella rivendicazione, ad una politica di massicci investimenti e di riordino normativo e organizzativo tesi a favorire le condizioni e le opportunità di mercato. Una politica velleitaria nelle dimensioni, perché inquadrata nei vincoli comunitari; essa non farebbe che assecondare per altro i processi “naturali” di mercato i cui indirizzi sono decisi altrove; di fatto in altri centri politici decisionali estranei al paese ma ben presenti in altre formazioni e apparati statali.

SINDACATO E INDUSTRIA 4.0

Risulta gravemente inficiato, di conseguenza lo stesso approccio alla problematica dell’industria 4.0 tentato nel convegno.

Non sorprende nemmeno il sostegno acritico ed entusiasta al provvedimento “Industria 4.0” varato dal Ministro Calenda nel 2016 concesso dalle tre confederazioni nel 2017.  http://www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2017/03/Doc-Unitario-CGIL-CISL-UIL-del-13-marzo-2017-INDUSTRIA-4_0-1.pdf

In proposito si veda quanto espresso a suo tempo da questo blog. http://italiaeilmondo.com/?s=i+buoi+oltre

Nella relazione vi sono solo un paio di accenni critici in proposito, quasi del tutto irrilevanti.

Si sottolinea il carattere fuorviante del titolo che induce a focalizzare l’attenzione ai soli processi industriali di digitalizzazione e robotizzazione. In una successiva intervista Susanna Camusso, bontà sua, tende a sottolineare ulteriormente che i processi riguardano ampiamente anche il settore dei servizi e le amministrazioni pubbliche.  Questo a distanza di quasi trent’anni dai primi processi avviati, già con ritardo, nel settore bancario. http://www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2017/06/Idea_Diffusa01-2018-1.pdf

Si indulge sulla constatazione dell’insufficienza degli investimenti, in particolare pubblici, nel settore della ricerca e sulla necessità, sulla carenza, espressa in modo generico, di una concertazione tra le parti nella messa in opera e valorizzazione degli stessi.

Glissa del tutto sull’articolazione e sugli aspetti dei quattro ambiti, pur enunciati abbastanza chiaramente nel provvedimento governativo e posizionati gerarchicamente, entro i quali agiscono i processi di intelligenza artificiale (IA), di digitalizzazione e robotizzazione.

Critica blandamente il punto di vista legato esclusivamente ai processi di automazione degli impianti, ma solo per addentrarsi a grandi linee con un grande balzo spericolato sulla problematica dell’introduzione di queste tecnologie nei beni di consumo e di servizio. Nella fattispecie sulle implicazioni positive legate alle possibili estensioni della gamma e della qualità di servizi e beni alla persona, in particolare quelli connessi allo stato sociale; su quelle negative legate al controllo e alla sicurezza dei dati personali.

Su questo aspetto, nessuna attenzione all’enorme e cruciale problema di sicurezza e di dipendenza legato ai processi di raccolta, filtraggio e trasmissione dei dati rilevati dai prodotti e dai processi industriali connessi in rete. Processi in mano quasi integralmente a compagnie americane.

Un problema che sembra preoccupare seriamente cinesi e russi, tant’è che vi stanno investendo copiosamente; non sembra gran che tormentare i sonni degli europei, tanto meno degli italiani. Nel suo piccolo la Camusso offre il suo contributo al torpore. Si guarda bene dallo spingere il Governo e gli imprenditori italiani a cercare e promuovere sinergie e collaborazioni analoghe, specie in ambito franco-tedesco, per varare analoghe strutture di servizio. Tutto l’afflato si riduce ad una accorata esortazione ad un controllo democratico, per iniziativa di governi ed istituti sovranazionali, della corretta gestione dei dati.

Ci si sarebbe aspettato una particolare attenzione, connaturata alla missione del sindacato, sulle implicazioni dei processi di digitalizzazione, robotizzazione e IA sulla organizzazione del lavoro e sui vari livelli di qualificazione e professionalità richiesti. Un aspetto cruciale fondativo della contrattazione nazionale ed aziendale. Anche in questo caso, la premura con la quale la relazione sottolinea il fatto che ci si trova di fronte a processi di lungo periodo e reiterati pare più un alibi per giustificare i ritardi di comprensione e di azione che un appello ad attrezzarsi ad una sorta di contrattazione permanente e con cognizione di causa in un quadro di politica industriale.

Non una parola, anche in questo caso, sulle pecurialità dell’industria italiana, nella quasi totalità fatta ormai di aziende di medie e piccole dimensioni le quali impediscono di acquisire all’interno gran parte delle nuove competenze richieste, obbligandole ad affidarsi a figure esterne. Da qui il fenomeno abnorme di professionisti esterni, spesso mal pagati e vessati, perché non organizzati in ordini professionali riconosciuti, dallo Stato. Nemmeno una parola sui processi di progressiva assimilazione delle competenze professionali in programmi modulari propedeutici ad un ulteriore processo di dequalificazione e precarizzazione del personale richiesto. Anche su questo i margini di azione sarebbero ancora ampi per compensare il calo di livello di specializzazione richiesti con un allargamento della qualificazione riguardante la conoscenza più ampia possibile di cicli operativi. Anche questa una ricerca e un impegno tanto in voga in quegli anni, grazie all’impegno politico e sindacale di tecnici e professionisti, ma caduta pressoché in disuso ai giorni nostri sino a confondere i concetti stessi di specializzazione e qualificazione, invertendone addirittura l’importanza.

Non è un caso che la relazione, non ostante le intenzioni dichiarate, finisce regolarmente per soffermarsi sugli episodi di precarietà, come quelli dei call center, importanti per la loro diffusione ed estensione, ma marginali rispetto a quello che sta accadendo nei gangli vitali dell’industria e dei servizi.

Con questi limiti la classe dirigente sindacale non ha alcuna possibilità di inserirsi validamente in un progetto di rinascita nazionale, condannando ampi strati popolari alla marginalità politica, sociale ed economica.

Lo stesso muro che legittimamente cerca di erigere contro la diffusione di regimi assistenziali slegati dalla condizione lavorativa, siano essi il reddito di cittadinanza o le pensioni sempre più sganciate dai versamenti contributivi o quant’altro, grazie a queste mancanze rischia di sgretolarsi di fronte agli attacchi concentrici e all’attrattiva facile e temporanea offerte da partiti movimentisti come il M5S, da gran commis dello stato, come Tito Boeri e dalle rozze politiche aziendali di gestione del personale.

Di converso la maggiore preoccupazione sembra concentrarsi su una reciproca legittimazione delle parti sociali, quindi in primo luogo con la Confindustria, tesa alla mera sopravvivenza conservativa e autoreferenziale.

Cosa sia attualmente la Confindustria, già dal passato poco glorioso, meriterebbe un capitolo a parte. Pare evidente la sua intenzione di perseguire una politica di adeguamento alle possibilità di sfruttare gli interstizi di mercati determinati da altri. Per ambire a qualcosa di più e di più dinamico occorrerebbe una classe dirigente e un ceto politico di ben altre ambizioni e capacità. La storia dell’IRI, dell’Olivetti, della Montedison sono lì a dimostrare il carattere prevalentemente retrivo e conservatore di questa organizzazione.