NOTE SU COSTITUZIONE E INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALE, 2a parte_ di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTE SU COSTITUZIONE E INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALE

II PARTE

Secondo la tesi di Leibnitz, sopra cennata, teologia e giurisprudenza si basano ambedue su scriptura e ratio; a giudizio di Gierke (prima ricordato) i teologi-giuristi della Seconda Scolastica si servivano con dovizia della ratio. Questo sia per il carattere razionalista della teologia cristiana, sia perché il diritto positivo costituiva solo una parte del diritto, sia perché la rivelazione divina (la scriptura) non era un insieme univoco, esauriente e per così dire, “privo di lacune” che l’interprete non dovesse colmare. In particolare la distinzione fondamentale concerneva ciò che è necessario, perché corrispondente all’ordine creato da Dio – e quindi il diritto naturale – e ciò che era frutto di decisione (divina o umana). Mentre il primo non poteva essere altro da quello che era, il secondo era rimesso alla determinazione della volontà di chi lo poneva in essere. Anche Sieyès riteneva che “Una Nazione si costituisce solo in virtù di un diritto naturale. Un governo, al contrario, è frutto solo del diritto positivo. La Nazione è tutto quel che può essere per il solo fatto di esistere”.[41] Tale distinzione era stata (in parte) ripresa (e sviluppata) da Hegel nella formulazione sopra riportata[42], tra ciò che è necessario perché una moltitudine sia uno Stato (e quindi costituisca un potere comune) e ciò che essendo solo un modo di esistenza dello Stato, appartiene “alla sfera del caso e dell’arbitrio”. Trasponendola al diritto pubblico, ciò che rende possibile la stessa esistenza dello Stato, ne pone e collega gli elementi necessari perché l’istituzione (e la comunità) esista ed agisca, è costituzionale, anche se nessun testo (o dichiarazione costituzionale) la qualifica come tale: è costituzionale per natura, non perché una dichiarazione, per quanto solenne lo statuisca[43]. Anzi è esso che, nell’extremus necessitatis casus prevale sulla vigenza dell’apparato normativo (ed anche sull’assetto “normale” dei poteri) così come, con massima evidenza) nel momento genetico è l’esistenza di quello che consente al diritto – da esso posto o riconosciuto – abbia validità ed efficacia. Ma in quanto è costituzionale in se, non c’è nessuna norma che possa “costituirlo” né eliminarlo ( e tanto meno modificarlo); onde per comprenderlo non occorre alcuna scriptura, ma necessita la ratio. E infatti la ratio appare la sola via per capire ciò che è necessario, non essendo modificabile da una decisione umana, con la conseguenza che, anche se vi fosse – ed è anche capitato che vi siano – decisioni umane, anche espresse in testi costituzionali, che contraddicano ciò che è necessario, sono inapplicabili, in primo luogo (e quel che poi conta) nella concreta realtà, e, di conseguenza, non possono essere oggetto di comandi eseguibili, quindi neppure interpretabili in quel senso. E’ appena il caso di ricordare quanto scriveva Spinoza  che il sovrano può far tutto ma non modificare le leggi di natura (ovvero ciò che è necessario), e comandare cose impossibili come toccare gli anelli di Saturno o sedersi sugli angoli del triangolo (ad impossibilia nemo tenetur), o superflue perché non rientranti nell’ambito (delle possibilità di violazione e con ciò) della libertà umana (ad es. ordinare di rispettare la legge di gravità). Quel che più rileva è come in quel necessario non rientra soltanto ciò che è riconducibile alle leggi naturali (c.d. limite ontologico), ma ciò che è riconducibile alle costanti dell’azione sociale umana: come la necessità della comunità politica e dell’ordine (v. sopra); dell’assetto gerarchico del potere; della  classe politica[44] .

Mano a mano  che dal necessario (in senso assoluto) si passa al (relativamente) necessario[45] e all’accidentale (direbbe Hegel) si riduce l’uso necessario della ratio e cresce quella della “scriptura”, cioè della statuizione (scritta), in quanto tale oggetto d’interpretazione (nel senso tradizionale, anche se con le specificità dovute al carattere costituzionale della materia). Ad esempio, per qualificare democrazia il regime frutto della decisione costituente occorre che sia prescritto il diritto d’accesso di tutti i cittadini alla funzione pubblica (art. 51 della Costituzione) che è considerato una delle condizioni, (necessaria anche se non sufficiente) perché esista una democrazia politica da 25 secoli (cioè dal famoso passo di Tucidide in cui riporta il discorso di Pericle per i caduti della prima fase della guerra del Poleponneso): Una norma che, di converso, escludesse dall’accesso la grande maggioranza dei cittadini,  sarebbe a dispetto della dichiarazione costituzionale contraria, istitutiva di un regime oligarchico.

In una recente polemica, reperibile in rete[46] si possono trovare motivi e spunti su cosa possa essere l’interpretazione della costituzione, sotto il profilo di differenti teorie del diritto. Secondo Baldassarre i tratti fondamentali del positivismo giuridico sono:

– “il diritto (oggettivo) è «posto da una volontà (se no, perché chiamarlo «positivismo»?), nel senso che è il prodotto di un «potere» o di un’autorità, ossia è un atto di volontà di un sovrano precostituito (ora soggettivizzato, come lo Stato, la Nazione, il Popolo o altro Soggetto politico; ora oggettivizzato nell’ordinamento normativo, sia quello nazionale o internazionale, sia l’una o l’altra delle norme fondamentali che si impongono «di fatto»);”

– “il diritto (oggettivo) consiste in norme assistite da una sanzione (istituzionalizzata), vale a dire consiste in norme coattive;”

– “l’applicazione del diritto (norma,legge) è il frutto di una deduzione logica, di modo che la decisione di un caso (controversia) è sempre la conclusione di un «sillogismo deduttivo (o sussuntivo)», derivante da una scelta (valutazione) interamente ascrivibile al «legislatore», ossia alla «volontà» di chi ha posto la norma considerata (sovrano).”

Da cui conclude che “questi tratti comuni ad ogni approccio giuspositivista (esclusivista)… si siano dissolti nella vita pratica del diritto costituzionale dell’ultimo cinquantennio (in Europa)”.

Ad avviso di Guastini, che cita Bobbio, l’espressione positivismo giuridico “è di fatto usata per denotare non una sola ed univoca corrente di pensiero, ma tre modi di vedere distinti e logicamente irrelati tra loro: il positivismo «metodologico», il positivismo «teorico», e il positivismo «ideologico»” di cui il positivismo teorico è “grosso modo, la teoria del diritto, dominante nel secolo XIX: quel modo di vedere secondo cui le norme giuridiche (ivi incluse quelle consuetudinarie) sono interamente riducibili a comandi coattivi del sovrano politico (i. e., di un legislatore umano), un ordinamento giuridico è un insieme di norme completo e coerente, l’interpretazione del diritto è atto di conoscenza(non di volontà), la sua applicazione è attività logico-deduttiva.”. Avendo sostenuto Baldassarre “ che l’antica massima hobbesiana –vero manifesto del positivismo giuridico in tutte le sue forme-auctoritas, non veritas, facit legem sia ormai inattuale. Se ne  deve concludere che nello stato costituzionale di diritto “ratio,non auctoritas, facit legem”. Una tale tesi non è condivisa da Guastini “La tesi che il diritto nasca non dall’autorità, ma dalla “verità” o dalla “ragione” (così sostiene Baldassarre), significa che le norme giuridiche sono il prodotto non di atti di volontà, bensì di atti di conoscenza: di conoscenza, dobbiamo supporre, non della (eterna) “natura” umana, bensì dei “costumi” e della “coscienza sociale”. E ciò implica che le norme giuridiche – proprio come le proposizioni scientifiche – possono dirsi vere o false. Tesi classica dei giusnaturalisti, d’altronde, i quali disgraziatamente non hanno mai saputo indicare a noi, poveri giuspositivisti, quali mai possono essere i criteri di verità degli enunciati del discorso prescrittivo.”

In questo riepilogo  – largamente parziale e sintetico di quanto scritto – entrambi gli autori presuppongono che la costituzione sia un atto (documento) scritto e statuito (mentre per le parti più importanti, non è scritto e neppure statuito): nell’esposizione di Baldassarre una importanza decisiva (specie per le sentenze dei giudici costituzionali) riveste il fatto che le costituzioni (cioè gli atti/documenti) contengono enunciazioni di principio e statuizioni di valore, onde l’applicazione/interpretazione consiste in una valutazione di compatibilità “tra due distinti ordini di «principi»: quelli stabiliti, secondo una certa gerarchia e un certo ordine di preferenza, dalla costituzione e  quelli implicati… dalla «regola (generale e astratta)» contenuta nella norma legislativa  della cui costituzionalità si dubita”. Tale è il modo di “operare di tutte le corti costituzionali occidentali”.

Tuttavia sia che si tratti d’interpretare norme, sia di applicare principi (e/o valori) le due posizioni si riferiscono entrambe al diritto statuito (e scritto) tralasciando così tutto ciò che non è scritto né statuito[47]. Quanto all’altra questione– che più interessa ai fini del presente scritto – se il diritto nasca dall’autorità o dalla ragione (verità), occorre appena ricordare che un simile dilemma (se la legge sia atto della volontà e dell’intelletto) era stato largamente dibattuto dai teologi[48] e la soluzione che dava Suarez non era un “aut…aut” ma un “et…et”, nel senso che la legge era atto sia d’intelletto che di volontà[49]. La legge positiva è sia  ratio che voluntas; che sia la seconda è evidente; e che presupponga (e incorpori) anche la ratio (quasi altrettanto) evidente, giacché una legge bizzarra e/o superflua non è suscettibile di esecuzione e coazione, diventando così una bizzarria normativa, non potendo essere un comando eseguibile.

Se, come sostiene chi scrive, la costituzione non è (solo) un atto, e spesso neanche scritto, resta da vedere come si possa interpretare/applicare ciò che non è né scritto né statuito.

Nella realtà un problema siffatto è familiare al giurista: che come regola di una decisione (ad es. giudiziaria) il legislatore imponga all’interprete di ricavare il diritto da un comportamento (cioè da un fatto) è disposto (ad es. dall’art. 1362 c.c., o dalla previsione della consuetudine come fonte di diritto). Nel diritto internazionale è quello, analogo, dello jus non scriptum internazionale; la cui applicazione chiede in primo luogo l’accertamento storico dell’effettiva vigenza (e ancor prima esistenza) della norma.

Fatta questa premessa la disposizione costituzionale interpretanda può non essere formulata nello schema abituale “Se F (fattispecie), allora G (conseguenza giuridica)[50]” o in qualche formulazione analoga (cara alla giurisprudenza analitica); e ancor più la disposizione spesso non è espressa neanche come principio (cioè di guisa da non collegare la fattispecie alla conseguenza giuridica), e talvolta non espressa (non “statuita”). Ma se interpretare è per lo più enucleare il significato di un testo normativo, in tal caso il significato deve essere ricavato da rapporti, fatti, comportamenti (e principi) inespressi il che non è inconsueto, anche se, in un ordinamento moderno, meno frequente.

Piuttosto un’interpretazione/applicazione costituzionale richiede un cambiamento di prospettiva, che pone in secondo piano la classica  dicotomia sein/sollen, per riportare in auge quella dell’Amleto: essere o non essere. Inteso in un doppio significato: che il normativo presuppone l’esistente e che l’esistente prevale sul normativo, che potremmo chiamare limite naturale e criterio funzionalistico –teleologico. Nel limite naturale non c’è solo quello ontologico, ma in genere ogni condizionamento necessario dovuto a leggi, anche dell’agire sociale; così una costituzione non può essere interpretata nel senso che non costituisca rapporti di comando/obbedienza, perché ogni comunità politica, per esistere, necessita di  qualcuno che comanda e altri che obbediscano. Così, ma sul punto rinviamo alla prima parte di questo lavoro, il senso della massima  salus rei publicae suprema lex, è che l’esistente (la comunità) prevale sul normativo, onde il diritto dev’essere interpretato-applicato nel senso di salvaguardare l’esistenza collettiva e non l’esattezza dell’interpretazione/applicazione delle norme o dei valori o della giustizia, implicita nella (contrapposta) espressione fiat justitia, pereat mundus.

In entrambi i casi è così l’essere che condiziona in modo cogente il dover-essere, nel primo caso perché l’ordine comunitario, se non si osservano le leggi naturali (nel senso precisato) neppure può venire ad esistenza, o la conduce breve e grama; nel secondo perché verrebbe meno alla prima crisi (seria). Ma dato che, come scriveva Jhering, il diritto serve alla vita è pertanto da interpretare di guisa da conservare l’ordine e la vita comunitaria (ed individuale).

D’altra parte il limite “ontologico” all’applicazione dei precetti (norme, comandi) giuridici è già “codificato” non solo nel codice civile vigente (v. il combinato disposto dell’art. 1418-1346 c.c. sull’impossibilità dell’oggetto come causa di nullità del contratto) ma fin dalla giurisprudenza romana come risulta dai brocardi impossibile habetur id, cui natura impedimento est quominus existat; impossibilium nulla est obligatio; quae rerum natura prohibentur, nulla lege confirmata sunt.

Piuttosto da ciò derivano due problemi: il primo, quello cennato, e dato per scontato che l’obbligo (dovere, obbligazione) relativo ad un oggetto impossibile per natura è nullo, occorre ricordare che lo stesso trattamento compete alla norma (precetto, obbligo, ordinamento) che pretende di  violare le leggi del funzionamento e dell’equilibrio sociale, come risultano dall’uniformità sperimentale e (talvolta) dalla stessa analisi razionale. Come è (a dir poco) bizzarro presupporre una società politica senza comando, obbedienza, potere, così lo è concepire un’attività economica senza scarsità dei beni. Il secondo problema è che quei brocardi citati (ed altri) sono la conversione in termini giuridici di constatazioni e valutazioni di fatto. Potrebbe sembrare che così si violi la “legge di Hume”  per la quale non è possibile dedurre giudizi precettivi da proposizioni  assertive [51]. La tesi che le norme giuridiche (come il diritto) non possa essere dedotto dalle leggi di natura è stata più volte esposta – tra gli altri – da Kelsen[52]; il quale – ma non solo il giurista viennese – aveva sottolineato tuttavia un’essenziale distinzione tra diritto e morale, relativa al modo in cui essi prescrivono o  vietano un certo comportamento umano[53].

Tale distinzione, ancora più dell’altra, spesso ripetuta, che il diritto sanziona comportamenti “esterni”, mentre la morale sanziona (soprattutto) quelli interni, costituisce la differenza fondamentale tra dovere giuridico e morale: esserci o meno un apparato coercitivo  deputato (anche) a (prevenire e ) reprimere le violazioni del diritto (come ad incentivare l’osservanza dello stesso). Ma la violazione dev’essere possibile, la coazione – che è l’essenza della differenza – dev’essere esercitabile, così come l’obbligazione giuridica eseguibile. Come sopra cennato, un legislatore che prescrivesse di sedersi sugli angoli del triangolo, produrrebbe solo ilarità[54], ma nulla di concretamente efficace[55].

Contrariamente a quanto giudicava Hume per la morale, nel diritto che un obbligo sia coercibile o meno  non è un giudizio di valore, un sollen, ma un sein. Pertanto il legislatore (o nel caso di altri precetti giuridici – e con le dovute diffferenze -, il giudice o il funzionario) compie sia un giudizio di “fatto” che una scelta di valore, nel formulare le norme legislative[56].

Anche Bobbio considerava  connotato peculiare dell’ordinamento giuridico la coazione[57]  pur precisando per l’appunto che “la teoria del diritto come regola della forza, sin qui esaminata, è una teoria non già della norma giuridica isolatamente considerata, come la teoria tradizionale, ma dell’ordinamento giuridico nel suo complesso”[58].

Ciò conferma che, da un lato, la differentia spaecifica del diritto, rispetto alla morale, è la coercibilità; dall’altro che, proprio per ciò l’applicazione al diritto della legge di Hume – pensata e scritta per la morale –  necessita  di adattamenti di guisa da non poter essere di carattere esclusivo e portata generale. Una cosa è sanzionare con qualche anno di Purgatorio i peccati; altro è adempiere un contratto d’appalto per la costruzione di una villa su Marte (o chiedere al Giudice la relativa esecuzione dell’obbligo di fare – art. 2931 c.c.). Ogni precetto richiede (quanto meno) un giudizio sulla di esso coercibilità/applicabilità/efficacia. Per cui ogni precetto giuridico consta di un duplice giudizio sia al momento della statuizione che a quello dell’applicazione: è sia un atto di conoscenza che di volontà: la tesi di Suarez (e non solo) appare confermata[59].

Infatti giudicare che un’obbligazione sia possibile è una constatazione (un giudizio) di fatto; il giudizio che tutte le costituzioni disciplinano il rapporto di comando/obbedienza (cioè il potere) può essere storicamente (e sociologicamente) verificato e così anche i  corollari di questo. Ovvero che se c’è un potere di comando obbedito allora c’e una costituzione (Hegel e Santi Romano); se questo non c’è – viceversa – non vige la costituzione (nel senso di costituzione statale) – e neppure esiste lo Stato; e che una costituzione non è interpretabile nel senso che non costituisca e disciplini rapporti di comando-obbedienza: E il tutto è applicabile anche agli altri “presupposti del politico”: pubblico-privato, amico-nemico, tutti verificabili storicamente e sociologicamente.

Ulpiano sosteneva Ius nostrum constat aut ex scripto aut sine scripto (D I, 1, 6). Concezione condivisa  quindi (e per lo più) da (almeno) diciotto secoli. Ma che negli ultimi due  appare un po’ in affanno. Un ausilio a capire la ragione ce l’offre Max Weber, il quale nel delineare i presupposti del potere razionale-legale (cioè la rappresentazione del potere prevalente nelle concezioni moderne) ne indica (tra gli altri) i seguenti: “ Il potere legale riposa sulla validità dei seguenti presupposti, tra loro connessi:  che qualsiasi diritto possa essere statuito rispetto al valore o rispetto allo scopo (o a entrambi), mediante pattuizione o imposizione…che ogni diritto sia nella sua essenza un cosmo di regole astratte,  e di norma statuite di proposito, che la giurisdizione costituisca l’applicazione di queste regole al caso particolare…il tipico detentore del potere legale – il «superiore» – mentre dispone e insieme comanda, da parte sua obbedisca all’ordinamento impersonale in base al quale orienta le sue prescrizioni…che i membri del gruppo – in conformità al n. 3 – obbedendo al detentore del potere obbediscano non alla sua persona, ma a quegli ordinamenti impersonali[60]. L’identificazione della costituzione con un atto scritto e statuito appare quindi conseguenza della fede dei moderni nella legittimità del potere razionale-legale, d’altra parte enunciata nello (spesso ricordato) art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, dove, oltre ad essere enunciati i principi dello Stato borghese è formulata la concezione della costituzione come statuizione consapevole (e scritta) al punto di negare il carattere di costituzione agli ordinamenti privi di queste caratteristiche[61]. Com’è noto questo non era il concetto di costituzione di Weber secondo il quale “Per costituzione di un gruppo si deve intendere la possibilità effettiva di disposizione a  obbedire – possibilità diversa per misura, specie e presupposti – nei confronti della forza di imposizione dell’autorità di governo sussistente” e precisa “ Il concetto di «costituzione» qui impiegato è uguale a quello usato da Lassalle: Esso non coincide con il concetto di una costituzione «scritta», e in genere di costituzione  in senso giuridico. La questione sociologica è semplicemente la seguente: accertare quando, per quali oggetti ed entro quali limiti, ed eventualmente in base a quali presupposti particolari (per esempio in base all’approvazione di divinità o di sacerdoti, o al consenso di comizi elettorali) i membri del gruppo si piegano al capo”[62];concezione imperniata sul rapporto comando-obbedienza.

Il carattere necessario dei presupposti costituzionali condiziona l’interpretazione, dato che senza quelli non c’è né esistenza né capacità di azione politica. Chiedersi se la norma (costituzionale) o il valore (costituzionale) sono stati violati presuppone che ci sia unità politica e ordinamento giuridico senza i quali non si capisce come far rispettare le une e gli altri. Vale il giudizio di Hegel che lo Stato è la “realtà della libertà concreta”[63]; o come scriveva Croce “prima vivere e poi filosofare, prima essere e poi essere morale”[64]; e il giudizio del filosofo si adatta bene al rapporto tra esistenza dell’istituzione,  i principi e le norme che impone o i valori cui fa riferimento. Senza vita (e vitalità) di quella non c’è possibilità di applicare o di realizzare questi. Così  si può aggiungere che se le norme cambiano – spesso vorticosamente – pur lasciando sostanzialmente inalterata l’istituzione; e anche i principi e i valori mutano – anche se più lentamente – l’istituzione – Stato – è sempre la stessa, anche nel mutamento di norme, valori (e classi dirigenti), per cui, secondo i principi del diritto internazionale risponde degli obblighi contratti verso gli altri Stati, cui quei cambiamenti (di norme e/o valori) sono del tutto indifferenti.

Così l’Italia ha cambiato tre costituzioni (liberale, fascista e repubblicana) e  relative “tavole di valori” senza che fosse alterata la (continuità dell’) istituzione statale. Consegue da ciò che né norme né valori possono essere interpretati nel senso che mettano in pericolo l’esistenza (e la capacità d’azione) dell’istituzione.

Nel caso questo si verifichi è l’esigenza primaria (d’esistenza) che deve prevalere sulle altre. Il tutto non è “negoziabile” né “bilanciabile” e non per la ragione onde si ritengono tali (e sottratti anche alla revisione costituzionale) i principi fondamentali (o i valori altrettanto fondamentali) della Costituzione, ma perché – come sostenuto – il normativo presuppone l’esistente[65]. E mentre questo può cambiare quello, di converso il primo non può modificare il secondo.

  1. La conseguenza è che, al contrario di quanto spesso si pensa, ogni conseguenzialità (e coerenza) normativa non può prevalere sull’esistenza comunitaria. In caso contrario la massima di Jhering, già sopra ricordata, che il diritto è un mezzo finalizzato alla vita sarebbe capovolta nel senso che la vita (l’esistenza) è un mezzo del diritto. Come sopra cennato, una Corte costituzionale – o un altro organo pubblico – che interpretasse il sistema normativo nel senso di attentare all’esistenza concreta (alla salus rei publicae), anche se normativamente (e logicamente) fondata (nel senso “corrente”), sarebbe invalida. Anzi potrebbe costituire (in tutti gli ordinamenti vi sono norme volte a tutelare l’esistenza e l’unità politica) un illecito penale tra i più gravi (attentato alla costituzione, usurpazione e via emunerando).

La massima fiat justitia pereat mundus non vale per gli organi statali costituiti: non è nel loro potere distruggere l’istituzione e la comunità[66], da cui dipende il loro esser costituiti.

Se si ammette, come molti giuristi, e tra questi Santi Romano, che la necessità sia fonte di diritto, vale la regola necessitas non habet legem (e infatti imporre una legge alla necessità è un bisticcio logico e una contraddizione concreta); regola che è anch’essa la specificazione della prevalenza dell’esistente (e della conservazione dell’esistente) sul normativo[67].

Per cui se per necessità è consentita la deroga alla legge (o la normazione praeter legem) a ratione majus la necessità costituisce criterio di giudizio per valutare la costituzionalità (o meno) di presunte trasgressioni alla costituzione.

  1. Dato che il significato usuale dell’interpretazione (e dell’attività interpretativa) è l’attribuzione di significato a un testo, un segno, un simbolo[68], ove si tratti d’interpretare lo jus involuntarium, l’operazione (prima) che si richiede all’interprete è la ricostruzione (l’individuazione) del precetto applicabile.

È stato sopra cennato come questo sia familiare al giurista. È chiaro che la ricostruzione del precetto può avvenire (talvolta) applicando i principi della logica deduttiva (identità, non contraddizione, terzo escluso e quanto ne consegue) ma per lo più attraverso verifiche storiche e sociologiche (e combinandoli, se necessario, con i primi). Ad esempio la vexata (in Italia)  quaestio della legittimità costituzionale delle deroghe alla giurisdizione ordinaria (nel caso di processi a carico di personale politico apicale). Se si parte dal principio d’uguaglianza è chiaro che la deroga (di qualsiasi genere) possa essere facilmente ritenuta contrastante con quello[69]. Ma se si parte dalla natura dell’istituzione, dal carattere della forma di governo e li si verifica anche in concreto, la conclusione è opposta. Occorre tener presente quanto scriveva Santi Romano sullo jus involuntarium, la cui prima specie era costituita dai “principii generali o fondamentali che sono impliciti nella stessa esistenza dello Stato, nella sua struttura, e nei suoi atteggiamenti concreti, dai quali sono da esprimersi e desumersi. Se alla c.d. «natura delle cose» o «dei fatti» non si può riconoscere valore di vera e propria fonte formale del diritto, lo stesso non è da ritenersi per la natura delle istituzioni e, quindi, in primo luogo dello Stato, giacché queste sono da per sé diritto positivamente vigente”[70].

Per cui, operando una verifica comparativa, tutti i principali testi costituzionali vigenti stabiliscono deroghe alla giurisdizione ordinaria nel caso di “giustizia politica” (onde tutti sarebbero lesivi del principio d’uguaglianza, pur essendo stabilite nelle costituzioni moderne considerate democratiche – l’argomento criticato quindi prova troppo) per cui, oltretutto c’è una concordanza in quello che Hauriou chiamava droit commun constitutionnel; le stesse costituzioni italiane precedenti quella vigente stabilivano vistose deroghe (nel tempo e nello spazio la regola è quindi la deroga); ragione di ciò è che, se così non fosse, la scelta del personale di governo, immediatamente o mediatamente riconducibile al corpo elettorale, come naturale in democrazia, sarebbe “controllata” da un potere burocratico, non selezionato con procedimenti democratici (elezione o nomina di organi elettivi) e irresponsabile verso il corpo elettorale. Ma dato che la repubblica è democratica (e ciò sia per disposizione costituzionale espressa dall’art. 1 sia perché desumibile dall’intero testo della costituzione scritta) e che la scelta per la democrazia è un modo d’esistenza dell’istituzione, è questa a prevalere sulla competenza normale del giudice ordinario. Alla stessa conclusione si arriva partendo dalla distinzione dei poteri fatta propria dalla Costituzione (e dalla legislazione ordinaria), anche se non applicata (del tutto) coerentemente: se non fosse prevista una qualche deroga alla giurisdizione, la repubblica parlamentare diverrebbe uno Stato giurisdizionale (justizstaat) consentendo al potere giudiziario d’intromettersi (liberamente) nel funzionamento (e nella composizione) degli altri poteri costituzionali, e stravolgendo il principio di distinzione dei poteri.

Combinando le conclusioni (concordanti) di questi tre percorsi argomentativi si ha che l’applicazione “meccanica” del principio di isonomia (nel caso, della legge processuale) potrebbe ledere le capacità di azione politica, la forma democratica di Stato (e di governo) e il principio di distinzione dei poteri. Tutti principi fondamentali (due dei quali scritti), sicuramente non secondari a quello d’isonomia.

Occorre peraltro vedere se sia utilmente applicabile il criterio del bilanciamento cioè di determinare un ordine “gerarchico o preferenziale di valori o di principi” (v. Baldassarre op. cit.), e più in generale i parametri (non normativi) del giudizio di costituzionalità, come intesi da molti[71].

In effetti nel caso sopra considerato ad applicare letteralmente l’art. 3 della Costituzione, la deroga non sarebbe possibile; ma ricorrendo ai criteri di cui al passo citato di Baldassarre, e soccorrendo anche la massima di Celso scire leges non hoc est verba earum tenere sed vim ac potestatem (D I, 3, 17) – uno dei capisaldi dell’interpretazione sistematica – il risultato cambia completamente. Anche a tener conto delle considerazioni di Baldassarre che “se, per tale teoria, l’«interpretazione» è, in generale, una «mediazione creativa», nella quale il contributo degli interpreti concorre al «perfezionamento» o al «completamento» (Gadamer) del segno oggetto dell’interpretazione medesima, nel campo specifico del diritto, proprio in quanto «comprensione» eminentemente rivolta ai fini pratici, il fattore principale della mediazione ermeneutica è dato dagli «effetti veicolati dal segno» (Peirce), vale a dire dagli effetti pratici riferibili alla disposizione normativa nel relativo contesto sociale di attuazione. Sono, insomma, questi «effetti», vale a dire le conseguenze pratiche ipotizzate in relazione all’applicazione della disposizione normativa nell’ambiente sociale dato (attuale), che contribuiscono maggiormente a quella «attribuzione di significato» nella quale consiste il risultato finale (ancorché «anticipatorio» rispetto all’applicazione effettiva) di quel complesso processo chiamato «interpretazione»”.

In effetti nel caso della controversia sulla “giustizia politica”, l’inesistenza di deroghe, consentirebbe l’effetto pratico di cambiare la maggioranza parlamentare o la composizione del governo, cioè gravissime limitazioni e condizionamenti alla capacità di azione politica e/o al pouvoir déliberant del parlamento[72].

Cioè “effetti” contrari sia alla capacità d’azione dell’istituzione sia, alla specifica forma di governo scelta nella costituzione medesima.

  1. Più in generale occorre chiedersi come “graduare” o “bilanciare” (ovvero “determinare il valore relativo di due principi” costituzionali – Guastini). In questo caso il valore relativo tra ciò che è necessario, (assolutamente); ciò che lo è in relazione alle scelte costituzionali (relativo); e ciò che è accidentale. E insieme tra lo jus involontarium (non scritto) e il diritto statuito.

Quanto al rapporto tra ciò che è necessario (in senso assoluto) e l’ “accidentale”, sia che si tratti di norme che di principi o valori, il contrasto tra il primo e il secondo non può che risolversi con il riscontro dell’inesistenza/inapplicabilità del secondo. Almeno finché l’esistenza (e l’unità) politica  perdura è sul presupposto di questa – e del suo durare – che vige un diritto e può avere efficacia concreta. Per cui è l’esistenza di quella a costituire il presupposto necessario di questo; e una decisione contraria all’esistenza è, come sopra scritto, opposta all’essenza (ai presupposti essenziali e allo scopo) della costituzione. Del pari una decisione lesiva della capacità di azione (politica), perché, avendo gli Stati un’esistenza storica e politica, è loro essenziale la capacità d’azione.

Più sfumato è ove la necessità sia relativa (cioè consegua non dalle generali condizioni d’esistenza ed azione, ma da quelle particolari della forma di stato e di governo e dalle decisioni fondamentali della costituzione; cioè di qualcosa rimesso alla volontà – ed alla possibilità di scelta – del potere costituente) È chiaro che questi precetti possono essere esplicitati nella costituzione (ad es. per quella vigente, il principio democratico)  o impliciti (ad esempio la distinzione dei poteri).

Un aiuto a determinare ciò che è (relativamente) necessario lo può dare Lassalle. Questi nella (notissima) conferenza Über verfassungswesen, nel definire l’espressione legge fondamentale, diceva “ma una cosa che ha un fondamento non può più essere a piacere così o diversamente; ma deve essere così come essa è. Del fatto che essa è diversa non soffre il suo fondamento. Solo ciò che non ha fondamento e quindi anche ciò che è casuale può essere così come è e anche diversamente. Ma ciò che ha un fondamento, è necessario così come è. I pianeti hanno per esempio un certo movimento”[73].

Un altro ce lo offre il concetto di “rottura” della Costituzione. Com’è noto la prima formulazione della (necessità di istituti che comportino la )rottura della costituzione è di Machiavelli. Questi scrivendo della dittatura romana, sostiene “E però le repubbliche debbano intra loro ordini avere uno simile modo… Perché quando in una republica manca uno simile modo, è necessario, o servando gli ordini rovinare, o per non rovinare rompergli… Talché mai fia perfetta una republica se con le leggi sue non ha provvisto a tutto, e ad ogni accidente posto il rimedio e dato il modo a governarlo. E però chiudendo dico che quelle republiche le quali negli urgenti pericoli non hanno rifugio o al Dittatore o a simili autoritadi, sempre ne’ gravi accidenti rovineranno” (Discorsi, I, XXXIV). È chiaro, nel passo del Segretario fiorentino, che l’ “ottima” costituzione deve prevedere i modi per essere disapplicata o sospesai (parzialmente).

Onde potrebbe individuarsi il limite tra quello che è (relativamente) necessario a quello che è – per usare la terminologia hegeliana – accidentale in ciò che, in caso di previsione costituzionale della rottura, è immodificabile da quello che non lo è. Ad esempio nel caso dell’art. 16 della Costituzione francese vigente, il Presidente, pur utilizzando i poteri eccezionali, non può sciogliere il Parlamento; analogamente nell’art. 48 della Costituzione di Weimar il Presidente, pur potendo prendere le misure eccezionali, doveva riferire al Reichstag e revocarle a richiesta di questo. Schmitt a tale proposito sosteneva “La costituzione come un tutto resta non solo lo scopo di ogni provvedimento sulla base dell’art. 48: essa è anche determinante in quanto fondamento dei suoi presupposti… Essenzialmente ogni costituzione è l’organizzazione. Per questo l’unità dello Stato è creata come quella di un ordinamento”[74].

Da ciò consegue che, nelle rotture costituzionali, a non poter essere innovata, è la costituzione intesa come (decisione sulla) forma di Stato e di governo (e cioè sull’essenziale dell’organizzazione di governo); nei casi esaminati, come repubblica democratica semi-presidenziale, con i due organi (dotati) di rappresentanza politica (cioè Presidente della repubblica e Parlamento), che rimangono intangibili, mentre sono disapplicabili (momentaneamente l’esercizio dei) diritti, anche se garantiti dalla costituzione[75].

Tutto ciò può servire a chiarire se le decisioni riconducibili al (relativamente) necessario possano essere oggetto di valutazioni contemperabili con altre disposizioni della costituzione formale.

Ad avviso di chi scrive la risposta è negativa: non può “bilanciarsi” un principio che da forma allo Stato ed al governo – rientrando così nel “nocciolo duro” della costituzione – con prescrizioni, anche ricondotte dal testo costituzionale a quelle di principio, che comunque non sono costitutive della forma politica.

Nella costituzione vigente sicuramente di questa sono costitutivi il principio democratico (e quello – connesso – d’eguaglianza) quello di libertà nonché di tutela dei diritti dell’uomo – e le conseguenze immediate di quelli, come il diritto d’elettorato attivo e passivo, l’inviolabilità della libertà personale, di domicilio, di riunione (e, in genere, di tutti i diritti di cui agli artt. 13-27 della Costituzione vigente), mentre non sono “costitutivi” della forma politica il principio di tutela delle minoranze (art. 6) la tutela della cultura e del paesaggio (art. 9) la conformazione all’ordinamento internazionale (art. 10, I e II comma), il ripudio della guerra (art. 11).

Piuttosto un “bilanciamento” appare possibile all’interno della categoria dei precetti “costitutivi” della forma politica: ad esempio se una riduzione delle libertà di cui agli artt. 13-27 della Costituzione sia compatibile in occasione di gravi turbative all’ordine ed alla sicurezza pubblica, di guisa da mettere in dubbio il funzionamento delle istituzioni. In questo caso una compressione della libertà va commisurata all’ineliminabilità, specie in certi periodi (come quelli elettorali) – della fruizione delle stesse, ai fini di un corretto funzionamento dell’istituzione e della forma di governo in cui è organizzata[76].

Mentre tali esigenze di salvaguardare il “nocciolo duro” della Costituzione (cioè la costituzione e non le leggi costituzionali nel senso di Schmitt) non sussistono se i valori da bilanciare sono riconducibili a ciò che è “accidentale”; ossia non necessariamente (nei due sensi specificati) facente parte della Costituzione.

  1. Altro problema è quello del carattere prevalentemente teleologico dell’interpretazione. Qua s’intende per teleologico non tanto la considerazione privilegiata del “fine” della norma, quanto quello della funzione della costituzione, cioè di disciplinare l’esistenza e l’azione della comunità, anche con riguardo agli effetti concreti.

In questo senso è determinante il carattere di “comunità perfetta” che il pensiero teologico attribuisce a quella politica[77] e presente anche nel pensiero giuridico dello scorso secolo, in particolare in Santi Romano[78]; e in Rudolf  Smend[79].

La conseguenza che ne traeva Santi Romano era che “il diritto costituzionale è quella parte del diritto dello Stato, in cui meglio si rivela l’esattezza del concetto sopra fugacemente accennato sulla garanzia del diritto. L’opinione comune che ripone questa garanzia in una norma che dovrebbe farsi valere da una potestà sopraordinata ai soggetti vincolati ad essa o in altra norma, cui la prima servirebbe di sanzione,  nel campo del diritto costituzionale è manifestamente inammissibile. Se la costituzione è l’ordinamento supremo dello Stato, non ci può essere una norma ancora superiore che la protegga e quindi essa deve trovare nei suoi stessi elementi e atteggiamenti la propria garanzia[80].

Dato il carattere di comunità perfetta e il fatto di non essere obbligata (o facultata) a chiedere (e ad ottenere) la garanzia del proprio ordinamento ad un’altra istituzione (tanto meno ad una norma, a un principio, o a un valore), l’interpretazione della costituzione deve avere connotati particolari, così come la decisione delle controversie costituzionali.

In effetti, e tornando al criterio di conservazione dell’esistenza (cioè la salus rei publicae…) esso è del tutto peculiare (alla costituzione e) all’interpretazione costituzionale: un giudice ordinario che applica la norma in una lite tra privati non deve porsi il problema delle salus rei publicae. Lo stesso accade in ogni caso d’applicazione di precetti giuridici che poggino (e presuppongano) la saldezza e la vitalità dell’insieme (e non li ponga a rischi – il che è un’ipotesi rarissima, quasi di scuola – per le disposizioni non aventi carattere costituzionale).

Smend scriveva in proposito che “Il criterio che distingue la costituzione dal resto dell’ordinamento giuridico è sempre e di nuovo il carattere «politico» del suo oggetto”, e “qui il metodo formalistico rinuncia consapevolmente a fondare la teoria dello Stato nel senso delle scienze dello spirito, cioè ad assumere, come punto di partenza del lavoro giuridico, una teoria dell’essenza materiale specifica del suo oggetto”. Infatti così rinuncia a comprendere la costituzione non come “regolamentazione astratta di un infinito numero di casi”, mentre “qui si tratta di una legge individuale di un’unica e concreta realtà di vita”[81]. È chiaro che la funzione d’integrazione come essenza della costituzione costituisce “il principio del divenire dinamico dell’unità politica[82].

Pertanto il criterio interpretativo, in questa come nelle altre concezioni costituzionali improntate a considerare la  costituzione come “modo d’esistenza di un popolo” (de Bonald) è (segnatamente) sistematico ma soprattutto teleologico, mentre uno spazio assai minore rispetto all’interpretazione della norma legislativa è riservato all’interpretazione letterale.

E, come scrive Smend, si tratta di interpretare la costituzione, come la “legge vitale di un essere concreto”, cioè in funzione della vitalità dell’insieme; per cui il criterio teleologico non è incentrato sullo scopo che la singola norma si propone di raggiungere (la ratio legis) ma quelli che la costituzione, nel suo insieme, persegue (per così dire la ratio constitutionis).

Ne consegue che da un canto la garanzia della costituzione, come scriveva Hegel, viene dalle istituzioni stesse[83]. Il che è un modo di significare che, come per il diritto internazionale non ci sono Pretori tra gli Stati[84], anche per il diritto costituzionale la garanzia effettiva deriva più dal (complesso) assetto istituzionale che da un ricorso al “Pretore” costituzionale del tutto incongruo a proteggere effettivamente l’unità e la forma dello Stato[85]. Sul piano interpretativo ciò conferma il particolare carattere teleologico e “fattuale” dell’interpretazione costituzionale: quanto Baldassarre sostiene che occorre guardare anche agli effetti (alle conseguenze) dell’interpretazione (nel caso della Corte, delle sentenze); questo criterio che per un giudice non costituzionale, sarebbe del tutto residuale, perché, per lo più, vietato – di converso è  peculiare all’interpretazione della costituzione (molto meno per le leggi costituzionali, a seguire la distinzione di Schmitt).

Anche in questo è confermata la regola che l’esistente prevale sul normativo: la costituzione – che è il modo d’esistenza politica di un popolo – va interpretata nel senso che le relative decisioni conservino quel modo d’esistenza. Se un potere costituito lo mettesse in pericolo, ciò non rientrerebbe nei suoi poteri: sarebbe come segare il ramo (o la pianta) su cui è appollaiato (e da cui è sostenuto). Cioè costituirebbe un atto rivoluzionario o almeno un atto apocrifo di sovranità, essendo riservato al sovrano (o al potere costituente, laddove l’uno e l’altro coincidono – v. sopra).

  1. Le tesi sopra esposte confermano quanto sostenuto (da buona parte) della dottrina politica – e del diritto pubblico – classica, le cui conseguenze si riflettono sull’interpretazione costituzionale.

In particolare che non si ha a che fare (per lo più) con un diritto scritto e statuito (de Maistre e Santi Romano, tra gli altri)[86]; in buona parte ciò che è (realmente) costituzionale non è rimesso alla volontà umana; lo jus dicere, e più ancora il condere leges è un atto di volontà, ma anche di conoscenza (assertivo) (Suarez e Vico); c’è un diritto costituzionale necessario – nei due significati indicati – e uno volontario (Vico, Spinoza ed Hegel); la ratio, dati i presupposti di cui sopra, ricopre un ruolo superiore a quanto usuale in altri campi del diritto; la distinzione tra costituzione e leggi costituzionali (Schmitt) è feconda e spesso decisiva – anche ai fini esegetici; la costituzione è il modo d’esistenza di un popolo (de Bonald) e come tale va, in primo luogo, considerata; il diritto serve alla vita e non viceversa (Jhering, tra i molti); leggi, principi e valori cambiano più o meno velocemente, mentre comunità, istituzioni, Stati cambiano i primi, ma non mutano – o mutano poco e lentamente – il loro ordinamento (Hauriou e Santi Romano).

Tutti aspetti che non risultano particolarmente frequentati né (implicitamente) condivisi: ai quali si preferiscono altrettante riduzioni/semplificazioni: che il diritto sia statuito (e scritto), che la costituzione sia un determinato (e deliberato) documento, distinguibile dalla legge solo per la sua posizione nella stufenbau; che le “regolarità” dell’agire sociale siano modificabili ad libitum del legislatore (aspetto del “prometeismo” moderno, di cui il marxismo realizzato nel socialismo reale – e la sua fine ingloriosa – hanno mostrato l’inconsistenza); che la costituzione sia (solo) un atto connotato dalla rigidità.

E altro, il cui limite manifesto e ricorrente è di spiegare solo (parte) dell’oggetto, con l’accorgimento di delimitarlo in misura assai più stretta di quello che la realtà mostra; e con l’inconveniente di lasciarne fuori gran parte: non il troppo e il vano, ma l’essenziale e il decisivo.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

[41] Qu’est-ce-que le Tièrs Etat  ora in Opere Milano 1993 p. 256 ss e ribadisce : “Non solo la Nazione non è sottomessa a una Costituzione, ma non può neanche esserlo, il che è come ribadire una volta di più che non lo è… (le nazioni) vanno considerate come individui privi di ogni legame sociale, ovvero, come si suol dire, nello stato di natura. L’esercizio della loro volontà è libero ed indipendente da ogni forma civile…comunque una Nazione voglia, è sufficiente che essa voglia; tutte le forme sono buone, e la sua volontà è sempre legge suprema…” op. cit, pp. 257-258 (i corsivi sono nostri). La distinzione fra potere costituente/diritto naturale e poteri costituiti/diritto positivo è chiaramente formulata.

[42] v. Behemoth n. 45 p. 12

[43] L’espressione “natura delle cose” (e quelle similari) è stata intesa come essenzialmente giusnaturalistica. Bobbio ritiene che “si tratta di una nozione di derivazione prettamente giusnaturalistica. L’essenza del giusnaturalismo consiste infatti nella convinzione di poter ricavare le regole fondamentali della condotta umana dalla natura stessa dell’uomo: ora, è evidente la stretta parentela fra il concetto di natura dell’uomo e quello di natura delle cose; intendendo il termine “cose” in senso lato (come sinonimo di “enti”), il primo concetto può essere ricompreso nel secondo”. Il Positivismo giuridico, Torino s.d., p. 265.

È chiaro che nel presente scritto s’intende qualcosa di diverso, ovvero la necessità (assoluta) di un ordinamento per le comunità umane, o la necessità (relativa) cioè in relazione al fine, al modo d’essere, alla forma di Stato e di governo. Onde appartiene alla natura delle cose (per necessità assoluta) che vi sia una società politica con un potere di comando ed obbedienza (et simili); alla natura della democrazia (ad es.) che i governati eleggano i governanti (direttamente e/o indirettamente), che abbiano il diritto d’accesso alle cariche pubbliche (e così via). Mentre nel primo caso non può esistere qualcosa di diverso, nel secondo la necessità deriva dalla scelta, libera e consapevole (e realisticamente conseguente), di quelle che Schmitt chiama le “decisioni politiche fonamentali” (cioè l’essenza della Costituzione) v. Verfassungslehre, trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1984, pp. 38 ss.. Per una concezione della “natura delle cose” prossima a come la poteva intendere Spinoza (v. nota 54). v. M.S. Giannini Introduzione al diritto costituzionale, Roma 1984, p. 72.

[44] v. per le “regolarità” del politico la presentazione di G. Miglio alla raccolta di saggi di Schmitt Categorie del politico, Bologna 1972 p. 13; quanto alle costanti, alle leggi dell’agire sociale, basti ricordare, tra i molti, Comte, per cui la società ha una realtà naturale ed originaria: gli uomini vivono in società perché questo fa parte della loro natura sociale; la società ha proprie leggi di funzionamento; la sociologia che la studia si divide in statica sociale, che costruisce la teoria dell’ordine; e in dinamica che sviluppa la dottrina del progresso. “La liberté véritable se trouve partout inhérente et subordonnée à l’ordre, tant humain qu’extérieur”; infatti “si la liberté humaine consistait à ne suivre aucune loi, elle serait encore plus immorale qu’absurde, comme rendant impossible un régime quelconque, individuel ou collectif” in Catéchisme positiviste(I parte, IV colloquio).

[45] Sul concetto di necessità assoluta e necessità relativa (conseguente alle scelte politiche fondamentali v. supra nota 42.

[46] v. articoli di Riccardo Guastini “Sostiene Baldassarre” e Antonio Baldassarre “Una risposta a Guastini” – reperibili in rete.

[47] La distinzione tra enunciati di principio e norme giuridiche, spesso all’attenzione della dottrina contemporanea, in rapporto alla tesi esposta non fa differenza, perché sia i principi che le norme sono ricavate dal diritto statuito.

[48] V. per un’esposizione delle tesi v. F. Suarez,  Tractatus de legibus ac Deo legislatore, trad. it a cura di O. De Bertolis, Padova 2008, pp. 81 ss.

[49] “Per gli argomenti che abbiamo addotti a favore di queste opinioni sembrano persuaderci che l’uno o l’altro atto, di intelletto e di volontà, sono necessari per la legge, e perciò può sostenersi la terza tesi, che dice che la legge si forma e si compone con un atto di entrambe le potenze; perché in queste cose morali non si richiede di ottenere un’unità perfetta e semplice ma accade che una realtà, che moralmente è una, può constare di molte realtà fisicamente distinte, e che si aiutano l’una con l’altra”  op. cit. pag. 96

[50] v. Guastini op. cit.

[51] v. “Non posso evitare di aggiungere a questi ragionamenti un’osservazione, che forse può avere una certa importanza: In ogni sistema morale che ho finora incontrato, ho sempre trovato che l’autore procede per un po’ nel consueto modo di ragionare, e afferma l’esistenza di Dio o si esprime riguardo alle questioni umane; e poi improvvisamente trovo una certa sorpresa che, invece delle abituali copule è e non è incontro soltanto proposizioni connesse con un deve, o non deve. Questo cambiamento è impercettibile; ma è comunque molto importante. Infatti, dato che questo deve, o non deve, esprime una certa nuova relazione o affermazione, è necessario che siano osservati e spiegati; e allo stesso tempo è necessario spiegare ciò che sembra del tutto inconcepibile, ossia che questa nuova relazione possa costituire una deduzione da altre relazioni completamente diverse” A treatise on human nature, trad. it. di P. Guglielmoni, Milano 2005, p. 329 (i corsivi sono nostri)

[52] V. General theory of law and state,  trad. it. Milano 1952 pp. 8 ss; v. anche Reine Rechtslehre, trad. it. Torino 1968. pp. 86 ss, ma è rivisitata in altre opere

[53] e prosegue “Si può distinguere sostanzialmente il diritto dalla morale soltanto se – come si è dimostrato in precedenza – si concepisce il diritto come ordinamento coercitivo, cioè come ordinamento normativo, che tenta di generare un certo comportamento umano, ricollegando al comportamento opposto un atto coercitivo dell’organizzazione sociale, mentre la morale è un ordinamento sociale che non prevede alcuna di tali sanzioni, un ordinamento, cioè, le cui sanzioni consistono soltanto nell’approvazione del comportamento conforme alla norma e nella disapprovazione del comportamento in contrasto con essa¸un ordinamento in cui non si prende quindi neppure in considerazione la possibilità di applicare la coazione fisica. V. Reine Rechtslehre, trad. it. cit. di Mario Losano p. 78. Anche nella  Reine rechtslehre Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik trad, it. Torino 1952 p. 66 Kelsen scrive “Con la categoria formale del dovere o della norma si è riusciti però soltanto a determinare il genere prossimo, non già la differenza specifica del diritto. La teoria del diritto del secolo XIX è stata in genere concorde nel ritenere che la norma giuridica fosse una norma coattiva…In questo punto la dottrina pura del diritto continua la tradizione della teoria positivistica del diritto del secolo XIX. Essa sostiene che in una proposizione giuridica, a una determinata condizione è unito come conseguenza l’atto coattivo dello Stato, cioè la pena e l’esecuzione forzata civile e amministrativa…Ciò fa si che un determinato comportamento umano valga come illecito, come delitto nel più ampio senso della parola, non è affatto una qualità immanente e neppure un rapporto con una norma meta-giuridica, con un valore morale, cioè trascendente il diritto positivo, ma è solo ed esclusivamente il fatto che nella proposizione giuridica tale comportamento sia posto come condizione di una conseguenza specifica e che l’ordinamento giuridico positivo reagisca a questo comportamento come un atto coattivo”. (I corsivi dei passi citati sono nostri)

[54] V. sul punto, la tesi, già ricordata  (Trattato politico  Torino 1958 pp. 204-206) di Spinoza: “Se, per esempio, io dico che ho diritto di fare quel che voglio di questo tavolo, non intendo, perbacco, di poter far sì che esso mangi erba; così, pur dicendo che gli uomini non sono liberi di sé, ma soggetti allo Stato, non intendiamo che essi perdano la natura umana e ne assumano un’altra, o che lo Stato abbia diritto di far sì che gli uomini volino… esistono  certe condizioni, poste le quali si impone si impone ai sudditi il rispetto e l’ossequio verso lo Stato, e tolte le quali, non soltanto vengono meno il rispetto e l’ossequio, ma lo Stato stesso cessa di esistere: Per conservare la propria autorità, insomma, lo Stato deve badare che non gli vengano meno i motivi del rispetto e dell’ossequio, altrimenti perde il suo essere di Stato”

[55] Si nota la differenza tra la tesi qui sostenuta e quella di Bobbio dal seguente passo del filosofo torinese, sempre sulla “natura delle cose” in cui introduce (nella propria concezione del diritto) la “legge di Hume” “La natura delle cose è una nozione che nasce dunque dall’esigenza di garantire l’oggettività della regola giuridica. Il problema è appunto se esiste effettivamente questo rapporto fra la natura del fatto e la regola. A nostro avviso la nozione di natura delle cose è inficiata da quella che in filosofia morale è detta la fallacia naturalistica, cioè dall’illusoria convinzione di poter ricavare dalla constatazione di una certa realtà (il che è un giudizio di fatto) una regola di condotta (la quale implica un giudizio di valore): il sofisma della dottrina della natura delle cose, come del giunaturalismo, è il pretendere di ricavare un giudizio di valore da un giudizio di fatto”, op. ult. cit., p. 268. In effetti qua non si ricava una scelta (giudizio di valore) da un giudizio di fatto, in quanto l’atto (il fatto) non è giuridico perché non coercibile, non efficace, non applicabile. Semmai la scelta del legislatore è nel disciplinare gli effetti giuridici di un atto privo delle possibilità concrete di applicazione. In tal senso, ad esempio, il c.c. sanziona di nullità il tutto, prescrivendo alle parti (e al giudice) la restituzione delle prestazioni eseguite in “esecuzione” del contratto ad oggetto impossibile (art. 2033 c.c.) in applicazione del principio quod nullum est nullum producit effectum. In realtà il legislatore nel caso di prestazione impossibile non costituisce un precetto, ma riconosce ciò che risulta dal giudizio di fatto, statuendo solo sullo statuibile (la conseguenza dell’atto nullo).

[56] Per le norme d’ “applicazione” il discorso – che qui non interessa – è diverso.

[57] v. Studi per una teoria generale del diritto Torino 1970 pp. 143 ss.

[58] e prosegue “ Sia in Kelsen sia in Olivecrona e in Ross l’idea di coazione è strettamente connessa all’idea di forza (fisica): “il dire che l’ordinamento giuridico è un ordinamento coattivo (coercive order, Zwangsordnung) equivale a dire che contiene regole per l’esercizio della forza, anzi è caratterizzato da queste. Ciò presuppone che l’unico espediente cui ricorre un ordinamento giuridico per rendere efficaci le norme primarie sia il ricorso della forza”, precisando successivamente “Mi pare si possa proporre, per le nullità, questa interpretazione: quando si dice che l’ordinamento giuridico è un ordinamento coattivo, caratterizzato dall’esistenza di norme che regolano l’esercizio della forza, si vuol dire, come si è visto, che l’ordinamento giuridico stabilisce le condizioni (norme sostanziali) in base alle quali l’intervento della forza diventa lecito, e le modalità (norme procedurali) con cui questo intervento deve essere esercitato”… “ in altre parole, il giudizio di illiceità, presupposto di una pena (o un’esecuzione forzata, pone le condizioni per l’intervento di una forza vendicatrice (o riparatrice); il giudizio di invalidità presupposto della nullità, pone le condizioni per il non intervento di una forza protettrice” – p. 134-137 (i corsivi sono nostri). Bobbio non prende in considerazione le sanzioni  premiali   anch’esse “coercibili”, che tratta Carnelutti.

[59] È da considerare la tesi di G. B. Vico sul rapporto tra verità e certezza “Verum gignit mentis cum rerum ordine conformatio; certum gignit conscientia dubitandi secura. Ea autem conformatio cum ipso ordine rerum est et dictur «ratio». Quare, si alternus est ordo rerum, ratio est aeterna, ex qua verum aeternum est: sin ordo rerum non semper, non ubique, non omnibus constet, tunc in rebus cognitionis ratio probabilis, in rebus actionis ratio verisimilis erit” De uno universi juris principio et fine uno (proloquium); e nel cap. LXXXII “Ratio autem legis eidem dat esse verum- Verum autem est proprium ac perpetuum adiunctum iuris necessarii.

Certum est pars veri.

Certum vero est proprium et perpetuum iuris voluntarii attributum, sub aliqua tamen veri parte, ut Ulpianus nuper ius civile definivit”.

[60] Wirtschaft und Gesellschaft trad. it. vol. I. Milano 1980 pp. 212-213 (i corsivi sono nostri).

[61] In realtà si è scambiata quella che è un’aspirazione, per quanto condivisibile e diffusa, con la realtà (e la necessità) dell’esistenza politica e sociale. Per cui se è possibile (ed auspicabile) regolare molti istituti e materie, è impossibile (e dannoso) credere di poter regolare tutto. Cioè arrivando ad una giuridificazione di (tutta) la vita.

[62] Op. cit. p. 48-49

[63] Lineamenti di filosofia del diritto  § 260

[64] v. B. Croce Etica e politica Bari 1931 p.185.

[65] Ovvero come sostiene Santi Romano criticando l’opinione fondata sull’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 20-26 agosto 1789 “l’errore dell’opinione di cui si è fatto cenno è evidente: Ogni Stato è per definizione, come si vedrà meglio in seguito è coevo all’esistente (politicamente),  un ordinamento giuridico, e non si può immaginare, quindi, in nessuna sua forma fuori del diritto: Qualunque sia il suo governo e qualunque sia il giudizio che se ne potrà dare dal punto di vista politico, esso non può non avere una costituzione e questa non può non essere giuridica, perché costituzione significa niente altro che ordinamento costituzionale. Uno Stato «non costituito» in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del corpo. Il diritto costituzionale del c.d. Stato assoluto o dispotico sarà poco sviluppato; si concreterà in una sola istituzione fondamentale, quella del suo sovrano; sarà regolato da poche norme che, esagerandone e stilizzandone la figura tipica, si potranno ridurre magari soltanto a quella che dichiarerà l’appartenenza del sovrano di tutti i poteri; ma almeno questa norma non potrà mancare e non essere giuridica, se su di essa si impernia per intero quell’ordinamento giuridico quale è sempre, per sua  indeclinabile natura, lo Stato”. Diritto Costituzionale generale Milano 1947, p. 3

[66] Il giovane Hegel esercitava la sua (amara) ironia su come il rispetto per il diritto contribuisse ad indebolire l’Impero nel momento in cui aumentava l’aggressività della Francia rivoluzionaria “è un elemento, se pur non razionale, almeno in certa misura nobile del carattere tedesco il fatto che il diritto in generale, comunque siano costituiti il suo fondamento o le sue conseguenze, è per esso qualcosa di sacro. Se pur la Germania in quanto Stato proprio e indipendente, di cui ha tutta l’apparenza, e la nazione tedesca in quanto popolo, va del tutto in rovina, tuttavia procura sempre una vista piacevole il notare tra gli spiriti distruttori il rispetto per il diritto” v. Verfassung Deutschlands, trad. it. Bari 1960, p. 21.

[67] V. l’opinione di Santi Romano “Come la consuetudine, anzi a maggior ragione, data la sua maggiore energia, la necessità è fonte autonoma del diritto, superiore alla legge. Essa può implicare la materiale e assoluta impossibilità di applicare, in certe condizioni, le leggi vigenti e, in questo senso, può dirsi che «necessitas non habet legem». Può anche implicare l’imprescindibile esigenza di agire secondo nuove norme da essa determinate e, in questo senso, come dice un altro comune aforisma, la necessità fa legge. In ogni caso «salus rei publicae suprema lex»” in Diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 92.

[68] Ricordiamo la concezione di Bobbio “interpretare significa risalire dal segno (signum) alla cosa significata (designatum), cioè comprendere il significato del segno individuando la cosa da esso indicata. Ora, il linguaggio umano (parlato o scritto) è un complesso di segni” op. ult. cit., p. 325.

[69] In effetti, a seguire la teoria di Rousseau sulla volontà generale, essa è tale perché lo è nell’oggetto e nell’essenza, perché “deve partire da tutti per applicarsi a tutti” (Du conrtact social, II, 4). Nella concezione dell’eguaglianza come (mera) isonomia passiva, c’è una visione estremamente riduttiva del principio d’uguaglianza, visto solo quale assoggettamento alla legge (e al comando), tralasciando la partecipazione alla funzione di “governo” (in senso lato).

[70] V. op. ult. cit., p. 92. Bobbio sostiene (v. prima) che “in realtà non è il fatto in sé che impone la regola, ma il fine che si vuole raggiungere: è il fine che fa valutare in un certo modo i fatti; nel nostro caso il fine è di garantire la sicurezza del traffico e la possibilità per tutti gli automobilisti di poter parcheggiare. Ma nell’individuazione del fine interviene necessariamente un giudizio (o una serie di giudizi) di valoreop. ult. cit., p. 269. A parte le pendenti considerazioni, qua non si nega che vi sia un giudizio di valore, ma che non vi sia quello di fatto (assertivo). Sul punto ritorniamo in seguito.

[71] Sul punto v. Baldassarre op. cit.: “Nell’ipotesi del giudizio di costituzionalità, invece, colui che interpreta/applica le norme (costituzionali) procede in modo diametralmente inverso. Innanzitutto, tutte le norme costituzionali, incluse quelle che appaiono come le più particolari (ad es. la necessità di convertire i decreti-legge entro 60 giorni dalla loro emanazione), vanno comprese nel significato loro attribuibile in modo da riferirle ai principi supremi e ai valori ultimi della costituzione (come sentiti e vissuti dalla comunità politica). Così, per riprendere l’esempio fatto, il termine di conversione dei decreti-legge entro 60 giorni è stato inteso restrittivamente, cioè nel senso di precludere la possibilità di reiterazione del medesimo decreto, solo a partire da una sentenza del 1996, in quanto solo se così interpretato il principio della conversione è stato ritenuto più coerente con il principio della democrazia parlamentare, come allora, e non prima, sentito e condiviso.  In secondo luogo,  dai principi costituzionali non vengono «dedotte» le «regole» per decidere il giudizio, per il semplice motivo che la questione di costituzionalità viene decisa, non in base a una (presunta) «regola», ma in base a «principi»: in genere, il giudice della costituzionalità procede a una «riduzione» della «regola» legislativa (= generale e astratta) oggetto del giudizio ai principi o ai valori ad essa sottesi, al fine di valutare la compatibilità/incompatibilità di questi ultimi con il quadro dei principi e dei valori costituzionali ritenuti rilevanti rispetto alla «regola» contestata”.

[72] E anche altro. È per lo più dimenticato che la legge sui pieni poteri al governo del Reich del 23 marzo 1933 –legge di modifica (abolizione) della costituzione di Weimar, e quindi necessitante della maggioranza qualificata – raggiunse il quorum grazie all’opportuno scioglimento del PC tedesco e l’arresto di una dozzina di deputati dell’opposizione.

[73] E proseguiva “Questo movimento o ha un fondamento, che lo determina, o non ne ha. Se non ne avesse, questo movimento, sarebbe casuale e ad ogni momento potrebbe anche essere diverso. Ma se ha un fondamento, come dicono gli scienziati, cioè la forza d’attrazione del sole, con ciò è già determinato il fatto che questo movimento dei pianeti è determinato e regolato attraverso il fondamento, la forza d’attrazione del sole, in modo tale da non potere essere altro rispetto a ciò che è. Nella rappresentazione del fondamento vi è quindi l’idea di una necessità attiva, di una forza effettiva, che con necessità rende ciò che è fondato su di essa ciò che esso è. Se quindi la costituzione rappresenta la legge fondamentale di un paese, o essa è così – e qui albeggia forse per noi la prima luce, miei Signori, – un qualcosa puramente ancora da determinare in modo più preciso ovvero, come abbiamo intanto scoperto, una forza attiva che rende obbligatoriamente  tutte le altre leggi e istituzioni giuridiche che vengono varate in questo paese ciò che sono” v. trad. it. di Clemente Forte in Behemoth n. 20, p. 6 (i corsivi sono nostri).

[74] Die Diktatur (App. I) trad. it. di A. Caracciolo, Roma 2006, p. 283 (i corsivi sono nostri).

[75] E’ da notare che nell’evoluzione dell’istituto francese dell’état de siège, alle misure straordinarie non è connessa alcuna alterazione (dei rapporti) tra organi costituzionali. v. M Hauriou Prècis de droit costitutionnel.  Paris 1929 p. 705 ss

[76] In questo senso quelle libertà – normalmente inquadrate, come da rubrica, tra i rapporti civili (diritti dell’uomo, libertà liberali) – sono anche condizioni per l’esercizio dei diritti (politici) del cittadino di partecipare alla formazione della volontà pubblica, e così della forma democratica di governo. Tra i (non pochi) esempi delle conseguenze di una mancata garanzia dell’esercizio di questi, ricordiamo il decreto per la protezione del popolo e dello Stato (del 28/02/1933) proposto da Hitler e sottoscritto da Hindenburg, pochi giorni prima delle elezioni del 05/03/1933 (e i risultati di queste), v. William Shirer, Storia del Terzo Reich, vol. I, Torino 1990, p. 303 ss. A tale proposito Hauriou, citando Thiers, ritiene che questi aveva ragione a sostenere che la libertà di stampa, riunione, d’associazione (e d’insegnamento) nella società moderna erano delle libertà necessarie: in questo caso il necessario era inteso sia rispetto al principio (politico) democratico sia a quello liberale di protezione delle libertà (della società civile rispetto allo Stato)  Prècis de droit constitutionnel. Paris 1929 p. 711

[77] v. Suarez op. cit., p. 118 ss.. Suarez distingue – sulla base del pensiero di Aristotele e S. Tommaso – tra comunità sufficienti a se stesse (perfette) e non sufficienti a se stesse: “È detta perfetta nel suo genere quella che è capace di governo politico, che, in quanto è tale, è detta sufficiente in questo ordine; come disse Aristotele e S. Tommaso, che la città è una comunità perfetta… Ma è detta «comunità imperfetta» non in relazione ad altre, ma in senso assoluto, la casa privata, alla quale presiede il padre di famiglia, come ha notato S. Tommaso, e Soto, e sopra è preso da Aristotele.

Il motivo è che quella comunità non è sufficiente a se stessa, come ora sarà spiegato… E così tale comunità, parlando di per sé e in termini propri, non è retta da una propria potestà di giurisdizione, ma da [una potestà che si può chiamare] dominativa… Per cui [la casa privata] non possiede perfetta unità o un potere uniforme, e nemmeno partecipa propriamente di un governo [che possa essere detto] propriamente politico, e così quella comunità è detta assolutamente imperfetta” (i corsivi sono nostri).

[78] “Si possono distinguere le istituzioni perfette, che sono sempre originarie e che possono essere o semplici o complesse, dalle imperfette, che cioè si appoggiano ad altre istituzioni rispetto alle quali sono, non soltanto presupposte, ma coordinate o subordinate”, L’ordinamento giuridico, rist. Firenze 1962, p. 143; v. anche p. 38 “Ci sono istituzioni che s’affermano perfette, che bastano, almeno fondamentalmente, a se medesime, che hanno pienezza di mezzi per conseguire scopi che sono loro esclusivi. Ce ne sono altre imperfette o meno perfette, che si appoggiano a istituzioni diverse”.

[79] V. “Qui non è possibile discutere a fondo il criterio che distingue lo Stato dalle altre associazioni. Dalla particolare posizione dello Stato derivano comunque due elementi. In primo luogo, la sua stabilità non viene garantita, come per le altre associazioni, da un potere situato all’esterno; il suo funzionamento non viene mantenuto da un motore o da un giudice esterni alla sua struttura, non viene sorretto da una causa o da una garanzia eteronome, ma si integra, grazie alla legislatività oggettiva rispetto al valore, esclusivamente in un sistema di integrazione gravitante su se stessoVerfassung und verfassungsrecht trad. it., Milano 1988, p. 156; nella voce Integration, scritta da Smend per Evangelisches Staatlexikon e riportato nel volume citato, chiarisce: “Ciò è inesatto poiché, per quanto anche le altre formazioni sociali, dal matrimonio o dalle associazioni private sino alle più complesse comunità politiche e apolitiche, necessitino di una continua e sempre nuova inclusione degli uomini che le sorreggono, dispongono tuttavia di garanzia di stabilità del tutto differenti da quelle statali. Quelle comunità e associazioni vengono garantite dalla dissoluzione interna perlopiù mediante poteri esterni: il giudice, la coercizione amministrativa, sino agli strumenti della coercizione sociale e a quelli della politica estera e del diritto internazionale. Per lo Stato, in quanto si pone semplicemente come compito, non vi sono affatto tali garanzie esterne: esso riposa in ultima istanza non sul diritto o sul suo potere di fatto, ma sulla sempre nuova e volontaria adesione dei suoi appartenenti”, op. cit., p. 286 (i corsivi sono nostri)..

Nella diversità delle concezioni, ambedue i giuristi citati concordano nel fatto che diversamente da altre (associazioni e) comunità umane lo Stato (e quindi la costituzione statale) devono trovare all’interno dell’ordinamento gli strumenti di garanzia dello stesso. Questo perché, come scriveva de Bonald, riguardo alla costituzione della monarchia francese “la nazione era costituita, e così ben costituita, che essa non ha mai chiesto a nessuna nazione vicina la protezione della sua costituzione”. Il che è un’applicazione della regola (hobbesiana) del protego ergo obligo; e in termini giuridici (e politici), significa la perdita (o la restrizione) dell’indipendenza dello Stato.

[80] Principii di diritto costituzionale generale, cit., p. 57 (i corsivi sono nostri).

[81] E prosegue “A tale metodo sfugge il fatto che si tratta della legge vitale di un essere concreto e precisamente, dal momento che tale essere concreto non è una statua ma un processo di vita unitario che riproduce di continuo questa realtà,  della legge della sua integrazione… ogni singolo aspetto del diritto dello Stato è comprensibile non in se stesso e isolatamente, ma come momento della connessione di senso da realizzare, cioè della totalità funzionale dell’integrazioneop. cit., pp. 216-217. Così “non si può comprendere la giustizia costituzionale in analogia con la giustizia civile o amministrativa. La tutela delle minoranze parlamentari da parte del giudice costituzionale è una cosa diversa dalla tutela di un gruppo di azionisti, con i loro interessi individuali, da parte di un giudice civile, in quanto deve servire alla ricomposizione integrativa delle parti”, op. cit., p. 218 (i corsivi sono nostri).

[82] Così C. Schmitt op. ult. cit., p. 18.

[83] Op. cit., § 286.E anche, a seguire Hauriou – per le costituzioni liberali, dal complesso e dall’assetto generale, che fa sì che  la “libertà si protegga da sola” v. Précis. cit. pag. 709.

[84] Hegel, op. cit., § 333; e anche, per conflitti acuti, all’interno dello Stato, come sosteneva Locke, che quindi non restava altro che l’appello al cielo, cioè la rivoluzione.

[85] È chiaro che nel caso di grave crisi politica la “garanzia della costituzione” dipende ancor più da circostanze meramente “fattuali”, come il consenso dei governati e la determinazione dei governanti. Ossia sulla legittimità, l’autorità, la virtù – intesa nel senso classico di Machiavelli. Anche l’assetto istituzionale (i poteri costituiti), in tali casi, diviene quasi evanescente.

[86] A tale proposito è opportuno ricordare l’introduzione di Roberto de Mattei al “Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane” da tale opera di de Maistre è “un saggio polemico rivolto contro una determinata categoria di avversari, i fabbricatori di costituzioni a tavolino, gli autori di artificiose costruzioni intellettuali, gli ideologi rivoluzionari che, disprezzando la lezione della storia e dell’esperienza, avevano preteso elaborare un modello puramente astratto delle strutture sociali e politiche” (op. cit., p. 12).

NOTE SU COSTITUZIONE E INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALE , di Teodoro Klitsche de la Grange 

NOTE SU COSTITUZIONE E INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALE

  1. E’ opinione generalmente condivisa che i testi costituzionali (spesso identificati con le costituzioni) sono interpretabili, ma che l’interpretazione di questi non è del tutto assimilabile a quella delle leggi ordinarie (o dei negozi, o dei provvedimenti).Questo sia per la presenza, in molte costituzioni, di disposizioni di principio, sia perché alcuni enunciati non hanno carattere normativo, ovvero per l’importanza dei “valori coessenziali alla forma di Stato”[1]; o anche per l’importanza delle “convenzioni costituzionali”, e ancor più di quelle che Mortati chiamava le “esigenze istituzionali latenti” ( e si potrebbe continuare).

A questo si aggiunge che certi tipi di interpretazione sono, per così dire di non agevole attivazione. Ad esempio, in una costituzione “rigida” l’interpretazione “autentica”, essendone competente il titolare del potere costituente il quale, a meno che non si voglia identificarlo- ma ciò non appare possibile in molti testi costituzionali, tra i quali quello italiano vigente- con quello deputato alla revisione costituzionale, non è istituzionalizzato in un organo[2]. Inoltre in tal caso non ne sarebbe previamente giuridificabile l’esercizio, atteso che vale la considerazione di Sieyès che il potere costituente (cioè, per l’abate, la Nazione) al contrario di quelli costituiti non necessita di alcuna legittimazione (né regolamentazione) “giuridica”; “alla volontà nazionale basta invece soltanto la propria realtà per essere sempre legittima. Essa è la fonte di ogni legalità”, cioè non è tenuta a osservare alcuna forma e/o procedimento giuridico previamente stabilito[3]. Inoltre anche le “tecniche” dell’interpretazione costituzionale sono oggetto di vaste discussioni, tendenti ad escluderne talune (come per l’interpretazione evolutiva, che in particolare nelle costituzioni rigide, può costituire violazione della competenza dell’organo di revisione costituzionale) o a ridimensionarne altre (come quella letterale).

Ma la differenza che appare più evidente e peculiare dell’interpretazione costituzionale rispetto a quella legislativa è quella relativa all’oggetto interpretato. Nell’interpretazione della legge o di un atto ci si trova dinanzi ad un testo; nel caso della legge anche ad un sistema legislativo, comunque – almeno in un sistema di diritto moderno continentale[4] -, coordinato o coordinabile e valutabile secondo criteri logico-sistematici.

Tuttavia nel caso della Costituzione non è chiaro, in primo luogo, cosa sia costituzione e cosa no. La dicotomia tra costituzione materiale e formale ne è uno degli esempi. In secondo luogo è controversa anche la distinzione tra costituzione e leggi costituzionali[5]. In terzo luogo vi sono disposizioni costituzionali non scritte; inoltre alcune leggi – come la legge elettorale per la scelta degli organi rappresentativi dello Stato – rientrano nella materia costituzionale, ma non sono “norme costituzionali” (nel senso della rigidità); o queste non sono proprio espresse in un testo, come le “esigenze istituzionali latenti”, ovvero, (come di seguito) i presupposti della costituzione, ovvero le decisioni costituzionali implicite. Appare decisivo il fatto quindi che altro é interpretare un testo (un atto, o un documento) altro è interpretare qualcosa che non lo è.

  1. All’inizio del periodo storico caratterizzato (tra l’altro) dal diffondersi delle costituzioni scritte, de Maistre stigmatizzava la convinzione di “credere che una costituzione politica potesse essere scritta e creata a priori, mentre ragione ed esperienza si uniscono per dimostrare che una costituzione è un’opera divina e che proprio ciò che vi è di più fondamentale e di più essenzialmente costituzionale nelle leggi di una nazione non potrebbe mai essere scritto.” [6]. E dopo aver illustrato gli argomenti a favore della propria tesi enuncia le proposizioni che ne conseguono: “1- Le radici delle costituzioni politiche esistono prima di ogni legge scritta.

2- Una legge costituzionale non è e non può essere che lo sviluppo o la sanzione di un diritto preesistente e non scritto.

3- Ciò che vi è di più essenziale, di più intrinsecamente costituzionale e di veramente fondamentale non è mai scritto, e neppure potrebbe esserlo, senza esporre a pericolo lo Stato.

4- La debolezza e la fragilità di una costituzione sono direttamente proporzionali proprio alla molteplicità degli articoli costituzionali scritti.”[7] E in questa convinzione ironizza su chi crede “che i legislatori siano uomini, le leggi pezzi di carta, e le nazioni possano essere costituite con l’inchiostro. Esse mostrano invece che la scrittura è costantemente un segno di debolezza, di ignoranza o di pericolo; che quanto più una istituzione è perfetta, meno scrive”[8] .

Smend partendo dal proprio peculiare concetto di costituzione afferma “La Costituzione è l’ordinamento giuridico dello Stato, più precisamente della vita in cui esso ha la sua realtà vitale, cioè del suo processo d’integrazione. Il senso di questo processo è la sempre nuova produzione della totalità di vita dello Stato, e la costituzione è la normazione tramite leggi (gesetzliche Normierung) di singoli aspetti di questo processo”[9]e, per cui “La corrente di vita politica spesso può giungere a questa riuscita per vie diverse e non propriamente costituzionali: in questo caso l’adempimento del compito d’integrazione, posto dalle leggi dello spirito rispetto al valore come dagli articoli della costituzione, corrisponderà, nonostante queste singole deviazioni, al senso della costituzione”; ne deriva che “Dunque il senso stesso della costituzione, la sua intenzione tendente non al particolare, ma alla totalità dello Stato e alla totalità del suo processo d’integrazione, non soltanto consente, ma addirittura esige quell’interpretazione elastica, suppletiva della costituzione, che è di gran lunga lontana da ogni altra interpretazione del diritto[10] (i corsivi sono nostri).

Schmitt, come noto, sostiene che “Un concetto di costituzione è possibile soltanto se costituzione e legge costituzionale vengono distinte. Non è ammissibile lo scomporre la costituzione prima in una molteplicità di singole leggi costituzionali e poi definire la legge costituzionale per qualche contrassegno esteriore o addirittura a seconda del metodo della sua revisione. In questo modo va perso un concetto essenziale della dottrina dello Stato e il concetto fondamentale della dottrina della costituzione”[11]; la costituzione nasce da un atto del potere costituente “Questo atto costituisce la forma e la specie dell’unità politica, la cui esistenza è presupposta. Non è che l’unità politica si forma proprio perché «è data una costituzione». La costituzione in senso positivo contiene soltanto la determinazione consapevole della forma speciale complessiva, per la quale l’unità politica si decide”; una costituzione “siffatta è una decisione consapevole che comporta di per sé e si dà essere da se stessa l’unità politica tramite il titolare del potere costituente”[12]; onde “La costituzione vige in forza della volontà politica esistente di chi la pone. Ogni specie di normazione giuridica, anche la normazione legislativo-costituzionale, presuppone come esistente una simile volontà”[13]. La conseguenza è che “ogni unità politica esistente ha il suo valore ed il suo «diritto all’esistenza» non nella giustezza o utilizzabilità delle norme, ma nella sua stessa esistenza. Ciò che esiste come entità politica, è – giuridicamente considerato – meritevole di esistere. Perciò il suo «diritto all’autoconservazione» è il presupposto di ogni ulteriore discussione; essa cerca di conservarsi soprattutto nella sua esistenza, «in suo esse perseverare» (Spinoza); essa protegge «la sua esistenza, la sua integrità, la sua sicurezza e la sua costituzione» – tutti i valori esistenziali”[14]. La costituzione è quindi una decisione, non una legge od una norma “Prima di ogni normazione c’è una decisione politica fondamentale del titolare del potere costituente, cioè in una democrazia del popolo, nella monarchia pura del monarca”[15]. Le disposizioni più importanti non sono norme: “frasi come: «Il popolo tedesco si è data questa costituzione»; «Il potere dello Stato emana dal popolo»; oppure «Il Reich tedesco è una repubblica», non sono leggi e quindi nemmeno leggi costituzionali. Non sono neppure una sorta di leggi-quadro o di principi fondamentali. Ma non per questo sono qualcosa di insignificante o di scarsa importanza. Sono più che leggi e normazioni, ossia le decisioni politiche concrete, che fissano la forma dell’esistenza politica del popolo tedesco e formano il presupposto fondamentale per tutte le altre normazioni, anche quelle delle leggi costituzionali. Tutto quello che c’è all’interno del Reich tedesco nella legalità e nella normatività, vale soltanto sulla base e nell’ambito di queste decisioni. Esse formano la sostanza della costituzione”[16] (i corsivi sono nostri).

L’errore della dottrina dello Stato è “non riconoscere l’essenza di queste decisioni e al di là della sensazione che c’è ancora qualcosa d’altro che una normazione legislativa parlare «conseguentemente» di «mere proclamazioni», «mere dichiarazioni» o addirittura «luoghi comuni». La costituzione stessa in questo modo si dissolve da ambo i lati in un nulla: da una parte alcune locuzioni più o meno di buon gusto, dall’altra una quantità di leggi disparate e caratterizzate esteriormente. Esattamente considerate, queste decisioni politiche fondamentali sono anche per una giurisprudenza positiva l’elemento decisivo e quello veramente positivo[17] (i corsivi sono nostri).

Kelsen, pur notoriamente sostenendo l’opportunità del Giudice (e della Giustizia) costituzionale, non si nascondeva le difficoltà relative, in particolare per le disposizioni di principio e quelle di “valore”. Scrive infatti che “Proprio nel fatto che la considerazione o l’incorporazione di questi principi, ai quali finora, nonostante ogni sforzo, non è stato possibile dare un contenuto piuttosto univoco, non hanno e non possono avere nel processo di creazione del diritto, per motivi indicati, il carattere di una applicazione del diritto in senso tecnico, si trova la risposta al problema se possono essere applicati da un organo di giustizia costituzionale” di guisa che “Proprio nel campo della giustizia costituzionale esse possono svolgere tuttavia un ruolo assai pericoloso: Le disposizioni costituzionali che invitano il legislatore a conformarsi alla giustizia, all’equità, all’uguaglianza etc. potrebbero essere infatti interpretate come direttive riguardanti il contenuto delle leggi: naturalmente a torto, giacchè sarebbe così solo se la costituzione stabilisse una direttiva precisa, se indicasse essa medesima un qualunque obiettivo criterio”[18]

Secondo Santi Romano “La costituzione, nel suo primo aspetto, meglio che come norma, si presenta come un edificio o un complesso di ingranaggi, nel quale si concreta la struttura fondamentale di quella istituzione che si chiama Stato e, quindi, lo stesso Stato. Ma, essendo lo Stato niente altro che un ordinamento giuridico, essa non è che la parte essenziale di quest’ultimo”[19]; “Costituzione in senso materiale e diritto costituzionale sono espressioni equivalenti. Costituzione, infatti, significa, come si è detto, assetto o ordinamento che determina la posizione, in sé e per sé e nei reciproci rapporti che ne derivano, dei vari elementi dello Stato, e, quindi, il suo funzionamento, l’attività, la linea di condotta per lo stesso Stato e per coloro che ne fanno parte o ne dipendono”[20] (i corsivi sono nostri).

Hauriou osservava che la Costituzione della Terza repubblica francese (cioè le tre leggi del 1875 e loro modifiche) non comprendeva che venticinque articoli, limitati alle sole attribuzioni e rapporti dei poteri pubblici, ma la questione più interessante era se si riducesse solo a quelli; in particolare perché non vi era alcun elemento di “costituzione sociale” la cui conseguenza logica era che “i diritti individuali dei francesi, non avrebbero più alcuna esistenza costituzionale”[21].

La conclusione che ne trae – come la grande maggioranza dei giuristi dell’epoca della Terza Repubblica – è che la dichiarazione dei diritti, o meglio la constitution sociale che essa delinea, è diritto vigente malgrado non fosse menzionata dalle leggi costituzionali del 1875.

Questa elencazione – ovviamente non esauriente – delle tesi sostenute da autorevoli giuristi mostra che l’oggetto dell’interpretazione costituzionale differisce radicalmente da quella dell’esegesi legislativa. Vuoi perché  l’oggetto non è una norma, o perché non è espressa in un testo, ovvero perché è controverso se, in casi determinati, sia riconducibile alla costituzione o alla materia costituzionale. Inoltre nella costituzione, nel potere costituente o nel processo costituente c’è preponderanza di elementi “fattuali”, esistenziali e storici (a secondo di come li si sia denominati) il cui connotato comune, al di la delle differenze, è di non essere riconducibili a un dover-essere, e comunque a fatti (giudiziariamente) non valutabili, ma che, al contrario, sono fondanti il diritto.

  1. Ancor più questi giudizi mostrano l’attualità delle considerazioni di de Maistre. Quanto alla prima, cioè che le radici delle costituzioni politiche esistono prima di ogni legge scritta, questa appare sia dal rapporto potere costituente/costituzione, in cui l’esistenza di quello è condizione (di esistenza) e validità di questa; e la cui validità si misura sulla legittimità, e in genere, sulla conformità all’ethos prevalente nella comunità. Quanto alle considerazioni sulla costituzione scritta, è vero che le disposizioni più intrinsecamente costituzionali e realmente fondamentali (per lo più) non sono scritte; e che a scriverle c’è rischio di esporre a pericolo lo Stato, perché ciò rende più fragile l’assetto costituzionale. E questo, si può aggiungere, anche per le costituzioni moderne (intendendo come tali quelle vigenti dal XIX secolo).

A rendere tuttora valida la tesi di de Maistre è la stessa rassegna – meramente esemplificativa – sopra ricordata. Infatti i giuristi (e altri) ivi ricordati, fanno riferimento, come fondamento delle carte costituzionali scritte, a qualcosa che non è scritto; e spesso, che non ha carattere giuridico. Lo stesso Kelsen, nel ritenere non esser possibile “accettare l’estremismo paradossale della celebre tesi di Lassalle che la costituzione di uno stato siano, in definitiva, l’esercito e i cannoni dei quali il governo dispone – giacché essa sottovaluta la forza delle idee e soprattutto delle idee giuridiche – bisogna tuttavia concedere che la costituzione esprime le forze politiche di un determinato popolo, è un documento che attesta la situazione di equilibrio relativo nella quale i gruppi in lotta per il potere permangono fino a nuovo ordine[22] (i corsivi sono nostri).

Nello stesso senso è stato individuato che “il principio normativo originante e giustificante un ordinamento, cioè la costituzione per eccellenza, consiste nella forza normativa della volontà politica, con applicazione realistica del principio di effettività”[23].

Dalla “forza normativa del fattuale” alla realtà della Nazione che ha la propria legittimità, fino ai cannoni di Lassalle è tutto un fondare la Costituzione scritta su elementi non scritti e neppure giuridici, nel senso di fondare il diritto senza essere (in larga misura) giustiziabili (Justiciables). Quel che parimenti interessa è che proprio tali elementi e presupposti non scritti sono quelli squisitamente costituzionali nel senso di co-stituire (cioè tenere insieme in modo stabile e ordinato) una comunità politica.

Quanto alla scrittura come elemento di debolezza e fragilità della Costituzione, occorre dire che è presupposto del ragionamento di molti giuristi, in particolare per quanto riguarda l’essenza dell’ordinamento (e quindi della costituzione), che l’esistenza di un testo scritto non sia necessario. Ciò che è essenziale (e insostituibile) per l’ordine politico e sociale è che vi sia un insieme organizzato di autorità, organi, uffici che assicurino l’unità dell’agire e la regolarità dei rapporti sociali. Come scrive Santi Romano “il diritto, prima di essere norma, prima di concernere un semplice rapporto o una serie di rapporti sociali, è organizzazione, struttura, posizione della stessa società in cui si svolge e che esso costituisce come unità, come ente per sé stante[24] (i corsivi sono nostri).

Ed è nota la tesi di Carré de Malberg che non condivideva la costruzione kelseniana di una gradazione di norme dato che non teneva conto della “gradazione” degli organi statali[25].

In realtà non è soltanto vero che necessario (e sufficiente) perché esista un ordinamento è che vi sia un sistema organizzato di rapporti di subordinazione e coordinazione (“la complessa e varia organizzazione dello Stato” di Santi Romano); e proprio perciò che questi rapporti e comandi siano espressi in norme è opportuno, ma non indispensabile all’esistenza dell’ordinamento; ma ne consegue – spesso – che il carattere normativo (e scritto), come sosteneva de Maistre, non è opportuno, anzi corre il rischio di rivelarsi dannoso (e insieme o no, anche ultroneo).

Anzi procedendo in modo discendente giù per li rami dell’ordinamento, si va dal non scritto allo scritto come dal non justiciable (nel senso sopra precisato) al justiciable.

Ad esempio, per il potere costituente, l’apice della piramide dell’ordinamento: si può solo sapere chi sia (il fatto è storico) e può essere designato nella costituzione (designazione che vale fin quando la Storia non ci ripensa), ma non tollera limiti giuridici né di essere tenuto all’osservanza di quelli; cioè non è giuridificabile né justiciable. Passando al sovrano (ove si acceda alle teorie che vedono anche in un potere costituito – e non solo nel costituente – i connotati della sovranità) buona parte degli atti dello stesso si fondano su mere autorizzazioni, indeterminate (o quasi del tutto) nei presupposti e nel contenuto (la dittatura commissaria del Presidente del Reich secondo Schmitt)[26].

Le stesse espressioni della Costituzione in relazione alle attribuzioni (ed alle limitazioni) degli organi “apicali” in particolare quelli a carattere rappresentativo sono ampie nel conferimento dei poteri, ma scarne e vaghe nell’indirizzare i contenuti (questo vale in particolare per le dichiarazioni cosiddette “programmatiche” delle costituzioni).

L’applicazione della norma ad un caso concreto, nel senso – variamente qualificato – della sussunzione di questo a quella (cioè il modo più “tipico” dell’applicazione/gradazione tra norme) è così realmente possibile solo per gli atti del potere giudiziario di uno Stato di diritto, en quelque façon nul come sosteneva Montesquieu e in forma più limitata per il potere governativo-amministrativo, tenuto conto della discrezionalità nell’an, nel quid o nel quomodo che compete in misura maggiore o minore, totale o parziale, alla pubblica amministrazione secondo le norme di conferimento (e regolanti l’esercizio) delle relative potestà.

Questa costante (dal non justiciable al justiciable), verificabile dall’esame del diritto e della legislazione (costituzionale e ordinaria), in particolare per i casi d’emergenza, corrisponde ad una esigenza razionale perché reale. Il diritto, come scriveva Jhering, serve alla vita[27]. Di qui la necessità sia di autorizzazioni indeterminate che di azioni di salvataggio per salvare l’esistenza delle comunità; come scrive Jhering “Il criterio per valutarle è insito nel loro successo. Dal foro del diritto, che le ha condannate, appellano al tribunale della storia e, fino ad oggi, questa istanza è sempre stata considerata da tutti i popoli come l’istanza suprema. La sentenza da essa pronunciata è decisiva e definitiva”[28]. Questo è il punto in cui “il diritto sfocia nella politica e nella storia”[29].

Alla stessa funzione adempie secondo Santi Romano la necessità “che implica un’esigenza esplicita ed impellente di bisogno sociale, che imponga una determinata condotta in difesa delle istituzioni vigenti” questa “acquista il carattere di una norma giuridica quando si esplica come un’esigenza non puramente razionale, ma istituzionale”[30].

La necessità, così, non solo è diritto non scritto, ma è connaturale all’istituzione, anzi all’essenza di questa.

L’indeterminatezza della “norma” e la sua gradazione inversa (dall’indeterminato al determinato) serve a salvaguardare proprio l’istituzione che ha il proprio fondamento non nel diritto, ma nella storia; e quindi, ai livelli apicali non è (o non è in parte) oggetto di coazione giuridica (e predeterminata dal diritto). Così dalla totale non giuridificabilità, come per il potere costituente e la costituzione, si passa per gradi a norme sempre più determinate perché cresce l’esigenza di salvaguardare un certo grado di certezza (e prevedibilità) attraverso un diritto via via più ricco di contenuti espressi (di comandi applicabili) e così definiti o esattamente definibili: analogamente all’albero di Porfirio che dalla sostanza arriva alla classe indivisibile (o all’individuo concreto) perdendo di estensione e arricchendosi in intensione (cioè di contenuto), così nel diritto indeterminatezza e certezza (nel senso weberiano di calcolabilità e prevedibilità) sono inversamente proporzionali. E ciò che determina il calare dell’una e il progredire dell’altra è la prossimità al momento genetico dell’istituzione (alla “storia”, al “fatto” , alla “vita”).

  1. A questo punto si potrebbe pensare che non solo de Maistre aveva colto nel segno, ma che l’interpretazione della Costituzione è una chimera, perché più è praticabile, meno l’oggetto su cui si esercita è importante e “decisivo”. Il che in subiecta materia è naturale perché a far le costituzioni non sono i giuristi ma la Storia (cioè i più volte ricordati cannoni di Lassalle); ed avendo i giuristi al massimo la funzione, come scriveva sempre Lassalle, di vergare su un foglio di carta le decisioni prese dalla politica, il risultato non è dei più governabili.

Comunque anche se le norme scritte e dal contenuto certo hanno un ruolo costituzionale limitato, ciò non toglie che all’interprete possa essere consentito ricavare un senso (e un significato) da quanto è non scritto e non normativo (o indeterminato) nella Costituzione.

Infatti, e cominciando dalle espressioni a carattere non normativo (quelle che Schmitt definisce le decisioni fondamentali nella costituzione di Weimar)[31] è certo che espressioni come quelle dell’art. 1 della Costituzione italiana vigente: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nella forma e nei limiti della Costituzione” esclude tutta una serie di modifiche che, stante il potere di revisione costituzionale potrebbero essere apportate alla medesima, possano esserlo, appunto, in sede di procedimento di revisione. Con ciò ciascuna di tale modifiche comporta non una revisione della Costituzione, ma un mutamento (radicale) della medesima, cioè una Costituzione nuova. È escluso quindi che la Costituzione vigente sia compatibile con la forma monarchica di governo; che possa trasformarsi in una Repubblica sovietica (uno Stato del socialismo reale) perché un ordinamento comunista-leninista non è una democrazia ma è la forma di oligarchia (ideocratica) più conseguente espressa dalla modernità; o in uno Stato a partito unico fascista o nazionalsocialista; che sovrano possa essere un potere costituito; che uno straniero, o un potere anche non statale possa appropriarsi della sovranità o i poteri costituiti cedergliela. Questo per le di essa determinazioni che appaiono più sicure (secondo la regola in claris non fit interpretatio) tralasciando quelle più controverse.

Nonostante la forma (e il contenuto) non normativo, questo articolo è, comunque, estremamente ricco di senso e, in larga parte, interpretabile in modo univoco[32].

Così del pari le decisioni di cui alla maggior parte dei “principi fondamentali” della costituzione vigente.

Peraltro occorre considerare che l’indeterminatezza delle disposizioni è spesso parziale, a differenza delle norme legislative, le quali consentono (per lo più, ma non sempre) un’applicazione “calcolabile”; ovvero senza zone d’indeterminatezza (e quindi di “libertà” anche dell’organo chiamato ad applicarle). Ciò non toglie che anche una disposizione assai vaga, come in genere quelle attributive di competenza, ad esempio l’art. 70 della costituzione vigente (la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere) permette:; a) di escludere che possano esercitarla altri organi, non abilitati a ciò dalla Costituzione; b) che lo possa fare una Camera da sola. Oltre, s’intende, agli altri limiti derivanti dalla Costituzione e dal suo carattere rigido. Queste conseguenze operano per lo più in negativo: nel senso che non è determinato ciò che l’organo può (e/o deve) fare ma è determinato ciò che è vietato (sia riguardo alla competenza che al contenuto).

Il che comunque è di notevole utilità per l’interprete dato che vale a sgombrare il campo da una considerevole parte dei dubbi e delle possibili lacune che si possono presentare; anche perché la logica della reiezione (quella rivolta ad escludere ragionamenti fallaci o scegliere tra più soluzioni la più probabile) ha una larga applicazione – anche se poco consapevole- in sede giudiziaria (e giuridica)[33].

Ma ciò che più conta è che, anche in assenza di redazione (proclamazione, disposizione, norma) scritta è possibile enucleare delle norme (comandi) dai presupposti fondamentali, condizionanti la validità anche di quelle scritte e utili, e spesso necessari, a chiarirne il significato.

In un certo senso, operando similmente a come fatto dai teorici del diritto naturale, e in particolare dai teologi della Seconda Scolastica. Questi “svilupparono in effetti una dottrina dello Stato scevra di qualsiasi presupposto dogmatico, su fondamenti puramente filosofici. Anche i maggiori teorici di questa tendenza sono d’accordo nel ritenere che l’unione statale abbia le sue radici nel diritto naturale, che in forza di questo spetti alla collettività associata la sovranità sui suoi membri, e che ogni diritto dei governanti provenga dal volere della collettività alla quale il diritto naturale attribuisce la facoltà e l’obbligo di trasmettere i propri poteri”[34].

In effetti come i teologi sostenevano che Dio ha creato l’uomo essere naturalmente sociale, ha voluto anche il potere pubblico, e che nessuna società può conservarsi senza un’autorità dotata del potere di comandare a ciascuno, e quindi la necessità del potere consegue dalle leggi stesse che condizionano l’ordine sociale. Leggi di cui Dio è l’autore[35]. E proprio perché Dio ne è l’autore sono immodificabili dall’uomo, che tuttavia può, nell’esercizio della libertà politica darsi forme politiche diverse, nei limiti delle leggi di natura che condizionano l’ordine sociale e politico. Ad esempio l’intera costituzione, ancor più se – come quasi tutte le costituzioni moderne – frutto di una decisione deliberata, presuppone l’esistenza sia della comunità politica che del potere costituente. E l’uno e l’altro non sono “modificabili” attraverso una procedura giuridica perché sono essi a costituire le condizioni minime perché una costituzione (atto del potere costituente) esista e abbia validità; con l’ulteriore conseguenza che ogni norma costituzionale e in generale la costituzione stessa debbano interpretarsi nel senso di presupporre l’esistenza della comunità politica e del pouvoir constituant. Sono questi imperi causae et fundamenta naturalia: senza i quali non avrebbe senso né scopo un documento chiamato “costituzione”. Ma, proprio perciò la costituzione non può interpretarsi nel senso che neghi (o porti alla rovina) l’esistenza dello Stato – cioè della comunità organizzata – né del potere costituente. Anche perché una simile conclusione interpretativa ha altrettante possibilità di essere efficace, quanto le pillole contro il terremoto: non è nel potere del diritto e tanto meno dell’interprete di questo creare unità politiche o poteri costituenti (semmai, lo è – in una certa misura – di regolarli).

Comunità e poteri non sono enunciati normativi, ma realtà concretamente esistenti: sono tali perché esistono, e in, quanto esistenti, hanno il diritto di essere quel che possono essere (Sieyès)[36] ossia di “conformarsi” come vogliono, nell’ambito del possibile.

Compito del diritto è regolare l’esistente: per cui presupposto ne è che esista qualcosa da regolare: si può pensare, seguendo Santi Romano, che l’esistente sia contemporaneo al diritto[37], ma è impossibile che questo consista in una forma o una regola giuridica di ciò che non esiste.

Di conseguenza e tenuto conto che “diritto non è l’insieme delle statuizioni consacrate in un testo di legge ed operanti pel solo fatto di tale consacrazione, ma quel complesso ordinato di situazioni e di rapporti che si raccoglie in un centro di autorità, e costituisce il diritto «vivente», valevole come tale anche se contrastante con quello legale, allorché l’osservazione documenti l’avvenuta sua stabilizzazione, non si rende possibile escluderne l’autonomo rilievo. In altri termini quando la categoria del giuridico si collochi sotto il segno della effettività si rende necessario alla sua comprensione l’esame del concreto modo di operare delle istituzioni sociali sottostanti alle norme”[38], ciò che è presupposto, nella costituzione, (cioè è “valevole come tale”) è, confermando l’intuizione di de Maistre, la parte “decisiva” e più “importante” della costituzione stessa. Perché, come scrive Sieyès non ha alcuna necessità di essere conforme al diritto, ma è esso a esserne il presupposto e la condizione di validità.

Ad esempio la regola salus rei publicae suprema lex è tale che, oltre a condizionare il normativo costituisce anche il criterio di validità del medesimo: nel senso che la norma o il complesso di norme, confliggenti con l’esistenza dell’istituzione e della comunità organizzata, sono interpretabili solo nel senso che non contraddicano l’esigenza di salvaguardare l’esistenza della comunità. Tale regola contiene la decisione per l’esistenza (politica) della comunità ed è prevalente rispetto all’osservanza del diritto, anche di quello modellato sui “valori” fatti propri dalla costituzione[39].

  1. Analizzando le varie categorie di “fatti normativi”[40], in primo luogo, vi sono realtà che costituiscono i presupposti della costituzione.

Prima si è ricordato la comunità e il potere costituente; occorre specificare che quest’ultimo non va inteso nel senso di organo (lo può essere, ma che lo sia non è connaturale al concetto), ma come entità concreta che decide (e/o mantiene) la costituzione[41].

Più in generale i presupposti sono quelle realtà necessarie perché lo Stato abbia esistenza: lo Stato e non una determinata forma di governo. La dottrina dello Stato ne ha indicati diversi. Secondo von Seydel “questi requisiti essenziali sono:

“1) Territorio e popolo

2) Dominati da un supremo volere”[42]

Nel pensiero di Hauriou ciò che è essenziale nella Costituzione lo si deduce principalmente da quello che è tale perché esista un’istituzione. Così i tre presupposti necessari perché esista lo Stato sono il potere di un governo centrale (elemento coercitivo); l’unità spirituale della nazione (elemento consensuale); l’«entreprise» della cosa pubblica (elemento ideale). Senza andare all’esame delle diverse teorie – che non sempre identificano come “presupposti” essenziali ciò che s’intende per tali, i quali sicuramente sono un elemento oggettivo, cioè un popolo e uno soggettivo, un potere che organizza e controlla – occorre andare alla distinzione, intrinseca alla dottrina teologica cattolica (e non solo) del XVII secolo tra ciò che è legge di natura (sottratta al volere umano) e ciò che è forma di governo (cioè modellabile e conformabile dalla volontà umana)[43].

Di conseguenza occorre anche andare alla ricerca di ciò che è comunque, per natura, costituzionale, anche se non è regolamentato dalla Costituzione (e neppure menzionato); perché non ha bisogno di una decisione (e ancor meno di una norma) umana per essere costituzione; anche perché, a seguire Santi Romano se è l’esistenza dello Stato a implicare necessariamente la costituzione[44], non è necessaria a uno Stato esistente, una esplicita redazione in un testo di ciò che, per il fatto di esistere, “possiede già”.

Hegel scriveva a tale proposito distinguendo “ciò che è necessario, che cioè una moltitudine sia uno Stato e un potere comune, e ciò che invece è soltanto una particolare modificazione di questo potere e non rientra nella sfera del necessario, bensì appartiene, per il concetto, alla sfera del più o meno bene, per la realtà invece alla sfera del caso e dell’arbitrio”; ciò che non è necessario all’essenza, cioè all’esistenza dello Stato e tuttavia fa parte della “realtà di uno Stato che appartiene al caso si deve ascrivere il modo e la maniera in cui il comune potere statale esiste in un centro unitario. Che il detentore del potere sia una sola persona o più persone; che questa sola o queste molte persone giungano a tale maestà per nascita o per elezione: è indifferente per l’unica cosa necessaria, che cioè una moltitudine formi uno Stato”. Per cui né l’unità del diritto, né il procedimento di formazione delle leggi, né l’organizzazione e le procedure giurisdizionali costituiscono parti essenziali della Costituzione.

Nella Verfassung Deutschlands Hegel delinea – in buona sostanza – come contenuto essenziale di una costituzione statale, l’istituzione di un potere pubblico, assoluto in via di principio, dotato dei mezzi sufficienti a far eseguire le proprie deliberazioni. Senza questi requisiti non esiste Stato, né di conseguenza costituzione dello Stato.

Tesi in larga misura simili sono state ripetute da molti, giuristi e non, che si sono occupati del problema di ciò che è essenziale alla costituzione[45]. Tuttavia è da ricordare che la tesi di G. Burdeau che le “costituzioni, per loro ragione d’essere e loro oggetto, obbediscono a regole ineluttabili”[46]. E tali costanti del contenuto di una costituzione sono l’organizzazione del Potere, e la natura e i fini dell’attività politica dei governanti.

Per cui si può individuare ciò che è essenziale nella costituzione nelle disposizioni necessarie all’esistenza ed all’azione della comunità; le quali non sono solo i presupposti dell’unità politica sopra ricordata. Ciò che veramente conta, ed ha carattere essenziale, è che siano previsti i mezzi perché il potere legittimo sia pure efficace: l’organizzazione concreta e particolare che ne consegue, i modi per assicurare ciò, sono secondari, e variano a seconda del tipo e della forma dell’unità politica.

In buona sostanza esistono – e non potrebbe essere diversamente – dei “fatti di normazione” i quali pur non essendo espressi in un testo, costituiscono diritto e più ancora lo determinano[47].

Questi sono intendibili ed interpretabili, come riteneva Betti, secondo cui l’intendere “concerne «i valori dello spirito oggettivati» in testi e, più in generale, in «forme rappresentative», vale a dire «istituzioni, leggi, riti, strutture e forme strumentali che per la loro stessa destinazione debbono rimanere e rimangono in uso o in vigore». L’interpretazione verte in effetti su queste oggettivazioni del pensiero, che, «come vennero in origine impresse o configurate da uno spirito vivente e pensante, così fanno assegnamento sopra uno spirito capace di intenderne il senso, che nel presente le ritrovi, (…) animandole della sua stessa vita»”[48].

Il che è una prospettiva non frequente, ma non del tutto insolita per il giurista. Dover interpretare non un testo, ma ricavare il precetto da una situazione di fatto (non quindi da una norma) è cosa che, per l’appunto ricorre con maggior frequenza che in altri casi nel diritto pubblico. In particolare ne costituiscono un esempio le concezioni del diritto naturale del XVI – XVIII secolo (sopra cennate), con la distinzione tra ciò che, venendo direttamente da Dio, quale creatore della stessa natura (e della legge naturale) non è modificabile; e quello che appartiene all’uomo e al potere umano[49]; onde mentre il secondo può essere espresso in un testo ed avere forma normativa, per il primo ciò è ovviamente escluso: se ne può cogliere il senso solo attraverso la ragione.

Nel duplex principium per cui Leibnitz accostava il diritto alla teologia, cioè la ratio (con la conseguente teologia naturale e la giurisprudenza naturale) e la scriptura, cioè “un libro contenente rivelazioni e comandamenti positivi”[50], è quindi giocoforza servirsi – per lo più – della prima.

D’altra parte la distinzione tra diritto di natura e legge positiva (con la necessità del primo) ritorna in altri pensatori. Per tutti ricordiamo Spinoza[51].

Ciò stante occorre ripartire da quella considerazione di Hauriou, secondo il quale il diritto naturale non è tanto una collezione di precetti di giustizia, quanto un corpo di diritto (corps de droit) costituito insieme di ordine sociale e di giustizia[52]. Anche in questo è ravvisabile la concezione cristiana dell’ordine, naturalmente gerarchico[53]: se questa non trascura la giustizia (quae sint imperia sine justitia nisi magna latrocinia?), la colloca sempre nel quadro di un’esistenza ordinata.

Ma non ordinata (solo) dalla legge positiva: ordinata perché conforme all’ordine sociale qui naturam sequitur, proprio perciò inderogabile (o, in pochi casi, derogabile a proprio danno e per durata limitata)[54].

Per cui è d’uopo applicare, in difetto di scriptura, la ratio a quelle “leggi” dell’ordine sociale che sono costitutive di comunità ordinate e proprio perché tali non sono derogabili “positivamente”, ma anzi determinano esse ciò che può essere disposto dalla legge positiva, compresa quella costituzionale.

Di più: la stessa costituzione positiva (cioè quella statuita) deve interpretarsi in modo conforme a quella, e il senso delle disposizioni (positive) non può derogarvi: ad esempio ritorniamo sulla massima salus rei publicae suprema lex.

Interpretare le norme costituzionali in modo che, per l’appunto, mettano in forse l’unità e l’esistenza politica non costituisce, come prima cennato, un’interpretazione valida né, comunque, solida: perché, come scriveva Jhering “al di sopra del diritto è la vita” per cui, nelle situazioni d’emergenza “la forza sacrificherà il diritto per salvare la vita”[55]. E un concetto assai simile è espresso da Santi Romano con la sua teoria delle necessità. E si potrebbe aggiungere anche da Manzoni che lo fa esprimere da Adelchi morente “Una feroce forza il mondo possiede, e fa nomarsi dritto”.

E la ratio in tal caso non è una scelta obbligata solo dall’assenza di scriptura; lo è anche perché gran parte di quelle “leggi” non sono frutto di decisione (e di volontà) umana, ma di necessità, a meno di non volere – il che (raramente) succede – la distruzione dell’unità politica e/o dell’ordine sociale della comunità[56].

Quindi nell’espressione – presa a mo’ d’esempio e su cui è d’uopo ritornare – salus reipublicae suprema lex la sapienza romana affermava anche l’essenza giuridica di quella massima. Al contrario di quei giudizi (a quella contrapposti) che tendono a escludere dal mondo giuridico massime e regole non riconducibili a “norme” o a “leggi positive”.

A far l’analisi delle quali si potrebbe affermarne la coerenza ai presupposti da cui partono: se si pensa invero che il diritto sia riducibile (solo) a norme statuite (poste in essere) da organi competenti in base a regole prestabilite, massime come quella, non statuite da alcun organo competente, sono fuori del diritto. Ove, di converso, si prenda come fondamento del diritto l’istituzione, è chiaro che quella massima è giuridica, e al massimo grado, perché tende alla salvaguardia dell’istituzione cioè, secondo il notissimo paragone della scacchiera di Santi Romano, del giocatore che muove le pedine (le norme) sulla scacchiera. Per cui queste sono determinate, “derivate” e “secondarie” rispetto a quella che è la principale e primaria “essenza” del diritto.

A costituire l’istituzione e mantenerla (in suo esse perseverare) è il rispetto (e l’attivazione) di massime come quella: mentre hanno un carattere secondario, spesso non costituente alcunché, e talvolta di rilievo decisamente marginale non poche delle norme inserite nei testi costituzionali. All’uopo è istruttivo leggere le sentenze della Corte Costituzionale la quale, come giudice costituzionale, con quotidiana frequenza, per proprio compito, ha la funzione di verificare la conformità alle norme costituzionali (intese generalmente come diritto statuito e scritto) di quelle legislative.

Ne esce fuori una rassegna di decisioni che con l’esistenza, la forma, il tipo dell’unità politica non hanno nulla a che vedere.

Possiamo ricordare, limitando la ricerca, per ragioni di spazio, agli ultimi tre anni, che la Corte si è occupata del “diritto di precedenza dei lavoratori stagionali nelle assunzioni presso la medesima azienda e con la medesima qualifica” (Corte Cost., 04/03/2008, n. 44): ovvero dei requisiti del personale dei gruppi consiliari della Regione Abruzzo: “È incostituzionale l’art. 1, 22º comma l.reg. Abruzzo 8 giugno 2006 n. 16, nella parte in cui, abrogando le parole «in possesso dei requisiti per l’accesso alla categoria D» nell’art. 6, 3º comma, l.reg. Abruzzo 9 maggio 2001 n. 18, prescinde, per l’assegnazione della qualifica di responsabile delle segreterie dei gruppi consiliari e con riguardo ai soggetti esterni all’amministrazione, dal possesso dei suddetti requisiti, richiesti invece per i dipendenti interni” (Corte cost., 21/02/2008, n. 27), del registro regionale (marchigiano) degli amministratori di condominio “Sono incostituzionali gli art. 2, 1º comma, e 3, 1º e 3º comma, l.reg. Marche 9 dicembre 2005 n. 28, nella parte in cui prevedono l’istituzione, presso la struttura competente della giunta regionale, del registro regionale degli amministratori di condominio e di immobili in cui possono iscriversi coloro che siano in possesso di determinati requisiti professionali” (Corte cost., 02/03/2007, n. 57) e del personale in esubero da inserire nei ruoli del S.S.N. (regione Marche): “Sono incostituzionali gli art. 1, 2 e 3 l.reg. Marche 24 febbraio 2004 n. 4, nella parte in cui disciplinano l’inserimento nei ruoli del ssn del personale, già assunto con contratto a tempo indeterminato da unità operative o strutture sanitarie private, che risulti in esubero a seguito dei processi di riconversione o disattivazione o soppressione delle predette unità e strutture” (Corte cost., 10/05/2005, n. 190).

E così via: quanto sopra citato è una minima parte della minutaglia che costituisce il lavoro quotidiano della Corte Costituzionale.

Viene naturale la domanda: cos’ha di costituzionale il registro degli amministratori di condominio o gli esuberi del personale delle cliniche marchigiane (e così via)? È chiaro che la ragione di tanto lavoro è soltanto la presenza nel testo della Costituzione di molte norme che hanno il carattere (e la rigidità) di legge costituzionale, ma “costituiscono” poco o niente.

E il ragionamento si può fare anche partendo dall’altro corno del dilemma: quante sono le sentenze della Corte in cui ci si occupa delle decisioni politiche fondamentali (nel senso di “costituire” le forme e il tipo dell’unità politica)? Praticamente (quasi) nessuna. Più si sale verso il fondamento, il nocciolo duro della forma politica, più gli interventi della Corte Costituzionale si rarefanno: ad avvicinarsi, e nemmeno tanto, all’Empireo, cessano del tutto.

Per cui, come sopra cennato è giuridica nel senso ricordato in primo luogo quella massima – ed altre consimili -, come implicito in quel suprema lex: suprema proprio perché superiore a tutte le altre. E la cui superiorità è comprovata non solo dalla possibilità – anzi dal dovere – di “rompere la costituzione”, o di derogare e sospendere il diritto positivo (anche non costituzionale) ove lo richieda la salvezza dello Stato ma dal fatto che in base a quella suprema lex l’istituzione richiede, nei casi d’urgenza, anche il sacrificio della vita: quel “sacro dovere” che anche nella vigente Costituzione (statuita), l’art. 52 prescrive.

Il fatto che principi come quello siano considerati meta – o pre-giuridici – è condivisibile solo in parte. Vale per concetti e massime del genere quel che si può affermare della sovranità: che è, a un tempo, esterna ed interna al diritto, vi “partecipa”. Se, come scriveva von Seydel “il volere sovrano è sempre un volere sopra lo Stato, non un volere dello Stato”, è pur vero che una volta voluto, diventa volere dello Stato e perciò diritto. Per ragioni analoghe Kant sosteneva che “il sovrano nello Stato ha verso i sudditi soltanto diritti e nessun dovere (coattivo)[57], per cui c’è un rapporto giuridico tra l’uno e gli altri, per cui il primo ha solo diritti e i secondi solo doveri. Il sovrano è così il punto d’Archimede dell’ordinamento giuridico; e la massima salus rei publicae… è la clausola “costitutivo-conservativa” in virtù della quale la protezione dell’esistenza (collettiva) prevale sulla legislazione positiva, anche costituzionale. Coincidendo, secondo Santi Romano il concetto d’istituzione con quello d’ordinamento, questa clausola è così giuridica, perché costitutivo-conservativa dell’esistenza della comunità organizzata, politicamente e giuridicamente, nell’istituzione.

Scriveva von Seydel, quanto alla massima suddetta “Questo limite del volere sovrano però non è giuridico, poiché il diritto comincia soltanto dal sovrano, ma naturale, ossia derivante dalla natura della sovranità stessa. Tosto quindi che la volontà del sovrano oltrepassa questi suoi limiti naturali, diventa egoistica (tirannia, governo di classe) e si mette in contraddizione con gli interessi collettivi dei cittadini, essa distrugge la base dello Stato, e incorre in contraddizione con la sua propria natura[58]. Quindi la massima suddetta è “di diritto naturale” (come affermava – in termini simili – Spinoza); ma è anche un comando giuridico, almeno, nei confronti dei poteri costituiti – tra i quali quelli che hanno il potere d’interpretare la Costituzione.

Per cui non pare possibile ridurre l’interpretazione della costituzione a quella del diritto scritto (legislativo). L’interpretazione del quale, è (fondamentalmente) quella prescritta dall’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale: norma che per l’appunto è pensata per un diritto scritto, statuito (e in larga misura codificato): ma è proprio perciò di applicazione assai difficile quando non si tratta di esegesi di testi, ma di principi, massime, usi, non codificati in un testo e – in larga misura – neppure codificabili.

Ove se ne espunga la parte non-scritta, il risultato è un’interpretazione spesso non solo fallace, ma anche inutile, perché inidonea a comprendere il senso del diritto “vivente”, espresso nell’istituzione statale.

Si può rivolgere a una tesi del genere la critica analoga a quella rivolta alla teoria normativista: che riducendo l’interpretando e interpretabile al normativo “se ne perde per strada, per così dire, qualche pezzo troppo importante per essere trascurato”[59].

E che questi, come scriveva Lassalle, siano dei bei pezzi di costituzione, anzi la maior pars, non appare dubbio: a conferma della terza tesi (sopra citata) di de Maistre.

La contraria tesi, molto frequentata è conseguente all’identificazione tra diritto e norma, e di norma intesa come comando statuito: per cui essendo (quasi) tutto il diritto statuito, si identifica questo con quello, cioè la parte con il tutto. Come scriveva Max Weber il potere (razionale-legale) poggia su certi presupposti, tra cui “che ogni diritto sia nella sia essenza un cosmo di regole astratte, e di norma statuite di proposito, che la giurisdizione costituisca l’applicazione di queste regole al caso particolare”. Se questo è vero, in particolare per un diritto moderno (meglio ancora se codificato) tuttavia non lo è, o non lo è altrettanto, né per il diritto (in genere) né, anche nella tarda modernità, per il diritto costituzionale.

Ciò non toglie che, proprio perciò, la problematica che si apre a non seguire la tesi riduttivistica che vede nella costituzione solo un insieme di norme “rigide” (o “meno flessibili”), è ampia.

Infatti interpretare norme (scritte) è sicuramente più agevole, e supportato da una notevole – spesso bimillenaria – dottrina (e pratica) che ha elaborato regole, topoi, “norme di chiusura” e quant’altro; lo è assai meno “interpretare” qualcosa che non è scritto, non è statuito e non ha quasi sempre forma normativa. In fondo è stato visto con ragione che “una forma è necessaria per l’esistenza di una norma”[60].

E, nella specie, di “forma”, intesa in quel senso, c’è poco o nulla. Il positivismo classico si reggeva sulla concezione di un ordinamento di norme positive statuite da organi competenti, la cui volontà formalmente espressa era riferibile – mediatamente – a quella del sovrano. Tutte cose che mancano – per lo più – nel caso delle massime e dei presupposti essenziali o fondamentali. Per capire i quali bisogna partire da metodi, modi e regole – in gran parte – diversi.

Il che è il tema della seconda parte di questo scritto.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] V. C. Mortati voce Costituzione (dottrine generali): “Se l’essenza della costituzione è da riporre, come si è visto, nei valori coessenziali alla forma di Stato, da essi anzitutto l’interpretazione dovrà attingere l’aspirazione necessaria a determinare l’esatto significato dei principi consacrati nel testo, a graduarli secondo il diverso rilievo da assegnare a ciascuno, ad individuare quelli che, se pure non formulati espressamente, sono tuttavia impliciti perché presupposti da singoli gruppi di norme o ricavabili dal sistema, che appunto deve essere ricostruito muovendo dalla considerazione dei valori predetti. La pretesa di esaurire nella costituzione scritta l’intero sistema si è rivelata sempre più illusoria, e sempre più manifesto è apparso il bisogno di attingere da fonti extratestuali gli elementi necessari a fare abbracciare la totalità di vita sociale unificata dalla costituzione nel senso materiale che si è illustrato.” in Enciclopedia del diritto, vol. XI, p. 181.

[2] In effetti il testo dell’art. 1 della Costituzione vigente, decidendo che la sovranità appartiene al popolo, enuncia (implicitamente) che gli compete anche il potere costituente come, e contrario sensu che questo non spetta ad alcun potere costituito diversamente da come è – o meglio era- ad esempio, nelle monarchie assolute.

[3] Oltre che per l’altra ragione, desumibile da Hobbes, che se ci fosse un giudice in grado di statuire sulla legalità dell’esercizio del potere costituente, a essere “titolare” di questo sarebbe esso e non il “popolo” o la “nazione”.

[4] Diverso, in parte, è il caso della common law e del vincolo al precedente:

[5] Per cui vedi la “classica” esposizione di Carl Schmitt nella Verfassungslehre, trad. di A. Caracciolo, Milano 1984 p. 35 e ss.

[6] Essai sur le principe génerateur des costitutions politiques et des autres institutions humaines, trad. it. a cura di Roberto De Mattei, Milano 1975, p.33.

 

[7] Op. cit. pag. 40 (i corsivi sono nostri).

[8] Op. cit. pag. 52 (i corsivi sono nostri).

[9] Verfassung und verfassungsrecht, trad. it., Milano 1988, p. 150.

[10] Op. loc. cit.

[11] Op. cit. p. 38.

[12] Op. cit., p. 39.

[13] Op. cit., p. 40.

[14] Op. cit., p. 41 e “Di fronte a questa decisione esistenziale tutte le regolamentazioni normative sono secondarie”.

[15] Op. loc. cit..

[16] Op. cit., p. 42-43.

[17] Op. cit., p. 43 e prosegue “Le altre normative, le enumerazioni e le delimitazioni delle competenze nei singoli dettagli, le leggi, per le quali per motivi determinati è scelta la forma della legge costituzionale, sono di fronte a quelle decisioni relative e secondarie; la loro particolarità esteriore è caratterizzata per il fatto che possono essere rimosse o modificate soltanto con il procedimento di modificazione aggravata dell’art. 76”.

[18] V. La garantie jurisdictionnel de la Costitution, trad.it. (dal testo francese) ne La Giustizia Costituzionale, Milano 1981 pp.189 ss. e prosegue  “il limite tra queste disposizioni e le tradizionali disposizioni sul contenuto delle leggi che si rinvengono nelle dichiarazioni dei diritti individuali scompare facilmente e non è quindi impossibile che un tribunale costituzionale, chiamato a decidere sulla costituzionalità di una legge, l’annulli perché è ingiusta, essendo la giustizia un principio costituzionale che esso deve conseguentemente applicare. In tal caso però il potere del tribunale  dovrebbe essere considerato semplicemente intollerabile: La concezione della giustizia  della maggioranza dei giudici di questo tribunale potrebbe contrastare del tutto con quella della maggioranza della popolazione e contrasterebbe evidentemente con quella del parlamento che ha voluto la legge”; per evitare un simile spostamento di potere (dal Parlamento al Giudice costituzionale) “un organo estraneo e che può diventare il rappresentante di forze politiche ben diverse da quelle che si esprimono nel parlamento, la costituzione deve, specie quando crea un tribunale costituzionale, astenersi da questa fraseologia e, se intende porre  principi relativi al contenuto delle leggi, li deve formulare nel modo più preciso possibile”. ( I corsivi sono nostri).

[19] Principi di diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 5.

[20] Op. cit., p. 2.

[21] Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, pp. 338-339.

[22] V. Der drang zur Verfassungsreform, trad. it. di C. Geraci ne La giustizia costituzionale, cit. p. 49; e prosegue: “Se la richiesta di modifica della costituzione cresce a tal punto che non può essere ulteriormente accantonata, è certo un segno che c’è stato uno spostamento di forze che cerca di esprimersi sul piano costituzionale”; le tesi di Lassalle sono esposte nello scritto Über Verfassungswesen, trad. it. di C. Forte in Behemoth n. 20, pp. 5-14.

[23] V. G. De Vergottini, voce Costituzione in Dizionario di politica. Tale principio è in grado “di garantirne l’unità in sede di valutazione interpretativa delle norme esistenti e di completarne le lacune, di permettere di individuare i limiti della continuità e dei mutamenti dello Stato tenendo conto della medesima come parametro di riferimento. Sono dunque i principi costituzionali sostanziali cui si fa cenno che rivestono un ruolo essenziale per la comprensione di una costituzione”.

[24] L’ordinamento giuridico, rist. Firenze 1967, p. 27; e poco prima scrive “È stato detto più volte che è possibile concepire un ordinamento, che non faccia posto alla figura del legislatore, ma solo a quella del giudice. Ed è ripiego, suggerito dalla nostra mentalità moderna, ma non corrispondente alla realtà, il dire che in questo caso il giudice, nel medesimo tempo in cui decide il caso concreto, pone la norma che presiede al suo giudizio. La verità è, invece, che questo può essere determinato dalla c.d. giustizia del singolo caso, dall’equità o da altri elementi che sono qualche cosa di ben diverso dalla norma giuridica vera e propria, che, per sua natura, concerne una serie o classe di azioni ed è quindi astratta e generale. Se così è, il momento giuridico, nell’ipotesi accennata, deve rinvenirsi, non nella norma, che manca, ma nel potere, nel magistrato, che esprime l’obiettiva coscienza sociale, con mezzi diversi da quelli che son propri di ordinamenti più complessi e più evoluti”.

[25] V. “non sembra che si possa sperare di costruire una teoria normativista nella quale la gradazione tra norme si possa dedurre unicamente dai caratteri propri e dalla natura intrinseca di ciascuna delle specie di norme che sono destinate a succedersi” perché “la gradazione delle norme, non proviene dal grado di qualità inerente a ogni specie di norma presa in sé, ma dal grado di potere degli organi o delle autorità da cui la norma è stata emanata, dalla funzione esercitata o dall’atto compiuto. In altri termini, il percorso graduale e successivo che si osserva nella elaborazione del sistema di norme dello Stato moderno non ha la sua causa primaria nella gradazione, naturale o logica, delle norme stesse considerate nel rapporto che collega le une alle altre, ma per gradazione di norme bisogna intendere una gradazione che ha la sua causa effettiva nelle considerazioni organiche alle quali è sottomessa, secondo l’ordine giuridico positivo, la formazione del diritto” ne La teoria gradualistica del diritto, Milano 2003, p. 35.

[26] V. sul punto in particolare Die Diktatur a cura di A. Caracciolo, Roma 2006, pp. 243-303.

[27] “Il diritto non è quanto di più elevato vi sia al mondo, non è fine a se stesso, ma è soltanto un mezzo diretto ad un fine, ed il suo fine ultimo è l’esistenza della società” e “al di sopra del diritto è la vita; e se la situazione concreta è quella da noi ipotizzata – cioè una situazione di emergenza politica riducibile all’alternativa: o il diritto  o la vita – non vi possono essere dubbi sulla decisione da prendere: la forza sacrificherà il diritto per salvare la vita” Der Zweck im Recht, trad. it., p. 148.

[28] Op. cit, p. 186.

[29] Op. loc. cit e prosegue “qui il giudizio del politico, dell’uomo di stato e dello storico deve sostituirsi a quello del giurista, che giudica soltanto alla stregua del diritto positivo. Quest’ultimo criterio, infatti, si rivela adatto alle situazioni normali da cui è desunto, ma non è applicabile a situazioni eccezionali per cui non è stato pensato e da cui non può essere applicato. Se non ci si fanno scrupoli nell’usare il termine ‘diritto’ in questo senso, potremmo qui parlare di un diritto eccezionale della storia, che in linea di principio rende praticamente possibile l’esistenza del diritto e, sporadicamente, il riaffiorare della forza nella sua missione e funzione storica originaria, cioè come fondatrice dell’ordinamento e creatrice del diritto”.

[30] Corso di diritto costituzionale, Padova 1934, p. 284.

[31] V. Verfasungslehre, p. 41 ss.

[32] A tale proposito si potrebbe sostenere, applicando criteri e topoi dell’interpretazione della legge, come il brocardo ubi lex dixit voluit, ubi non dixit noluit, che prescrivendo l’art. 139 che la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale, la Costituzione consente di trasformarla in Stato fascista o in repubblica sovietica, o conferire la sovranità all’ONU o agli USA o all’UE anche attraverso procedimenti di revisione costituzionale. La conclusione non regge anche ad applicare il criterio d’interpretazione “sistematica”. Ma decisivo è che il costituente stesso ha presupposto tacitamente che democrazia, sovranità popolare fossero scelte immodificabili nel quadro costituzionale, non foss’altro perché conseguenti non solo dalla costituzione, ma dal potere costituente.

 

[33] Sul che ci permettiamo di richiamare il nostro piccolo lavoro Spunti su logica della reiezione e ragionamento giudiziario ne Il Consiglio di Stato, n. 6-7 giugno-luglio 1983, p. 855 e ss.

[34] O. von Gierke Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien e prosegue “Non rinunciano naturalmente in alcun modo al principio che lo Stato è fondato sul volere divino e che ogni potere viene da Dio: ma lo sviluppano sempre più in un senso che non offre alcun ostacolo alla costruzione esclusivamente giuridico-razionale dello Stato; e quel principio rimane ancora soltanto a significare che la natura e la ragione naturale, e quindi anche i rapporti, i diritti e i doveri su esse fondati, sono in ultima analisi emanazione dell’essenza divina” trad. it. Torino 1974, p. 70.

[35] Sintetizziamo così quanto scrive Carré de Malberg in La contribution à la théorie générale de l’État, Paris 1929, tomo 2°, p. 151.

[36] La tesi di Sieyès è una (nuova) formulazione della tesi di Spinoza che nello stato di natura vale la regola tantum juris quantum potentiae.

[37] “Il diritto costituzionale è perciò, come si vedrà meglio più avanti, il diritto che segna la stessa esistenza dello Stato, il quale comincia ad avere vita solo quando ha una qualche costituzione; gli dà una forma e, per dir così, una determinata fisionomia” e poco dopo “Uno stato «non costituito» in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del corpo” Principii di Diritto costituzionale generale, pp. 2-3, Milano 1947.

[38] C. Mortati, istituzioni di diritto pubblico, Tomo I, Padova 1975, p. 34.

[39] È chiaro che se invece prevale la scelta per i “valori” o la religione o quant’altro – come i briganti del XV secolo, che preferivano il turbante turco alla tiara papale – la comunità, come istituzione ovvero come esistenza organizzata politicamente, cessa di esistere e così la di essa costituzione. Si può sempre decidere per non avere un’esistenza (politica) e l’istituzione che le da forma.

[40] Raggruppiamo sotto tale definizione, momentaneamente, tutto ciò che è accomunato da essere una decisione costituzionale inespressa, ma necessaria.

[41] Anche nel caso delle costituzioni “naturali” cioè formate storicamente, esiste comunque una realtà effettuale che legittimi e mantenga la costituzione, come il consenso dei governati.

[42] E prosegue: “Da questo stesso principio risulta chiaramente che lo Stato non è affatto il volere sovrano, né possiede il volere sovrano, anzi, è diverso da esso. Il volere sovrano è sopra lo Stato, e la soggezione ad esso dà al territorio e al popolo la qualità di Stato. Essi si chiamano Stato soltanto se sono dominati, analogamente come si chiama proprietà la cosa solo quando ha un padrone”, Principi di una dottrina generale dello Stato, (trad. it.) Torino 1902, p. 1155.

[43] Sul che v. Otto von Gierke Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien “Non sono però i singoli che con la loro volontà stabiliscono la sovranità della collettività sopra i propri membri: essi infatti non possiedono inizialmente alcuno dei diritti sorti con la collettività stessa (per es. il diritto di vita e di morte e il vincolo di coscienza), né, volendo l’associazione, possono impedire che essa divenga sovrana. Ma nemmeno è Dio ad attribuire, con un atto particolare alla collettività (come al Papa), la sovranità, pur essendo, in qualità di «primus auctor», la fonte di ogni potere. Il potere sovrano spetta piuttosto ad essa «ex vi rationis naturalis», e Dio lo concede come «proprietas consequens naturam», «medio dictamine rationis naturalis ostendentis, Deum sufficienter providisse humano generi et consequenter illi dedisse potestatem ad suam conservationem et convenientem gubernationem necessariam». Esattamente come l’uomo, per il fatto solo che è e non appena è, è libero ed è dotato di potere su se stesso e sulle sue membra, così il corpo politico, dal momento che esiste, ha il potere e la sovranità sopra se stesso e di conseguenza sopra i suoi membri”, trad. it, Torino 1974, p. 71.

[44] SANTI ROMANO, Principi di diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 2 ss.

[45] Per un esame delle principali ci permettiamo di rinviare a nostro scritto Note sull’essenza della Costituzione in Behemoth n. 18-19.

[46] G. BURDEAU, Droit constitutionnel et institutions politiques, Paris 1980, p. 68.

[47] V. sul punto C. Mortati in Istituzioni di diritto pubblico, tomo I, Padova 1975, p. 31 in nota “Cfr. ORESTANO, I fatti di normazione nell’esperienza romano-arcaica, Torino 1967, p. 28, che efficacemente definisce «fatti normativi» quelli ai quali, al di fuori di una preventiva posizione di norme regolatrici, valgono, in virtù del loro realizzarsi e stabilirsi, a instaurare o modificare un ordinamento giuridico, nel suo insieme o in singole strutture ponendosi essi stessi fattori determinanti della propria legittimità ed efficacia”.

[48] E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, vol. I, p. 50 ss. citato da V. Marinelli in Dire il diritto, Milano 2002, p. 36.

[49] Ricordiamo S. Roberto Bellarmino in Scritti politici, pp. 233 ss., Bologna 1950 il quale scrive “A questo proposito però son da farsi alcune osservazioni. La prima è questa: il potere politico in generale, cioè non considerato nelle sue forme particolari di monarchia, aristocrazia o democrazia, viene immediatamente soltanto da Dio, poiché è una conseguenza necessaria della natura dell’uomo; perciò viene immediatamente da colui che ha fatto la stessa natura. Inoltre questo potere è di diritto naturale; non dipende infatti dal libero consenso degli uomini: vogliano o non vogliano, gli uomini devono essere governati da qualcuno, a meno che non vogliano che il genere umano vada in rovina; ma ciò è impossibile perché sarebbe contro l’inclinazione della natura… Essendo infatti questo potere di diritto divino, questo diritto non diede il potere a un qualche uomo particolare; lo diede quindi a tutta la moltitudine” e prosegue “lo stesso diritto naturale trasferisce il potere politico della moltitudine a uno o a più individui. La moltitudine infatti non può esercitare essa stessa questo potere, e perciò è obbligata a trasferirlo a uno o ad alcuni pochi individui. Pertanto il potere dei principi, considerato in generale, è esso pure di diritto naturale e divino, e il genere umano, anche se tutti gli uomini in ciò s’accordassero, non potrebbe stabilire il contrario, che cioè non vi fossero principi e capi. La quarta osservazione è questa: le norme particolari di regime politico sono «de jure gentium» e non di diritto naturale, poiché è chiaro che dipende dalla libera volontà della moltitudine stabilire che governi un re o alcuni consoli o altri magistrati; e, se v’è una legittima causa, la moltitudine può mutare un regime monarchico in aristocratico o democratico e viceversa, come sappiamo che è avvenuto a Roma” (i corsivi sono nostri); Suarez scrive “In primis enim requiritur, ut Deus sit causa proxima, sua voluntate conferens talem potestatem. Non enim satis est, ut Deus tanquam prima causa et universalis potestatem tribuat”; perché “nulla est potestas, quae hoc modo non sit a Deo, ut a prima causa, ac proinde immediate in illo genere” per cui “sine ulla prorsus ambiguitate evidentique ratione statui potest quomodo principatus politicus sit immediate a Deo, et nihilominus regibus et senatibus supremis non a Deo immediate, sed ab hominibus commendatus sit. Primo enim suprema potestas civilis per se spectata immediate quidem data est a Deo hominibus in civitatem, seu perfectam communitatem politicam congragatis, non quidem ex peculiari, et quasi positiva institutione, vel donatione omnino distincta a productione tal naturae, sed per naturalem consecutionem ex vi primae creationis eius; ideoque ex vi talis donationis non est haec potestas in una persona, neque in peculiari congrgegatione multarum, sed in toto perfecto populo seu corpore communitatis” v. Defensio fidei catholicae et apostolicae, Lib. III, cap. XI.

[50] Prendiamo l’esposizione che ne fa Schmitt in Politische theologie ora ne Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 62.

[51] “Se, dunque, la potenza per cui le cose naturali esistono è operano è la medesima potenza di Dio, è facile capire che cosa sia il diritto naturale. Infatti, poiché Dio ha diritto a ogni cosa, e poiché il diritto di Dio non è altro che la stessa potenza divina considerata come assolutamente libera, ne segue che ciascuna cosa naturale ha da natura tanto diritto quanta potenza a esistere e a operare: giacché la potenza, per la quale ciascuna cosa naturale esiste e opera, non è altra che la stessa potenza di Dio, la quale è assolutamente libera” in Trattato politico, Torino 1958, p. 160; poco dopo scrive “la natura non si esaurisce nelle leggi della ragione umana, che non hanno riguardo se non alla vera utilità e alla conservazione degli uomini, ma si estende ad infinite altre, che riflettono l’ordine eterno della intera natura, di cui l’uomo è una piccola parte e della cui sola necessità tutti gli individui sono in certo modo determinati a esistere e a operare”; lo stato civile (cioè vivere in società politica) non ripugna alla ragione “lo stato civile è naturalmente istituito al fine di vincere il comune timore e di ovviare alla comune indigenza, e quindi ha appunto di mira ciò che i singoli viventi secondo ragione tenterebbero invano nello stato naturale”; ma lo Stato è soggetto alla legge di natura “poiché le parole legge e contravvenzione riguardano ordinariamente, non soltanto il diritto civile, ma anche le regole comuni di tutte le cose naturali, e in primo luogo della ragione, non possiamo escludere in assoluto che lo Stato sia soggetto alle leggi o che possa ad esse contravvenire. Infatti se lo Stato non fosse soggetto ad alcuna delle leggi o regole, grazie alle quali è quello che è, non sarebbe una realtà naturale ma una chimera” perché “le regole e i motivi di soggezione e di ossequio, che lo Stato deve a propria garanzia conservare, non sono del diritto civile, ma del diritto naturale” (i corsivi sono nostri) op. cit., cap. IV, 4-5.

[52] V. “Il est vrai que le droit naturel est considerée comme plus près de la nature que les droits positifs, naturam sequitur, de là vient son nom; mais quelle est la véritable nature de l’homme et des sociétés, est-ce seulement l’équité dans les relations, n’est-ce point, en même temps, l’ordre dans la structure sociale?op. cit., p. 59.

[53] V. S. Agostino De civitate Dei, lib. XIX, cap. 13: “la pace della città è l’ordinata concordia dei suoi cittadini nel comandare e nell’obbedire; la pace della città celeste è la più perfetta e armoniosa concordia nel gioire di Dio e nel godere vicendevolmente in Dio; la pace di tutte le cose è la tranquillità dell’ordine. E l’ordine è la disposizione degli esseri uguali e disuguali che assegna a ciascuno il posto che gli conviene” (i corsivi sono nostri).

[54] Così se viene meno l’autorità, o se questa è priva dei mezzi per garantire l’ordine sociale, la conseguenza è il venir meno dell’ordine per entrare in una situazione d’anarchia. Il che è non solo contrario alla concezione dell’uomo come zoon politikon, ma è, ancor più, “impossibile” se non come stato di transizione tra due diversi ordinamenti, dato che inevitabilmente, dopo una fase di disgregazione sociale, la naturale tendenza all’ordine ricompone le relazioni e i gruppi umani, anche se in un ordine diverso. L’anarchia, come ideale politico è utopico, dato che da millenni non si vede una società anarchica, se non nelle favole; come situazione sociale è ricorrente, ma transeunte, come parentesi tra due forme di ordine.

[55] Der Zweck im Recht, trad. it., Torino 1972, p. 185 e poco dopo scrive “Abbiamo così individuato il punto in cui il diritto sfocia nella politica e nella storia: qui il giudizio del politico, dell’uomo di stato e dello storico deve sostituirsi a quello del giurista, che giudica soltanto alla stregua del diritto positivo… Se non ci si fanno scrupoli nell’usare il termine ‘diritto’ in questo senso, potremmo qui parlare di un diritto eccezionale della storia, che in linea di principio rende praticamente possibile l’esistenza dei diritto e, sporadicamente, il riaffiorare della gorza nella sua missione e funzione storica originaria, cioè come fondatrice dell’ordinamento e creatrice del diritto”.

[56] Un caso recente è stata la dissoluzione dell’Unione sovietica a seguito dell’implosione del comunismo. Non è in questione – né interessa – la “legalità” della trasformazione dell’URSS in CSI, fondata sull’art. 72 della Costituzione sovietica, riconoscente il diritto di secessione alle repubbliche, anche perché il vero “nucleo” costituzionale dell’URSS era nell’art. 6 della Costituzione per cui il PCUS era “la forza che dirige ed indirizza, la società sovietica, il nucleo del suo sistema politico”; piuttosto il PCUS, come altri partiti comunisti, implose perché non esisteva più la volontà politica di (credere e) sostenere quell’ordine sociale (e relativa unità politica).

[57] E prosegue: “E anche se l’organo del sovrano, il reggitore, agisse contrariamente alle leggi, se per esempio con imposte, reclutamento e simili egli violasse la legge dell’uguaglianza nella divisione degli oneri dello Stato, il suddito può a quest’ingiustizia opporre bensì querela (gravamina), ma nessuna resistenza.

Non può anzi esser contenuto nella costituzione nessun articolo, che renda nello Stato possibile a un potere di opporsi a colui che possiede il comando supremo nel caso che questi trasgredisca le leggi costituzionali: che renda quindi possibile di limitarne il potere” Die Metaphysik der Sitten, trad. it., Bari 1973, p. 149.

[58] Principii di una dottrina generale dello Stato, cit., Torino 1902, p. 1157.

[59] E prosegue “o messo tra parentesi, proprio come una teoria fisica è esposta al rischio di trascurare qualche aspetto della realtà troppo importante per non dover essere spiegato. D’altra parte, chi mi assicura che il mio modello di conoscenza della realtà sia veramente coestensivo alla realtà che voglio spiegare? In altri termini: chi mi assicura che il mio ragionamento spieghi veramente tutto ciò che devo spiegare? La scienza rischia di essere un insieme di proposizioni che, paradossalmente, non fotografa il mondo, ma se stessa: lo scienziato rischia cioè di non vedere altro che il proprio ragionamento, e non la realtà che vuole spiegare. La «verità» significa così soltanto la coerenza ai presupposti di partenza, che peraltro non sono dimostrati, e scompare ogni riferimento alla realtà, per spiegare la quale lo scienziato «puro» ha iniziato a fare scienza. Siamo di fronte a una vera implosione del sistema” v. Ottavio De Bertolis S.I. La metodologia giuridica di Norberto Bobbio in Civiltà cattolica 3687 (2004).

[60] V. V. Gueli  il quale così continua “Tale assioma è così formulato, ad es., dal Regesbelger, (tuttavia in maniera troppo limitata, perché con esclusivo riguardo alle norme legislative): «Una espressione della volontà è indispensabile per l’esistenza della legge e precisamente l’espressione deve consistere nelle parole della legge»; e similmente, da noi, da Alfredo Rocco, (riferendosi però anch’egli alla legge definita come «erklärter Gemeinwille» e dal Carnelutti”, Elementi di una dottrina dello Stato e del diritto, Roma 1959, p. 327.

IL GUARDIANO DELLA (AUGURABILMENTE DEFUNTA) COSTITUZIONE REALE, di Massimo Morigi

IL GUARDIANO DELLA (AUGURABILMENTE DEFUNTA) COSTITUZIONE REALE

 

Di Massimo Morigi

 

Nel momento in cui sto scrivendo questa breve nota, per l’esattezza il pomeriggio di mercoledì 23 maggio 2018, non è dato ancora sapere se il nostro Presidente della Repubblica e banale dicitore in servizio permanente effettivo convocherà al Quirinale il prof. Giuseppe Conte e, dettaglio ancor più importante, alla fine si acconcerà di accettare il molto più sostanzioso e (inquietante dal  punto di vista della massima carica dello Stato) prof. Paolo Savona a guidare lo strategico ministero dell’economia. Si tratta indubbiamente di una penosa situazione di stallo che, per farla breve, non contribuisce certo a livello di pubblica opinione interna ed anche di credibilità internazionale, a dare una buona immagine dell’attuale presidenza della Repubblica (questo  soprattutto per quanto riguarda l’opinione pubblica italiana) e a restituire un profilo minimamente decentemente democratico-rappresentativo del nostro sistema politico, che si deve (o meglio si dovrebbe) confrontare con i grandi agenti strategici internazionali, siano questi altri stati nazionali o agenti strategici di natura privata ma che detengono un potere reale pari o superiore agli stati nazionali. Ma tant’è questo è lo stato dell’arte dell’attuale politica italiana e piuttosto che inveire, cercare quindi di far ascoltare (invano) i nostri modesti ragli al Cielo e sperare che, alla fine, un minimo di buonsenso politico prevalga nella nostra massima carica dello Stato, meglio è analizzare, appunto, con un occhio un po’ più distaccato e reso acuto da una prospettiva logico-teorica e storica, questa misera situazione andando così al di là delle indubbie manchevolezze sia sul piano retorico che sul piano della  più elementare phronesis politica è solito mostrare il capo dello Stato italiano. E quindi per spezzare una lancia a suo favore, bisogna immediatamente dire che nell’attuale comportamento dilatorio il nostro capo dello Stato fa veramente (e giustamente dal suo punto di vista) valere le sue prerogative costituzionalmente garantite, ma non nel senso da lui sostenuto che, in ultima istanza, spetta a lui nominare il Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 92. Cost.: «Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri.»), articolo 92 in cui l’ambiguità del dettato dà ragione a qualsiasi comportamento il Presidente della Repubblica voglia adottare nella specifica circostanza, ma le fa pienamente valere riguardo non a questo ambiguo dettato formale ma riguardo ad un altro articolo della costituzione, l’articolo 11 che, per la sua importanza, citiamo anch’esso per intero: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.» Cosa c’entra l’articolo 11 della Costituzione Italiana con il rispetto delle prerogative del Presidente della Repubblica? Apparentemente nulla: nella sostanza tutto: e diciamo tutto, perché, al di là della retorica sulla Costituzione italiana come la costituzione più bella del mondo, “bellezza” che  retoricamente trova una delle sue massime espressioni nel ripudio della guerra, l’articolo 11 è il riassunto della condizione coloniale dell’Italia dopo il secondo conflitto mondiale, una condizione dove formalmente veniva mantenuta la piena statualità dell’Italia ma dove questa piena statualità non era altro che una fictio iuris perché in Costituzione veniva riconosciuta (ed anzi incoraggiata con retorica pacifista) la possibilità che lo Stato italiano potesse cedere quote della sua sovranità. Il presidente della Repubblica, quindi, ostacolando in tutti i modi l’assunzione delle responsabilità governative da parte delle cosiddette forze populiste e sovraniste, non fa altro che cercare mantenere integro e pienamente vigente il vero nucleo palpitante della nostra Costituzione (che ha giurato di rispettare, e quindi egli col suo comportamento delatorio e ostile verso queste forze non fa altro che fare il suo dovere), vera e propria teleologia costituzionale che dice che l’Italia ha perso definitivamente e per sempre la sua sovranità. Del resto che il nodo della Costituzione scritta italiana nonché di quella materiale sia quello della sovranità (negata e conculcata) ce lo suggerisce non solo la storia del  settantennio postfascista della Repubblica Italiana ma anche quel minimo di logica giuridica che dovrebbe essere impiegata in materia di diritto, e questo minimo di logica giuridica ci suggerisce l’elementare verità che quando disposto dall’articolo 11 in materia di sovranità è, de iure, un processo irreversibile per il semplice fatto che una volta ceduta la sovranità ad un altro soggetto è quest’altro soggetto il detentore della stessa e quindi è impossibile tornare indietro qualora non si sia contenti del comportamento del nuovo detentore della sovranità. In altre parole l’articolo 11 della Costituzione italiana configura la situazione di un patto hobbessiano, dove sì gli uomini conferiscono a un sovrano le loro illimitate prerogative derivategli dal diritto di natura ma questo conferimento, al contrario che nel patto lockiano in cui il sovrano può essere revocato o rovesciato se non compie il suo dovere di difendere e rispettare le libertà  e le proprietà dei sudditi,  non è più reversibile anche se il sovrano, ahimè, si dovesse rivelare un tiranno nemico del popolo. Nel Leviatano recita infatti il patto hobbessiano: «Io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudiine così unita in una persona viene chiamata uno stato, in latino civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano o piuttosto –  per parlare con più riverenza –  di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa». Nel Leviatano l’irrevocabilità del patto è quindi prima di tutto  all’interno della logica stessa di quel tipo di patto, caratterizzato dal fatto che i cittadini non si sono accordati fra loro di nominare un sovrano – come invece in buona sostanza accade in Locke e alla luce di una teleologia del patto stesso legata ai risultati che sarà in grado di conseguire il sovrano –  ma si sono accordati fra loro di cedere la propria sovranità per arrivare alla costruzione del sovrano e logicamente, una volta ceduta la sovranità a favore di un terzo, non è più possibile tornare indietro. Siccome nella realtà dell’articolo 11 l’impossibilità di tornare indietro dalla cessione della sovranità non viene palesemente espressa alla luce di una argomentazione logica (difficilmente si potrebbe farlo in una costituzione, il cui compito è enunciare principi e le principali linee guida dello Stato e non certo di giustificarle in dottrina), potrebbe sembrare che questa digressione hobbessiana sia forse interessante ma forse non pienamente attinente al giudizio che si deve fornire sul comportamento del Presidente della Repubblica nei confronti delle forze populiste e sovraniste che vogliano andare al potere e sul (pietoso) stato della sovranità del nostro Paese. In realtà, oltre che una puntualizzazione logico-giuridica in merito alla irreversibilità de iure del processo della cessione della  sovranità contemplata dall’articolo 11 della Costituzione, la digressione ci consente anche di fare il punto in merito all’attuale stato pietoso dell’attuale scienza politica italiana. Attuale stato pietoso della scienza politica italiana, della cui condizione pensiamo possa essere preso a simbolo il magistero di Gianfranco Pasquino, che riguardo all’articolo 11, con totale cecità e manipolazione storica (e totale ridicola assenza di  ragionamento logico-giuridico) è arrivato a scrivere:  «L’elaborazione della nostra Costituzione è avvenuta nel difficilissimo periodo dei primi anni del dopoguerra e della ricostruzione quando bisognava risollevare il paese sia materialmente che moralmente. Il nostro paese si impegna a partecipare alle organizzazioni internazionali che promuovono la pace e la giustizia fra i popoli. L’impegno che si è assunto la nostra Repubblica, fin dalla sua nascita, è stato di partecipare alla creazione di un ordinamento mondiale più giusto, che potesse esprimere quei valori fondamentali, considerati come cardine della vita democratica. In tale prospettiva, l’Italia aderisce all’Organizzazione delle Nazioni Unite, nel dicembre del 1955. L’ONU, costituitosi ufficialmente il 24 ottobre del 1945 sulla disciolta Società delle Nazioni, ha nel suo statuto, come programma, quello di garantire alle nazioni del mondo, la pace e il progresso della democrazia come pure l’affermazione del rigoroso rispetto per i diritti e le pari dignità di tutti gli stati, sia grandi che piccoli. L’articolo 11 della Costituzione fu scritto e pensato anche per consentire l’adesione dell’Italia all’ONU che richiedeva, come condizione essenziale per tale adesione, che lo stato si fosse dichiarato “amante della pace.” Questo articolo si configura come essenziale anche per l’adesione alla Comunità Europea (1951 – anno di nascita della Comunità Europea e 1957 – Trattato di Roma). Nel preambolo della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata in occasione del Consiglio di Nizza del 7 dicembre 2000, si dichiara che i popoli europei, nel creare tra loro un’unione sempre più stretta, hanno deciso di condividere un futuro di pace fondato su valori comuni. Diversamente da alcune costituzioni di altri paesi europei, l’articolo 11 non ha subito modifiche riguardanti l’inserimento di una esplicita clausola europea. Il mutato ordinamento politico mondiale, dopo la fine della “guerra fredda”, ha portato la comunità internazionale ad un diverso orientamento, volto a legittimare l’intervento, anche militare, nei confronti di stati in cui siano emerse emergenze umanitarie, con palese violazione dei diritti umani. (deportazioni, genocidi, stupri etnici). Tuttavia, le azioni di forza dovrebbero essere sempre condotte sotto l’egida di un’organizzazione internazionale e impedite a quegli stati che decidano l’azione di forza unilateralmente, anche se per fini umanitari.» Gli URL originari di queste perle di wishful thinking e affabulazione mitologica espresse in un linguaggio apparentemente avaloriale, che noi non commentiamo lasciando questo allegro esercizio ai lettori dell’  “Italia e il mondo”, sono https://gianfrancopasquino.com/tag/limitazioni-di-sovranita/ e https://gianfrancopasquino.com/2015/11/19/guerra-e-pace-nella-costituzione-gli-strumenti-per-una-pace-giusta/   (documento  che noi perché queste perle non vengano vanificate dalla volatilità delle fonti internet abbiamo anche provveduto a caricare  presso gli URL https://archive.org/details/LimitazioniDellaSovranita,https://ia601500.us.archive.org/15/items/LimitazioniDellaSovranita/LimitazioniDiSovranitGianfrancopasquino.html,https://archive.org/details/GuerraEPace e https://ia601503.us.archive.org/13/items/GuerraEPace/GuerraEPace.NellaCostituzioneGliStrumentiPerUnaPaceGiustaGianfrancopasquino.html): quello che a noi preme sottolineare con questa citazione è l’attuale pochezza dell’attuale pensiero politologico mainstream (di cui l’illustrissimo professore dello Studio bolognese è uno dei massimi rappresentanti), dove questa (pavida) pochezza è uno dei non minori aspetti in cui storicamente si è dipanata ed evoluta la progressiva perdita di sovranità dell’Italia avvenuta in seguito alla sconfitta militare nel secondo conflitto mondiale e certificata dalla “costituzione più bella del mondo”, in specie attraverso l’articolo 11. In conclusione: tutta la nostra umana simpatia al nostro caro Presidente della Repubblica che col suo comportamento dilatorio ed ostruttivo contro le forze populiste e sovraniste non fa altro che portare doveroso rispetto alle sue prerogative di custode della costituzione scritta e materiale italiana che all’art. 11 implica che progressivamente l’Italia perdendo la sua sovranità sia ridotta a pura colonia ma anche una ancor più grande solidarietà ed incoraggiamento al popolo italiano perché de facto, cioè con tutte le dinamiche conflittuali contemplate da una vitale Res publica, cioè detto in una parola, con la politica, sappia sbarazzarsi di tutti quei veri e propri orrori che de iure non lasciano alcuna via di scampo per la dignità del nostro paese. Con i migliori auguri quindi, oltre che di buona salute e felice vecchiaia, a che il nostro beneamato Presidente della Repubblica continui ad essere il “guardiano della Costituzione” ma di una ormai defunta costituzione, la cui difesa sia ormai affidata solo al suo solito “banale dire” –   in questo supportato dalla grande scienza politica italiana mainstream – e non alle sue augurabilmente sventate e tutt’altro che banali (e deleterie) azioni.

Massimo Morigi – 23 maggio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

 

L’elaborazione della nostra Costituzione è avvenuta nel difficilissimo periodo dei primi anni del dopoguerra e della ricostruzione quando bisognava risollevare il paese sia materialmente che moralmente. Il nostro paese si impegna a partecipare alle organizzazioni internazionali che promuovono la pace e la giustizia fra i popoli. L’impegno che si è assunto la nostra Repubblica, fin dalla sua nascita, è stato di partecipare alla creazione di un ordinamento mondiale più giusto, che potesse esprimere quei valori fondamentali, considerati come cardine della vita democratica. In tale prospettiva, l’Italia aderisce all’Organizzazione delle Nazioni Unite, nel dicembre del 1955. L’ONU, costituitosi ufficialmente il 24 ottobre del 1945 sulla disciolta Società delle Nazioni, ha nel suo statuto, come programma, quello di garantire alle nazioni del mondo, la pace e il progresso della democrazia come pure l’affermazione del rigoroso rispetto per i diritti e le pari dignità di tutti gli stati, sia grandi che piccoli. L’articolo 11 della Costituzione fu scritto e pensato anche per consentire l’adesione dell’Italia all’ONU che richiedeva, come condizione essenziale per tale adesione, che lo stato si fosse dichiarato “amante della pace.” Questo articolo si configura come essenziale anche per l’adesione alla Comunità Europea (1951 – anno di nascita della Comunità Europea e 1957 – Trattato di Roma). Nel preambolo della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata in occasione del Consiglio di Nizza del 7 dicembre 2000, si dichiara che i popoli europei, nel creare tra loro un’unione sempre più stretta, hanno deciso di condividere un futuro di pace fondato su valori comuni. Diversamente da alcune costituzioni di altri paesi europei, l’articolo 11 non ha subito modifiche riguardanti l’inserimento di una esplicita clausola europea. Il mutato ordinamento politico mondiale, dopo la fine della “guerra fredda”, ha portato la comunità internazionale ad un diverso orientamento, volto a legittimare l’intervento, anche militare, nei confronti di stati in cui siano emerse emergenze umanitarie, con palese violazione dei diritti umani. (deportazioni, genocidi, stupri etnici). Tuttavia, le azioni di forza dovrebbero essere sempre condotte sotto l’egida di un’organizzazione internazionale e impedite a quegli stati che decidano l’azione di forza unilateralmente, anche se per fini umanitari.

 

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https://archive.org/details/GuerraEPace

https://ia601503.us.archive.org/13/items/GuerraEPace/GuerraEPace.NellaCostituzioneGliStrumentiPerUnaPaceGiustaGianfrancopasquino.html

Io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudiine così unita in una persona viene chiamata uno stato, in latino civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano o piuttosto – per parlare con più riverenza – di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa…

KKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKK

Perciò il fine grande e principale per cui gli uomini si riuniscono in comunità politiche e si sottopongono a un governo è la conservazione della loro proprietà. A questo fine infatti nello stato di natura mancano molte cose. In primo luogo manca una legge stabilita, fissa e conosciuta. In secondo luogo, nello stato di natura manca un giudice noto e imparziale, con l’autorità di decidere tutte le controversie in base ad una legge stabilita. In terzo luogo, nello stato di natura manca spesso un potere che sostenga e sorregga la sentenza, quando essa è giusta, e ne dia la dovuta esecuzione. Ma, sebbene gli uomini, quando entrano a far parte della società, rinuncino all’eguaglianza, libertà e potere esecutivo che avevano nello stato di natura, per riporre queste cose nelle mani della società, affinché il potere legislativo ne disponga nella misura richiesta dal bene della società, tuttavia, poiché ciascuno fa ciò soltanto con l’intenzione di meglio conservare per se stesso la libertà e la proprietà (dal momento che non si può supporre che nessuna creatura razionale cambi la propria condizione con l’intenzione di peggiorarla), non si può mai supporre che il potere della società, ossia il potere legislativo costituito dai membri della società, si estenda al di là del bene comune; anzi esso è obbligato ad assicurare a ciascuno la sua proprietà, prendendo provvedimenti contro quei tre difetti sopra menzionati, che fanno lo stato di natura cosí insicuro e disagevole. Perciò chiunque abbia il potere legislativo, ossia il potere supremo, di una comunità politica, è tenuto a governare con leggi stabilite e fisse, promulgate e rese note al popolo, e non con decreti estemporanei; deve servirsi di giudici imparziali e giusti, che devono decidere le controversie in base a quelle leggi; deve impiegare la forza della comunità all’interno soltanto per eseguire quelle leggi, o all’esterno per prevenire o riparare torti provocati da stranieri, e assicurare la comunità da incursioni e invasioni. E tutto ciò deve essere diretto a nessun altro fine, se non alla pace, alla sicurezza e al bene pubblico del popolo.

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GUERRA E PACE. Nella Costituzione gli strumenti per una pace giusta

NOVEMBRE 19, 2015 8:00 AM / 1 COMMENTOSU GUERRA E PACE. NELLA COSTITUZIONE GLI STRUMENTI PER UNA PACE GIUSTA

 

Il testo che pubblichiamo è il commento all’art. 11 della Costituzione italiana scritto da Gianfranco Pasquino per il suo libro La Costituzione in trenta lezioni (UTET, fine gennaio 2016)

 

La vita della maggioranza dei Costituenti italiani era stata segnata da due guerre mondiali e dall’oppressione del regime fascista nato sulle ceneri della Prima Guerra Mondiale e pienamente responsabile della partecipazione alla Seconda. In nome di un nazionalismo malposto e esasperato, il fascismo aveva causato enormi danni all’Italia entrando in una guerra di conquista e perdendola con il sacrificio di molte vite e della stessa dignità nazionale. L’art. 11 è il prodotto di una riflessione sull’esperienza storica, non soltanto italiana, e del tentativo di porre le premesse affinché sia bandito qualsiasi ricorso alla guerra ‘come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali’. Il ripudio, questo è il termine usato nell’articolo, è, al tempo stesso rinuncia e condanna della guerra, più precisamente di esplicite guerre di offesa e aggressione. Il ripudio della guerra non è in nessun modo interpretabile come l’espressione di un pacifismo assoluto e, il seguito dell’articolo lo dice chiaramente, neppure come neutralismo. Al contrario, per assicurare ‘la pace e la giustizia fra le Nazioni’, l’Italia dichiara la sua disponibilità a limitazioni di sovranità e a promuovere e favorire ‘le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo’. Naturalmente, la Costituzione riconosce che lo Stato italiano mantiene il diritto di difendere, anche con il ricorso alle armi, il suo territorio e la sua popolazione. Tuttavia, qualsiasi reazione militare deve essere proporzionata alla sfida e non deve sfociare in nessuna conquista territoriale. Coerentemente, neppure le azioni militari condotte sotto l’egida delle organizzazioni internazionali debbono mirare a e tantomeno possono concludersi, per uno o più dei partecipanti, con guadagni territoriali, ai quali l’Italia ha l’obbligo costituzionale e politico di opporsi.

Le limitazioni alla sovranità italiana derivano dall’adesione, deliberata e approvata dal Parlamento, a tutte le organizzazioni internazionali, ma, in particolare, per quello che attiene alla guerra (e alla pace), alla NATO, alle Nazioni Unite e all’Unione Europea. In seguito alla sua adesione, l’Italia si è impegnata a partecipare alle attività decise in ciascuna di quelle sedi, quindi anche ad attività che implichino il ricorso ad azioni di natura militare. Talvolta, queste azioni sono problematiche poiché in non pochi casi vanno contro il principio di non ingerenza negli affari interni di uno o più Stati. Il principio guida di questa giustificabile ingerenza è dato dai rischi e dai pericoli ai quali sono effettivamente esposte le popolazioni di quegli Stati ovvero una parte di loro. Le missioni militari ‘umanitarie’, a favore delle popolazioni, alle quali l’Italia ha il dovere di prendere parte, sono quelle deliberate nelle organizzazioni internazionali, in modo speciale, l’ONU e, quando è minacciata l’indipendenza e l’integrità di uno Stato membro, la NATO. Possono avere una durata indefinita nella misura in cui servono ad alcuni popoli e ad alcuni governanti per costruire le strutture statali indispensabili alla difesa contro pericoli esterni e alla creazione di ordine politico interno rispettoso dei diritti civili e politici dei cittadini.

Nel secondo dopoguerra, in particolare, dopo la caduta del muro di Berlino, si sono moltiplicate le occasioni, da un lato, di oppressione delle loro popolazioni ad opera dei rispettivi dittatori, dall’altro di vere e proprie guerre civili, soprattutto nel Medio-Oriente e in Africa, ma anche nei Balcani. Seppure con qualche controversia interna, tutte le volte che l’Italia è stata chiamata in causa ha risposto positivamente in applicazione degli impegni e dei compiti derivanti dalla sua appartenenza all’ONU e alla NATO. Naturalmente, la valutazione della efficacia, dei costi e degli effetti, e della costituzionalità dell’attività delle missioni militari italiane all’estero e della eventuale necessità di una loro prosecuzione rimane nelle mani del Parlamento.

Che la pace, duratura e giusta, che non significa mai puramente e semplicemente assenza di conflitto armato, possa essere conseguita soltanto fra regimi democratici, lo scrisse memorabilmente il grande filosofo illuminista prussiano Immanuel Kant nel suo breve saggio Per la pace perpetua (1795). In un certo senso, questo obiettivo di pace è stato perseguito anche dall’Unione Europea delle cui organizzazioni l’Italia ha fatto parte fin dall’inizio (1949). Nel 2012 all’Unione Europea è stato attribuito il Premio Nobel per la pace con la motivazione di avere effettuato grandi ‘progressi nella pace e nella riconciliazione’ e per avere garantito ‘la democrazia e i diritti umani’ nel suo ambito che è venuto allargandosi nel corso del tempo fino a ricomprendere ventotto Stati-membri. A sua volta ognuno degli Stati-membri dell’Unione Europea deve avere e mantenere un ordinamento interno democratico e deve accettare le limitazioni di sovranità che conseguono alla sua adesione all’Unione. Preveggente, l’art. 11 della Costituzione mette la parola fine al nazionalismo, non soltanto bellico, ma autarchico e isolazionista, aprendo la strada a molteplici forme di collaborazione internazionale e sovranazionale che costituiscono la migliore modalità per garantire la pace nella giustizia sociale.

Pubblicato il 18 novembre 2015

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OLTRE SESSANTA E LI DIMOSTRA, di Teodoro Klitsche de la Grange

SESSANTA E LI DIMOSTRA

  1. Il 14 agosto 1941 ad Argentia nella baia di Placentia (Terranova) si incontravano il premier Winston S. Churchill e il presidente Franklin D. Roosevelt. Al termine dei lavori ritennero opportuno render noti taluni principi comuni della politica dei rispettivi Paesi, sui quali essi fondavano le loro speranze per un “più felice avvenire del mondo”. In particolare il terzo principio era il seguente “Essi rispettano il diritto di tutti i popoli a scegliersi la forma di governo sotto la quale intendono vivere; e desiderano vedere restituiti i diritti sovrani di autogoverno a coloro che ne sono stati privati con la forza”.

Tale dichiarazione è evidentemente rispettosa dell’autodeterminazione e della sovranità dei popoli: si riconosce il diritto a scegliersi la forma di governo; si auspica che tale diritto possa esercitarsi anche da coloro cui è stato sottratto con la forza.

Il tono muta decisamente con le dichiarazioni della conferenza di Yalta, nel febbraio 1945, pochi mesi prima della fine della guerra mondiale, quando buona parte dell’Europa già occupata dalla Germania era già stata liberata dagli alleati. Nella Dichiarazione sull’Europa liberata, (uno degli accordi raggiunti a Yalta) infatti si può leggere: “Il Premier dell’URSS, il Primo Ministro del Regno Unito e il Presidente degli Stati Uniti d’America si sono tra loro consultati nel comune interesse dei popoli dei propri rispettivi Paesi e di quelli delle Nazioni dell’Europa liberata. Durante il temporaneo periodo di instabilità che attraverserà l’Europa liberata essi dichiarano di aver congiuntamente deciso di uniformare le politiche dei loro tre Governi al fine di dare assistenza ai popoli liberati dalla dominazione della Germania Nazista e ai popoli degli stati satellite dell’Asse Europeo al fine di risolvere con strumenti democratici i loro pressanti problemi politici ed economici.

Il ristabilimento dell’ordine in Europa e la ricostruzione della vita economica nazionale dovranno essere raggiunti attraverso processi che permettano ai popoli liberati di distruggere ogni traccia di Nazismo e Fascismo e di creare proprie istituzioni democratiche. Questo principio contenuto nella Carta Atlantica, sancisce il diritto di tutti i popoli di scegliere liberamente la forma di governo che desiderano e riafferma la necessità di ripristinare il diritto alla sovranità per quelli che ne sono stati privati con la forza.

Per creare le condizioni nelle quali i popoli liberati possano esercitare questi diritti, i tre Governi, qualora fosse necessario, offriranno assistenza per:… Istituire delle autorità di governo provvisorie largamente rappresentative di tutti i settori democratici della società civile che si impegnino nel più breve tempo possibile e attraverso libere elezioni, a costituire dei Governi che siano espressione della volontà popolare;

Nel momento in cui, secondo l’opinione congiunta dei tre Governi, le condizioni di uno degli Stati Europei liberati o di quelli satelliti dell’Asse Europeo imponessero di intervenire, i suddetti tre Governi si consulteranno immediatamente tra loro per stabilire le misure necessarie da adottare e adempiere così agli obblighi previsti da questa dichiarazione.

Con tale dichiarazione intendiamo riaffermare la nostra fiducia nei principi contenuti nella Carta Atlantica, il nostro impegno a rispettare quanto stabilito nella Dichiarazione delle Nazioni Unite e la nostra determinazione a costruire in collaborazione con le Nazioni amanti della pace, un mondo in cui siano garantite legalità, sicurezza, libertà e benessere”; seguono le disposizioni per lo smembramento della Germania, sui risarcimenti, sui criminali di guerra, su alcuni Stati europei e sul Giappone. Di particolare interesse è una delle disposizioni relativa alle future elezioni in Polonia “Il Governo Provvisorio di Unità Nazionale dovrà impegnarsi ad indire al più presto libere elezioni a suffragio universale e a scrutinio segreto. Per tali elezioni tutti i Partiti democratici e anti-Nazisti avranno diritto a presentare liste di propri candidati”.

  1. Il significato di tale Dichiarazione, in cui si sottolinea la continuità rispetto alla Carta Atlantica, è in effetti assai differente e, in molti punti, opposto a quella[1].

In primo luogo, e seguendo l’ordine della Dichiarazione, i (prossimi) vincitori si presentano come curatori-interpreti dell’interesse dei popoli dell’Europa liberata. Nella realtà politica – e del rapporto politico – chi cura un interesse altrui è il protettore del tutelato e, per il “rapporto hobbesiano”, ha diritto all’obbedienza. Una enunciazione apparentemente “neutra” e benevola sottende ed esprime una realtà inquietante. Che si rivela già nel periodo successivo dove ai popoli europei si promette assistenza per risolvere con “strumenti democratici” i loro problemi: il che significa negarla a chi ne persegue la soluzione con strumenti – a giudizio delle potenze vincitrici – non democratici. Rafforzato ulteriormente nel passo seguente dove si delineano i caratteri e funzioni del “nuovo ordine”: distruggere il Nazismo e creare istituzioni democratiche. Il che è palesemente  in contrasto con quanto segue, che richiama la Carta Atlantica nel diritto dei popoli a scegliere liberamente la forma di governo “che desiderano” e ripristinare “il diritto alla sovranità”. Ma è chiaro che l’uno e l’altro diritto (che sono poi lo stesso, enunciato sotto diverse angolazioni, come scriveva tra i tanti Orlando) ha un senso solo se assoluto  e illimitato: a farne qualcosa di relativo, e limitato, lo si distrugge[2]. Per cui è chiaro che la “sovranità” limitata non è un’invenzione di Breznev all’epoca dell’invasione della Cecoslovacchia, ma aveva un autorevole precedente (e supporto) in questa dichiarazione, dove la libertà di darsi un ordinamento era limitata nei confini disegnati (e imposti) dalle potenze vincitrici.

Le quali si riservavano un diritto d’intervento, ovviamente generico, e illimitato nei presupposti e nel contenuto dei provvedimenti (le misure necessarie); diritto presentato come adempimento “degli obblighi previsti da  questa dichiarazione”: cioè un obbligo a carico di chi l’aveva costituito (un’auto-obbligazione). In realtà quella disposizione delinea la competenza a decidere dello “stato d’eccezione” all’interno degli Stati, ed è così un’attribuzione di sovranità alle potenze vincitrici. Peraltro la dichiarazione sulla Polonia, a meglio chiarire il concetto, prescrive subito che i partiti non democratici e non antinazisti non hanno diritto a presentare liste di candidati. Con queste premesse in pochi anni l’Europa (e non solo) fu tutto un fiorire di costituzioni: Italia (1948), Cecoslovacchia (1948), Bulgaria, (1947) Polonia (1952), Iugoslavia (1946), Albania (1946), Germania occidentale (1949), (e così via).

Anche la non sconfitta Francia sentì la necessità di darsene una, per la verità per motivi più “interni” che per le pressioni dei (veri) vincitori. Questa fioritura costituzionale, ovviamente, aveva meno a che fare con i principi ideali che connotano il potere costituente – in primis di costituire l’espressione della volontà della nazione – che con la necessità di adeguarsi ai nuovi rapporti di forza internazionali (più che interni).

Così capitò, che mentre le nazioni liberate dagli anglosassoni si dettero costituzioni – nella varietà istituzionale – tutte riconducibili ai “tipi” dello Stato borghese e connotate da sistemi pluripartitici, quelle al di là della cortina di ferro, si dettero carte da “socialismo   reale” e sistemi partitici fondati sull’egemonia del partito comunista. Cioè istituzioni, che lassallianamente, riproducevano il colore delle divise degli occupanti. Qualcuno, affezionato all’idea che a far le costituzioni siano (o debbano essere) i giuristi (i quali hanno la più circoscritta funzione di tradurre in regole quei rapporti di forza), ne sottolinea la diversità e varietà delle norme relative. Ma è un’obiezione che conferma la fecondità della distinzione schmittiana tra Costituzione e leggi costituzionali: la prima comprende le decisioni fondamentali e non può non esserci, perché altrimenti lo Stato non esisterebbe e/o non avrebbe capacità di agire (il che è come non esistere); mentre le altre sono per così dire, anche se importanti, accidentali: possono non esserci, o essere le più diverse. Ciò perché, come spiegava Lassalle non sono quella “forza attiva decisiva, tale da incidere su tutte le leggi che vengono emanate … in modo che esse in una certa misura diventano necessariamente così come sono e non diversamente”.

La variabilità di queste e l’invarianza e la “costanza” di quella sono conseguenze del diverso carattere. L’una che attiene alla sostanza e all’essenza del “politico”: comando, obbedienza, pubblico, privato, amico, nemico, in quanto presupposti fondamentali dell’esistenza e dell’organizzazione politica. Le altre, le regole, più o meno importanti ma comunque poco o punto incidenti sul “politico”.

  1. Quando si afferma che la Costituzione italiana è nata dalla Resistenza, si fa un’affermazione vera in astratto, ma errata in concreto.

Che sia vera in astratto lo prova la storia: quasi tutte le “nuove” costituzioni nascono da una crisi, per lo più bellica o in rapporto con una guerra. Non è vero che ogni guerra comporta una nuova costituzione; ma è vero l’inverso che (quasi) ogni costituzione nuova è il risultato e la conseguenza di una guerra.

Quando poi la guerra è civile la percentuale di “innovazione” costituzionale è quasi pari alla totalità. E quindi la resistenza, come qualsiasi guerra civile, avrebbe prodotto la nuova costituzione. Tuttavia, è errato pensare che la causa determinante della Costituzione vigente sia stata la resistenza. Perché in definitiva, vale sempre la tesi di Lassalle, il quale  afferma con dovizia di argomenti che gli “effettivi rapporti di potere che sussistono in ogni società sono quella forza effettivamente in vigore che determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società, cosicchè queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come sono”. “Questi effettivi rapporti di forza li si butta su un foglio di carta, si dà loro un’espressione scritta e, se ora sono stati buttati giù, essi non solo sono rapporti di forza effettivi, ma sono anche diventati, ora, diritto, istituzioni giuridiche, e chi vi oppone resistenza viene punito!”[3] .

E in realtà nel ’45 l’Italia era stata liberata ed era occupata da quasi un milione di armatissimi soldati americani e inglesi (e alleati); di fronte ai quali il potere delle Forze armate nazionali e di qualche decina di migliaia di partigiani era ben piccola cosa. Vale a proposito, occorre ripeterlo, il detto di Lassalle “un re cui l’esercito obbedisce e i cannoni – questo è un pezzo di costituzione”; e anche di potere costituente.

Per cui il fatto che le potenze vincitrici si fossero riservate di intervenire e che tutti quei soldati fossero delle Potenze anglosassoni significava non solo che il potere costituente sarebbe stato esercitato, ma che lo sarebbe stato in un certo senso. Cosa che fu colta, tra gli altri, da un politico realista e acuto come Togliatti: chi non lo capì fece la fine della Grecia, dilaniata da una seconda guerra civile, in cui, ovviamente, la fazione monarchico-legittimista vittoriosa era appoggiata dagli Anglosassoni.

  1. Fino alla fine del secolo XVIII ci si limitava a chiudere la guerra con un trattato che “registrasse” i nuovi rapporti di forza lasciando inalterato l’ordinamento del vinto; dopo la rivoluzione francese è invalso spesso d’imporre al vinto anche l’ordinamento. E con ciò di cambiare la propria costituzione con una nuova, frutto d’imposizione del vincitore. Già così s’esprimeva la mozione La Revellièrè-Lepeaux votata dalla Convenzione nel dicembre 1792, e con la quale s’iniziava, anche teoricamente e programmaticamente, la guerra civile internazionale, che vedeva contrapposti più che Stati contro Stati, borghesi contro aristocratici, giacobini contro cattolici, chaumiéres contro chateaux. Il cui esito comportava la rifondazione dell’ordine concreto del vinto con sostituzione dei governanti, delle istituzioni, delle norme con i modelli imposti dal vincitore. E di cui furono applicazioni le “repubbliche-sorelle” tra cui la nostra cisalpina (e le effimere romana e napoletana). Tale prassi, per la verità contenuta nel periodo post-napoleonico, ha ripreso vigore nel secolo scorso. In modo appena cennato dopo la prima guerra mondiale; del tutto apertamente a conclusione della seconda quando l’esercizio del potere costituente delle nazioni europee liberate e/o sconfitte fu, per così dire, sollecitato dai vincitori. In precedenza la prassi era l’inverso. Un giurista come Vattel nel Droit de gens (1758) già scriveva che “La nazione è nel pieno diritto di formare da se la propria costituzione, di mantenerla, di perfezionarla, e di regolare secondo la propria volontà tutto ciò che concerne il governo”. Questo era in linea con il pensiero pre-rivoluzionario, e, agli esordi, anche di quello rivoluzionario. Per Rousseau la costituzione è il prodotto della volontà della nazione. Polemizzando con le tesi dei privilegiati Sieyès partiva dall’affermazione “La nazione esiste prima di tutto, è all’origine di tutto. La sua volontà è sempre legale: è la legge stessa”: premesso ciò era impossibile che fosse legata da disposizioni preesistenti, anche se costituzionali “Una nazione è indipendente da qualsiasi forma ed è sufficiente che la sua volontà appaia, perché ogni diritto positivo cessi davanti ad essa come davanti alla sorgente e al signore supremo di ogni diritto positivo”. Nella Costituzione giacobina (quella mai applicata, perché chiusa nell’arca di legno di cedro in attesa della fine della guerra) il principio era inserito nella dichiarazione dei diritti: l’art. 28 proclamava solennemente che “un popolo ha sempre il diritto di rivedere, di riformare e di cambiare la propria Costituzione. Una generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni future” ma la prassi delle conquiste rivoluzionarie e poi napoleoniche era l’inverso: gli Stati-satelliti si davano degli ordinamenti ricalcati su quello francese. Ciò che era ovvio per la Nazione francese, non lo era per le altre. Kant, nel trattare del nemico ingiusto, scrive che il diritto dei vincitori non può arrivare “fino a dividersi tra loro il territorio di quello Stato e a fare per così dire sparire uno Stato dalla terra, perché ciò sarebbe una vera ingiustizia verso il popolo che non può perdere il suo diritto originario a formare una comunità; si può invece imporgli una nuova costituzione, che per la sua natura reprima la tendenza verso la guerra”[4]; ma pur ammettendo il diritto ad imporre la costituzione, nulla esplicitamente afferma sul potere costituente[5].

In effetti, nel pensiero di Kant sembra che ciò non possa escludersi: quando, scrive, ad esempio, “deve pur essere possibile al sovrano cambiare la costituzione esistente”[6]; è chiaro che o ha questo diritto o non è più sovrano. Il che è contrario alla concezione kantiana. Anche il passo sopra citato, che il popolo “non può perdere il… diritto…” significa, implicitamente, che conserva il potere costituente. Quindi se pure è, secondo il filosofo di Königsberg, possibile imporre una costituzione al nemico ingiusto, non è lecito impedirgli di cambiarla e sottrarre o limitarne, così, il potere costituente.

  1. Nella realtà la costituzione vigente è il risultato di quella sollecitazione, esternata negli accordi di Yalta, ben sostenuta dall’argomento-principe della sconfitta militare e dalla conseguenziale occupazione.

Si potrebbe obiettare che il procedimento democratico seguito – e l’alta partecipazione alle elezioni della Costituente – hanno attenuato il carattere d’imposizione e legittimato, in certa misura, la Costituzione che ne è conseguita. Anzi si potrebbe aggiungere che la procedura relativa – conclusasi politicamente anche se non giuridicamente, con l’elezione, il 18 aprile 1948 del primo Parlamento – abbia costituito un esempio di applicazione del consiglio di Machiavelli che regola della decisione politica è di scegliere quella che presenta minori inconvenienti[7].

E sicuramente dato il disastro militare e l’occupazione, non esistevano le condizioni per sfuggire (forse per attenuarla sì, a seguire il discorso di V. E. Orlando, sopra ricordato) alla logica degli accordi di Yalta.

  1. Ma in tale materia è importante essere consapevoli che certe scelte sono state in gran parte frutto di necessità (e di imposizione) e non prenderle per quelle che, a una visione giuridica (peraltro parziale e riduttiva), appaiono come scelte (ottime) del “popolo sovrano” il quale, come scriveva Massimo Severo Giamini, è sovrano solo nelle canzonette; e, in quel frangente, forse neppure in quelle. La sovranità implica libertà di scelta: quella non vi era né in diritto – limitata com’era dalle clausole dell’armistizio e del Trattato di pace – e quel che più conta era inesistente di fatto per la sconfitta e l’occupazione militare. Per cui alla Costituzione del ’48, ed alla relativa decisione si può applicare il detto romano per la volontà negli atti annullabili: che, il popolo italiano coactus tamen voluit.

Se quindi la madre della Costituzione fu l’Assemblea Costituente, i padri ne furono i vincitori della Seconda guerra mondiale. Ma se è vero che, a seguir Kant, al nemico ingiusto (e vinto) è consentito imporre la Costituzione, non lo è pretendere (meno ancora consentire) che quella Costituzione, nata in circostanze sfortunate, divenga come le tavole mosaiche, immodificabile come se fosse stata data da Dio, cosa non richiesta neppure da gran parte dei teologi cristiani. Infatti secondo la teologia tomista il potere costituente, la possibilità di darsi determinate forme di Stato e di governo compete al popolo: non est enim potestas nisi a Deo, cui deve aggiungersi per popolum[8].

Per cui, a cercare di comprendere perché sia vista per l’appunto, come il Decalogo la spiegazione può essere data in termini sociologici, richiamandosi a quella concezione di Max Weber per cui al mantenimento di certe tradizioni “possono connettersi degli interessi materiali: allorchè ad esempio in Cina si cercò di cambiare certe vie di trasporto o di passare a mezzi o vie di trasporto più razionali, venne minacciato l’introito che certi funzionari ricavavano dal pedaggio”[9]; ovvero quella ancora più cruda e demistificante di Pareto, per cui certi tipi di argomentazione sono riconducibili a quella classe di residui che chiamò della persistenza degli aggregati, ovvero nella inerzia e resistenza all’innovazione manifestate dai rapporti sociali in atto, che tendono a perpetuarsi nelle stesse forme, regole, relazioni (e fin quando possibile, persone).

Giacché le situazioni e relative decisione politiche, tra cui la normazione costituzionale, sono frutto di certi rapporti di forza (e di potere), ne producono e riproducono di compatibili; tra cui personale politico selezionato sulla base di quelli, è chiaro che sia a questi sgradito un ri-esercizio del potere costituente che metterebbe in discussione quei rapporti, e la stessa classe politica che ne è stata riprrodotta plasmata. La quale, pertanto, si oppone in ogni modo a qualsiasi cambiamento sostanziale della costituzione. Tra gli argomenti – le derivazioni all’uopo costruite, anche al fine di suscitare la fede nella propria legittimità – c’è di averne ricondotta integralmente la genesi alla lotta ed alla volontà del popolo italiano. Che è, una mezza verità. Purtroppo come tutte le mezze verità  ha l’inconveniente di nascondere una mezza menzogna (se non una menzogna tutta intera); e quello, ancora più pericoloso, di costituire un ostacolo ad una piena consapevolezza politica. Attribuire la costituzione ad una scelta (tutta) propria, occultare la parte nella genesi della stessa svolta dagli alleati, prendere la situazione politica dal primo dopoguerra e le scelte conseguenziali come un criterio di valutazione … per secoli, significa, come scriveva Croce, raccontar favole d’orchi ai bimbi. Nella specie, agli italiani, che, anche per questo, non assumono piena consapevolezza politica. E questa, in politica, significa se non l’impotenza, una mezza potenza, una ridotta attitudine a sviluppare le proprie potenzialità. Una sorta di  emasculazione volontaria .

  1. Che questo sarebbe stato l’esito della situazione e dell’ordine nato alla fine della seconda guerra mondiale era chiaro a qualcuno, tra cui Vittorio Emanuele Orlando che già lo prevedeva nel discorso, sopra citato, contro il Trattato di pace.

La cosa che più colpisce del discorso dell’anziano statista è come stigmatizza la coniugazione tra buone intenzioni (propositi) quali lo sviluppo della democrazia, la repressione del fascismo, la tutela dei “diritti democratici” del popolo, oltre che naturalmente di quelli umani contenuti nelle clausole del Trattato da un lato, e le conseguenti limitazioni e controlli sulla sovranità e sull’esercizio dei massimi poteri dello Stato, dall’altro. Diceva Orlando “Ho detto che questo Trattato toglie all’Italia l’indipendenza che non sopporta altri limiti che non siano comuni a tutti gli altri Stati sovrani. Or bene, approvando questo Trattato, voi approvate un articolo 15,…”[10] e prosegue “Questo articolo si collega con quella educazione politica di cui sembra che abbisogni l’Italia, e cioè la Nazione del mondo che arrivò per la prima all’idea di Stato, e l’apprese a tutti i popoli civili. Dovevamo proprio noi ricevere lezioni di tal genere! E meno male se fosse soltanto un corso di lezioni: ma si tratta di un umiliante limite alla nostra sovranità[11]; quanto all’art. 17 che imponeva di vietare la rinascita delle organizzazioni fasciste, sosteneva: “Non è già, dunque che l’art. 17 mi dispiaccia per sé stesso, ma mi ripugna come un’offesa intollerabile alla sovranità del nostro Stato. Qualunque atto di Governo può prestarsi ad una interpretazione che dia luogo alla accusa della violazione dell’art. 17. Intanto tutte le espressioni in esso usate sono elastiche, atte a favorire ogni punto di vista soggettivo. Una organizzazione dei così detti giovani esploratori potrà essere considerata come militarizzata”[12]. E così prosegue, ricordando l’iniquità delle clausole sul disarmo, sulle limitazioni alla ricerca che possa avere applicazioni militari “ma chi può dire  e sino a qual punto una scoperta in qualsiasi campo possa avere applicazioni militari? In conclusione anche i gabinetti delle nostre Università potrebbero essere assoggettati  ad un controllo, capace di impedire il proseguimento di uno studio scientifico!”[13]. Per cui conclude su questo punto: “l’indipendenza sovrana del nostro Stato viene dunque meno formalmente, cioè come diritto”[14] (oltre che di fatto come espone nel prosieguo). Orlando anticipava così l’opposizione ancora oggi ripresentantesi con frequenza tra tutela di certi “diritti” universali (o trans-nazionali) e integrità della sovranità e indipendenze nazionali. Lo Stato che assume la funzione di tutela di certi diritti, esercita un’influenza interna allo Stato “tutelato”. Così nella tradizionale “impermeabilità” tra interno ed esterno allo Stato si aprono falle, probabilmente destinate ad ampliarsi.

L’altra (principale) preoccupazione  di Orlando era la fragilità dell’assetto politico (e costituzionale in fieri) dell’Italia, incrementata dall’attitudine “psicologica” italiana ad accondiscendere a pretese esterne. Così distinguendo tra Italia e Francia afferma “Ma egli è che una vera superiorità alla Francia su di noi può riconoscersi nella fierezza dei suoi rappresentanti, per cui l’ipotesi di una Francia  come grande Potenza fu ed è sempre una pregiudiziale che si deve ammettere se si vuole conversare con un francese”[15], mentre “nei rapporti con l’estero noi ci dobbiamo sempre precipitare; noi sentiamo sempre l’urgente bisogno di dar prova al mondo che siamo dei ragazzi traviati, i quali avendo demeritato e non bastando la tremenda espiazione sofferta, ammettono la loro indegnità e non aspettano altro di meglio che di riabilitarsi e essere ripresi in grazia[16]. Per cui concludeva l’orazione con la ben nota invettiva “Questi sono voti di cui si risponde dinanzi alle generazioni future: si risponde nei secoli di queste abiezioni fatte per cupidigia di servilità[17]. Ansia condivisa da Benedetto Croce, il quale nel discorso contro il Trattato di pace (pronunciato all’Assemblea costituente il 24 luglio 1947) diceva “Il governo italiano certamente non si opporrà all’esecuzione del dettato; se sarà necessario, coi suoi decreti o con qualche suo singolo provvedimento legislativo, la seconderà docilmente, il che non importa approvazione, considerato che anche i condannati a morte sogliono secondare docilmente nei suoi gesti il carnefice che li mette a morte. Ma approvazione, no! Non si può costringere il popolo italiano a dichiarare che è bella una cosa che esso sente come brutta e questo con l’intento di umiliarlo e togliergli il rispetto di sé stesso, che è indispensabile ad un popolo come a un individuo, e che solo lo preserva dall’abiezione e dalla corruttela[18]; e proseguiva “coloro che questi tempi chiameranno antichi, le generazioni future dell’Italia che non muore, i nipoti e pronipoti ci terranno responsabili e rimprovereranno la generazione nostra di aver lasciato vituperare e avvilire e inginocchiare la nostra comune Madre a ricevere rimessamente un iniquo castigo;… ma vi dirò quel che è più grave, che le future generazioni potranno sentire in se stesse la durevole diminuzione che, l’avvilimento, da noi consentito, ha prodotto nella tempra italiana, fiaccandola”.

In ambedue i vecchi patrioti era evidente che quell’approvazione era il primo passo verso una capitis deminutio dell’indipendenza italiana; riecheggia in entrambi lo sferzante giudizio di Gobetti, che Mussolini non aveva tempra di tiranno, ma gli italiani avevano ben animo di servi.

  1. Il secondo “momento” di questa “rieducazione” era la Costituzione: pur nelle buone intenzioni, di chi l’aveva redatta, e nel pregevole tentativo – particolarmente riuscito nella prima parte – di coniugare l’impianto liberal-democratico con il c.d. “Stato sociale”, la repubblica parlamentare e regionale organizzata dalla seconda parte della Carta, era già obsoleta al momento di entrare in vigore. Scriveva Hauriou a proposito del “prototipo”di quella italiana, cioè la Terza repubblica francese “al momento della redazione della nostra Costituzione del 1875, non si era mai vista al mondo una Repubblica parlamentare, e fu una grande novità”. E ne attribuiva la durata a diversi fattori, istituzionali: d’essere il “giusto mezzo” tra dittatura dell’assemblea e quella dell’esecutivo; di perpetuare il governo delle assemblee, e con esso l’oligarchia parlamentare, pur svolgendo la funzione d’integrazione politica di altri strati della popolazione; ma anche sociali, costituendo un compromesso tra borghesia (vie bourgeoise) e “proletariato” (vie de travail). Tuttavia ne intravedeva già negli anni ’20 del secolo scorso, il tramonto[19]; come d’altra parte altri giuristi francesi. Cosa che avvenne puntualmente nel 1958, perché la repubblica parlamentare aveva esaurito la propria funzione, così acutamente esposta da Hauriou, e non era più adatta ai tempi nuovi, che erano quelli, a un dipresso, in cui l’Italia adottava questa “formula” politica e istituzionale. In Francia, dopo poco, dismessa.

La decisione italiana per la Repubblica parlamentare fu determinata da più motivi.

La ripulsa per il governo “forte” fascista, che fece preferire tra le tante forme di governo quella più “debole” possibile; il ricordo (positivo) del parlamentarismo liberale dello Statuto, cui però erano tolti proprio i principali fattori di stabilità e di governabilità, cioè la monarchia e il sistema elettorale maggioritario; la necessità di garantire un assetto policratico dei poteri pubblici finalizzato alla co-esistenza di partiti ideologicamente radicati quanto distanti; la mancata – o insufficiente – percezione dell’evoluzione economico-sociale dello Stato e delLa società moderna.

Tutte ragioni di carattere (e genesi) essenzialmente e in grande prevalenza “interno” ed “endogeno”; tuttavia alcune in (evidente) accordo col modello delineato (e imposto) a Yalta, specificato dall’occupazione militare anglosassone.

  1. Le condizioni del secondo dopoguerra sono cambiate, fino alla cesura rappresentata dal crollo del comunismo sovietico e dalla fine della guerra fredda; seguita dalla dissoluzione dell’URSS; speculare questa alla divisione, al termine della seconda guerra mondiale, della Germania – ora riunificata all’esito della guerra fredda – e dell’Impero giapponese.

Le conseguenze, anche in Italia, sono state notevoli; la caduta del sistema partitico della prima repubblica – salvo il PCI “graziato”; la fine della conventio ad excludendum nei confronti della destra; la sostituzione della legge elettorale proporzionale con sistemi (sia per il Parlamento che per gli enti territoriali) maggioritari. Buona parte della costituzione materiale è stata cambiata. Ma quella formale – se si eccettua l’innovazione al titolo V (cioè della parte “periferica” e non solo in senso territoriale della carta costituzionale) e qualche altra piccola modifica (come all’art. 11) è rimasto inalterato col suo impianto di repubblica parlamentare e policratica.

Permane quindi il “tabù” dell’intangibilità della parte essenziale della Costituzione, malgrado l’evidente inadeguatezza al governo di una società e uno Stato moderno e, più ancora, il venir meno della situazione politica e delle condizioni politiche e sociali che ne giustificavano, in una certa misura, l’adozione.

  1. Neppure è spiegabile questa durata con un interesse delle potenze vincitrici a “determinare” l’esercizio (e il prodotto) del potere costituente. Questo per (almeno) due ragioni. In primo luogo perché, come accennato, la situazione politica è distante anni-luce da quella del dopoguerra. Pensare che gli USA abbiano un interesse rilevante che l’Italia sia una repubblica presidenziale o parlamentare o una monarchia costituzionale o quant’altro appare difficile: crollato il comunismo è venuta meno anche la funzione dell’Italia quale paese di frontiera tra l’Est e l’Ovest.

Dall’altro perché la dissoluzione del comunismo ha eliminato il nemico anche sul piano interno. Di qui l’indifferenza – o lo scarso interesse – che la dialettica politica italiana e i modi in cui si svolge, possono oggi suscitare all’estero.

Piuttosto l’attaccamento a quella Costituzione si può spiegare con la funzione del mito (Sorel), dato che la Resistenza ha avuto la funzione di mito “fondante” della Repubblica, e la Costituzione ne è – secondo questa concezione – la figlia unigenita.

Ma più ancora ci può soccorrere, come sempre cennato, Pareto. Questi divide del Trattato i residui (cioè le azioni non logiche e gli istinti e sentimenti che le determinano) in sei classi; una delle quali è composta dai residui che si esprimono nella tendenza alla persistenza degli aggregati. Gli è che, applicando anche all’inverso la formula di Lassalle, la Costituzione formale, non solo garantisce i rapporti di forza che l’hanno determinata, ma li cristallizza e tende a riprodurli. Da cui consegue la resistenza al cambiamento di quelli che dalla stessa sono favoriti e garantiti, anche se la situazione – e le esigenze – sono sostanzialmente cambiate. Ed il fenomeno si è presentato tante volte nella storia: dalla crisi di Roma repubblicana nel I secolo a.C., a quella dell’Ancien régime (e del potere dei ceti privilegiati), già in gran parte demolito dall’assolutismo borbonico. Nihil sub sole novi.

L’importante è ricordare, e Pareto è qui quanto mai utile, che le ragioni esternate sono derivazioni di quei residui. E più ancora che dietro quelle ci sono concreti rapporti di forza che come tutte le relazioni sociali crescono, si mantengono e poi decadono, come mutano le situazioni reali che li hanno determinati; per cui è compito degli uomini, di rimodellare la nuova forma politica; com’è stata opera degli uomini aver realizzato quella sorpassata. Come scriveva Miglio la Costituzione non è la camicia di Nesso in cui il popolo italiano deve essere avvolto in eterno.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Si riprende la tesi esposta da Jeronimo Molina Cano in “La Costituzione come colpo di Stato” in Behemoth n. 38 luglio-dicembre 2005 p. 5 ss.

[2] Diceva V. E. Orlando nel vibrante discorso contro il Trattato di pace dell’Italia con i vincitori della Seconda guerra mondiale pronunciato nell’Assemblea Costituente il 30 luglio 1947 “anche grammaticalmente sovrano è un superlativo: se se ne fa un comparativo, lo si annulla” v. in Behemoth n. 3 luglio-dicembre 1987 p. 37.

[3] v. Über verfassungswesen trad. it. in Behemoth n. 20 luglio-dicembre 1996 p. 8

[4] Methaphisik der Sitten § 60.

[5] Anzi Schmitt la interpreta nel senso che “non intende ammettere… che un popolo fosse privato del potere costituente” v. Der nomos der erde, trad. it. Milano 1991, p. 205.

[6] Op. cit. § 52.

[7] V. Discorsi, lib. I, VI.

[8] Sul punto si richiamano i giuristi francesi citati nelle note del mio scritto Diritto divino provvidenziale e dottrina dello Stato borghese in Behemoth n. 41 gennaio-giugno 2007 p. 25 ss.

[9] M. Weber, Storia economica, trad. it. rist. Roma 2007, p. 261.

[10] Behemoth cit., p. 35.

[11] Ivi p. 35-36.

[12] Ivi p. 36.

[13] Ivi p. 36.

[14] Ivi p. 37.

[15] Ivi cit., p. 32.

[16] Op. loc. cit..

[17] Ivi cit. p. 40.

[18] V. in Palomar n. 18, p. 48.

[19] V. “Ce régime pourra durer tant que les nouvelles couches de la population garderont l’ambition de la vie bourgeoise, et il montre des qualités précieuses pour les embourgeoiser successivement sous le couvert des étiquettes politiques les plus variées. Mais le jour où la distinction de la vie bourgeoise et de la vie de travail aura disparu, il devra probablement s’effacer devant les institutions faisant une place plus large au gouvernement direct ” ; Précis de droit constitutionnel Paris 1929, p. 341 – v. anche p. 346.

NELLE OMBRE DEL DOMANI (SECONDA RECENSIONE CUMULATIVA A TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE), di Massimo Morigi

NELLE OMBRE DEL DOMANI: REALISMO POLITICO FRA KATARGĒSIS MESSIANICA DELLA LEGGE E CRISI DI CIVILTÀ (SECONDA RECENSIONE CUMULATIVA A TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE)

 

Di Massimo Morigi

 

 

Per le pagine dell Italia e il mondo questa è la seconda volta che intervengo sui contributi dati su questo sito di geopolitica e cultura politica da Teodoro Klitsche de la Grange e nella prima Recensione cumulativa su questo acutissimo esploratore del poliltico” (presso l’URL http://italiaeilmondo.com/2018/04/07/da-massimo-morigi-a-teodoro-klitsche-de-la-grange_a-proposito-del-realismo-politico-di-massimo-morigi/; WebCite http://www.webcitation.org/6yWOwnGz7 e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F04%2F07%2Fda-massimo-morigi-a-teodoro-klitsche-de-la-grange_a-proposito-del-realismo-politico-di-massimo-morigi%2F&date=2018-04-08), avevo individuato nel pensiero del La Grange un “punto di caduta” che non solo sintetizzava il nucleo generatore dei contributi che questo pensatore aveva precedentemente offerto ai lettori dell’ “Italia e il mondo” ma che, soprattutto, dava la misura della profondità del suo pensiero. Tale “punto di caduta” lo si poteva ben estrapolare dal suo contributo per “L’Italia e il mondo” che reca il titolo  Nota su dipendenza degli stati e globalizzazione (URL: (http://italiaeilmondo.com/?s=NOTE+SU+DIPENDENZA+DEGLI+STATI e  http://www.webcitation.org/6yPGjFeLj) e quindi per proseguire nel nostro discorso cito direttamente quanto avevo scritto su questo contributo nella prima Recensione cumulativa al nostro: «Se consideriamo le vicende umane (politiche, economiche, culturali ma anche semplicemente esistenziali sul piano privato) da un punto di vista realista e quindi teologico, per tutte queste vicende esiste un “punto di caduta”, un momento di risoluzione sia simbolico che di indicazione delle linee di azione e di comprensione della azione e/o della situazione, che ci permette non solo di definire queste vicende ma anche di indicarci la direzione per un nostro attivo intervento sulle stesse. Ora, a mio giudizio il “punto di caduta” dei quattro articoli che  Teodoro Klitsche de la Grange ha gentilmente concesso ai lettori dell’ “Italia e il mondo” ed anche la prova della dimensione autenticamente rinnovatrice e creatrice del suo realismo, può essere colto a pieno dalle seguenti parole che cito dalla chiusa di Nota su dipendenza degli stati e globalizzazione: «Che «forza» e «legge» siano modi di combattere, come scrive Machiavelli, ossia d’imporre la propria volontà, è spesso dimenticato; così del pari, è – anche se in misura minore – trascurato che forza e legge sono anche modi di governare, non (totalmente) alternativi, ma piuttosto complementari. La «legge» senza forza è inutile: la forza senza legge è arbitrio violento. Nella realtà occorrono entrambi. Se la combinazione di forza e regola è la normalità del governo dei gruppi umani, così come il potere responsabile è l’ordinatore ideale, quello che si profila nel mondo globalizzato appare tra i meno preferibili. Perché si risolve nell’affidare prevalentemente alla forza e all’astuzia (del potere esistente) il massimo della potenza disponibile senza la prospettiva che possa riuscire a creare un ordine che sia veramente tale.»»

Ora i nuovi e successivi contributi di Teodoro Klitsche de la Grange per LItalia e il mondo, Parassitario o predatorio, Miti giuridici e regolarità politiche, Presentazione a dallo Stato di diritto al neocostituzionalismo, Virtù e stato moderno (agli URL: http://italiaeilmondo.com/2018/04/11/parassitario-o-predatorio-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/http://www.webcitation.org/6yitCilDz;http://italiaeilmondo.com/2018/04/17/miti-giuridici-e-regolarita-politiche-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/ e http://www.webcitation.org/6ynTQVKMO;http://italiaeilmondo.com/2018/04/23/presentazione-a-dallo-stato-di-diritto-al-neo-costituzionalismo-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/ e http://www.webcitation.org/6ywEcDbMi;http://italiaeilmondo.com/2018/05/01/virtu-e-stato-moderno-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/ e http://www.webcitation.org/6z8QWvcz5), oltre a confermare che il nucleo generatore del pensiero di La Grange è la dialettica fra la forza e la legge, segnalano anche che per La Grange allo stato attuale, allo stato cioè che è giunta la nostra civiltà giuridica occidentale, questa dialettica fra forza e legge non sta assolutamente trovando un superiore momento di composizione in una nuova moderna Polis in cui, pur con tutte le mediazioni ed attenuazioni che inevitabilmente si trascina con sé la prassi politica ed economica, sia l’aristotelico Zoon politikon il protagonista (detto nei termini dell’odierna vulgata liberal-liberista democraticistica: in una forma politica dove sia la partecipazione democratica il motore della vita pubblica, vulgata, cioè volgarizzazione dell’originario discorso dello stagirita, che ha trovato in Italia la sua massima espressione nella canzoncina di un noto e da non moltissimo scomparso italico chansonnier che recitava: “La libertà è partecipazione”: sul tema della libertà vista sì come “partecipazione” ma una partecipazione che non si risolva nelle prendere parte ad un gioco infantile e in cui i ruoli siano assegnati dal maestro d’asilo ma sia un’autentica partecipazione che si sostanzi in una condivisione per tutti i soggetti politici, persone fisiche o persone sociali che siano, degli spazi di potere, in un concetto di libertà del Repubblicanesimo Geopolitico per il quale libertà, in ultima analisi, si risolve nella dialettica permanenza ed evoluzione di autonomi e distinti spazi di  potere e in una interpretazione del Repubblicanesimo Geopolitico della libertà in ottica realista machiavelliana e che giudica come flebili ipostasi il concetto di libertà del liberalismo come assenza di costrizione e quella dell’odierno  neorepubblicanesimo  come assenza di dominio, cfr. gli URL: https://corrieredellacollera.com/2013/11/23/alla-ricerca-dellidentita-italiana-di-massimo-morigi/https://corrieredellacollera.com/2013/11/28/alla-ricerca-della-identita-italiana-dialogo-tra-morigi-e-stefanini/ e relativi “congelamenti” di questi stessi URL: http://www.webcitation.org/6aNTUJQ82, http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2013%2F11%2F23%2Falla-ricerca-dellidentita-italiana-di-massimo-morigi%2F&date=2015-07-29, http://www.webcitation.org/6aNSrbd66    e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2013%2F11%2F28%2Falla-ricerca-della-identita-italiana-dialogo-tra-morigi-e-stefanini%2F&date=2015-07-29 ; e il tema del degrado semantico dei termini politici, tipico esempio sopracitato la libertà come assenza di costrizione o come assenza di dominio, si potrebbe dire costituire l’altro tema di fondo dei ragionamenti del La Grange, problema che in questo nostro odierno contributo solo accenniamo ma che affronteremo meglio in un  successivo intervento –  per il quale La Grange ci offre già numerosi spunti in Miti giuridici e regolarità politiche –  e nel quale, a nostro giudizio, la via di fuga da questo  degrado semantico – mitologie politiche, religiose e/o parareligiose con conseguente collegato degrado semantico nel lessico della politica che è problema comunque da noi già affrontato in La democrazia che sognò le fate. Stato di Eccezione, Teoria dell’Alieno e del Terrorista e Repubblicanesimo Geopolitico, agli URL https://archive.org/details/LaDemocraziaCheSognLeFatestatoDiEccezioneTeoriaDellalienoE_913 e https://ia801601.us.archive.org/28/items/LaDemocraziaCheSognLeFatestatoDiEccezioneTeoriaDellalienoE_913/LaDemocraziaCheSognLeFate.StatoDiEccezioneTeoriaDellalienoEDelTerroristaERepubblicanesimoGeopolitico.pdf  – è costituito dal mito-non mito dell’epifania strategica di cui abbiamo già detto parlando del Repubblicanesimo Geopolitico e sul quale il realismo politico di La Grange ci offre una interessantissima sponda dialogante), ma protagonista è la forza di chi, detenendo le leve del potere politico, economico e culturale, riesce a camuffare una dittatura di fatto che non ammette deroghe o dissidenze rispetto ai principi universalistici dirittoumanistici in politica e, a livello giuridico, al progetto (totalmente ideologico nelle illusioni che suscita ma terribilmente concreto per i suoi effetti liberticidi) di una giurisdizione mondiale il cui potere sia sovraordinato al potere degli stati nazionali.

Ma se si trattasse “solamente” di questo, se si trattasse cioè “solamente” del fatto che nella nuova situazione dello sviluppo di uno pseudopotere giudiziario mondiale gli spazi di azione dello Zoon polikon vengono ridotti a tal punto da trovarci di fronte più che un animale politico ad una sorta di uomo ridotto in schiavitù (ovviamente in schiavitù strictu sensu solo politicamente parlando, perché dal punto di vista dell’ attuale imperante fraudolenta narrazione economicista, anche sotto questo inedito regime tirannico continua a  perpetuarsi l’ideologia dell’individualismo metodologico e del libero mercato), cinicamente parlando e sulla scorta di un ritorno alla lettera del pensiero elitista si potrebbe in fondo affermare che nihil sub sole novi e che con la nuova situazione prodotta dall’ideologia di una giurisdizione mondiale sovraordinata agli Stati non è successo nulla di nuovo tranne il fatto, indubbiamente importante ma, in fondo,  riconosciuto  e da sempre risaputo da coloro che professionalmente si occupano delle reali ed effettuali dinamiche politiche (cioè coloro,  sociologi, storici, filosofi o politologi che siano. che interpretano queste dinamiche alla luce del pensiero realista) che la democrazia ha così oggi rivelato la sua natura di narrazione puramente ideologica e volta al dominio delle masse da parte di ristrette élite.

Ma La Grange va ben oltre questo livello di semplice (anche se essenziale) lettura e a questo punto ci fornisce con sfolgorante chiarezza due ulteriori elementi che integrandosi con la presa di coscienza della natura sempre più evanescente ed ideologica delle attuali forme politiche democratiche (noi affermiamo anche delle passate …) rendono il quadro generale ancora più cupo. Il primo elemento ci viene magistralmente restituito dal suo contributo Parassitario o predatorio, nel quale, attraverso l’elementare ed euristicamente assai efficace classificazione che il rapporto fra dominatore e dominato deve necessariamente rientrare in una delle tre classificazioni di ‘tutoriale’. ‘parassitario’ e ‘predatorio’, mostra, dati economici alla mano, che particolarmente in Italia (ma il discorso per La Grange vale anche se in forma più attenuta – e noi ovviamente concordiamo – per tutte le altre moderne democrazie industriali) negli ultimi due decenni tale rapporto non può essere non essere qualificato che di tipo prevalentemente predatorio, con la sottolineatura, chiara consapevolezza che permea anche  tutti gli altri nuovi contributi forniti dal La Grange, che questa predazione va di pari passo con l’affermarsi dell’ideologia di una giurisdizione mondiale sovraordinata agli stati nazionali (e, come potrebbe essere diversamente, ci dice in questi suoi contributi La Grange, se ai cittadini era prima difficile far sentire la propria voce anche di fronte al semplice e vecchio Stato nazionale?, come è possibile ora farsi ascoltare di fronte ad uno Stato sempre più assente che, col pretesto di un diritto universale ed universalistico, sta delegando sempre più il suo potere ad impersonali e spietati poteri sovranazionali?).

Su questa particolare classificazione tripartita delle forme di dominio valgano due veloci considerazioni. La prima è che la classificazione del dominio in ‘tutoriale’, ‘parissatario’ e ‘predatorio’ è un decisivo passo in avanti per superare il ‘paradosso Carl Schmitt’, paradosso che emerge dalla evidente constatazione che  se polarizzazione amico/nemico del Kronjurist del Terzo Reich  riesce a rappresentarci l’anatomia del conflitto non riesce parimenti a restituircene la fisiologia (come abbiamo più volte ripetuto, a fianco – ed in stretto dialettico contatto e rapporto con –  del conflitto e/o del rapporto amicale, in politica come in natura si hanno rapporti di collaborazione e/o simbiotici che come escludono l’inimicizia nulla hanno a che fare con l’amicizia, e Carl Schmitt era tanto consapevole di questo paradosso che una volta andato al potere il nazismo, una volta cioè che strumentalmente non era più necessaria questa rigida polarizzazione molto utile anche a fine mobilitatori contro la Repubblica di Weimar, cercò di edulcorare questa pur fondamentale acquisizione del suo pensiero spostando l’accento sul koncrete Ordnungsdenken ), e la tripartizione presentatici dal La Grange è una fondamentale precisazione soprattutto per quanto accade dentro il ‘perimetro dell’ amico’, amico sì ma, per dirla volgarmente, per fotterlo meglio e senza che questo possa formalmente appellarsi a nessuna ragione etica o politica per ribellarsi, come invece accade quando si è di fronte di fronte ad un dichiarato e palese nemico.

La seconda considerazione in merito alla tripartizione delle forme di dominio presentate dal La Grange ci viene dalla seguente osservazione che possiamo leggere sempre in Parassitario o predatorio: «Anche se, nell’assetto predatorio l’uso della violenza è sistematico, ciò che lo rende qualitativamente diverso è l’assenza di limiti giuridici (nel tipo ideale) e (almeno) la loro minimizzazione (nelle situazioni concrete)». Questo passaggio rende fortissima l’assonanza della tripartizione delle forme di dominio presentataci dal La Grange con la ‘Teoria della distruzione del valore’ (Teoria della distruzione del valore. Teoria fondativa del Repubblicanesimo Geopolitico e per il superamento/conservazione del marxismo. Agli URL https://archive.org/details/TeoriaDellaDistruzioneDelValore_792 e https://ia800306.us.archive.org/24/items/TeoriaDellaDistruzioneDelValore_792/TeoriaDellaDistruzioneDelValore.pdf), la quale partendo dalla teoria  dell’appropriazione del plusvalore, rovescia questa lettura marxiana dell’avvento del capitalismo industriale  affermando che il trionfo sul proscenio della storia  della  classi capitalistico-industriali non è connotata dall’esproprio del valore del lavoro prodotto dal dipendente operaio nella misura in cui non si può andare oltre per la sopravvivenza dell’operaio stesso ma, al contrario, è basata sul metodico annientamento del valore di questo lavoro al fine di potersene appropriare a basso costo senza che questo processo possa essere ostacolato da vincoli giuridici e/o politici, del tutto inutili a tutelare il lavoratore operaio vista la disparità di forze fra i capitalisti industriali  e il proletariato operaio di fabbrica che ha assistito – ed è stato indebolito dalla –  alla distruzione del valore del lavoro dell’originaria classe artigianale e/o di piccolo proprietario (e, al di là del processo  delle ‘distruzioni del valore’ avvenute in epoca moderna dell’annientamento da parte delle classi capitaliste del valore sociale e direttamente derivante dal lavoro delle originarie classi artigiane, uno degli eventi che più si presta ad assumere il ruolo di idealtipo per questa dinamica illustrata dalla suddetta teoria è, per quanto riguarda la storia antica, la distruzione ad opera di Roma di Cartagine – per la storia contemporanea il tentativo del nazismo di distruggere la presenza ebraica in Europa e la volontà di sterminio anche delle popolazioni slave sempre del nazismo: in entrambi i casi, al di là dei vari pretesti ideologici, il tentativo di insediarsi tramite genocidio in nuove nicchie strategiche di potere –, dove accadde che  Roma, alla fine, non volle neppure instaurare con Cartagine un rapporto predatorio ma letteralmente la distrusse ab imis fundamentis: la differenza con quanto avvenuto con l’affermazione del capitalismo industriale è che in questo caso si trattò di una distruzione manu militari e non alterando i rapporti di forza fra le classi sociali; l’analogia, molto più significativa della differenza, è che nell’uno come nell’altro caso si liberarono delle nicchie ecologiche di potere – Mar mediterraneo per i romani, creazione di una “libera” economia di mercato svincolata da limiti giuridici nel caso della rivoluzione industriale – , che aprirono nuovi spazi di manovra strategici a quegli agenti che seppure prevalere – e distruggere –  su coloro che dovettero subire questo processo: agenti omega-strategici, Cartagine e i piccoli artigiani e proprietari costretti a riconvertirsi in proletariato di fabbrica; agenti alfa-strategici, Roma e i capitalisti industriali. Per meglio approfondire questa terminologia afferente alla ‘Teoria della distruzione del valore’ si rinvia ancora all’URL appena citato).

Comunque, in attesa di una proficua integrazione fra la tripartizione presentataci dal La Grange e la ‘Teoria della distruzione del valore’, in Teodoro Klitsche de la Grange siamo veramente in presenza di un  attentissimo e fondamentale lavoro intorno a quelle categorie dello strategicoche Carl Schmitt non ebbe la forza (ma sarebbe meglio dire: il coraggio) di enunciare e sviluppare fino in fondo, poggiando le sue categorie del politicoprincipalmente sulla dicotomia amico/nemico e qui fermandosi ed anzi retrocedendo nel koncrete Ordnungsdenken,  sia perché da cattolico conservatore questa enunciazione così dicotomica confliggeva con la visione gerarchizzata della società della Chiesa cattolica sia perché era divenuta scomoda ed impraticabile una volta arrivato al potere il nazismo, il quale era sì basato sulla creazione di un nemico ma si trattava di un nemico da espellere dalla società e quindi da distruggere e certamente non ritenuto dal punto di vista logico un elemento costitutivo del politico (il nemico era, ovviamente, la rivoluzione comunista – questo sia per la Chiesa cattolica e per il nazismo –  e lebreo – questo solo per il nazismo –  e una volta affermatosi il nazismo non era più conveniente per nessuno dare mostra di una visione così profondamente realista ma, proprio in ragione del suo superiore realismo, anche, in ultima analisi, con una impostazione così terribilmente  machiavellianamente dinamica della società che confliggeva sia con la conservatrice, anche se antirazzista – e religiosamente universalistica –   dottrina sociale della Chiesa  sia con ledificazione del – follemente particolaristico – totalitarismo razzista del nazionalsocialismo).

Veniamo ora al secondo elemento di riflessione che ci restituisce la lettura di questi ultimi interventi del La Grange e si tratta della seguente considerazione: se le  forme di dominio  Ancien Régime che precedettero la Rivoluzione francese  cercarono di approssimarsi ad una forma di potere assoluto, cioè detto più tecnicamente,  attorno ad un sovrano legibus solutus (libero dal dominio della legge: in realtà il Re Sole era svincolato dallobbedire alla legge positiva ma non alla legge morale e il vero ed integrale sovrano legibus solutus ha fatto la sua comparsa solo con i totalitarismi del XX secolo, i cui sovrani portati alla ribalta dalla parossistica esaltazione del politicofurono, de facto quando non de iure, totalmente  e manifestamente svincolati anche dalla morale), oggi la forma di potere politico ed economico che utilizza come manto per coprire le sue forme di dominio le dottrine neocostituzionaliste (e quindi, a livello di loro volgarizzazione popolare, le mitologie politiche universalistiche e dirittoumanistiche di cui abbiamo già detto), si configura come  potere che sempre più si vuole  svincolare dal politico(ovviamente dal  politicoaristotelicamente inteso che ha per protagonista lo Zoon Politikon), si configura cioè come un potere sempre di natura totalitaria,  ma non più  come un totalitarismo legibus solutus ma Res publica solutus (rispetto ai totalitarismi vecchi e nuovi del Novecento, discorso comunque a parte deve essere fatto per lassolutismo dell Ancien Régime che, nonostante il monopolio del politico, riconosceva formalmente unautonomia della società, anche se – de facto –  sorvegliatissima, pesantissimamente eterodiretta e sovente palesemente negata e conculcata, vedi, a seguito della revoca voluta da Luigi XIV delleditto di Nantes originariamente emanato  da Enrico IV nel 1598, la persecuzione dei protestanti francesi tramite le dragonnades, fino a giungere allespulsione degli ugonotti dal suolo francese ).

 Ed è ancora in  Miti giuridici e regolarità politiche che viene chiaramente individuata la natura mitologica (e profondamente regressiva) di questa distopia di quello che abbiamo appena definito un potere Res publica solutus, a sua volta frutto maturo e terminale del neocostituzionalismo giuridico e delle conseguenti mitologie politiche universalistiche per le quali il nemico da abbattere è la decisione politica: «Il primo [di questi miti politici] è il mito tecnocratico, cioè quello espresso nel modo più conseguenziale e deciso da Saint-Simon, ovvero della società in cui l’amministrazione delle cose sostituirà il governo degli uomini. In realtà nessuno l’ha visto realizzarsi, se non nel coro adulatorio di qualche governo sedicente tale  (e di corta durata). Ciò perché la natura (e l’inconveniente) del potere è tale che  oscilla tra i due abissi dell’oppressione e dell’anarchia, come sosteneva de Maistre. Un governo forte è tentato di opprimere: ma se debole è impotente a tutelare. Per cui il pensatore controrivoluzionario sosteneva che la società umana è in mezzo a questi abissi (cioè non basta che un governo sia tecnocratico perché non abbia necessità di comandare). Nella realtà certi governi (tecnici) finiscono per risolvere  a modo loro tale alternativa: sono insieme deboli nel proteggere, ma forti nell’opprimere (finiscono col realizzare l’inverso della situazione ottimale). […] Quanto al mito tecnocratico, si fonda sull’illusione che gli uomini possono non essere governati, ossia che non sia necessario il rapporto di comando/obbedienza: peraltro pone l’accento sulla capacità tecnica dei governanti (che, a dirla tutta, non guasta) ma è comunque subordinata al consenso politico, al rapporto governati-governanti.»

Sorvoliamo,  per carità di patria, di utilizzare queste sfolgoranti ed illuminanti parole  di La Grange sul mito tecnocratico e sulle sue terribili conseguenze contro la natura intimamente strategica dell’uomo (natura dialettico-strategica dell’uomo da noi già discussa alla luce della filosofia della prassi dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci e di Storia e coscienza di Classe di György Lukács in Dialecticvs Nvncivs. Il punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico attraverso i Quaderni del Carcere e Storia e Coscienza di Classe per il rovesciamento della gerarchia della spiegazione meccanicistico-causale e dialettico-conflittuale, per il rinnovamento degli studi marxiani e marxisti e per l’ Aufhebung della gramsciana e lukacsiana Filosofia della Praxis, agli URL https://archive.org/details/DialecticvsNvncivs.IlPuntoDiVistaDelRepubblicanesimoGeopolitico_866 e https://ia801603.us.archive.org/7/items/DialecticvsNvncivs.IlPuntoDiVistaDelRepubblicanesimoGeopolitico_866/DialecticvsNvncivs.IlPuntoDiVistaDelRepubblicanesimoGeopoliticoAttraversoIQuaderniDelCarcereEStoriaECoscienzaDiClasse.pdf, tema della strategicità dialettica dell’uomo  che verrà poi ripreso anche in  Flectere Si Nequeo Superos Acheronta Movebo (Nelle Ombre del Domani): Delio Cantimori, Carl Schmitt e il Romanticismo Politico del Repubblicanesimo Geopolitico, di prossima pubblicazione, e in Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico, anch’esso di non lontana pubblicazione), natura dell’uomo da noi individuata nella sua dialettica strategicità condivisa  col resto del mondo fisico-naturale-culturale-storico (vedi sempre i lavori appena citati) e che geneticamente  si costituisce in una incessante scontro strategico fra il momento del comando/obbedienza e quello di una libera dinamica conflittuale all’interno della Res publica-Polis (mito tecnocratico, quindi, come il mito e progetto antiumanistico per eccellenza perché nega alla radice la natura dialettico-espressiva-conflittuale dell’uomo); per commentare le ultime misere vicende della politica nazionale (per chi voglia con masochistica acribia   raffrontarle con il momento della cronaca politica in cui il sottoscritto sta componendo questa comunicazione, basti dire che questo testo è stato esteso in data 8 maggio 2018), è preferibile piuttosto, in conclusione di questo ulteriore commento alle ultime riflessioni di La Grange pubblicate sull’ “Italia e il mondo”, soffermarci su un particolare aspetto del nostro, che ci restituisce tutta la sua grandezza, anche se in una dimensione prevalentemente tragica e non certamente ottimista.

Si tratta di questo: come già sottolineato nel mio primo commento cumulativo, Teodoro Klitsche de la Grange è un giurista, e giurista talmente profondo che questa sua unica conoscenza della materia gli consente di addentrarsi con grande successo nella teoresi politologica, ma si tratta di una teoresi politologica dalla quale espressamente emerge una grande sfiducia verso il momento giuridico. Detto in altre parole, lavere superato in Teodoro Klitsche de la Grange il paradosso Carl Schmittse non gli permette di concedere  (giustamente) alcuna simpatia etica alla Machtpolitik – ma, soprattutto, dà in La Grange luogo ad una totale avversione sul piano teorico, prima ancora che sulle sue pratiche applicazioni totalitarie novecentesche –,  al contempo non gli permette neppure di nutrire nemmeno alcuna speranza su una giuridicizzazione del problema politico così come voluta dal neocostituzionalismo.

In realtà, pensiamo che il desiderio profondo di La Grange sia quello di operare una sorta di paolina Katargēsis della legge (sulla Katargēsis messianica della legge cfr. come fonte primaria, lettera di S. Paolo ai Romani  in Rm 3, vv. 19-31 e come fonti secondarie Giorgio Agamben, Homo sacer. Sovereign Power and Bare Life, Stanford, Calif., Stanford University Press, 1998  e Id., Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani,Torino, Bollati Boringhieri, 2000), Teodoro Klitsche de la Grange vorrebbe  cioè abolire le potenzialità totalitarie (così come espresse al loro massimo grado e compiuta telelologia dal neocostituzionalismo) della politica (o meglio postpolitica) legate alla mitologizzazione della  legge ma al tempo stesso vorrebbe conservare i principi ordinatori per la polis-Res publica della legge stessa.

Si tratta della stessa dialettica contraddizione in cui si dibatte il Repubblicanesimo Geopolitico (Cfr. Repubblicanesimo Geopolitico e Katargēsis Messianica, URL: https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica_637 e https://ia800809.us.archive.org/25/items/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica_637/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica.pdf) che, in questo simile ad ogni momento autenticamente rivoluzionario, se non vuole abolire la legge positiva la vuole almeno superare nel processo rivoluzionario ma, al tempo stesso, attraverso questa Aufhebung, ne vorrebbe conservare le capacità ordinatrici.

Ora non vogliamo (e non ci permettiamo di) attribuire alcuna volontà politica rivoluzionaria a La Grange; anzi, dal suo modo di argomentare si evince piuttosto una certa sana nostalgia per un ordine politico che come tale, a nostro giudizio, non è mai esistito ma che non sarebbe male che, almeno come obiettivo limite, tenere sempre presente: ricitiamo, sottolineandole,  le seguenti parole da Nota su dipendenza degli stati e globalizzazione: «La «legge» senza forza è inutile: la forza senza legge è arbitrio violento. Nella realtà occorrono entrambi. Se la combinazione di forza e regola è la normalità del governo dei gruppi umani, così come il potere responsabile è l’ordinatore ideale, quello che si profila nel mondo globalizzato appare tra i meno preferibili. Perché si risolve nell’affidare prevalentemente alla forza e all’astuzia (del potere esistente) il massimo della potenza disponibile senza la prospettiva che possa riuscire a creare un ordine che sia veramente tale».

Quello che a però noi pare veramente significativo della teoresi di Teodoro Klitsche de la Grange è che il suo è veramente un procedere nelle ombre del domani, un andare alla ricerca, come fece Huizinga con il suo In de schaduwen van morgen, fra i chiaroscuri della storia e della nostra civiltà occidentale contemporanea perennemente in crisi ed evoluzione (più spesso: in involuzione) di quei momenti significativi che nella loro positività e, nel contempo, negatività ci possano illuminare per il domani. Siamo, in altre parole, di fronte alla poesia (inteso anche, se non soprattutto, nel significato etimologico di poíēsis) del metodo dialettico. E di questi tempi, questa è già una rivoluzione che per il momento basta e avanza.

Massimo Morigi – 8 maggio 2018

 

 

 

 

Neo-costituzionalismo, di Luis Maria Bandieri

Lunedì 23 aprile abbiamo pubblicato un saggio di Teodoro Klitsche de la Grange dal titolo “Presentazione a “Dallo stato di diritto al neo-costituzionalismo” http://italiaeilmondo.com/2018/04/23/presentazione-a-dallo-stato-di-diritto-al-neo-costituzionalismo-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/. Come deducibile dal titolo si tratta di una chiosa ad un testo del Professor Bandieri sul tema del neocostituzionalismo. Per offrire una migliore comprensione degli argomenti di de la Grange riproduciamo qui sotto il testo di riferimento debitamente tradotto dal francese. Buona lettura_Giuseppe Germinario

NEO-COSTITUZIONALISMO

Qualsiasi consenso sarà sempre la pallida realizzazione di un intimo desiderio totalitario,il desiderio di unanimità (Javier Marias Un coeur si blanc) In materia di costituzionalismo, il XXI secolo sta tradendo il sec. XX. Nel secolo passato, attraverso una serie d’avvenimenti drammatici e di risoluzioni tragiche che hanno lasciato il loro strascico di morte e di dolore,una creatura del XIX sec, lo Stato di diritto, si era imposto come una figura politica che si credeva e si rappresentava allora come definitiva. Questa creazione dava al diritto una forma politica, la forma-Stato che incarna il diritto fino a fondersi in esso, attraverso la quale il diritto stesso si trova a realizzarsi pienamente nell’elemento comune che veicola la legge, essendo questa da un lato posta come sinonimo di tutto il diritto e dall’altro presentandosi come il prodotto della creazione statale. Lo Stato di diritto del XIX secolo stato uno stendardo dispiegato contro lo Stato forte, il Machtstaat. Lo stato di diritto del XX secolo credette di risolvere una volta per tutte la tensione dialettica tra diritto e potenza, tra Recht e Macht, questa aporia sulla quale i giuristi si erano affaticati fino allora. D’altronde questa sintesi si realizzava forse più intenzionalmente che oggettivamente come lasciano intendere, per esempio, certi classici di quest’epoca, oggi dimenticati. Gerhard Ritter parlava così della “diabolicità del potere” come di una penombra ambigua e sinistra segnata dalla possessione, Friedrich Meinecke dedicò a questo tema un enorme volume nel quale esitava tra i due poli del dilemma anche se nell’ultimo paragrafo dell’opera, evitando di incrociare lo sguardo di sfinge del potere, egli consigliava ai potenti d’iscrivere sul loro petto lo Stato e Dio “se essi non vogliono che influisca su di essi questo demone di cui in assoluto, non è mai possibile disfarsi”. Hans Kelsen, infine, diluì questa dualità stabilendo l’identità tra diritto e stato e avvertendoci che colui che vorrebbe andare più lontano e non chiudere gli occhi si ritroverebbe di fronte “la Gorgona del potere” Ora in questo inizio di nuovo millennio si afferma e si sviluppa una nuova corrente di pensiero che pretende di superare questa vecchia aporia di cui i pezzi sparsi, sempre presenti nell’antico quadro costituzionale, erano nelle mani dei costituzionalisti vecchio stampo, per gettare le basi di una nuova concezione del diritto che per l’esaltazione dello “Stato Costituzionale”come conseguenza logica delle sue proposte annuncia finalmente la sepoltura del vecchio Stato di diritto. In questo studio speriamo di apportare una risposta sintetica a due questioni che abbiamo rilevato in margine ad una lettura attenta dei testi “neocostituzionalisti”:1) Lo Stato di diritto costituzionale è un nuovo paradigma che supera lo Stato di diritto? 2) Il neocostituzionalismo è una teoria giuridica che supera il costituzionalismo classico? Con l’espressione “Stato Costituzionale”o “Stato di diritto costituzionale” ci riferiamo a ciò che si propone per indicare le “società pluraliste attuali ,cioè le società dotate di un certo grado di relativismo” dove il solo “metavalore” (o “contenuto solido”) identificabile è precisamente quello della pluralità dei valori e dei principi, ovvero il precetto di imporre dolcemente la “necessaria coesistenza dei contenuti”10. Questa coesistenza è resa possibile per questo”artificio moderno che è lo Stato di diritto costituzionale” dove si produce una “doppia soggezione del diritto al diritto”11 nella forma come nella sostanza. Il diritto supremo che assoggetta tutto l’ordine giuridico, rinvia alla Costituzione, non a quella di ciascuna ordinamento nazionale ma a una costituzione cosmopolitica che culmina nella creazione di una “sfera pubblica mondiale”12 fornitrice di principi e di valori i quali rendono concreti i diritti dell’uomo in costante espansione. Il neo costituzionalismo è il supporto dottrinale dello Stato di diritto costituzionale che si sviluppa su tutto il pianeta. E non ne risulta, secondo le sue voci più autorevoli, una estensione dello Stato di diritto perché, “più che di una continuazione,si tratta di una profonda trasformazione che incide necessariamente sul concetto stesso di diritto”13. I suoi partigiani così assicurano che si tratta di un nuovo paradigma. Ricordiamo che “paradigma” – espressione divenuta talmente banale che richiede alcune precisazioni-indica secondo Thomas Kuhn l’insieme delle strutture concettuali e metodologiche che costituiscono l’orizzonte di una disciplina scientifica ad un certo momento. Quando un paradigma si è stabilito ed è divenuto l’oggetto di una accettazione generale e convenzionale in un campo di conoscenze, sopravviene un periodo di “scienza normale” dove i problemi e i modi per risolverli si collocano in anticipo attraverso il prisma di questo paradigma dominante. Ciò che allora è messo alla prova nella ricerca,non è la teoria che il paradigma esibisce ma l’abilità dello “scientifico” ad applicarla. Quando uno o più problemi definiti dal paradigma resistono agli operatori sopraggiunge un periodo critico chiamato “rivoluzione scientifica” che culmina con la nascita di un nuovo paradigma accettato a sua volta dai partecipanti all’attività scientifica .La storia di una disciplina si rivela come lo sviluppo di linee di spartizione successive correlativamente ai paradigmi discussi. Nell’intermezzo critico fra due paradigmi, gli adepti dell’uno o dell’altro parlano due linguaggi differenti. Si ha dunque bisogno di una traduzione del linguaggio dell’uno nel vocabolario dell’altro. Ora, giustamente, il paradigma dello Stato di diritto costituzionale -difeso dal neocostituzionalismo- non ha bisogno di traduzione e il suo linguaggio è condiviso dalla maggior parte dei costituzionalisti o dei filosofi del diritto, già sostenitori delle categorie del costituzionalismo classico. Costoro vi intravedono un ampliamento degli orizzonti dell’antica disciplina, ma non una rottura. Per ragioni differenti da quelle dei costituzionalisti classici, penso ugualmente che lo Stato di diritto costituzionale così come il neocostituzionalismo che ne è il supporto teorico non costituiscono una rottura epistemologica in rapporto alla teoria “classica” dello Stato di diritto e al vecchio costituzionalismo. Entrambi sono il prodotto della modernità con la differenza che lo Stato di diritto ne connota l’apogeo mentre lo Stato di diritto costituzionale ne sarebbe piuttosto il crepuscolo. In realtà non è nelle parole “Costituzione” o “diritto” ripetute a volontà dagli uni o dagli altri che appaiono i segni critici e la necessità di una “traduzione” ma nella formula interna di un termine giuridico dalla lunga storia: lo “Stato”; è in effetti lo Stato, in quanto forma politica che sembra essere entrato nel suo declino storico, ciò che ci porta a chiederci se il neocostituzionalismo non si riveli un modo di iniettare, nell’impostura generale, un vaccino di sopravvivenza alla statalità in rovina. Lo Stato di diritto, come l’ha spiegato Carl Schmitt14 è sicuramente centrato sulla legalità “il diritto è la legge e la legge è il diritto” ma comprende un elemento ontologicamente politico che, precisamente, è stato per lungo tempo, lo Stato. Questo elemento politico si manifestava nella “sovranità del popolo”, limitata e contenuta dai diritti dell’uomo e dalla separazione dei poteri, e nella possibilità che detiene, dal potere costituente, la decisione politica di dotarsi di una costituzione “positiva” nel senso che Schmitt stesso da a questa ultima espressione come specifica a un popolo in particolare15. Lo Stato di diritto costituzionale,in compenso,si presenta come un mezzo di neutralizzazione quasi totale dell’elemento puramente politico sotteso alla forma statale che è stata appena descritta ovvero che sopprime il potere decisionale del Principe. L’elemento politico(democratizzato) lo si trova ridotto al fugace istante del suffragio,alla scelta tra proposte definite prima dal marketing elettorale al punto che un celebre politologo argentino ha potuto caratterizzare lo Stato costituzionale come la “società più civilizzata e repubblicana che vi sia, ma che, di democratico nel senso stretto del termine…lo è sempre di meno”16. La Costituzione vi si trasforma ora in Costituzione globale,cosmopolitica,in diritto dell’individuo cosmopolita – das Weltbùrger-recht – ripreso in convenzioni e dichiarazioni locali o universali poi esteso (attraverso la via tortuosa dell’interpretazione) attraverso tribunali supremi non eletti. Lo Stato di diritto costituzionale priva di ogni contenuto politico la forma politica statale ma vuole continuare a chiamarsi “Stato”conservandone passivamente questo titolo allorché gli converrebbe senza dubbio meglio quello di “Costituzione senza sovrano”17 Zagrebelsky18 riassume il cuore delle argomentazioni di differenti giuristi tra l’una e l’altra delle formule seguenti. Nello Stato di diritto:diritto=legge=misura dei diritti; nello Stato di diritto costituzionale: Diritto=diritti fondamentali=misura della legge. Queste differenze possono in modo semplice riassumersi così:

 

Quando noi utilizziamo delle espressioni come “post modernità”o “post-positivismo” sappiamo che il prefisso post indica” ciò che viene dopo “ma ciò non vuole per forza dire che noi conosciamo questo “dopo” ed ugualmente che questo sia necessariamente distinto da ciò che precede .Tale è il segno delle epoche dove, per usare le parole di Heidegger, le divinità antiche si sono ritirate mentre le divinità nuove non si sono ancora manifestate. E il tempo dell’interregno la cui caratteristica secondo Ernst Junger è di “mancare di una verità ultima”19. La divinità che si spegne sotto i nostri occhi è la modernità, quella di cui siamo gli eredi che ci piaccia o no, e le cui categorie ci condizionano. Noi ignoriamo quale sarà la nuova era e le nuove divinità che le succederanno. Di contro ciò che noi possiamo osservare sono gli ultimi segnali di questa modernità che noi chiamiamo, in mancanza d’altro, la postmodernità e, come giuristi,gli ultimi soprassalti del positivismo – che denominiamo in mancanza di meglio – il postpositivismo. Il neocostituzionalismo è il nocciolo dottrinale del post-positivismo. Così osserviamo il fallimento progressivo della forma politica statale che fu l’ultima costruzione tecnico-giuridica della razionalità occidentale e di cui il neo costituzionalismo tenta di illuminare gli ultimi sprazzi. Questa modernità nella quale siamo vincolati proviene da due correnti di pensiero che hanno posto i loro fondamenti concettuali e le loro contraddizioni: l’illuminismo e il romanticismo. I dogmi sui quali posa la modernità sono i seguenti: l’autorealizzazione continua dell’individuo attraverso la ragione – il sapere aude -,il pensiero in se kantiano – per raggiungere la maturità e arrivare all’emancipazione; il ritorno mitico all’infanzia perduta e all’innocenza della natura essa stessa mitizzata; il progresso lineare, inesorabile e indefinito; la realizzazione dell’utopia, la possibilità di realizzazione di un altro mondo, distinto dal presente, dove si erigerebbe la città perfetta e dove si raggiungerebbe la pacificazione universale. La postmodernità giuridica dipende anche da questi dogmi,che hanno subito un certo lifting ma si conservano tali e quali. Nell’autorealizzazione dell’individuo espressa dai diritti di ultima generazione (l’immagine stessa di “generazione” evoca questa espansione indefinita): diritto alla disposizione assoluta e senza limiti sociali del proprio corpo, alla mutazione antropologica del “genere”, alla follia, alla vita, alla morte ecc-noi siamo arrivati alla decostruzione totale della relazione del soggetto e dell’oggetto. Al punto anche di poterla del tutto trascurare, malgrado il diritto moderno, fino allo stato di diritto, derivasse dalla distinzione cartesiana del soggetto e dell’oggetto – anche se, qui, il soggetto era piazzato sopra l’oggetto o per dirla diversamente, il soggetto era al centro e l’oggetto alla periferia (essendosi Cartesio così distanziato dalla filosofia classica dove c’era corrispondenza e non dipendenza dell’oggetto rispetto al soggetto). In effetti, per lo ius, il conflitto giuridico è una disputa sulla ripartizione dei beni della vita, materiali o simbolici. Dalla cosa disputata si estrae lo ius, il criterio di attribuzione proprio a ciascuno cioè la res justa. Concentrandosi sul soggetto, il cartesianismo alterava già questa relazione, ma la post-modernità l’ha trasformata in modo fondamentale. Con essa non resta più oramai che il soggetto solitario, titolare di diritti prima ancora di entrare in contatto con l’altro e di cui l’identità non deriva ormai che dalla sua volontà egoista. Questa costruzione e ricostruzione permanente del soggetto, personaggio esclusivo della scena giuridica la cui autorealizzazione reclama la disseminazione indefinita dei diritti soggettivi fondamentali si concretizza a mezzo dell’attivismo giudiziario e dell’agitarsi degli attori sociali impegnati (come le ong). Come sostenuto dai suoi partigiani, lo Stato costituzionale di diritto opera su principi teorici che esprimono insieme i valori incarnati dai diritti dell’uomo, in un processo circolare e in costante espansione. I principi “positivizzano quanto considerato prerogativa del diritto naturale: la determinazione della giustizia e dei diritti dell’uomo”20. I valori, in una società post-moderna sono così plurali e così relativi che devono coesistere e preservare le loro contraddizioni. Tale coesistenza di valori s’esprime “nel duplice imperativo del pluralismo dei valori (in ciò che riguarda l’aspetto sostanziale) e della lealtà del loro confronto antagonistico (per ciò che concerne l’aspetto procedurale”; riveste anche il ruolo di punto focale e indistruttibile di qualsiasi vita sociale, politica, giuridica “le supreme esigenze costituzionali… si congiungono all’intransigenza e… alle antiche ragioni della sovranità”21. E il fardello della comune preservazione dei valori contraddittori affermato dalla supremazia del pluralismo, ricade sui giudici che si servono a questo fine di un “diritto flessibile” e, utilizzando un’altra immagine, d’una dogmatica giuridica “liquida” o “fluida”22. Perché i giudici, nello Stato costituzionale di diritto, sono i “nuovi signori” di questo diritto flessibile e si sostituiscono al legislatore quale figura centrale dello Stato di diritto. Può allora parlarsi di governo dei giudici? Forse, ma non nel senso evocato dall’antico – ma non anacronico – caveat di Lambert23. Oggi l’espressione significa soltanto che la conflittualità politica si è spostata: dalle alleanze di governo con la loro legislazione alle maggioranze docili alla nomina dei giudici dei Tribunali supremi (Corti costituzionali o supreme); e, poi, nei gradini inferiori, alla manipolazione delle procedure per la nomina dei consigli dei magistrati e di altri organi simili, o ancora dell’addomesticamento dei giudici in servizio. Giudici già designati con procedure improprie (o anche fraudolente) nelle commissioni disciplinari o nelle commissioni di concorso – tutto ciò formalmente attestato nella recente storia giudiziaria dell’Argentina – per non citare che un esempio. Non si tratta quindi di un Governo di giudici, ma di governare i giudici. Più ancora il neo-costituzionalismo sembrerebbe tendere alla formazione di uno Stato giudiziario, dove l’ultima parola, la decisione sovrana, spetterebbe al giudice, non in applicazione di norme preventivamente statuite ma di principi. Come scriveva Carl Schmitt riguardo al potere giudiziario statale “a stento si può ancora parlare di Stato, perché l’ambito della comunità politica sarebbe occupato da una comunità giuridica, o almeno, a seconda dei casi, apolitica”24. Ma, come notavamo in precedenza, la pretesa di neutralizzare la politica e rimpiazzarla con un tecnicismo giudiziario frana per la natura delle cose. Perché allora il campo (o uno dei campi decisivi) verso il quale si concentra la conflittualità politica diviene il Tribunale, col risultato di politicizzare la giustizia e contemporaneamente di giudiziarizzare il politico. Ciò che esce dalla porta, rientra – rumorosamente – dalla finestra. Il ricorso alla distinzione tra atti amministrativi e atti politici, che permetteva d’invocare la non giudiziarizzazione di questi ultimi e stabilire – sotto forma di un accordo politico – un’area di self-restraint del potere giudiziario (estensiva o restrittiva secondo le circostanze da governare) già discutibile nella teoria dello Stato di diritto classico, ancor più è indifendibile con l’ortodossia dello Stato di diritto costituzionale. Col sottomettere tutto l’apparato normativo statale al controllo di legalità internazionale (conventionalité) e costituzionalità (per sottrarlo a decisioni aleatorie) lo Stato in quanto sostanza politica perde la sua coesione unitaria (entièreté) e, di conseguenza, ogni credibilità ontologica. L’idea di un consenso politico Il neo-costituzionalismo sottolinea, di rimando, che la dimensione politica del giudice post-moderno consiste nell’esprimere, colle sue sentenze, un “consenso razionale” tra valori contrapposti. La fonte dei principi messi in gioco per stabilire un siffatto consenso deriva dalla “tavola” (grille) dei valori dei diritti dell’uomo, che delimita una zona non negoziabile, “illimitata (hors-limites) e inviolabile”, che come spiega Garzon Valdes25 “esige eticamente l’intolleranza o se si preferisce la dittatura contro quelli che pretendono di invaderla”26. La politica odierna non sarebbe più capace di mediare i conflitti concernenti “valori essenziali” né d’esprimere un qualsiasi “consenso razionale”, mentre la politica giudiziaria, col suo strumentario (appareillage) tecnico ricolmo d’imparzialità, è presentata come la sola capace di padroneggiarla (maîtrise). Il “consenso” diviene così una delle parole feticcio di politici e giornalisti: “Governo e opposizione cercano consenso sulle misure da prendere per contenere il rialzo dei prezzi”, “I ministri degli Esteri dell’UNASUR hanno raggiunto il consenso per eleggere il segretario generale: “Per decidere si ricercherà il consenso con il resto degli eletti in Comune” ecc. ecc.. In ogni caso tale consenso somiglia all’unanimità. Questa ricerca (vogue) del consenso, e del vocabolario a questo connesso, può considerarsi l’eco lontana di una concezione filosofica – quella dell’ “azione comunicazionale” e della teoria consensuale della verità – nello stesso modo in cui si trova l’eco della grande letteratura in certe telenovelas. Tale formulazione, di cui Jürgens Habermas è uno degli ispiratori, pretende che – in un contesto ideale di linguaggio – si può ottenere un consenso morale e razionale attraverso la discussione libera e leale che consacrerà, ancor più, la verità di una proposizione (proposition). Nelle società pluraliste, dove si trova un nocciolo duro costituito dai diritti fondamentali tratti dalla Costituzione cosmopolitica, la quale difende l’antagonismo dei valori di cui garantisce la pacifica co-abitazione, il consenso morale-razionale dev’essere capace di pervenire per la sua verità e rigore all’assenso generale. In altri termini, la forza generatrice del consenso troverà un terreno più fertile nel giudice, signore del diritto che decide con calma a seguito di una discussione razionale ed equa, ascoltando gli interessati che nel legislatore (negoziatore della legge) costretto a “riunire” maggioranze con la distribuzione di prebende tra interessi organizzati. L’idea di un consenso politico che potrebbe superare l’insufficienza del principio maggioritario e così portare ad un’unanimità teorica, proviene come si sa da Rousseau. Se, a fianco della nostra volontà indirizzata dall’interesse particolare (la “volontà di tutti”), noi partecipiamo in quanto cittadini a un’altra volontà (la “volontà generale”, rivolta al bene comune) allora la legge votata dalla maggioranza – anche se si rivela contraria alla mia opinione – esprimerà quanto meno la mia partecipazione personale alla volontà generale. Mi sono così mutato in co-legislatore della legge cui obbedisco, e assoggettandomi, non obbedisco che a me stesso. Questo consenso umanimistico della volontà generale implica che al di fuori di tale consenso, la sola via sia l’esilio e che viene meno la distinzione politica di comando ed obbedienza, perché queste due funzioni si confondono nello stesso soggetto. Kant stesso è ritornato su tale consenso forzato, considerato da Bertrand De Jouvenel come “frode intellettuale inconsapevole”27. E’ perché la volontà generale non è più trasponibile nella nostra epoca che si spiega il cambiamento neo-costituzionalista, un consenso che passa dalla politica al diritto, dal legislatore al giudice, ma al prezzo di una marginalizzazione della politica e di uno sconvolgimento del diritto che finisce per fabbricare, partendo dai tribunali, delle “unanimità” altrettanto forzate della teoria maggioritaria della sovranità popolare. Tentiamo un altro approccio al consensus, che non abolisca la politica e renda ipertrofico il diritto, Torniamo a un classico come Cicerone, che elaborò tale concetto. Al posto di un consenso a costruire poi la società, si tratta di precederla costituendo il suo basamento fondamentale: il consenso non gli sarebbe posteriore, ma ne costituirebbe l’antecedente: non ne sarebbe il risultato, ma la precederebbe rendendola possibile. E’ il consenso di tutti (consensus omnium). Questo connota l’insieme delle credenze fondamentali tramandato di generazione in generazione; tale consenso unificatore “consente di fare liberamente ciò che le leggi obbligano a fare”28. Il legame di cittadinanza (civique) è unito al legame giuridico, al consensus juris, al consenso sul diritto, cioè su un comune sentire su ciò che è justum. Secondo l’Arpinate, il consenso su ciò che è giusto trasforma una moltitudine in popolo e da forma alla res publica, alla cosa pubblica, la cosa comune, la cosa di tutti. Il principale dovere civico consiste quindi nel sorvegliare il consensus juris fondatore delle res publica, depositario della sua realtà concreta come unità politica, in altre parole della sua costituzione originaria. E soltanto su tale base consensuale, e unicamente su essa, ch’è possibile stipulare accordi e compromessi per superare la conflittualità politica e realizzare la convivenza nella concordia. Come sosteneva Simmel ai suoi tempi, accordo e compromesso sono “una delle migliori invenzioni dell’umanità”29. Ma ogni accordo suppone il terreno comune d’un consenso unificatore preventivo, base della comunità politica accanto a questo bene comune che è il diritto. Il consenso è qui l’insieme delle credenze comunitarie fondamentali su cui può successivamente costruirsi l’edificio giuridico-politico. All’inverso il consenso neo-costituzionalista appare come una costruzione sociale e culturale, continuamente mutevole, di raggruppamenti eterocliti che hanno per scopo di preservare simultaneamente dei valori opposti ed eterogenei – senza mai preoccuparsi di uno spazio comune. In questo operare continuo, si corre il rischio di cadere nell’avvertenza ricordataci dal brillante romanziere spagnolo che ci ha servito d’epigrafe. Al di là delle intenzioni sicuramente lodevolissime dei loro attori, la produzione a ritmo accelerato di consenso per via giudiziaria può, malgrado il lavaggio mediatico dei cervelli, avverarsi solo con la fabbricazione a catena d’unanimità semplicemente virtuali e supposte con le quali – come scriverebbe Emil Cioran – si finisce per praticare un “assassinio per entusiasmo” dei principi fondamentali che si difendono. La filosofia dei valori, risposta al nichilismo. Un noto pensatore come Garzon Valdés sosteneva (forse solo a titolo di provocazione intellettuale e per “animare il dibattito”), che coloro che non comprendono l’importanza del complesso dei diritti e valori fondamentali che costituisce i “fuori limite”, saranno classificati come “incompetenti di base” e resteranno sottomessi alle decisioni di quelli che saranno, al contrario, ritenuti come pienamente competenti sull’oggetto. E’ il famoso “li si costringerà ad essere liberi” di Rousseau, salvo che oggigiorno, se i marginalizzati scegliessero l’asilo nello spazio pubblico mondializzato, troverebbero difficilmente un angolo dove rifugiarsi. Il filosofo argentino si riferisce sicuramente ai nazisti che preparavano la “soluzione finale”, o ai colonizzatori spagnoli ribelli alle leyes nuevas del 1542 sul trattamento umano e la protezione degli indiani. Ma, al di fuori dei grandi archetipi delle malignità che agiscono sotto il motto del Lucifero di Milton (“Male sii il mio Bene”), osserviamo quotidianamente nel mondo reale che la discordia non deriva dal rigetto in blocco dei “fuori-limite”, ma nasce tra avversari che accampano, a sostegno dei loro comportamenti, giustificazioni interne ai “limiti” (à ce hors-limites). I cattivi ordinari, in ogni caso, argomentano come dei buoni perdenti. Non si dice come potrebbe esercitarsi correttamente ed effettivamente questa dittatura dei competenti sugli “incompetenti di base” salvo che si avverte che solo i membri del partito dei neo-costituzionalisti vi saranno intrinsecamente qualificati. Il problema, come notato da Schmitt, rinvia conseguentemente al quis iudicabit? ovvero a chi avrà in ultima istanza, il potere di giudicare reprobi ed eletti, gli invitati all’agape del dibattito leal-idealista e i condannati alle tenebre? Quando proclamiamo la necessità d’una coabitazione di valori eterogenei, ci si rende conto che ciò non basta, a meno di nascondere soltanto il problema, invece di risolverlo. E’ per questa via metodologicamente indiretta che la confusione neo costituzionalista miscela i principi con i valori. Al termine della metafisica classica, la filosofia dei valori ha tentato di occupare il posto di un’ontologia moribonda30. In un notevole lavoro su questo tema Carl Schmitt precisava che fu all’inizio una “risposta alla crisi nichilista del XIX secolo”31. Il valore e la validità, riteneva dal canto suo Heidegger, arrivano a divenire un sostituto positivista della metafisica. I valori non sono essenze: “Non sono, ma valgono” e non significano niente al di là della relazione con il soggetto che valuta gli oggetti in relazione ai suoi desideri, ai suoi bisogni, alle sue preferenze ecc.. La nozione di “valore” non ha mai potuto sfuggire alla sua origine economica. Ogni valore suppone una competizione con altri valori: questa s’esprime sempre nel giudicare che l’uno è “migliore” dell’altro, il che comporta, per misurarla, il passaggio dalla qualità alla quantità. Parlare di valore significa quindi costruire – nel compromettente scenario d’un soggettivismo profondo – una scala e una “quotizzazione” mobile di tali o talaltri valori. E chi definisce un valore deve, insieme, definire un antivalore, un valore negativo. I valori, nota Schmitt «valgono così sempre contro qualcuno». Il problema si sposta allora su chi fissa le diverse coordinate della scala mobile dei valori, chi ha il potere di dichiarare che una cosa è migliore o peggiore di un’altra, il quis iudicabit? … Quando dal neo costituzionalismo si afferma che l’unico metavalore inamovibile è quello della preservazione del pluralismo, s’intronizza così una sorta di autorità obiettiva che avrebbe la capacità di decidere quali valori integrare nella diversità plurale da rispettare, e quali sono quelli che, all’inverso, dovranno essere iscritti nella lista dei valori da evitare, da non ammettere alla gara del consenso. L’idea di valore implica necessariamente una pluralità di giudizi comparativi che riafferma la sua dimensione soggettiva. Ma un pluralismo in cui tutti i valori si equivalessero non è altro che un “sogno della ragione” perché se tutto vale, se il ruolo della valutazione dei valori è giustamente di stabilire una scala e una gerarchia di valutazioni comparative allora non vale più niente e nessun “consenso razionale” è più possibile a partire da operazioni misurate su un insieme sistematicamente svalutato che non sposterebbe neppure l’ago della bilancia. Sarebbe erroneo, d’altro canto, immaginarsi di poter giungere al “consenso razionale” attraverso una disputa su valori opposti. Il fondamento di tale errore risiede nell’assimilazione, fatta dal neo costituzionalismo, tra principi oggettivi e valori soggettivi. Il diritto come arte della gestione e regolamentazione dei conflitti, ha da sempre fatto ricorso ai principi – i “principi generali del diritto” ecc. – perché i principi partono d’una evidenza originale indimostrabile, base di ogni dimostrazione oggettiva: essi non precedono dalla pura soggettività. Di più, i principi sono «pro-etici», ossia sono di guida, indicano, mostrano, consigliano, persuadono senza pretendere d’imporsi. Partendo da questi, è possibile trovare la formula di ripartizione più giusta ed equilibrata. Al contrario i valori sono “tetici”32 ossia s’impongono per essere esercitati. Il valore non ha altra evidenza che quella della propria soggettività, si difende e s’installa ostinatamente come una conclusione in se: si rivela, in definitiva “conflittogeno”, e se viene imposto mascherato dall’unanimità virtuale attraverso l’opera del consenso razionale, allora tenderà a far scoppiare il bellum omnium contra omnes. Globalismo giuridico e disarmo degli stati. Il programma neo-costituzionalista è sufficientemente egemonico per essere “applicabile a qualsiasi ordinamento, anche internazionale”33 Ferrajoli distingue a tale proposito due percorsi d’intervento. Il primo è “il superamento delle sovranità attraverso la rifondazione del sistema delle fonti e la proiezione, sul piano internazionale, delle istanze statali tradizionali delle garanzie costituzionali” … In altri termini: la diffusione planetaria della Costituzione cosmopolita e il ricalco delle decisioni giudiziarie supreme sul nocciolo duro dei valori e diritti a pretensione globale. Il secondo è: il superamento delle frontiere statali delle cittadinanze attraverso l’instaurazione d’una cittadinanza universale”. Ovvero l’elargizione definitiva della cittadinanza cosmopolita Kantiana per una sorta d’edittto di Caracalla planetario. Tuttavia, dato che le norme non s’impongono da sole, né le sentenze s’eseguono in forza della sola enunciazione (esigono una volontà e una coazione esecutiva per divenire effettive), sembra che occorra allora ricorrere al potere esecutivo politico. Ora, lo constatiamo un’ennesima volta, il neo-costituzionalismo da un colpo finale onde anestetizzare l’elemento politico che caratterizzava lo Stato di diritto classico, ossia il principio democratico della sovranità popolare. S’impongono una serie di valori e di diritti fondamentali indecidibili e inattaccabili dalla maggioranza e neppure dall’unanimità, allorquando si trasforma il giudice, compreso il giudice a competenza generale, in sovrano. E’ la politica che diventa uno strumento d’intervento del diritto, precisa Ferraioli34. E’ su tale percorso che viene proposto di cercare una “sfera pubblica globale” cosparsa d’ “istituzioni internazionali (giudiziarie) di garanzia” destinate ad applicare un minimum di diritto penale globale, il cui archetipo è la Corte penale internazionale (CPI) competente ai crimini contro l’umanità e organizzata dal Trattato di Roma del 17 luglio 199835. Questo nuovo obiettivo neo-costituzionalista, assai prossimo al “globalismo giuridico” dovrebbe essere accompagnato da riforme nel sistema attuale delle relazioni internazionali: “modificare gli organi dell’ONU, cominciando dal Consiglio di sicurezza … la progressiva sparizione delle forze armate, il rilancio del disarmo degli Stati, compresi i più potenti e riprendere gli interventi e stipulare convenzioni tutti orientati verso l’interdizione totale alla vendita e produzione di armi”36. Se si considera la questione di sapere chi dovrà eseguire le decisioni di queste istituzioni di garanzia, tenuto conto dell’interdizione progressiva della guerra, la corrente neo-costituzionalista evoca un “intervento di polizia internazionale (che) supporrà, essenzialmente un’opera di mediazione giuridicamente regolata, per le garanzie e i controlli processuali che il diritto comporta”37. La pretesa di neutralizzare la dimensione politica dell’uomo, qui mediante l’intermediazione del diritto, non è meno falsa ora che all’esordio. Essendo un dato che la dimensione politica è propria dell’uomo, volerla sopprimere equivale a disumanizzarla. Non è neppure necessario rammentare Aristotele: basta chiedersi se noi ci stiamo avvicinando alle divinità o abbassandoci alla mediocrità. Il diritto non può instaurare la pace. L’avvenire della pace universale promessa dal neo-costituzionalismo è ben nota. Hans Kelsen, al termine della seconda guerra mondiale, ce l’aveva descritto ne “La pace attraverso il diritto” la pace sarà stabilita attraverso il diritto. La pace sarà un diritto azionabile davanti ai Tribunali internazionali e la guerra, considerata crimine, sarà perseguita davanti a questi. Lo jus ad bellum, il diritto di ricorrere alla guerra sarà prescritto, e al posto suo, sarà posto uno jus contra bellum, che punirà la belligeranza. Si utilizzeranno le armi soltanto per mantenere o ristabilire la pace, in nome dell’umanità. Risorgeranno le guerre discriminatorie, dove il nemico sarà demonizzato come nemico dell’umanità e condannato alla distruzione totale. le guerre discriminatorie s’unificheranno e si presenteranno come una guerra civile unica, totale e perpetua, contro il “Male”, fino a quando non sarà definitivamente estirpato. Il territorio di questa guerra è senza confini. Copre tutto il pianeta. In questo mondo nuovo, nessuno può restare neutrale, perché la neutralità è necessariamente alleanza col nemico, ossia con il “Male”. E’ l’eccezione che diviene così permanente sotto la copertura della democrazia e del diritto. “Davanti all’irresistibile progresso di ciò che è stato definito come “una guerra civile mondiale” scrive Giorgio Agamben, “lo stato d’eccezione tende sempre più a presentarsi come il paradigma di governo dominante nella politica contemporanea”. Questo Stato d’eccezione, continua Agamben, “si presenta in questa prospettiva come una soglia d’indeterminazione …tra democrazia e assolutismo”38. La pace non si è stabilita attraverso il diritto, perché il diritto non può instaurare la pace. La può sostenere una volta stabilita, ma la pace costituisce l’esclusiva opera dell’alta politica. Come sottolineava Julien Freund, pace e guerra sono nozioni reciproche: è impossibile conseguire la prima senza tener conto della seconda e del nemico. perché la pace si fa col nemico, ha bisogno del nemico “la relazione tra pace e guerra è politicamente così stretta, scriveva Freund, che qualora si criminalizzi la guerra … si criminalizza anche la pace”39. Poco importa allora che le nuove operazioni militari sferrate per “ragioni umanitarie” siano denominate guerre od operazioni di polizia. In ogni caso, l’intervento diviene discriminatorio e demonizza il nemico considerandolo fuori dell’umanità, e per di più dando ragione a Tribunali istituiti per giudicare i vinti e consacrare la superiorità morale del vincitore40. Così il neo-costituzionalismo porta alle estreme conseguenze la neutralizzazione del politico (occorrerebbe anche indubbiamente parlare di dislocazione), processo già in atto, ma non ancora completato nell’epoca dello Stato di diritto classico. Per giudiziarizzare completamente gli elementi politici, occorreva operare un rinnovamento del positivismo, decostruendo la tappa normativista di Kelsen e la sua teoria pura del diritto verso un “positivismo dei valori” utilizzante la piramide delle norme come un sistema tentacolare almeno così stretto e cogente (violent) del diritto naturale, ma ancor più meccanizzato in forza della sua paradossale origine positivista. Il passaggio della testualità giuridica ai principi del diritto non fu, in questo stadio, senza risultati innovativi (nouvelles) sui rapporti tra diritto e politica. Implicò notoriamente di sopravalorizzare il giudice e la sua interpretazione delle regole. Servendosi della tipologia dei giudici e dei modelli di diritto elaborati da François Ost41, potremmo caratterizzare il Giudice post-moderno come un “giudice Mercurio” (Ermes). Il “giudice Giove” (jupiter) sarebbe collocato al vertice della piramide normativa, (essendo) l’unico capace di poterne dedurre in modo inflessibile della decisione. Il “giudice Ercole”, conformemente alla parabola di Dworkin avrebbe l’onere infine della conoscenza del diritto richiesta onde identificare i principi direttivi che consentiranno di decidere nel caso concreto in giudizio. Qui l’innovazione è quella di una piramide rovesciata o d’un imbuto. Il compito del “giudice Mercurio” (sul punto mi allontano dalla descrizione del professore belga) è di restare attento al corso dei valori che la condizione spirituale dell’epoca lo Zeitgeist, considera come dominante. In conclusione, si può constatare che il neo-costituzionalismo è un portare alle estreme conseguenze lo stato di diritto al fine di depolitizzarlo, ma che non inventa un nuovo paradigma che supererà il positivismo. Lo trasforma in un positivismo dei valori. Fa dello Stato di diritto un tecnico normativista dei diritti dell’uomo a beneficio d’un potere giudiziario divenuto l’attore emergente della “post-politica”42. Luis Maria Bandieri (tradotto dal francese da Maria D’Antonio)

 

Presentazione a “Dallo stato di diritto al neo-costituzionalismo”, di Teodoro Klitsche de la Grange

Presentazione a “Dallo stato di diritto al neo-costituzionalismo”(*)

Sono molti gli interrogativi che pone questo denso saggio del prof. Bandieri sul neo-costituzionalismo.

Come scrive Michel Lhomme nella presentazione dello scritto su “Nouvelle École”[1] “Può sintetizzarsi la dottrina neo-costituzionalista in quattro punti: 1) Prevalenza dei diritti dell’uomo su ogni (altro) diritto; 2) Affermazione di questa preminenza nella e per mezzo della Costituzione, per pararsi da un “colpo di stato” parlamentare; 3) l’imposizione di una norma giuridica immediatamente applicabile, senza discussione legislativa, è mettere tra parentesi il concetto della sovranità popolare, del demos; 4) infine l’istituzione di un’autorità giuridica superiore che sanziona la violazione delle norme costituzionali, e che si basa sui giudici costituzionali (che non sono solo quelli interni ma anche dei Tribunali internazionali – NDR…)”.

Altre sintesi sono state formulate per le concezioni degli studiosi neo-costituzionalisti[2].

Le critiche di Bandieri al neo-costituzionalismo possono riassumersi così:

1) Il neocostituzionalismo non è opposto al neo-positivismo, ma ne è una seconda fase: un positivismo di valori al posto di un positivismo di norme.

2) Il neo-costituzionalismo è coerente all’attuale fase (di decadenza) dello Stato moderno. Si può dire che come il positivismo giuridico della seconda metà dell’800 corrispondeva al “mezzogiorno” del Rechstaat, e come questo era un “Centauro” machiavellico[3] (metà uomo – il Rechtstaat, metà animale – il Machtstaat), così il positivismo giuridico “classico”, come scrive Schmitt, era una sintesi di decisionismo e normativismo.

Con Kelsen e il normativismo si aveva il primo depotenziamento, corrispondente all’accentuarsi del carattere democratico degli Stati europei, al pluralismo politico e quindi allo Stato pluriclasse (M.S. Giannini). Con lo Stato costituzionale di diritto (o dei diritti) lo Stato, oltre che pluriclasse tende a diventare anche pluri-etnico; nel contempo si accresce la presenza nell’ordinamento del diritto “esterno”, cioè internazionale, a opera non solo degli Stati, ma delle Corti di giustizia internazionali e della soggezione degli Stati a sistemi d’alleanza invasivi e alla globalizzazione del diritto.

3) Tuttavia tale diverso approccio non risolve i problemi e le contraddizioni né costituisce una novità radicale. Il diritto “mite” o “liquido” si basa sempre, come ogni diritto, sulla coazione e in ciò, come insegnava Kant, consiste la sua differenza dalla morale. La prova più evidente ne sono le guerre, ribattezzate atti di polizia internazionale e che hanno poco di nuovo rispetto agli atti d’intervento già conosciuti dalla Storia (dall’intervento italiano nel regno delle Due Sicilie nel 1860, a quelli del Patto di Varsavia in Ungheria e Cecoslovacchia, ambedue fondati sulla Dichiarazione di Yalta sull’Europa liberata)[4]. È la motivazione che cambia (Pareto avrebbe scritto la derivazione): l’Unione sovietica era comprensibilmente renitente a farsi sottrarre attraverso congressi, discussioni, cambiamenti di maggioranze di partito quello che era stato conquistato con il sangue di centinaia di migliaia di soldati sovietici, e riconosciuto (e stipulato) con accordi internazionali di spartizione geo-politica.

Gli interventi umanitari di quest’ultimo ventennio hanno il pregio delle buone intenzioni, ma non quello di essere costati perdite, umane e materiali, né di essere originati da una violazione a diritti dello Stato, e del conseguente diritto a “riparazione”[5].

4) Il neo-costituzionalismo non incide, ovviamente, sul rapporto comando-obbedienza, presupposto del “politico”. In particolare non elimina, come detto, la coazione dal diritto, del quale, come sostenuto da Kant e Thomasius, è una componente essenziale. Il diritto, per essere tale può essere mite o inflessibile, fluido o solido, ma deve necessariamente avere i carabinieri alla porta. Quello che realmente il neo-costituzionalismo modifica è il “tipo” dello Stato che diventa da legislativo-parlamentare a giurisdizionale (Justizstaat).

Non contribuisce a ciò solo il fatto più vistoso – la diffusione delle Corti che giudicano della costituzionalità delle leggi (cioè dell’operato legislativo dei Parlamenti e dei Governi). Accanto a quello c’è la diffusione delle Corti internazionali e la previsione dell’ “adeguamento” della legislazione interna a quella internazionale, anche senza il passaggio attraverso leggi di “recepimento”.

Il che mette in forse il carattere di “chiusura” dello Stato, che diventa “permeabile” alla normazione e anche all’iniziativa politica di altri Stati.

5) La critica di Bandieri sottolinea le illusioni sulla sostituzione del diritto alla politica. La dimensione politica dell’uomo è insopprimibile, sostiene, nella scia di Aristotele e S. Tommaso, lo studioso argentino. Pretendere che procedure, contraddittorio, mediazione, “bilanciamento” possano surrogare legittimità, autorità, consenso è un’illusione ricorrente nella modernità. Marx credeva di ridurre la politica all’economia, e abbiamo visto com’è finita; oggi si cerca di ridurre quella al diritto, alla tecnica, all’etica, domani, forse, all’arte, con risultati prevedibilmente non dissimili da quello del (defunto) socialismo reale.

Questo – ed altro – c’è nel saggio di Bandieri. Il lettore ne trarrà le somme. Per intanto vorrei sottolineare due tra le “fallacie” decisive del neocostituzionalismo, ed altrettanti considerevoli meriti dello stesso.

Cominciando da quest’ultimi: è indubbio che sostituendo “principi” o “valori” alla norma kelseniana il neo costituzionalismo risulta più aderente alla realtà dello Stato contemporaneo, con controllo di costituzionalità e relative corti allo stesso competenti.  Che queste debbano poi giudicare le leggi in base a “principi” e “tavole di valori” più che a norme gerarchicamente ordinate (stufenbau) è la constatazione di una prassi; a sua volta fondata su esigenze e caratteri delle costituzioni contemporanee, con norme spesso contraddittorie che vanno “bilanciate” e “compromessi formali dilatori”, così frequenti nelle costituzioni degli Stati pluriclasse, cui dare senso (e così scritti e reiscritti) in base a “valori”; questi costituiscono i momenti di sintesi – e verifica – di precetti generici e sostanzialmente confliggenti. D’altra parte è pur vero che il richiamo a principi e valori immette nell’istituzione un surplus di “fluidità” che richiama, e non poco, quella tesi di Hauriou, il quale vedeva nell’ordinamento un ordine non statico, al punto che la paragonava a un esercito in marcia (agmen): che marcia e procede conservando la forma. E rimproverava a Kelsen e, per diverse ragioni, a Duguit di aver concepito il diritto come un insieme statico, e quindi – in sostanza – poco vitale (e reale), perché non aderente alla mutevolezza delle situazioni e delle relazioni sociali[6].

Quanto alle “fallacie” il neo-costituzionalismo condivide con il suo antecedente – il normativismo – di considerare decisivo il parametro di riferimento “oggettivo” del giudizio giuridico (e giudiziario): cioè il “principio” o il “valore” (al posto della norma sopraordinata). Tuttavia apprezzare la congruità rispetto ai valori piuttosto che alle norme è attività, sicuramente giuridica, ma non esauriente né decisiva del diritto.

Non esauriente perché accantona il problema dell’effettività (e dell’applicazione) del diritto. Sul punto ci si può riportare alla critica che fa Bandieri citando Cicerone e il consensus omnium: ciò che rende credibile e applicabile il richiamo ai valori (e il sindacato delle leggi in base ai valori) non è tanto la procedura adottata o la saggezza dell’interprete, ma il fatto che quei principi o valori, in base ai quali si giudica, siano condivisi dai cittadini. Per tale profilo una decisione del giudice vale quanto una deliberazione del Parlamento o un provvedimento del governo. Ma anche, sotto un diverso aspetto, alla nota concezione di Santi Romano che il diritto è in primo luogo la “complessa e varia organizzazione dello Stato”[7] (che sposta l’angolo visuale dal momento del consenso preventivo a quello della coazione efficace); e a quella di Smend sui fattori d’integrazione e al suo concetto “dinamico” della costituzione come integrazione della sintesi politica: per cui i valori sono riconducibili ad uno dei fattori d’integrazione – quello “materiale”, mentre il neocostituzionalismo non considera e tiene in disparte gli altri due (funzionale e personale).

Si può così rivolgere al neo-costituzionalismo la stessa obiezione fatta al normativismo: che è una coperta troppo corta. Ad esempio la legittimità è generalmente concepita in primo luogo come opinione dei governati sul diritto che ha chi governa, di governare: in un regime democratico, gli eletti dal popolo. Ma nel “governo dei giudici” e così delle Corti costituzionali, il principio democratico è debolmente presente, perché la composizione di queste è rapportabile solo mediatamente, parzialmente e indirettamente alla volontà (e decisione) del popolo, espressa dal corpo elettorale[8]. La legittimità democratica delle corti è assai gracile, mentre lo è, ben più robusta, quella degli organi i cui atti le corti devono controllare: parlamenti e governi. E così è in gran parte delle costituzioni moderne.

D’altra parte il neo-costituzionalismo identifica la Costituzione con la “tavola dei valori” espressa nelle norme della costituzione formale; per cui è costituzionale ciò che è a quella conforme. Se tuttavia per costituzione s’intende l’ordinamento dell’unità politica, costituzionale (o meno) non è tanto il conforme a principi o valori ma ciò che è conforme all’esistenza (in suo esse perseverari) della sintesi politica. In fondo questo opposto concetto di costituzione (o meglio di essenza della costituzione) dura ormai da due secoli. A chi riduceva la Costituzione a norme ed ai principi dello Stato borghese (M.me de Staël, ma tale concezione era condivisa dai rivoluzionari dell’89 – v. art. 16 Dichiarazione dei diritti del 1789), Louis de Bonald replicava che la costituzione di un popolo è il modo della sua esistenza[9].

Per cui è costituzionale quello che conserva e fa durare l’unità (la sintesi) politica. Cioè qualcosa di essenzialmente estraneo alla funzione giudiziaria.

Radbruch contrappone il dovere del governante e quello del giudice, in due (notissime) espressioni latine: per il primo l’imperativo consiste in  salus rei publicae supema lex; per il secondo fiat iustitia pereat mundus.

Con la conseguenza che se il primo adotta come regola di condotta la massima del secondo, è un cattivo governante; se il secondo quella del primo, un pessimo giudice. Ciò non toglie che potrebbero essere dei buoni giudici i primi, e dei buoni governanti i secondi. Ma hanno il limite di trovarsi nel posto sbagliato.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

Louis Maria Bandieri, nato a Buenos Aires nel 1945, è professore titolare ordinario di dottorato e post-dottorato all’Università cattolica argentina (UCA) “Santa Maria de los Buenos Aires”. Dottore in diritto e scienze giuridiche, è l’autore di numerose opere e di molti articoli dedicati a temi giuridici. Ha tenuto corsi e conferenze in diverse università latino-americane ed europee (tra cui l’Università di Orlèans). Studioso del pensiero di Carl Schmitt, attualmente sta lavorando alla teoria del federalismo.

(*) Si ringrazia il Prof. Bandieri per aver consentito alla traduzione e pubblicazione del saggio, apparso su “Nouvelle École”, rivista della quale si ringrazia il Direttore Alain De Benoist per aver concesso la traduzione.

[1] n. 62, anno 2013 p. 154.

[2] v., tra gli altri, Aldo Schiavello Neocostituzionalismo o Neocostituzionalismi? www.filosofico.net; Lo Stato costituzionale dei diritti; G. Bongiovanni La teoria costituzionalistica del diritto di Ronald Dworkin – tutti reperibili in rete

[3] Si noti che Machiavelli usa il paragone del Centauro proprio in relazione al rapporto, si direbbe oggi, tra forza e diritto “Dovete adunque sapere come e’ sono dua generazioni di combattere: l’uno, con la legge; l’altro, con la forza. Quel primo è proprio dello uomo; quel secondo, delle bestie. ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo: pertanto ad uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo. Questa parte è suta insegnata alli principi copertamente dalli antichi scriptori, li quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuole dire altri, avere per preceptore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna ad uno principe sapere usare l’una e l’altra natura: e l’una sanza l’altra non è durabile”, Principe, cap. XVIII.

[4] Con una forzatura: quello previsto nella Dichiarazione di Yalta era un intervento delle potenze vincitrici; quelli eseguiti nell’Europa dell’Est erano azioni militari decise da uno solo dei vincitori della seconda guerra mondiale.

[5] Un acuto teologo e giurista come Francisco Suarez scriveva “Unde, quod quidam aiunt, supremos reges habere potestatem ad vindicandas iniurias totius orbis, est omnino falsum, et confundit omnem ordinem, et distinctionem iurisdictionum: talis enim potestas, neque a Deo data est, nequa ex ratione colligitur”; per cui justa causa della guerra è la tutela dei diritti dello Stato (e dei cittadini di questo), ma non la difesa dei diritti di altri, peraltro contro altri Stati, v. De charitate, disp. 13 De Bello.

[6] v. M Hauriou, Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 34 ; v. anche pp., 8 ss. 62, 69, 71, 75.

[7] v. L’ordinamento giuridico rist. Firenze 1967, p. 15.

[8] Tant’è che – solo per ricordare che nella Costituzione italiana nessuno dei componenti è scelto con elezione popolare. Un terzo è scelto dalle magistrature superiori, cioè da poteri burocratici; un terzo dal Presidente della Repubblica, non eletto dal popolo, ma “mediato” dalle Camere; il terzo, il più vicino al corpo elettorale, lo è indirettamente e mediatamente essendo eletto dalle Camere. Anche se ci sono valide ragioni per non eleggere a suffragio popolare i componenti della Corte, resta il fatto che comunque, in una Repubblica democratica e il cui la sovranità appartiene al popolo, l’organo costituzionale più distante dal popolo è proprio quello deputato a giudicare le leggi (deliberate dal Parlamento, ad investitura popolare diretta). Il deficit di democrazia e conseguentemente di legittimità, è evidente.

[9] Observations sur l’ouvrage de Mme la Baronne de Staël…, trad. it. col titolo La costituzione come esistenza, Roma 1985, p. 35.