Le domande aperte del rapporto Draghi, di Olivier Blanchard e Angel Ubide

Un articolo importante, più che per il merito che segue la falsariga del rapporto Draghi, per quello che sottende ed evidentemente accetta: la collocazione e la funzione geopolitica della Unione Europea. Funzione e collocazione che di per sé orientano, canalizzano e limitano le scelte e le dinamiche economiche. Ciononostante aiuta a porci un tema importante che spinga a superare chiavi di interpretazione deterministiche che hanno influenzato e continuano a influenzare gli orientamenti politici. Nella fattispecie: quale tipo di legame ed intreccio si sta delineando tra le dinamiche politiche e geopolitiche e l’ambito economico; che livello di autonomia conserva il secondo dalle prime; come le peculiari dinamiche politiche stesse si traducono nell’ambito economico. Da qui la valutazione dei pesi dei rispettivi ambiti nelle decisioni politiche. Non è comunque in questo testo che vanno trovate le prime risposte. Giuseppe Germinario

Le domande aperte del rapporto Draghi

Per gli economisti Olivier Blanchard (Peterson Institute) e Angel Ubide (Citadel), il Rapporto Draghi identifica le questioni chiave che l’Europa del futuro dovrà affrontare, ma non fornisce tutte le risposte. Per aprire il necessario dibattito sui risultati e sulla tabella di marcia, propongono di allargare l’attenzione: dalla produttività agli investimenti alla sicurezza nazionale – una panoramica.

Con la pubblicazione del rapporto Draghi, che il Grande Continente ha accompagnato nelle varie lingue della rivista, l’Unione si appresta a entrare in una nuova fase. Da diverse settimane diamo la parola a ricercatoricommissari europei, economisti, ministri e industriali per reagire a una delle più ambiziose proposte di trasformazione dell’Unione. Se apprezzate il nostro lavoro e avete i mezzi per farlo, vi chiediamo di pensare di abbonarvi a Le Grand Continent.

Presentato a settembre da Mario Draghiil rapporto su il futuro della competitività europea, è un invito all’azione. Invita a rispondere alle sfide che l’Unione europea dovrà affrontare nel corso di questo decennio e ha l’immenso merito di osare quantificare il potenziale di investimento necessario: il 5 % del PIL all’anno per il periodo 2025-30. Il messaggio è chiaro: ogni anno che l’UE ritarda l’azione, il divario con gli Stati Uniti aumenta. Non c’è quindi tempo da perdere.

Il rapporto afferma che la principale debolezza dell’Unione è una crescita più lenta di quella degli Stati Uniti, dovuta principalmente alla sua frammentazione. A questa debolezza si aggiungono tre nuove sfide  rafforzare la resilienza dell’economia di fronte alle minacce geopolitiche e alle guerre commerciali  affrontare il cambiamento climatico e accompagnare la transizione verso l’energia verde  rafforzare la sicurezza nazionale e la difesa. La natura di queste nuove sfide significa che devono essere affrontate principalmente a livello europeo piuttosto che a livello nazionale.

Siamo d’accordo con gran parte della relazione, che a nostro avviso solleva tutte le domande giuste. Se la frammentazione dell’Unione è davvero un ostacolo importante alla crescita, ridurla può avere grandi benefici e pochi costi. Il rapporto – in particolare la Parte B – è una miniera di informazioni granulari e di potenziali misure concrete da adottare in settori chiave dell’economia. Ci sono tuttavia alcune questioni che a nostro avviso richiedono un’ulteriore discussione, ed è quello che cerchiamo di fare in questo articolo, facendo spesso l’avvocato del diavolo per avviare il necessario dibattito sul rapporto.

L’Unione Europea non ha un problema di competitività – anzi, le sue partite correnti sono in attivo. Ha piuttosto un problema di produttività.

Olivier Blanchard e Angel Ubide

Competitività o produttività?

Iniziamo con una dichiarazione forte : il titolo del rapporto – Il futuro della competitività europea – è fuorviante. Il rapporto dovrebbe occuparsi – e si occupa – di produttività piuttosto che di competitività. La produttività determina il tenore di vita; la competitività è un’altra cosa: un Paese può avere una bassa produttività ed essere comunque competitivo – questo è ciò che un tasso di cambio flessibile dovrebbe essere in grado di ottenere, ed è ciò che generalmente riesce a fare. Da questo punto di vista, l’Unione Europea non ha un problema di competitività – anzi, le sue partite correnti sono in attivo. Ha piuttosto un potenziale problema di produttività.

Il divario di produttività sta davvero esplodendo?

Paragonando l’Unione Europea agli Stati Uniti, Mario Draghi fa una diagnosi: una “sfida esistenziale” e, se non si fa nulla, una “lenta agonia”. Ci sembra un’esagerazione.

Dal 2000, la crescita del PIL nell’UE è stata in media dello 0,5% all’anno inferiore a quella degli Stati Uniti, ma la maggior parte della differenza è dovuta alla demografia, non alla produttività. La crescita del reddito reale pro capite nell’UE è stata inferiore di circa lo 0,1% all’anno rispetto agli Stati Uniti, una differenza minima ma sufficiente ad aumentare il divario di circa il 2,5% in 25 anni. Non si tratta certo di un dato insignificante, ma non è sufficiente per parlare di “agonia”.

Detto questo, anche se il divario di produttività con gli Stati Uniti non è aumentato in modo sostanziale, rimane. I tempi in cui l’Europa raggiungeva rapidamente gli Stati Uniti sono finiti e la convergenza non è stata raggiunta: l’Europa non è stata in grado di fare l’ultimo miglio e dobbiamo chiederci perché;

Essere leader dell’innovazione è essenziale per la crescita?

Il rapporto evidenzia giustamente le grandi differenze tra i risultati dell’UE e quelli degli Stati Uniti nel settore tecnologico.

La conclusione è chiara: nell’UE non ci sono aziende tecnologiche leader. Ma questo significa che la “morte lenta” , se non è già avvenuta, inizierà presto ? La risposta è: non necessariamente. Molti Paesi si sviluppano a ritmi simili a quelli degli Stati Uniti senza essere all’avanguardia nell’innovazione tecnologica. Come un ciclista che, in una fuga, si mette alla ruota del leader per proteggersi dal vento e si accontenta di arrivare secondo, i Paesi non hanno necessariamente bisogno di innovare per prosperare; possono copiare e implementare le innovazioni degli altri. Questo è ciò che sembra accadere nell’UE: se si esclude il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, la crescita della produttività in Europa è pari o superiore a quella degli Stati Uniti;

Sicurezza piuttosto che crescita”;

Quindi forse il problema principale è non tanto la crescita quanto la sicurezza nazionale.

La leadership tecnologica è infatti particolarmente importante quando diventa un fattore chiave per la sicurezza nazionale, come dimostrano le crescenti sanzioni e restrizioni imposte dagli Stati Uniti al settore dei semiconduttori. È quindi essenziale sviluppare leader tecnologici veramente europei per rafforzare la resilienza e la sicurezza nazionale. E l’approccio europeo sembra quello giusto, dato che l’effetto di scala necessario per prosperare nel settore delle nuove tecnologie significa che sarà quasi impossibile raggiungere la leadership tecnologica sulla scala dei soli Stati membri dell’UE. In altre parole, come afferma la relazione, sarebbe bene che l’Unione innovasse di più in tutti i settori, ma ciò è assolutamente cruciale in quelli in cui la sicurezza è essenziale;

I tempi in cui l’Europa si metteva rapidamente al passo con gli Stati Uniti sono finiti, e la convergenza non è stata raggiunta: l’Europa non è stata in grado di fare l’ultimo miglio – e dobbiamo chiederci perché;

Olivier Blanchard e Angel Ubide

Trasformazione verde e crescita ?

Secondo il rapporto, la transizione verso le energie rinnovabili potrebbe stimolare la crescita. Si tratta di un’affermazione ottimistica. Per combattere il cambiamento climatico, dobbiamo dare un prezzo a un’esternalità – come la CO2 o un altro gas serra – che prima era libera. Nel linguaggio della macroeconomia, si tratta di uno shock negativo dell’offerta, come può essere un aumento del prezzo del petrolio. Nel modello di crescita standard, questo porta a un calo della produzione e a una riduzione della crescita fino a quando la transizione verso l’energia verde non sarà completata. Potrebbe essere diverso in questo caso? La risposta è sì, perché nonostante un punto di partenza più sfavorevole, i progressi nelle nuove tecnologie di transizione sono molto più rapidi. La crescita potrebbe quindi risultare più elevata. Tuttavia, dobbiamo riconoscere la difficoltà della transizione per evitare di creare aspettative irrealistiche.

Deframmentazione e migliore regolamentazione: le chiavi per una crescita più forte?

Il rapporto attribuisce gran parte del divario di produttività alla frammentazione e alla regolamentazione. Per questo motivo si concentra su misure di deframmentazione e parziale deregolamentazione. Se così fosse, queste riforme appaiono auspicabili e facili da attuare, e potrebbero produrre benefici senza minacciare la più ampia architettura dello Stato sociale. Tuttavia, si teme che il rapporto sopravvaluti i vantaggi che si potrebbero effettivamente ottenere.

È certo che gran parte del divario di produttività è dovuto a fattori che esulano dall’ambito del rapporto, come una maggiore protezione sociale, sistemi di istruzione e formazione professionale inadeguati e costi di separazione più elevati. La frammentazione è senza dubbio un fattore importante, nella misura in cui ogni Paese continua a insistere nell’avere i propri campioni nazionali, temendo di rinunciare al controllo politico. Ma la questione è fino a che punto questa frammentazione sia un ostacolo ai ritorni di scala. Dal punto di vista dell’efficienza, è sempre meglio essere più grandi? La parte B del rapporto sostiene con forza che questo sarebbe il caso in molti settori. Ma la realtà potrebbe essere più sfumata – dopo tutto, ci sono molti esempi di investitori che acquistano grandi aziende solo per smembrarle e sbloccare produttività e valore – e più specifica per alcuni settori rispetto ad altri: questa logica è più pertinente, ad esempio, per le aziende tecnologiche che si basano su effetti di rete che per le aziende di telecomunicazioni.

Questioni simili si pongono in relazione alla regolamentazione e alla politica di concorrenza, sia a livello nazionale che europeo. La politica di concorrenza potrebbe doversi evolvere in questo senso per contribuire ad affrontare le sfide individuate. Negli Stati Uniti, i prezzi al consumo sono la cartina di tornasole della politica di concorrenza; se le aziende possono sostenere con successo che una fusione o un’acquisizione porterà a incrementi di efficienza che si tradurranno in ultima analisi in prezzi più bassi, è probabile che l’operazione abbia successo e le misure correttive saranno applicate, se mai, solo a posteriori.

Anche se in genere è meno costoso del debito emesso dai governi nazionali perché è mutualizzato, il debito dell’UE è pur sempre debito.

Olivier Blanchard e Angel Ubide

Nell’Unione Europea, invece, il test decisivo è quello della struttura del mercato: se una fusione o un’acquisizione rischia di creare una posizione dominante sul mercato – anche se è necessaria per aumentare l’efficienza – l’operazione sarà probabilmente respinta. In un mondo in cui lo sviluppo di nuove tecnologie richiede effetti di rete e di scala, queste differenze nella politica di concorrenza possono spiegare perché le società di rete dominanti sono tutte negli Stati Uniti – in parole povere: Amazon avrebbe potuto crescere e svilupparsi nell’UE?

Cosa possiamo aspettarci dall’Unione dei mercati dei capitali?

Il problema dell’Unione non è l’insufficienza dei risparmi o degli investimenti: la quota degli investimenti nel PIL dell’Unione è all’incirca uguale a quella degli Stati Uniti, pari al 22%.

Il tasso di risparmio è leggermente superiore, il che si traduce in un’eccedenza delle partite correnti. Nel rapporto, lo slogan “mobilitare i risparmi” è quindi fuorviante. Il tasso di risparmio in Europa è elevato e si traduce in investimenti significativi.

Il rapporto sottolinea giustamente che il problema può risiedere nel fatto che i risparmi non vengono incanalati verso gli investimenti giusti e possono riflettere un’insufficiente assunzione di rischio. Questa situazione riflette una struttura di intermediazione essenzialmente bancaria e segmentata su base nazionale. È improbabile che l’unione dei mercati dei capitali possa fare una differenza importante e tempestiva in questo senso. Il rapporto stima che il costo del capitale dovrebbe scendere di 250 punti base per incoraggiare nuovi investimenti. Ma una tale riduzione sarebbe sufficiente a generare il giusto tipo di investimenti? In ogni caso, sarebbe di gran lunga superiore ai benefici di una maggiore integrazione finanziaria.

Gli investimenti pubblici e i sussidi UE possono essere finanziati con il debito?

Il rapporto conclude che il tasso di investimento dell’Unione dovrebbe essere aumentato di circa il 5% del PIL all’anno – con gli investimenti pubblici che rappresentano circa l’1,5% – e che sarebbero necessarie anche significative sovvenzioni pubbliche per ottenere l’auspicato aumento degli investimenti privati. L’autore sostiene giustamente che queste decisioni dovrebbero essere prese a livello europeo, poiché è a questo livello che occorre ridurre la frammentazione e rivedere la regolamentazione e la politica di concorrenza. Se la difesa, la transizione ecologica e le altre aree oggetto del rapporto possono essere considerate beni pubblici, gran parte degli investimenti pubblici e la progettazione dei sussidi devono essere pensati e attuati a livello europeo;

Tuttavia, questo non significa necessariamente che debba essere finanziato dal debito dell’Unione piuttosto che dalle tasse. Ci sono due aspetti da considerare: la sostenibilità del debito e i suoi effetti macroeconomici.

È essenziale dare priorità agli investimenti e ai sussidi in un numero ridotto di settori e limitare l’effetto sul debito.

Olivier Blanchard e Angel Ubide

Anche se il debito dell’UE è generalmente meno costoso di quello emesso dai governi nazionali perché è mutualizzato, si tratta pur sempre di debito. E visti i suoi livelli elevati e, in particolare, gli ampi disavanzi primari di diversi Stati membri, non si può ignorare la questione della sostenibilità complessiva del debito. Alcune delle misure proposte nel rapporto possono infatti aumentare la crescita futura e quindi le entrate pubbliche. Altre, come la difesa, non possono – almeno non direttamente. Quelli che riguardano il mix energetico potrebbero, al contrario, ridurre la crescita per un certo periodo di tempo e ridurre le entrate future. Non dobbiamo quindi dare per scontato che le entrate future si autofinanzieranno: un quadro di bilancio credibile sarà essenziale per sostenere questo sforzo. In concreto, nell’ipotesi ragionevole che i tassi di interesse rimangano vicini ai tassi di crescita, parte della spesa aggiuntiva può essere finanziata con il debito, ma un piano credibile richiede che nel medio termine il saldo primario – cioè la differenza tra entrate e spese – torni a zero.

L’altro aspetto da considerare è l’impatto macroeconomico di un aumento così consistente degli investimenti complessivi in un’economia attualmente vicina al suo potenziale. La Banca Centrale Europea dovrà gestire quello che probabilmente sarà un processo di crescita e di inflazione più volatile, condizionato da vari shock dell’offerta. I calcoli del Fondo Monetario Internazionale citati nel rapporto potrebbero sottovalutare il rischio di surriscaldamento. La recente esperienza dei deficit di bilancio degli Stati Uniti, il loro effetto sulle impennate dei prezzi indotte dalla scarsità e dai prezzi delle materie prime e il loro contributo all’esplosione dell’inflazione, è rilevante in questo caso in termini di tempi, progettazione e realizzazione degli investimenti necessari. Per questi due motivi, è essenziale dare priorità agli investimenti e ai sussidi in un numero limitato di settori e limitare l’effetto sul debito;

*

Le numerose questioni che solleviamo contribuiranno, speriamo, a una discussione più ampia e approfondita. Ribadiamo il nostro sostegno a gran parte della relazione e la speranza che porti a misure per aumentare la produttività e gli standard di vita all’interno dell’Unione, affrontare la questione del clima e rafforzare la sicurezza nazionale;

 

Crediti
Questo testo è pubblicato in collaborazione con il Peterson Institute di Washington. La versione inglese è disponibile a questo link: https://www.piie.com/blogs/realtime-economics/2024/essential-issues-raised-not-fully-answered-draghi-report

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Impossibile uscire dalla gabbia se seguiamo le regole del padrone, di Davide Gionco

Riceviamo e pubblichiamo_Giuseppe Germinario

Impossibile uscire dalla gabbia se seguiamo le regole del padrone. Perché dobbiamo costruire una Nuova Economia ed una Nuova Società.

di Davide Gionco
01.08.2022

Diceva Sunt-Tzu, antico generale cinese, che scrisse “L’arte della guerra”:
Quando il nemico ti porta a combatterlo con le armi da lui scelte, a usare il linguaggio che lui ha inventato, a farti cercare soluzioni tra le regole che lui ha imposto, hai già perso tutte le battaglie, compresa quella che avrebbe potuto vincerlo.”

 

La premessa fondamentale: dove risiede il vero potere politico

La premessa fondamentale è identificare chiaramente il nemico.
Una volta si sapeva che il nemico del popolo era il re di Francia o Benito Mussolini. Ma oggi chi è il nemico del popolo?
Per quale ragione continuano a cambiare i partiti, i deputati, i governi eppure le cose vanno (male) sempre allo stesso modo?

Nel 2013 a Berlino Mario Draghi, allora presidente della Banca Centrale Europea, disse la famosa frase: «L’Italia andrà avanti con le riforme indipendentemente dall’esito del voto. C’è il pilota automatico».

Il nemico del popolo, colui che detiene il vero politico ed ha la forza di imporre le proprie decisioni (il pilota automatico), sta altrove. Non sta a Palazzo Chigi e meno che mai a Montecitorio o Palazzo Madama.
Per questo motivo nessun esito elettorale può, da solo, determinare un reale cambiamento delle politiche di governo del Paese.

Perché le votazioni non cambiano la situazione

Se il reale potere politico non è così evidente dove si trovi, è evidente a tutti che le decisioni vengono ratificate ed eseguite dagli organismi istituzionali che derivano dal voto popolare. A metterci la faccia sono il presidente del consiglio, i vari ministri ed i parlamentari che in più occasioni sono chiamati a votare la fiducia su quanto deciso dal governo, assumendosene tutta la responsabilità davanti ai cittadini.

Per questa ragione moltissimi italiani sono convinti che sia possibile cambiare la politica in Italia cambiando quelle persone e utilizzando le “regole per il cambiamento” previste dal nostro sistema legislativo.
Queste regole, scritte nella Costituzione, nelle leggi, nei manuali di diritto, dicono che le decisioni su come funziona la nostra società le prendono il potere legislativo ed esecutivo. Quindi per cambiare le cose la via da seguire è presentarsi alle elezioni con un partito, avere la maggioranza nel parlamento, andare al governo e votare diverse regole del gioco.
Questo lo pensano quasi tutti, in quanto non ci vengono prospettate altre vie per cambiare la società. Ma poi si constata che, chiunque venga votato, alla fine dei conti dimostra di non voler realmente cambiare le cose o di non essere in grado di farlo (il luogo comune “i politici sono tutti uguali”). L’ultima grande delusione è stata quella del Movimento 5 Stelle, che aveva suscitato molte speranze, ma che ha dimostrato nei fatti di “essere come tutti gli altri”.
Per questo motivo molta gente smette di andare a votare, ritenendola un’azione irrilevante, di fatto rinunciando a far valere i propri diritti. Potremmo definirli, come faceva Dante, gli ignavi politici, che rinunciano ad impegnarsi e a prendere posizione. E’ una situazione analoga al periodo delle monarchie assolute, quando la gente non votava e poteva solo sperare nella benevolenza del re, limitandosi a curare i propri affari privati, senza attendersi un cambiamento del potere politico.
C’è anche chi non va a votare per protesta, pensando che chi detiene il potere potrebbe cambiare a causa dello scarso consenso popolare. L’errore di questo ragionamento è pensare che il potere abbia bisogno di una vasta legittimazione popolare, mentre in realtà il potere, come stabilito nella premessa, esiste al di sopra della politica e usa i meccanismi istituzionali (elezioni, nomina del governo, ecc.) unicamente come occasioni per piazzare i propri uomini (o donne, che fa più politicamente corretto) nei luoghi decisionali che contano. Chi detiene il potere al massimo temerà che venga nominato un ministro non allineato (si veda il caso di Paolo Savona, impedito dal presidente Mattarella, poi sostituito dall’allineato Giovanni Tria) o un primo ministro non totalmente controllabile (Silvio Berlusconi Conte sostituito da Mario Monti), ma di certo non teme l’astensione dal voto.

La maggior parte delle persone che si impegnano in politica pensano che l’unica via di uscita dalla gabbia sia quella scritta nelle regole: presentarsi alle elezioni con un partito, prendere la maggioranza nel parlamento, andare al governo e cambiare le regole del gioco.
Dal punto di vista teorico questo metodo potrebbe funzionare, ma all’atto pratico la storia, non solo italiana, ci dimostra che è estremamente difficile, quasi impossibile.

La prima ragione, evidente, è che le regole del gioco sono truccate
Chi detiene il potere politico dispone di cospicui finanziamenti, dell’appoggio delle istituzioni e dei servizi segreti, dei principali mezzi di informazione (che non si fanno problemi a diffondere falsità di ogni genere). Chi detiene il potere politico decide le regole elettorali, le date, gli ostacoli da porre a chi vorrebbe cambiare. E può usare questi mezzi non solo per favorire i partiti già presenti in parlamento, ma anche per creare nuovi partiti da loro controllati che si propongono fintamente come “alternativi”; può seminare divisioni, tramite infiltrati, nelle forze politiche realmente alternative. Possono decidere di concedere spazi mediatici a persone incapaci come Luigi Di Maio, per farle emergere all’interno del loro partito alternativo, e di non concedere spazi a persone capaci, per non farle emergere. Ovviamente possono corrompere i politici eletti. Oppure li possono ricattare o minacciare. O uccidere.
E se anche le elezioni non andassero come il potere voleva, potranno orchestrare campagne mediatiche contro il nuovo potere politico (vedasi il trattamento subito da Trump negli USA), potranno organizzare attentati destabilizzanti (vedasi strategia della tensione in Italia intorno agli anni 1970). Potranno organizzare un colpo di stato o una invasione armata da parte di una “coalizione internazionale” che libererà l’Italia dal potere antidemocratico”.

Insomma, questa via è teoricamente percorribile, ma c’è da sapere che le regole sono truccate e gli ostacoli da superare sono moltissimi.
E’ ovvio che se una forza politica riuscisse a conquistare e a mantenere per molti anni la fiducia del 40-50% degli elettori, senza dividersi e senza cedere ai fortissimi condizionamenti esterni ed interni, esisterebbe la fattiva possibilità di cambiare le cose in meglio e di limitare l’invadenza dei poteri che stanno al di sopra della politica. Ma rileggiamo cosa diceva il saggio Sun-Tzu:
Quando il nemico ti porta a combatterlo con le armi da lui scelte, a usare il linguaggio che lui ha inventato, a farti cercare soluzioni tra le regole che lui ha imposto, hai già perso tutte le battaglie, compresa quella che avrebbe potuto vincerlo.”
Pensare di risolvere i problemi usando le regole che l’attuale sistema di potere ci ha imposto significa mettersi in condizioni estremamente favorevoli per chi detiene il potere ed estremamente sfavorevoli per chi intende contrastarlo.

In realtà il fondamento dell’attuale sistema di potere è il farci credere che non vi siano altre vie da percorrere diverse dalle regole che ci mettono a disposizione.

E’ come quando il gatto gioca con il topo che ha catturato. Il topo può scappare solo quando lo decide il gatto, nella direzione che decide il gatto, fino alla distanza decisa dal gatto.
Dopo di che il topo viene ricatturato e ritorna alla mercé del gatto.
Siamo come i polli nella gabbia, a cui viene concesso spazio di libertà fino ai limiti della rete. E se anche le porte della gabbia sono aperte, ci hanno convinti che la spazio in cui muoverci, che fuor di metafora è il sistema di regole vigenti, sia quello all’interno della gabbia.

In realtà esistono altre strade da seguire per sottrarci gradualmente dal potere che ci opprime, ma è necessario fare lo sforzo di uscire dagli schemi che ci vengono proposti.
A volte se ne parla in articoli, in convegni , ma ad ogni tornata elettorale si presentano i soliti “leader politici” che si propongono come risolutori dei problemi, per i quali l’unica urgenza è presentarsi alle elezioni. E le persone li seguono, perché il “richiamo delle elezioni” è fortissimo, al punto che le persone trovano energie per estenuanti riunioni, banchetti in strada, incontri pubblici, con la speranza di essere essi stessi i protagonisti del cambiamento politico tanto atteso.
Dopo di che, passate le elezioni, con conseguente – ovvia – delusione, i più determinati si preparano per la successiva competizione elettorale, mentre i meno determinati si scoraggiano e si ritirano da ogni forma di impegno politico, accrescendo le fila delle persone appartenenti alla categoria degli ignavi politici.

Sarebbe stato possibile impegnarsi per percorrere delle soluzioni alternative (ne parliamo a seguire), ma si è preferito combattere con gli strumenti proposti da chi detiene il potere (nel caso specifico: lo strumento delle elezioni), adeguandosi al pensiero unico dominante. Alla fine il risultato è stata una forte delusione e nessun cambiamento politico e sociale.

 

Il vero potere sta nell’economia

Ci chiedevamo all’inizio dell’articolo dove sta il potere politico.
Il potere politico nei paesi occidentali sta prima di tutto nell’economia, nelle grandi multinazionali, nella finanza internazionale.
Oggi l’economia è costituita per lo più da società per azioni quotate in borsa. Chi controlla le quote azionarie controlla queste società e determina le loro decisioni.
Le quote azionarie sono detenute da chi possiede molto denaro ovvero dalle grandi società finanziarie, come BlackRock, Vanguard, State Street, le quali da sole ogni anno investono capitali per oltre 20 mila miliardi di dollari, pari a 11 volte il PIL italiano e 5 volte il PIL tedesco.
Sono quindi in grado di “investire” per comperare qualsiasi impresa, qualsiasi giornale e qualsiasi persona per indirizzare le loro decisioni al fine di garantire le rendite degli investitori.

Siccome l’Italia ha aderito al WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) che prevede la libera circolazione dei capitali, questi capitali possono liberamente entrare in Italia per comprare, aprire o chiudere imprese, creando o distruggendo posti di lavoro. Possono decidere di fare aumentare i prezzi dell’energia e del cibo. Possono decidere di boicottare un intero Paese, se non risponde alle loro richieste. Possono comperare le testate giornalistiche e le televisioni, imponendo loro di raccontare una falsa narrativa su cosa accade nel mondo. Ovviamente possono mettere in piedi un partito politico, trovando dei prestanome per guidarlo. Ovviamente possono fare pressioni per far nominare un proprio uomo all’interno della BCE, dell’OMS, della Commissione Europea e imporre regole a loro vantaggio.
Ma non dobbiamo fissarci sui nomi di queste società, perché dietro di loro ci sono migliaia di società più piccole, ci sono milioni di investitori in tutto il mondo i quali richiedono solo una cosa: far rendere i propri investimenti finanziari, senza preoccuparsi di come questo avverrà.
In nome del “dio rendimento finanziario” ogni azione che garantisca una rendita è lecita, che si tratti di far scoppiare una guerra o di imporre all’Italia una riforma fiscale che colpisca le proprietà degli immobili o che riduca le pensioni.

Il potere del denaro: questo è il potere che domina la politica, anche in Italia, a cui difficilmente il potere politico istituzionale, votato dal popolo, è in grado di opporsi.

 

Il punto debole del sistema di potere e come fare la vera rivoluzione

Tuttavia esiste un punto debole del sistema di potere.
Chi detiene il potere oggi detiene molto denaro, tuttavia il denaro assume valore solo nella misura in cui noi lo accettiamo in cambio del nostro lavoro. Di per sé sono solo pezzi di carta, numeri scritti sui computer.
La quasi totalità della ricchezza reale, costituita dalla produzione di beni e servizi, è prodotta da noi stessi. Chi possiede molto denaro in realtà non produce nulla. Se chi detiene il denaro (euro, dollari, ecc.) non lo potesse usare per comperare il nostro lavoro e se noi non utilizzassimo quel denaro per acquistare ciò che ci serve per vivere, quel denaro cesserebbe di avere valore.
E cesserebbe il potere di chi possiede quel denaro, compreso il potere di determinare le decisioni politiche.

La regola del gioco che ci fa perdere tutte le battaglie (Sun-Tzu) è che siamo noi stessi a dare valore, usandolo, allo strumento che il nemico utilizza per sconfiggerci in ogni nostra battaglia politica.

La vera rivoluzione, quindi, sta nel prendere atto che l’attuale denaro che utilizziamo è uno strumento utilizzato per estrarre ricchezza reale da noi che lavoriamo, concentrandola nelle mani di pochi e rendendoci sempre più poveri. Noi non sappiamo fare a meno di esso, dato che lo usiamo per vivere e questo gli conferisce valore nell’economia e anche nella competizione politica, il tutto a nostro svantaggio.
Ci sarà la vera rivoluzione, rivoluzione politica, solo quando ci saremo organizzati per vivere senza dipendere dal “loro” denaro.
Dobbiamo organizzare una Nuova Economia, una Nuova Società, con una nostra moneta, dove produciamo beni e servizi e ce li scambiamo fra di noi usando quella moneta per pagare gli scambi.
E già quello che facciamo oggi, ma lo dobbiamo fare rifiutandoci di usare, per quanto possibile, le monete della finanza internazionale, che sono lo strumento fondamentale dell’esercizio del potere che ci opprime.

Ovviamente il passaggio sarà graduale. All’inizio la rivoluzione riguarderà magari solo il 10% degli scambi economici. Ma poco alla volta, man mano che più persone e più competenze professionali saranno state coinvolte nell’organizzazione, potremo  via procurarci all’interno della Nuova Economia una quantità maggiore di beni e servizi.
Parallelamente alla comunità economica, fatta di persone che hanno capito come disinnescare il meccanismo del potere, crescerà la comunità sociale, formata dalle persone che sono determinate a realizzare un reale cambiamento politico nel Paese.

A quel punto, quando ci si presenterà alle elezioni, non si presenterà solo un partito, ma si presenterà una comunità economica e sociale, che dispone dei propri mezzi di informazione, di una vasta presenza sul territorio, già presente negli enti locali.
Il cambiamento politico, anche nelle istituzioni, sarà quindi una conseguenza del cambiamento sociale ed economico e non viceversa, come pensano coloro che oggi vorrebbero risolvere tutti i problemi presentandosi alle elezioni.

 

Le emergenze come metodo

Chi detiene il potere non solo ha il potere di determinare le decisioni politiche, ma anche il potere di determinare l’agenda di coloro che intendono opporsi al sistema.
Se si limitassero a governare male il Paese, la gente potrebbe, poco alla volta, organizzare una vera alternativa politica, che rappresenterebbe un potenziale pericolo per il potere costituito.

Per evitare questo problema da qualche decennio utilizzano il metodo dell’emergenza.
Oramai la nostra vita è fatta di emergenze che ci vengono presentate dai mezzi di informazione al fine di spaventarci.
Non si tratta solo di emergenze inventate, ma anche di emergenze reali, causate dalle decisioni del potere politico che conta. La gente non ha tempo da investire per organizzare il cambiamento politico generale, per liberare il popolo dall’oppressione dei poteri finanziari, in quanto è spinta a concentrare la propria azione per difendersi da singole emergenze.

Chi determina le emergenze sa benissimo come la gente reagirà. Sanno che se verrà imposto l’obbligo vaccinale, pena la perdita del posto di lavoro, la gente spenderà energie per andare in piazza a protestare.
Ma loro non temono le proteste in piazza, perché le proteste da sole non organizzano alcun cambiamento.
Sanno che se la gente è più povera dovrà dedicare più tempo a lavorare, per mantenere la propria famiglia, senza trovare il tempo da dedicare al cambiamento politico.
Sanno che la gente penserà di organizzarsi per le prossime elezioni, ma non lo temono, per i motivi che abbiamo spiegato sopra.

E’ il principio di azione e reazione. Mettono in atto le azioni che comporteranno, istintivamente, certe reazioni nel popolo, reazioni da cui non hanno nulla da temere.
Sono loro che determinano la nostra agenda, in modo che nessuno si organizzi veramente per cambiare il sistema di potere.
Rileggiamo di nuovo a Sun-Tzu:
Quando il nemico ti porta a combatterlo con le armi da lui scelte, a usare il linguaggio che lui ha inventato, a farti cercare soluzioni tra le regole che lui ha imposto, hai già perso tutte le battaglie, compresa quella che avrebbe potuto vincerlo.”
Se ci lasciamo imporre l’agenda da loro, ci porteranno a combattere dove sanno già che saranno loro a vincere.

Non dobbiamo cadere nel loro gioco. Dobbiamo certamente difenderci dai soprusi, ma senza dimenticare che è con “altri metodi” che vinceremo le battaglie. Dobbiamo determinare la nostra agenda dei cambiamenti e portarla avanti, nonostante le emergenze che ci scaglieranno addosso.

 

Conclusioni

Con quanto scritto non intendo sostenere che sia totalmente inutile presentarsi alle elezioni ed andare a votare, ma intendo sostenere che se limitiamo la nostra reazione alle regole “classiche” della politica non abbiamo la minima possibilità di successo.

E’ invece necessario mettere in atto delle azioni che incidano quotidianamente sul sistema di potere finanziario, aumentando la presenza di una nostra “Nuova Economia” in grado di esistere facendo a meno della “loro moneta”.
Diceva Padre Alex Zanotelli che “noi votiamo ogni volta che facciamo la spesa“. Aggiungo io che “noi votiamo ogni volta che vendiamo il nostro lavoro“.
Ogni volta che usiamo lo stesso denaro che usano le multinazionali per governare l’economia mondiale e per imporre decisioni politiche ai vari popoli, noi conferiamo valore a quel denaro e conferiamo potere alle multinazionali.

Eppure il cambiamento dipende solo da noi, perché siamo noi a decidere a chi vendere il nostro lavoro e da chi comperare i beni e servizi che ci servono per vivere. E noi non abbiamo bisogno del loro denaro per vivere, ma dei beni e servizi che ci sono necessari, che possiamo ottenere anche in cambio della nostra moneta, senza usare la loro.
Sono queste nostre decisioni quotidiane che possono, poco alla volta, ridurre il potere della finanza internazionale e aumentare il potere della nostra comunità economica, sociale e (quindi) politica.

Ora si tratta di organizzarci in modo da sapere chi è disposto a cambiare il proprio modo di fare acquisto e il proprio modo di vendere il proprio lavoro.
Non possiamo scrivere i dettagli di un progetto del genere in un articolo, ma abbiamo già delle idee.
Chi vuole partecipare alla costruzione della Nuova Società e della Nuova Economia, ci contatti.

Davide Gionco
davide.gionco@gmail.com

 

CONTRO L’ECONOMICISMO, PER UNA ANALISI STRUTTURALE, di Gianfranco La Grassa

tratto da http://www.conflittiestrategie.it/contro-leconomicismo-per-una-analisi-strutturale

Ho la sensazione che spesso si confonda la polemica (giusta) contro l’economicismo con la critica, a mio avviso ingiustificata, di ogni tipo di analisi che abbia un carattere strutturale, analisi che è invece la forza di teorie del tipo di quella di Marx (ma non solo di questa).
L’economicismo prende spesso la forma che Marx definì feticismo delle merci, con la sostituzione dei rapporti tra cose (nel capitalismo le merci, appunto) ai rapporti tra uomini. In senso lato, si può secondo me parlare di economicismo quando questi ultimi vengono nascosti, in generale, da quantità definite economiche quali prezzi, profitti, quote di mercato, transazioni finanziarie, saggi di interesse e via dicendo. Un ragionamento che mi sembra francamente uno dei più banali in tal senso è, ad esempio, il seguente (assai usato dal vecchio marxismo): “Nell’anno 0 l’x % della popolazione possedeva l’y % del reddito nazionale (o invece del patrimonio nazionale, ecc.); nell’anno 0+t lo stesso x % ne possiede l’y+z %”. Se ne trae allora la conclusione di una evidente iniquità del tipo di società che permette tale crescente maldistribuzione della ricchezza, quindi un evidente sfruttamento dei miseri da parte dei più ricchi, con il corollario che si avvicinerebbe l’ora della ribellione dei primi. E’ meglio poi non diffondersi sull’attuale mito delle quotazioni di Borsa, vista come “Dio” benefico (tutti avrebbero l’opportunità di arricchirsi) o come dominio del “Maligno” (si approssima una crisi spaventosa con sofferenze inenarrabili per le più grandi masse). Credo francamente che Marx sia ben poco responsabile di simili rozzezze e grossolanità. Considerazioni del genere hanno la stessa valenza e profondità delle considerazioni di un individuo, che viva sempre chiuso in una stanza e pensi che l’intero mondo sia piatto come il pavimento della stessa (è quanto è accaduto all’umanità per migliaia e migliaia d’anni, ma ce ne siamo affrancati salvo che nelle analisi degli economisti degli ultimi decenni).
Ben diverso è il caso quando lo studioso dei rapporti tra uomini non si limita a trattarli alla stregua di una cena tra amici, di una riunione di condominio, di un raduno di alpini, di un incontro d’amore, di un incidente d’auto (con testimoni annessi), del ripararsi nel medesimo androne durante un nubifragio; o anche di una conferenza, di un seminario, di una serata di discussione nella sede del partito, dell’organizzazione di una manifestazione o di un attentato, ecc. Ad esempio, il concetto marxiano di modo di produzione definisce una intelaiatura, una mappa, di rapporti sociali a grana grossa che tende a mettere in luce alcune determinazioni decisive di date società (o, in linguaggio marxista, formazioni sociali o forme di società). Va innanzitutto ricordato che, almeno per quanto riguarda la mia interpretazione, detta intelaiatura non è la riproduzione (una sorta di fotografia) dei rapporti sociali secondo la loro presunta struttura reale in dati periodi storici (in realtà, a rigor di logica, tutto dovrebbe modificarsi in continuazione), bensì una costruzione teorica che tende a mettere ordine nel “caos” degli innumerevoli rapporti che gli individui intrattengono tra loro, cercando in definitiva di decifrare quali sembrano essere più decisivi, più influenti ai fini delle dinamiche di quella data società; si formulano così delle ipotesi circa la direzione di movimento e trasformazione di quest’ultima. Si tenga sempre ben presente che si tratta solo di ipotesi, la scienza non può dare certezze; se lo fa con presunzione e arroganza, non è scienza, solo imbroglio e desiderio di dominare altri uomini ignoranti con un finto sapere (questo è oggi l’atteggiamento riprovevole, oltre che ridicolo, di troppi presunti studiosi, soprattutto in campo economico e medico).
Nessuna ipotesi che metta “ordine” può tuttavia essere indicata se non si parte dal riconoscimento che, nella interazione reciproca tra i molti individui componenti la società, si sono andati formando quelli che vengono definiti ruoli (le “caselline” della struttura ipotizzata come la più idonea al “mettere ordine” in questione), e se non si trascelgono le funzioni ritenute principali che tali ruoli sono in grado di svolgere. Da questo punto di vista, il concetto (costrutto) di “modo di produzione” intendeva trasmettere le seguenti informazioni: a) l’esistenza, appunto, di una struttura di ruoli e di relazioni tra ruoli, occupando i quali gli agenti avrebbero formato delle classi (grossi raggruppamenti) sociali; b) l’esistenza di funzioni cui sarebbero adibiti tali agenti delle varie classi, di alcune delle quali si può predicare il dominio e di altre l’essere dominate (anche, eventualmente, con la costruzione di una serie di gradini intermedi) in relazione alle decisioni riguardanti sia gli assetti (economici, politici, ideologici) di quella data formazione sociale che le dinamiche di riproduzione degli stessi.
In mancanza di uno “schema d’ordine” – e il concetto marxiano di “modo di produzione” sperava di ottenerne uno di particolare successo – tutti i discorsi si fanno generici, confusi, rinviano a erratici flussi di potere o ad una sorta di psicologia sociale degli agenti o ad una loro formazione ideologico-culturale di incerta derivazione senza “base” alcuna; il tutto preparato, non a caso, da una presunta “critica dei fondamenti”, che apre la strada ad una serie di considerazioni di tipo sociologistico e/o politicistico, per nulla affatto ininteressanti o superflue, ma che certamente risentono in modo troppo forte delle preferenze e predisposizioni degli autori delle stesse. Per questi motivi, sono contrario a ritenere ogni discorso (eminentemente teorico) intorno alle strutture (di ruoli e funzioni) come puramente affetto da un appesantimento d’ordine economicistico o, in altri casi, definito spregiativamente scientista. L’essere scientificamente rigorosi è un pregio, non un orpello fastidioso da buttare dietro le spalle; a patto, come già rilevato, di non presumere certezze definitive poiché tutto è sempre ridiscutibile. E credo non ci sia niente di male ad invitare almeno alcuni fra i giovani, con cui si dibattono i temi della (miserabile) situazione odierna della nostra società, a dedicarsi alla fatica della scienza. So che è molto impegnativo e difficile, e bisogna perderci tanto tempo, ma è l’unico modo di arrivare “più a fondo” nella critica – l’arma della critica e non la critica delle armi, ben consapevoli che talvolta quest’ultima è inevitabile – ai gruppi sociali, di vario ordine e grado, che si ergono a difesa dell’attuale struttura di rapporti tra dominanti e dominati; anche la lotta CULTURALE contro tali gruppi verrebbe rafforzata da una rigorosa analisi delle loro funzioni. E d’altronde la stessa critica delle armi va adeguatamente preparata e valutata con tale tipo di analisi, mai in modo solo irruento e “viscerale”, che può essere soltanto la facciata per infiammare e condurre allo scontro masse d’uomini, ben sapendo che, sotto l’apparente disordine, deve sempre esserci una STRATEGIA (basata sul calcolo dei probabili rapporti di forza) molto lucida e fredda, pena il disastro e la sconfitta assicurati.
Quando, scrivendo e parlando, manifesto idiosincrasia per la “sinistra”, si fraintende spesso il mio discorso, prendendolo per umorale; se si leggesse attentamente quanto scrivo in tema di ipotesi relative alle diverse frazioni di dominanti e alle loro funzioni riproduttive dell’odierno ordine sociale, ci si renderebbe conto di quanto questa idiosincrasia – manifestata con assai maggior virulenza a parole – sia tributaria di una analisi del tutto “realistica” del “servizio” che detta “sinistra” rende alle frazioni peggiori dei dominanti in questione. Alla fine degli anni ’60 – nel mio periodo prealthusseriano e prebettelheimiano – scrissi un articolo (pubblicato solo nel ’73 nel Che fare?, rivista diretta da Francesco Leonetti) in cui delineavo la progressione futura della politica del PCI in quanto organizzazione che si sarebbe infine messa alle dipendenze di date frazioni di quella che designavo allora ancora come “borghesia monopolistica” (termine invecchiato). Al di là di un’argomentazione ancorata alla tradizione (si tratta di quasi mezzo secolo fa), mi si concederà che feci una previsione molto in anticipo sui tempi; ma potei farla solo in base ad un’analisi, pur ancora rudimentale, che non esito a definire come fondamentalmente scientifica, pur se certo con i termini e l’intelaiatura teorica (marxista) di quei tempi. Qualsiasi analisi “di superficie”, culturalistica e quasi psicologistica, conduceva la stragrande maggioranza dei critici (sessantottini) di allora a parlare, al massimo, di ideologia piccolo-borghese del PCI e cose del genere, rivelatesi del tutto errate.
Non intendo tediare oltre il lettore. Ma invito tutti – naturalmente quelli che leggeranno queste poche righe; molte solo per i lettori di questo luogo un po’ “insano” che è FB – a meditare attentamente sull’uso a volte pretestuoso che si fa di polemiche contro l’economicismo, lo scientismo, ecc. Se qualcuno non si assume la fatica e il tedio della “fredda” scienza, non faremo molti passi in avanti. E quando dico qualcuno, intendo riferirmi non al sottoscritto, che ha ormai fatto la sua parte (o almeno il 95% di essa), bensì ai giovani (pochi invero) che mantengono, quasi miracolosamente, un atteggiamento critico ma non soltanto viscerale e “istintivo”. Si abbia il coraggio di mettere il culo sulla sedia per qualche ora al giorno, e si legga e rifletta, imparando a formulare delle ipotesi teoriche da sottoporre poi ad ulteriori letture e riflessioni, dato che nel campo delle scienze sociali non vi sono laboratori con provette e reagenti o acceleratori di particelle o telescopi giganti, ecc.; e lo scienziato sociale nemmeno può fare la verifica delle sue teorie mediante impegno diretto e immediato in tutte le situazioni (nei vari periodi storici e nei vari luoghi geografico-sociali) di cui ipotizza le strutture e dinamiche. Per difendere una certa causa, non c’è sempre bisogno di mettere bombe e nemmeno di affrettarsi a immaginare ribellioni “popolari” abbellite (e ingigantite) dalla nostra capacità di fantasticare; si può anche far funzionare il cervello che ha questa specifica capacità di “costruire” strutture architettoniche in grado di mappare, di ordinare semplificando, il territorio (sociale non meno di quello naturale) in cui ci si deve muovere, cercando di accrescere l’efficacia delle nostre analisi e interpretazioni. Sempre ipotetiche e soggette alla prova, sia chiaro!