L’ aperi-cena filosofica _ Il Manifesto convivialista , di Elio Paoloni

 

 

L’ aperi-cena filosofica

Il Manifesto convivialista

 

Elio Paoloni

 

Su questo sito si discute di Manifesti, in particolare della Dichiarazione di Parigi,(https://thetrueeurope.eu/uneuropa-in-cui-possiamo-credere/ ) che, come altri collaboratori del blog, condivido interamente. Parigi c’entra poco, in realtà, anche se tra i firmatari ci sono il medievista francese Rémi Brague, studioso di Maimonide e docente alla Sorbona e Chantal Delsol, la fondatrice dell’Istituto Hannah Arendt di Parigi: tra gli altri firmatari del documento, originariamente redatto in inglese,  troviamo Roger  Scruton, uno dei massimi filosofi anglosassoni, (https://eliopaoloni.jimdo.com/2013/01/14/un-conservatore-relativista ) il polacco Ryszard Legutko, ex ministro dell’Istruzione, docente di Filosofia antica all’Università Jagellonica di Cracovia e prima ancora responsabile intellettuale di Solidarnosc durante la Guerra fredda, il tedesco Robert Spaemann, a lungo compagno di ricerche e studi dell’allora professor Joseph Ratzinger e poi erede della prestigiosa cattedra che fu di Hans-George Gadamer a Heidelberg, lo spagnolo Dalmacio Negro Pavón, membro dell’Accademia reale spagnola per le scienze sociali e poi personalità olandesi, tedesche, norvegesi.

 

Francofoni erano invece i firmatari di un manifesto in cui mi sono imbattuto, quello convivialista, (qui http://www.edizioniets.com/scheda.asp?n=9788846739421 , qui un compendio in PDF http://www.postfilosofie.it/archivio_numeri/anno7_8_numero7/1compendio.pdf ), redatto qualche anno fa con il proposito di unire le diverse anime del pensiero alternativo, di “individuarne il massimo comun denominatore”.

 

Non è così difficile, in realtà, unire diversi volenterosi sull’ennesima esposizione di lodevoli principi: come non concordare sulla nocività della finanziarizzazione del mondo e della subordinazione di tutte le attività umane a una norma commerciale, iniziata con l’imposizione dell’idea di “Fine della storia”? Come dissentire dalla stigmatizzazione dell’imperio del Mercato a discapito di qualsiasi seria azione politica? Come non rammaricarsi, con i firmatari, che venga disconosciuta la “motivazione intrinseca” al lavoro, che si escluda il fare per senso del dovere, per solidarietà, per il gusto di un lavoro ben fatto e per il desiderio di creare?

 

Vediamo dunque i capisaldi della politica convivialista:

 

  • Principio di comune umanità: aldilà delle differenze di colore della pelle, di nazionalità, di lingua, di cultura, di religione o di ricchezza, di sesso o di orientamento sessuale, esiste soltanto un’umanità, che deve essere rispettata nella persona di ognuno dei suoi membri. Sai la novità! Dette duemila anni fa e riproposte, desacralizzate, due o tre secoli fa in tanto solenni quanto inerti dichiarazioni. Ma concordiamo pure.

 

  • Principio di comune socialità: gli esseri umani sono esseri sociali. Un po’ di storia della filosofia e la ritroviamo ancor più indietro dei duemila anni. Ma, ancora una volta, nulla da eccepire.

 

  • Principio di individuazione: la politica legittima è quella che permette a ciascuno di affermare al meglio la propria singolare individualità in divenire, sviluppando le proprie capabilità (apprezzabile richiamo all’etica di Amartya Sen).

 

  • Principio di opposizione controllata: è naturale che gli esseri umani possano opporsi. Ma è legittimo farlo solo se non si mette in pericolo il quadro di comune socialità. Perbacco! E ci si sono messi in quaranta?

 

In effetti i firmatari si rendono conto che la scommessa “porta esattamente su ciò che si cerca dall’inizio della storia umana: un fondamento durevole all’esistenza comune, al contempo etico, economico, ecologico e politico”. Per quel che mi riguarda quel Fondamento esiste già. Non per i convivialisti, ovviamente. Quale sarebbe dunque questo massimo comun denominatore?

 

Forse la costruzione di una società del care, “la cura, la sollecitudine – alle quali le donne per prime sono state storicamente assegnate”. Ed eccoci subito dinanzi alla mancanza di coraggio, o alla necessità di mediazione, insomma al timore di indispettire le femministe, perché quello storicamente andrebbe sostituito con biologicamente.

 

Ma questo non basta, ovviamente. Analizziamo le considerazioni morali dei firmatari: va proibito all’individuo “di sprofondare nell’eccesso e nel desiderio infantile di onnipotenza (la hybris dei Greci)”. Giustissimo! Ma la hybris si configurerebbe, qui, nel pretendere di appartenere a qualche specie superiore (perché mai, infatti, l’uomo dovrebbe essere superiore alla zanzara?) o nel monopolizzare una quantità di beni eccessiva. Non un cenno al galoppare dell’Eugenetica o al delirio di onnipotenza di chi cerca l’immortalità tagliandosi le tette in via preventiva, a prescindere, come la tristemente rifatta Angelina Jolie, approdo ultimo della vaccinocrazia, della medicalizzazione di ogni ambito della vita, della ricerca ossessiva della Sicurezza. Neanche una parola sul delirio di onnipotenza di chi intende annullare i generi, femminilizzare gli uomini, abbrutire le donne. Nessun riferimento a chi manovra per sradicare le tradizioni e imporre a tutto il pianeta, divinizzandolo, un unico regime politico, un unico governo. Ah, dimenticavo: il governo mondiale è anche nei disegni dei nostri buontemponi: nel paragrafo delle considerazioni politiche si prende atto che è illusorio attendere nel prossimo futuro la costituzione di uno stato mondiale. Pare di capire che in un futuro più remoto essa sia probabile, anzi auspicabile. Viva il mondialismo? E in che cosa sarebbe alternativo questo movimento? Nel frattempo, poveri noi, dovremmo accontentarci dell’azione politica di “associazioni e ONG”, magnifici strumenti sovranazionali, progressisti e – come dubitarne – indipendenti che abbiamo imparato a conoscere.

 

Concretamente, continuano i convivialisti, il dovere di ciascuno è di lottare contro la corruzione. Questi umanisti non hanno letto Croce (https://www.storiadellafilosofia.net/filosofia-moderna/benedetto-croce/l-onest%C3%A0-politica/ ). Ad ogni modo, occorre “rifiutare di fare ciò che la coscienza disapprova”. Coscienza con la minuscola? E perché mai, in un mondo relativista, la coscienza di Soros dovrebbe dettare gli stessi imperativi di quella di un derviscio rotante? Chi stabilisce, nel mondo del pensiero debole, liquido, più propriamente diarroico (che nessun convivialista si sogna di denigrare) cosa sia “giusto e intrinsecamente desiderabile”?

 

Ma nello specifico? Reddito di base, ovvero il grillino reddito di cittadinanza depurato dell’aggettivo troppo nazionalistico: non siamo tutti, soltanto, cittadini del mondo? Pare abbastanza condivisibile l’instaurazione di un reddito massimo, che però non scalfirebbe minimamente le grandi entità multinazionali e i centri di potere finanziari, le cui sedi sono immateriali. Ah, dimenticavo, nel convivialismo ‘pienamente realizzato’, il governo sarà planetario.

 

Evasivi, criptici, fumosi, gli altri proponimenti politici: “nella moltiplicazione delle attività comuni e associative, costitutive di una società civile mondiale… il principio di autogoverno ritroverebbe i suoi diritti, al di qua e al di là degli Stati e delle nazioni”. Cosa ci sarebbe qui di alternativo alla globalizzazione? Che senso ha scardinare le uniche entità che possono avere la forza di arrestare il tanto osteggiato dominio della finanza, a favore di un arcadia anarco-digitale? Digitale, già. Perché, come insegnava anche Casaleggio, “Internet è un potente mezzo di democratizzazione della società e di invenzioni di soluzioni che né il Mercato né lo Stato sono stati capaci di produrre… attraverso una politica di apertura, di accesso gratuito, di neutralità e di scambio”. Come se il Mercato non passasse ormai massicciamente dalla rete, come se la neutralità fosse un attributo necessario dei Gates e degli Zucherberg. Come se in assenza di Stato si potesse impedire il monopolio, quel monopolio che ora almeno viene – debolmente – avversato. Come se qualcuno, in assenza di Nazione, potesse garantire l’accesso gratuito. Come se davvero la gente usasse quel Linux che a costoro pare la panacea: tra le mie conoscenze, un solo amico lo ha installato (ma non lo usa: è uno smanettone e ha voluto provarlo, tutto qui).

 

Non è possibile commentare seriamente il proposito di rinnovamento dei servizi pubblici attraverso “emergenza, consolidamento e allargamento dei nuovi beni comuni dell’umanità”. Con scappellamento a destra?

La situazione planetaria “impone di regolare strettamente l’attività bancaria e i mercati finanziari e delle materie prime, limitando le dimensioni delle banche e mettendo fine ai paradisi fiscali”. Non ci avevamo pensato! Eppure sarebbe così semplice, tra una sarchiata nell’orto comunitario urbano e una corsa al mercatino equosolidale per acquistare il caffè, sbaragliare, convivialmente, i paradisi fiscali. Chi, esattamente, lo farà, in assenza di Stato e di Nazione? Ah, ecco: “sarebbe giudizioso creare un abbozzo di l’Assemblea Mondiale (Non ci sono bastate la Società delle Nazioni e l’ONU?) che comprenda rappresentanti della società civile mondiale associazionista, della filosofia, delle scienze umane e sociali e delle differenti correnti etiche, spirituali e religiose che si riconoscono nei principi del convivialismo”.

1980-16-pellegrinaggio-nucleare-cm86x71-0-126Non sbagliava Michel Lacroix: “Per affrontare i problemi odierni, il New Age sogna un’aristocrazia spirituale nello stile de La Repubblica di Platone, gestita da società segrete”. E codesta accolta di onesti uomini tecnici, che per fortuna non ci è dato sperimentare (dal brano di Croce sopra citato) che si ritroveranno a governare il mondo, così, per caso (per acclamazione?) come fermeranno i finanzieri cattivi? Con un armata di bocciofile? Con volenterose truppe internazionali, come i caschi blu di Srebrenica? No, essenzialmente con tre formidabili armi:

 

  • il sentimento di appartenere a una comunità umana mondiale” che è un sentimento abbastanza comune, preso genericamente (per certi versi un’ovvia constatazione) ma difficile da provare nel concreto a meno che non si appartenga agli esponenti della globocrazia, quella casta di cosmopoliti che scorrazzano per il mondo piegandolo ai loro illuminati voleri (Monti, Boldrini, Draghi, Rockefeller e via dicendo). Nel mondo reale solo una cerchia ristretta può essere avvertita come la nostra comunità. Già la nazione – fuori dai campionati di calcio – è qualcosa di difficilmente avvertibile: il soldato non lotta per la Patria ma per il suo plotone. L’umanità è troppo ampia perché la si possa – politicamente – avvertire come prossima. Non è questione di cultura o sensibilità: la storia tutta intera, l’antropologia, la sociologia e la psicologia ci avvertono che l’accento del paesino limitrofo già ci separa. Aci Trezza è tuttora acerrima nemica di Aci Castello. Eppure, secondo Fistetti, firmatario e postfatore del manifesto, “tocca ai cittadini delle società liberaldemocratiche «deporre le armi», o, come dice Mauss, «fidarsi interamente» e avanzare l’offerta di alleanza” ai migranti che, manco a dirlo, sono, nella loro totalità ‘profughi’ e, se proprio non ce la facciamo a infilarli nella categoria, ‘migranti ambientali”. Una «scommessa sulla generosità»(Caillé) tipicamente cristiana ma in assenza di cristianesimo e anche di una seria riflessione sulla natura della principale religione antagonista, quindi una follia. Un suicidio politico, e prima ancora morale.

 

  • l’indignazione degli onesti e, specularmente, la vergogna “che è necessario far provare a coloro che violano i principi di comune umanità” (si vergogni, califfo Al Baghdadi, si vergogni, mister Rothschild, si vergogni mister Soros. Ma se già i fantocci politici di casa nostra sono proverbialmente definiti “senza vergogna”!).

 

  • sempre in tema sentimentale, la mobilitazione degli affetti e delle passioni, ben al di là, udite udite, delle scelte razionali degli uni e degli altri. Ma come, ci hanno sempre messo in guardia dal far appello alla pancia dei cittadini, ai rischi dello scatenarsi di emotività nella massa! Ma no, nel Mondo Nuovo convivialista si affermerà per incanto “il meglio delle passioni”, “per inventare altre maniere diverse di vivere, di produrre, di giocare, di amare, di pensare e di insegnare”. Immaginazione al potere, quand’è che l’avevo già sentita? Basteranno nuove Enciclopedie – digitali, ça va sans dire – aggiornate ai dettami ecovegansolidalpacifisti, compulsate le quali narcos boliviani, narcotizzati telespettatori e coatti d’ogni continente si eleveranno a un nuovo stadio di spiritualità.

 

Scorrendo le pagine di questo fantasioso libello mi imbatto anche nell’“obbligo perentorio di far scomparire la disoccupazione”. Di perentorio in tal senso ricordo solo i piani quinquennali. Che si facevano rispettare a suon di deportazioni.

In fondo, finalmente, leggo che si “dovrà assolutamente puntare a ricongiungere sovranità monetaria, sovranità politica e sovranità sociale”. Ottimo! Anzi no: eravamo stati ingannati dalla formulazione ambigua: leggendo meglio si arguisce che la sovranità riguarderebbe una UE rafforzata, non i singoli Paesi.

 

Fin qui solo fuffa: un contenitore vuoto, una sequela di buonismi, di quelle buone intenzioni che sappiamo bene cosa sono destinate a lastricare. Anche di intenzioni pessime, per quel che mi riguarda, come lo è ogni proposito contro la sovranità nazionale. Ma, a ben vedere, una proposta politica concreta c’è: tra le anime alternative ne emerge prepotentemente una, che ho volutamente tralasciato, benché sia presente sin dalle premesse. La parola d’ordine è ‘decrescita’. Latouche risulta essere solo uno dei firmatari ma sui suoi vagheggiamenti si fonda buona parte del manifesto, che riprende i catastrofismi da Club di Roma e il tormentone del CO2 per approdare alla esaltazione della “sobrietà volontaria e dell’abbondanza frugale”. Il problema fondamentale sarebbe la “minaccia antropica”(ci mancava il neo-malthusianesimo), la “finitezza orami evidente del Pianeta e delle sue risorse naturali”. “Gli uomini non possono più considerarsi possessori e padroni della Natura”. “La situazione ecologica del pianeta rende necessario ricercare tutte le forme possibili di una prosperità senza crescita”.

 

Le infelici uscite di Latouche, che si fondano su un’idea primitiva dei sistemi economici, immaginati come insiemi di caratteristiche fisse ed immutabili nel tempo, sono state già ampiamente contestate: è chiaro per qualsiasi studioso vero che la riduzione del reddito nazionale non si traduce automaticamente in una produzione più pulita; anzi, è più facile che un calo delle risorse monetarie finisca con il tradursi in un processo di regressione industriale in cui vengano preferite tecnologie obsolete, e più dannose per l’ambiente (vedi il recente ritorno in auge del carbone tra le fonti di energia). E, soprattutto, gli effetti di una riduzione del PIL non sarebbero equamente distribuiti: andrebbero ad abbattersi in modo regressivo, colpendo la fascia più povera della popolazione, accrescendo proprio quella già enorme disuguaglianza additata nel Manifesto.

 

Collegate alla famigerata decrescita troviamo altre esplosive iniziative alternative: post-sviluppo, movimenti slow food, slow town, slow science; la rivendicazione del buen vivir, l’affermazione dei diritti della natura: “Gli uomini non possono più considerarsi possessori e padroni della Natura”. “La relazione di dono/contro-dono e di interdipendenza deve esercitarsi soprattutto verso gli animali, che non devono più essere considerati come materiale industriale. E, più in generale verso la Terra”.

Diritti della natura, attenzione. Non giuste e condivisibili preoccupazioni razionali su ciò che dobbiamo gestire e tutelare ma attribuzione di “diritti”. Per attribuirne alla gramigna e alle blatte non basta un paradigma filosofico, occorre una nuova religione, anzi no, basta forse reintrodurre quella andina (vedi elogio del pachamama). Non solo animalismo, insomma si accenna a cavalcare anche il misticismo dell’ipotesi Gaia, la teoria di Lovelock, allarmista pentito che non crede più alla fine del mondo per surriscaldamento e che, ad ogni buon conto, ha sempre sostenuto  l’unica energia abbondante veramente pulita e, per il nostro Paese, strategica e opportuna: quella nucleare, ovviamente demonizzata dai firmatari.

Il Sacro, scacciato dalla porta, rientra sempre dalla finestra. L’adorazione che non è rivolta al cielo si proietta verso il mondo. Gea, Iside o Mama Pacha, e l’immarcescibile Vitello d’oro (oggi Gattino, Cagnolino, Maialino), tutto si presta ad essere venerato dai nuovi pagani, i ‘laici’.

 

Ma cosa, insomma, sta dietro a questo movimento? Cosa lo differenzia da tanti generici propositi di tante brave (e anche pessime) persone? A conferire portata filosofica a questo documento di una povertà concettuale sconcertante, sarebbe, spiega Francesco Fistetti nella postfazione all’edizione italiana, il paradigma del Dono: molti degli studiosi firmatari, in particolare il propugnatore del manifesto, Alain Caillé, sono seguaci dell’eroe della tradizione antropologica francese, Marcel Mauss, autore del Saggio sul dono (1925), nel quale, interrogandosi sul rapporto tra diritto e interesse, teorizzava che la forma-dono delle società primitive resta uno dei capisaldi sui quali è fondata anche  la nostra società. “Non si concepiscono società senza mercato” e l’errore del socialismo è stato quello di volerlo abolire: il mercato va regolato.

Tutti noi non chiediamo di meglio anche se siamo convinti che per farlo ci vogliano un pensiero – e una azione – tutt’altro che slow. In cosa, ad ogni modo,  il convivialismo differisce dal Welfare State o dallo stato Keynesiano? Nel principio euristico, per cui l’economia, come la politica e la morale, è soltanto uno degli elementi dell’arte di viver in comune: “la società è un tutt’uno”. Non fa una piega. E dunque? “Occorre tornare al paradigma del dono”. Questo è lo slogan risolutivo, la panacea.

 

Ora, se questa parola d’ordine deve essere divulgata e portata sugli scudi, è necessario qualche chiarimento. Il termine dono , in questo contesto, è irrimediabilmente ambiguo, anzi fuorviante. Perché il destinatario del messaggio penserà al Dono, alla gratuità totale, a una postura caritatevole, disinteressata e amorevole come solo nella dimensione trascendente si dà. Stiamo invece parlando di un meccanismo di mercato molto ritualizzato e complesso, solo apparentemente libero e gratuito, in realtà obbligato e interessato (poiché il dono va obbligatoriamente ricambiato). Presso i Polinesiani gli attori coinvolti erano collettività: famiglie, clan, tribù; e non venivano scambiati solo beni ma anche “banchetti, riti, cortesie, azioni militari, donne, bambini”. Insomma “un sistema di prestazioni sociali totali”. Nelle quali, inutile dirlo, il manato ricambio veniva sanzionato anche duramente. Mauss riallacciava tutto ciò alle istituzioni di sicurezza e previdenza sociale. L’assicurazione è dunque un dono? E la previdenza? A me pare un mero accantonamento, una forma di risparmio, ma forse sto banalizzando.

 

Sarebbe il caso, ad ogni modo, di lasciar perdere questo mantra poiché il grande merito di Mauss è stato proprio quello di scoprire che quel dono non era affatto un dono. Lasciamo il Dono ai credenti e chiamiamo scambio questa forma della socialità.  Ecco che ci ritroviamo con un pallone sgonfiato. Che c’è di così nuovo nello scambio? Se ben comprendo, nel fare a meno della moneta tradizionale. Si parla infatti, nel manifesto, di commercio equo, mutua assistenza, monete parallele e complementari, sistemi di scambio locale. Si avversa dunque il signoraggio?

 

Il punto è, si sostiene, che mentre nelle società arcaiche l’economia era inserita nei rapporti sociali ora sono i rapporti sociali a essere inseriti nel sistema economico. Giusto. Sono anni che qui e su ogni sito decente del web si proclama che la politica deve riprendere il sopravvento sull’economia. Ma il dono non c’entra: c’entrano i rapporti di forza, nozione ormai abbandonata dagli intellettuali progressisti che la forza non vogliono sentirla nominare in alcun contesto.

 

Ad ogni modo, chiarito l’equivoco ci troviamo di fronte a un altro intoppo: abbiamo un paradigma che da un canto si sostiene già attivo – attivo da sempre, in ogni società, e – d’altro canto – non presente, dato che si chiede di  reintrodurlo. Si deve intendere che la reintroduzione consista semplicemente nel riconoscere – e ricollocare – le forme presenti oppure che si debba tornare a forme arcaiche, vale a dire alle usanze di piccole, lente e crudeli società patriarcali dove si “donavano” donne e bambini? C’è di che far spazientire.

 

babeleCosa disegnano costoro, insomma? Una società molto liquida basata su un economia di sussistenza, con strutture politiche anch’esse liquide, come avveniva appunto nelle società tribali, popolate di figure di prestigio prive di reale potere. Come poi tutto questo, una rete di centri sociali allargati percorsi dalla buona volontà senza neppure il supporto della Buona Novella, possa affermarsi su scala planetaria senza che si precipiti nell’anarchia più belluina non è dato comprendere. Vi saranno sempre nobili figure stoiche in grado di recepire imperativi morali, tratteggiare etiche e conformarvisi pure. Ma non è cosa che commuova le folle. Le lotte non si conducono con il salmodiare buonista ma con la dura analisi degli interessi storici e degli arcana imperii, diceva Costanzo Preve, che pure, per certi versi, col suo Nuovo Comunitarismo, potrebbe essere apparentato ai convivialisti.

 

Perché dunque spendere tante righe per confutare le affermazioni di un movimento così poco convincente, che è riuscito a darsi un nome improbabile, evocatore più di  libagioni da nouvelle cuisine che di lotte politiche, un movimento che presumibilmente si scioglierà come neve al sole o sopravvivrà in eterno come accade a quelle conferenze ininfluenti e costituzionalmente inconcludenti che sono i tavoli ecumenici del dialogo interreligioso?

 

Perché mentre i volenterosi pensatori francesi tentano di indurci alla frugalità volontaria i loro governanti si occupano della nostra decrescita forzosa. Tra banche, moda, alimentare, hi-tech ed energia, i cugini d’Oltralpe hanno speso negli ultimi cinque anni la bellezza di 24 miliardi di euro per mettere le mani sui gioielli grandi e piccoli, quotati e non, del made in Italy. Vedi qui: http://www.ilgiornale.it/news/politica/litalia-gi-colonia-francese-24-miliardi-1342668.html

 

Normali operazioni commerciali, all’apparenza. Ma quando il nostro governo, pochissimo tempo dopo aver stretto accordi di enorme importanza (e di mutuo soccorso militare) con Gheddafi, ha assistito coraggiosamente, favorendola pure, all’esplosione della Libia, voluta e fomentata col beneplacito della Clinton (vedi file wikileaks) dai nostri cari cugini al fine di estromettere l’ENI e concederci in cambio graziosamente la risorsa profughi, si è compreso che l’invasione è – anche – politica, strategica, preordinata. E’ di dominio pubblico la recente nazionalizzazione “temporanea” dei cantieri navali Stx, attualmente appartenenti a imprenditori coreani, pur di non farli finire nelle mani dell’italiana Fincantieri. Nonostante accordi ineccepibili con l’ex presidente Hollande. In altri tempi cose del genere potevano scatenare una guerra. Noi sorridiamo e libiamo ne’ lieti calici.

 

I nostri cari cugini, insomma, crescono, si espandono e si accaparrano risorse fossili, compreso l’uranio, mentre i loro chierici tentano di intortarci con le tavolate slow food.