Ultime cene a Paris. Testi di Andrea Zhok e Pierluigi Fagan

Aprire un dibattito è sempre un bell’invito. Non amo particolarmente questa questione di costume conosciuta come ideologia woke e già nominarla con termine incomprensibile denuncia la nostra minorità concettuale di chi deve fare i conti con pezzo di immagine di mondo che semplicemente subisce. Inoltre, non ho neanche visto questa performance inaugurale delle Olimpiadi. Tuttavia, l’argomento ha una rilevanza sull’immaginario e se si tratta di immaginario si tratta di immagine di mondo, quindi ce ne dobbiamo occupare. Che immagine di mondo promana da questo tipo di performance? Che rapporto c’è tra queste visioni di costume ed il c.d. “capitalismo”?
Tocca tornare al Cinquecento, in Francia. In quel secolo, i francesi portano avanti una novità storica decisiva, lo Stato. Lo Stato, più o meno “nazione”, nasce a fine XV secolo a seguire l’impasse della Guerra dei Cent’Anni. Soprattutto nella seconda metà di quel secolo, “emerge” a protagonista una nuova classe sociale. In realtà non era nuova, che gli abitanti dei borghi che ora diventavano sempre più città fossero diversi da contadini, aristocratici e preti era un fatto almeno da tre secoli. Ma nel Cinquecento, questa classe sociale assume un suo nuovo protagonismo e lo fa in ragione del fatto che ciò permette la transizione tra l’ordine medioevale e quello moderno. In un certo senso, si apre uno spazio dovuto al cambiamento storico, l’ordine medioevale non è più adatto alla nuova forma di questa parte di mondo (Europa occidentale), nel vuoto si intrufola la nuova classe con sue idee, istanze, ideologie, protagonismi.
L’ideologia di questa classe che si esprimerà in Francia ma anche a nome della sua versione anglosassone, ha alcune caratteristiche precise. La prima è il senso di libertà. “L’aria di città rende liberi” era un refrain già nel Trecento. Io sono e sempre vissuto a Roma, ma coloro che sono nati in qualche paesino e poi si sono trasferiti in una grande città, avranno provato questo senso diverso del fatto che nella città l’agone sociale è meno stretto ed invasivo, nessuno sta lì a controllarti chi sei, che fai, con chi vai a fare cosa. Quel materiale da “chiacchiericcio” che anima la vita delle comunità piccole. Come ogni cosa, il fenomeno ha le sue due facce. Si può godere di questa improvvisa libertà in cui improvvisamente diventi anonimo e poi magari dolere del fatto che sei improvvidamente solo, slegato da ogni legame in una società di anonimi che però tende all’anomia. Il mondo è così, meglio o peggio sono sempre dei relativi. Sta il fatto che questa classe più di ogni altra, tiene alla sua libertà ossia a non dover rispondere ad altri che non il diritto dell’individuo ad essere come vuole essere. Su tutti i piani, ma a cominciare da quello che più coinvolge la nostra complessione psico-fisica, il sesso.
Il sesso fu la forma di espressione umana tra le più coartate dall’ordimento medioevale religioso. La religione, nel caso quella cristiana, ha avuto sempre un problema specifico col sesso. La religione cristiana era arrivata a farsi ordinatore sociale principale e quindi doveva avere una sua idea di società, la società è la risultante delle interrelazioni interindividuali e queste sono di varia natura sebbene la più importante sia appunto il sesso, con chi decidiamo di provare piacere sessuale, attività che chiama alla partnership, spinge alla relazione. L’ideologia cristiana aveva quindi precise idee su come si dovessero regolare le interrelazioni sessuali arrivando addirittura a produrre una sua élite di funzionari che dichiarano di essere praticamente asessuati non potendo in teoria avere rapporti di biologia naturale con simili, sebbene poi abbiamo molto cose invece da dire a chi quei rapporti ce li ha su con chi averle, quando, come a che fine entro quali limiti etc. etc. Essendo tutti maschi ed impediti ad avere relazione sessuale naturale con le femmine, spesso finiscono a fare tra loro o con i chierichetti, ognuno ha le sue stranezze che però è bon ton sociale far finta di essere normalità a-problematica.
Così, la prima spinta alla rivoluzione dei costumi operata dalla neo-borghesia in Francia, fu sessuale, nacquero i libertini. Pochi sanno che l’intera pianta del liberalismo, nasce in verità proprio dal libertinismo, Micheal de Montaigne e Pierre Gassendi, sull’onda di quella transizione tra medioevo e moderno in cui declina l’immagine di un mondo ordinato a garantito da Dio ed emerge un nuovo modo di stare al mondo che responsabilizza l’uomo individuale chiamato a farsi il suo destino. La libertà sessuale e dei costumi diventa la prima bandiera a scendere nella piazza sociale per promuovere il cambiamento.
Accanto a questa rivendicazione di libertà ne compaiono altre due poiché agli esseri umani le trinità piacciono in particolar modo, fanno “ordine mentale”. Uno è noioso, Due è già più mosso (dialettico) ma poco creativo, tre è complesso.
La seconda rivendicazione era in realtà anche più antica e derivava da quel frame storico della rivolta baronale inglese che conosciamo come Magna Charta in quel del 1215. Questa classe non capisce perché deve pagare le tasse. Poiché alfieri del loro individualismo egoico, tendono a dimenticare e quindi sottovalutare quanto del loro essere individuale dipenda comunque sia dal loro essere sociale. Dalla Magna Charta all’anarco-capitalismo, passando per l’odio per lo Stato che fa da esattore, i libertini ora liberali, non ritengono di dover ridare indietro la questo societaria poiché tendono a minimizzare il valore del fatto che comunque sia, vivono “in” e “di” società.
La terza rivendicazione venne pronunciata sempre da un francese ma il tema fu anche più caro agli inglesi. La frase era: “Laisseznous faire”, data dal mercante Legendre al ministro J.-B. Colbert (1619-1683) che chiedeva cosa si poteva fare per aiutare il commercio. Lasciateci fare, non vi impicciate che fate solo danni, noi sappiamo come si fa ovvero basta non fare niente e lasciare che i liberi spiriti animali umani individuali abbiano il sopravvento. Da cui la paginetta scarsa dell’Inquiry di Adam Smith, col lattaio ed il macellaio da cui la “mano invisibile” e molto altro. Non solo c’è questa precisa indicazione operativa, c’è in fondo una preferenza ordinativa. Ai liberali non piace essere sottomessi a persone, preferiscono i processi forse perché sono impersonali e più aperti all’individuale merito. C’è chi ha Putin o Xi Jinping ed il PCC e c’è chi preferisce il capitalismo. Gli inglesi ci fecero su quella che chiamarono “Gloriosa rivoluzione”, in colpo di stato che sovvertì le prerogative del monarca (la monarchia è una istituzione franca, mai amata davvero dagli inglesi), dando tutto il potere al parlamento delle élite. Tra cui il potere decisivo a chi, come e quanto far pagare le tasse. Quelle che i più traviati dalla letteratura marxista chiamano “capitalismo” che invero non è affatto una forma economia ma politico-economica, nacque lì a fine Seicento.
Insomma, la trinità ideologica borghese, poi liberale, è libertà individuale assoluta (sciolta da ogni legame), libertà dal pagamento degli oneri sociali in quanto non si ritiene di dipendere dalla società in alcun modo, libertà dell’essere ordinati da un processo a cui tutti possono partecipare con propri meriti e demeriti.
Ci si può allora domandare: ma perché dare a questa nota e ormai antica narrazione il ruolo di manifesto ideologico per aprire a Parigi una Olimpiade? Si sa, i francesi ritengono di essere i custodi valoriali della modernità, in termini di “valori” è roba loro sebbene in realtà lo sia più nitidamente degli inglesi.
Credo che il riproporre il mito delle origini sia un segno di quanto si tema che il periodo storico basato su quelle origini sia in pericolo di “finale di partita”, direbbe Beckett. Siamo in una nuova, potente transizione storica, il moderno è finito, il periodo successivo al momento non ha ancora nome ma ogni giorno ha sempre più sostanza, questione di tempo affinché la cosa abbia il suo nome. Quando il vecchio sta morendo ed il nuovo stenta a nascere, nelle transizioni (ed infatti il manifesto concettuale anche dal punto di vista dell’immaginario sessuale è il transitare in non essere in nessun genere o specie precisa) c’è confusione, smarrimento timore, incertezza, paura.
Dovremmo forse però occuparci noi tutti un po’ di più del mondo nuovo e lasciare il vecchio ai suoi tormenti esistenziali. Più tempo ci metteremo a dar l’avvio ad un modo nuovo di abitare il mondo nuovo, più tempo ci toccherà avere a che fare con la triste rievocazione dei fondamenti dell’era che si allontana alle nostre spalle. Cercasi nuova visione del mondo evitando il rimbalzo per il quale oggi spuntano fuori addirittura i paladini del modo più antico, quello religioso. Il futuro non è scritto chi ha mente e pennino cominci a buttar giù idee che il tempo del cambiamento pressa.
Intorno alle scelte coreografiche della cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Parigi si è già detto e scritto molto. E tuttavia ho l’impressione che il tema non sia stato inquadrato in maniera ben centrata.
L’argomento centrale che è stato sollevato dai critici mette in particolare rilievo l’aspetto offensivo, lesivo dei costumi morali e delle credenze religiose altrui. E non c’è dubbio che qui vi siano stati elementi degni di contestazione. Questo non tanto per la natura delle espressioni – pochi oggi si scioccano per provocazioni grottesche come la drag queen barbuta che si affaticava in divincolamenti vari per apparire sessualmente sfidante. Non la natura delle manifestazioni, ma il CONTESTO in cui sono state proposte, ha un carattere oggettivamente offensivo.
Trattandosi dell’inaugurazione di una manifestazione sportiva mondiale, che abbraccia paesi di ogni continente ed emisfero, di culture e sensibilità differenti, mettere in scena qualcosa il cui unico senso possibile – nella più benevola delle interpretazioni – era quello di una “provocazione culturale” era intrinsecamente inappropriato. E sarebbe dovuto risultare fuori luogo a chiunque, quali che fossero le proprie convinzioni, nel momento in cui avesse preso sul serio la dignità di culture diverse dalla propria. Anche ammettendo che quelle sceneggiate fossero “rappresentative della propria cultura”, non si capisce esattamente a che titolo un paese ospitante dell’evento olimpico debba sentirsi in diritto di impartire “provocazioni” per “educare gli altri all’emancipazione” (ammettendo che questa sia l’idea che abbia attraversato l’open space in cui risiede comodamente il cervello degli organizzatori.)
Peraltro, – continuando nella sforzo di un’interpretazione benevola – se l’idea fosse stata quella di “indurre ripensamenti nei paesi meno emancipati attraverso delle provocazioni”, francamente mi chiedo se qualcuno si sia posto il problema della “ricezione del messaggio”. Se, per dire, si voleva “stimolare un ripensamento” in qualcuno come la rappresentanza del Sudan (dove mi risulta esistere una legislazione intollerante nei confronti dell’omosessualità), esattamente chi è quel genio della comunicazione che ha pensato che promuovere in mondovisione provocazioni postribolari, tipo la simpatica drag queen barbuta, avrebbe fatto guadagnare punti presso il pubblico sudanese ad un atteggiamento di normalizzazione delle “disposizioni non ortodosse”? Non so, ma a me pare che l’unico risultato ottenibile attraverso quella provocazioni, può essere stato soltanto quello di consolidare nei paesi meno tolleranti le ragioni degli intolleranti; sbaglierò, ma temo che il sudanese medio, dopo aver visto le sceneggiate parigine sarà semmai un po’ più propenso di prima a rigettare tutto ciò che odora di libertarismo occidentale.
Quindi, sì, ci sono state buone ragioni per ritenere che quelle scelte coreografiche siano state offensive: non solo offensive nei confronti di credenze religiose altrui, ma più in generale offensive per l’atteggiamento di mancanza di rispetto che trasuda in chi vuole farti lezioncine morali a colpi di “provocazioni”.
E tuttavia non mi pare che sia questo il cuore problematico di ciò che abbiamo visto l’altro giorno a Parigi.
Nell’odierna atmosfera “politicamente corretta” le regole del gioco tendono in effetti ad incentivare l’atteggiamento di “offesa risentita”. È tutta una gara a chi si sente più offeso, più ferito nella propria sensibilità, e praticamente l’unico modo per legittimare un discorso pubblico è oramai quello di presentarsi come vittima vulnerabile di un attacco altrui.
È per questo motivo che si è spinto molto, sin dal primo momento, il tasto dell’offensività ai credenti rappresentata dalla “parodia dell’Ultima Cena”. Perché così si poteva giocare a carte invertite il gioco del politicamente corretto: “Ecco, questa volta è la mia sensibilità di credente ad essere toccata!”
Ma si tratta di una difesa oramai molto fragile nel mondo occidentale. Dopo tutto chi crede che la Chiesa odierna possa percepirsi davvero offesa da alcunché sul piano rappresentativo? E in effetti il Vaticano ha borbottato una protesta a mezza bocca, perché dopo tutto sa benissimo di avere oggi, come “detentrice di un credo forte”, una credibilità bassina. Credenze annacquate in una cornice di costumi annacquati e con una tradizione sempre più incerta non possono recitare facilmente il ruolo della Dignità Spirituale Offesa.
Dunque, in generale, io non batterei il tasto sulla questione dell’Offesa alle Credenze Altrui, che pure visto il contesto ci sono state. E non credo che sia il caso di giocare a parti invertite lo stesso gioco del politicamente corretto, chiedendo sanzioni, censure, e simili. A me va benissimo che un creativo di regime sia libero di fare l’ennesima stanca parodia dell’Ultima Cena, purché gli si possa con altrettanta libertà dire che è, tecnicamente, un mentecatto.
A mio modesto e trascurabile avviso, ad essere particolarmente preoccupante è un’altra cosa. Non il tema di chi ha più o meno diritto a sentirsi offeso – per quanto la mancanza di rispetto culturale sia stata evidente. Ciò che io trovo tragico è che una tale grottesca rappresentazione sia stata escogitata, e poi anche difesa, come una legittima autorappresentazione culturale dell’Occidente. Non solo è parso ad un gruppo di persone, si presume colte, dell’establishment culturale francese pensare che una tale pila di spazzatura potesse essere un’operazione culturalmente commendevole, ma moltissimi altri rappresentanti della cultura francese ed europea hanno ritenuto che una cosa del genere fosse “una originale provocazione”, uno “stimolo a pensare”, una “espressione di libertà”, una “sfida al conservatorismo”, ecc. ecc.
Senza tante parole, basta mettere una accanto all’altra la cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Pechino 2008 con la cerimonia di Parigi 2024 per vedere plasticamente il contrasto tra una cultura in fase ascendente ed una in fase decadente.
Nella prima spettacolarità, grazia, cura, coralità, precisione, originalità, potenza si fondevano nell’autorappresentazione di una nazione che percepisce di avere un futuro ricco di possibilità davanti a sé. Nella seconda troviamo grottesche provocazioncelle da liceali e imprestiti dalla cultura pop più commerciale, che segnalano una cultura enervata, esaurita, che cerca di sollecitare artificialmente i propri nervi stanchi e ammanta la propria impotenza creativa di “libertà dai condizionamenti”.
Nelle ore in cui si svolgeva la cerimonia d’apertura a Parigi mi trovavo ad Orvieto, a visitarne il meraviglioso Duomo, costruito nell’arco di 3 secoli (1290-1591). Un progetto secolare non è né nel mondo antico, né nel Medioevo un caso isolato. Molto del nostro patrimonio architettonico storico è frutto di un lavoro secolare, che coinvolgeva in un’unità d’intenti generazioni di artisti, politici, mecenati. E chi ne esplora l’incredibile ricchezza, la straordinaria cura, l’attenzione al messaggio, la quasi soprannaturale capacità di esprimere e mantenere il gusto estetico, chi nota tutto questo vede i segni di una civiltà che era in grado di creare per i secoli, di preparare case e radici per le generazioni a venire, sentendosi intanto erede di un passato profondo.
Noi, abitanti dell’Occidente contemporaneo, abbiamo invece la patetica presunzione di guardare a quel passato dall’alto verso il basso, pensando che vivere in un mondo in cui c’è la penicillina ci renda automaticamente un’umanità migliore. L’atteggiamento culturale che si manifesta in eventi come la cerimonia di Parigi, è l’analogo dell’atteggiamento di un medio adolescente disagiato, che pensa che libertà sia qualcosa come “dire le parolacce” e ridacchiare di tutto ciò che non si capisce (cioè, più o meno, di tutto senza resti). Questa cultura e civiltà, che lo sappia o meno, è in caduta libera e destinata a sparire, per essere rimpiazzata da forme di vita più strutturate, probabilmente non autoctone. Ciò che ci resta – per chi ne è ancora capace – è forse solo fare come i monaci benedettini: dedicandosi a preservare il meglio di una civiltà – che pure ha prodotto cose importanti – per generazioni future capace di riesumarle e rivitalizzarle.

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