Devo ammettere un errore. Nel mio comunicato stampa del 15 agosto sul fiasco dell’Eliseo in Niger, ho scritto “oggi Trafalgar, domani Fachoda”. La realtà è diversa: in realtà è “Fachoda più Berezina”.
Fachoda appunto, perché i nostri ottimi alleati e fedeli amici laici, gli Stati Uniti, si sono ancora una volta totalmente dissociati dalla Francia. E, come sempre in questi casi con i nostri affidabili e infallibili partner anglosassoni, questi ultimi hanno “giocato d’anticipo”. Hanno negoziato alle spalle di Parigi con la giunta nigerina per mantenere la loro base ad Agadès! Di conseguenza, noi siamo stati sputati quando ce ne siamo andati, ma loro sono rimasti con i loro dollari!
È una Berezina anche perché l’arroganza, la compiacenza, l’ingenuità e soprattutto l’incompetenza dei ballerini di tip tap che consigliano l’Eliseo hanno messo il contingente francese in Niger in una situazione tale che il ritiro assumerà automaticamente la forma di una ritirata. Ora, essendo il Niger un Paese senza sbocco sul mare, ci sono due possibili opzioni, che di fatto equivalgono a una nuova Bérézina… ma senza il Corpo dei Pontonniers… :
1) Verso il Ciad. Questo comporterebbe lunghi e pesanti convogli che attraversano tutto il Niger sotto l’attacco di civili spinti sui nostri convogli per costringere le nostre forze ad aprire il fuoco, con tutte le conseguenze mediatiche che possiamo immaginare… A meno che, naturalmente, non paghiamo alla giunta un riscatto molto alto… Per non parlare del fatto che il Ciad è un vicolo cieco dove, inoltre, si pongono gli stessi problemi di base del Niger e del Mali… e poi, quando questo Paese esploderà, perché prima o poi esploderà, dove evacueranno le nostre forze? Una mappa è istruttiva a questo proposito…
2) Verso il Benin e il mare. Fortunatamente il Benin ha un confine di 266 chilometri con il Niger, una distanza relativamente breve dalle nostre basi nella regione di Niamey. Ma Cotonou dovrebbe comunque acconsentire al transito, cosa che probabilmente avverrà, ancora una volta in cambio di “denaro contante” e vari altri vantaggi…
In ogni caso, il prestigio della Francia non esiste più, quindi bisognerà pensare a ridefinire una politica africana, tema che sarà al centro del numero di ottobre de L’Afrique Réelle, che gli abbonati riceveranno il 1° ottobre.
Ma per il momento la realtà impone che i nostri futuri orientamenti strategici in Africa prevedano un ritiro dal Sahel, dove ci sono solo assi nella manica – e dove la Francia non ha interessi, come dimostra lo stesso numero di ottobre de L’Afrique Réelle – e un ritorno alla tradizione marittima del XVIII secolo, cioè facendo delle coste le nostre basi d’azione.
E, soprattutto, facendo scoprire a chi non ha ancora “bruciato le ali” le sottigliezze politiche, economiche, etniche e demografiche dell’interno di un continente che Stanley ha definito “misterioso”…
I senatori che rappresentano 19 Stati della Nigeria settentrionale hanno fatto pressione sui loro omologhi che rappresentano gli Stati della Nigeria meridionale affinché negassero al Presidente Bola Tinubu il permesso di usare la forza militare per annullare il colpo di Stato militare nella Repubblica del Niger.
I senatori del Nord hanno sostenuto che i loro Stati confinano con la Repubblica del Niger e che, in caso di azione militare, sarebbero colpiti da un diluvio di rifugiati.
Il Senato ha approvato tutti i metodi da utilizzare per ripristinare l’ordine costituzionale nella Repubblica del Niger, tranne l’intervento militare. In altre parole, il blocco economico e il ritiro della fornitura gratuita di elettricità al Niger rimangono in vigore. Ampie zone del Niger sono al buio totale, dato che la Nigeria contribuisce al 70% del totale dell’energia elettrica utilizzata nel Paese francofono.
Con una svolta, i capi militari nigeriani si sono riuniti con gli altri capi militari degli Stati membri dell’ECOWAS e hanno rilasciato una dichiarazione in cui affermano di non ritenere più opportuno l’uso della forza contro la giunta nigerina.
Per ora, la minaccia di una guerra si è allontanata. Gli sforzi diplomatici per cercare di convincere la giunta militare a ritirarsi continuano…
Il sito italiaeilmondo.com ha iniziato a rivolgere quattro domande a Aurelien[1], e continua a proporle, identiche, a diversi amici, analisti, studiosi italiani e stranieri.
Oggi risponde Mario Iannaccone
Qui il collegamento con la raccolta di tutti gli articoli sino ad ora pubblicati_Giuseppe Germinario, Roberto Buffagni
1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?
Penso che i principali errori dei decisori militari – per quanto possiamo capire – non stiano nello scoppio o estensione della guerra d’Ucraina nel febbraio del 2022 che, ampiamente previsti e forse ricercati. Credo che l’errato calcolo stia nella valutazione della capacità dell’apparato industriale-militare russo di rispondere e resistere al logoramento. Errori sono stati fatti nel calcolo delle sue riserve, negli stoccaggi di mezzi di artiglieria, missili. Errori di valutazione, anche, mi pare, nella capacità di utilizzare in modo flessibile i nuovi mezzi che si stanno rivelando cruciali, i droni esplosivi e i missili ipersonici di cui pure si conosceva la precisione.
Anche la valutazione della strategia militare della Federazione Russa, che si credeva antiquata e si è rivelata invece flessibile e adatta ai tempi e agli armamenti, è stata valutata in modo impreciso. L’utilità di droni di basso costo che distruggono mezzi e sistemi missilistici da milioni di dollari, la loro efficacia era stata prevista in questo modo e in questa portata? Non pare. Per il resto, sul campo, la dottrina russa sembra quella di sempre: si ritirano con movimenti di truppe veloci e flessibili, creano sacche che colpiscono con l’artiglieria prima di avanzare di nuovo eventualmente. Si ritirano per risparmiare uomini e mezzi. I carri armati si stanno rivelando meno efficienti del previsto in questa guerra? Anche questo mi pare evidente, e sono mezzi costosissimi (pensiamo ai Leopard 2). Non sappiamo su chi grava la maggior parte della responsabilità. Ovviamente hanno potuto contare su un regime, come quello di Kiev, che dimostra pochi scrupoli nel inviare i propri militari in operazioni ad altissimo rischio di fallimento.
Per quanto, nello specifico, i decisori politici e non strettamente militari mi pare molto grave non aver previsto i gravi danni che vengono inflitti all’economia tedesca, quindi italiana e francese, oltre che di altri paesi europei. Soprattutto le potenze manifatturiere rischiano danni di lungo corso se non permanenti ma certamente decennali anche con l’azzeramento dele esportazioni e l’aggravamento della bilancia dei pagamenti. D’altra parte, gli Stati Uniti stanno mostrando, al solito, di essere in grado di mettere in campo mezzi, anche fiscali e di stimolo (si parla di circa 400 miliardi a favore dell’industria “green”), per riportare nel loro continente quelle produzioni che erano passate soprattutto ai tedeschi, magari delocalizzando gli impianti più pesanti. Quale sia il vantaggio europeo in questo gioco va ancora compreso ma non è facile capire: al momento, sembra, nulla: perdita secca e accelerazione di politiche “green” che non possono che essere distruttive dei modelli sociali che sino a ora hanno funzionato, bene o male, e tenuto in equilibrio il sistema.
2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?
Sono errori – ma sono errori? – di una classe dirigente tecnocratica e, a catena, di coloro che rispondono alla classe dirigente perché le devono privilegi ovvero gran parte del mondo della cultura, dei media e dell’accademia. Soltanto isolati intellettuali, storici, analisti, giornalisti, criticano la gestione di questa vicenda e spesso in modo parziale. La gente comune non era ostile alla Russia se non perché mossa da una narrazione parziale e una grossolana approssimazione della realtà, che riattivava in modo indebito le paure contro l’Unione Sovietica finita nel 1991. Questo disastro voluto e preparato, è propedeutico alla volontà di cambiare l’intero modello sociale, quanto meno in Europa e in quelle parti del mondo che si autodefiniscono “Occidente”. Potremmo passare da una società relativamente libera e con una certa mobilità sociale a una società bloccata, soggetta a restrizioni di cui la città 15 minuti, C40, Agenda 20-30 e simili ordigni ideologici non sono che segni.
3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?
La crisi dell’Occidente viene da lontano, se ne parla da ben oltre un secolo e non si vede il modo di risolverla. Le categorie utilizzate oggi dalla classe dirigente, quelle che si traducono in concetti come “transizione green”, “woke”, e tutto quanto esce dai laboratori dell’ONU, delle riunioni COP, del WEF e di altri organismi simili – cinghia di trasmissione fra politica, economia, finanza e media, sembrano anzi fatti per trasferire ricchezza dal basso all’altro e per aggravare la crisi sociale e culturale. Non vedo possibilità di risolverla se non con uno slittamento di paradigma o la presa di coscienza dopo un lungo periodo di logoramento che porti ad aggravare ancora di più la crisi in essere: come è accaduto con il marxismo, questo sistema cadrà sotto le proprie contraddizioni. Questo, però, presuppone una lunga marcia nella notte e la presa di coscienza, anche da parte delle generazioni più giovani di aspetti non secondari come l’insostenibile imposizione fiscale italiana.
Inoltre, per risolvere la crisi una pace con la Federazione russa è necessaria. Ma lo strappo non è facilmente reversibile, se non in una o due generazioni a patto che cambi la classe dirigente europea. Così come siamo messi oggi è difficile pensare a una reversibilità facile e veloce. Troppe gravi ammissioni sono state fatte: firma di trattati Minsk 1 e 2 senza l’intenzione di rispettarli, promesse di ulteriori allargamenti della NATO a est, eventi come la distruzione dell’enorme infrastruttura North Stream che garantiva combustibile a buoni prezzi a molti paesi europei, costata circa 15 miliardi di euro a Germania e Federazione russa soltanto nel tratto offshore. Altri fatti, come l’estromissione di atleti e artisti russi dai circuiti internazionali, lo sganciamento dal sistema dei pagamenti internazionali SWIFT appaiono molto gravi, e riflettono proprio la “crisi dell’Occidente” che sta rigettando i presupposti su cui si è fondata e l’ordine internazionale che era stato faticosamente costruito negli ultimi secoli per ordine, sembra delle talassocrazie occidentali. Occorre il cambio di un’intera classe dirigente amministrativa politica e anche culturale per ricucire nei governi, nelle istituzioni internazionali, negli organismi dell’Unione Europea e degli Stati Uniti. Non è cosa che possa avvenire in pochi anni ma forse in 20 o 30.
4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?
L’esempio di Cina e Russia dimostra che sì, ricollegarsi alle tradizioni culturali premoderne è possibile: la società diviene più coesa e forte. Ma si tratta di paesi che non temono il loro passato. Sanno che è stato gestito da loro avi con errori e anche orrori così come sanno che chi gestisce adesso il potere appartiene ad altre generazioni: non si sentono schiacciati da indebiti complessi di colpa. Sanno che non ha senso pretendere che ogni generazione si debba cospargere il capo di cenere per quello che è stato fatto da chi la preceduti. Questa libertà di tenersi liberi dal fardello del passato non c’è più in Occidente, l’entità formata dall’Europa continentale, Inghilterra e Stati Uniti dove i mea culpa sempre riferiti al passato lontano (Medioevo, Colonialismo, Schiavismo ecc.) e mai a quello più recente. Tutto questo è parte della strategia del marxismo culturale francofortese – è una semplificazione ma la radice è quella – teso a creare l’uomo nuovo che deve sentire la colpa del passato per poterlo cancellare e superare completamente. Questo alla lunga ha prodotto società malate, deboli, composte da individui insicuri e sempre disposti ad autocolpevolizzarsi. Il cristianesimo, sino a che è stato forte, non ha mai prodotto simili fenomeni ma negli ultimi decenni è entrato in pieno nel meccanismo di autocolpevolizzazione che rende la società e gli individui manipolabili. I risultati li stiamo vedendo.
l sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure
Su PayPal, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)
AURELIEN30
27 SET 2023 Prima di tutto, le sordide questioni finanziarie. Ho attivato gli abbonamenti a pagamento per coloro che desiderano convertirsi o abbonarsi. Ho fissato i prezzi a 5 e 50 dollari, che spero siano ragionevoli. Se avete già abbonamenti a pagamento ad altri siti, basta premere un pulsante, altrimenti ci sono le istruzioni qui. Vedo che alcuni l’hanno già fatto: grazie. Ho anche creato una pagina “Buy Me A Coffee”, che potete trovare qui.
Vi ricordo che le versioni spagnole dei miei saggi sono ora disponibili qui, e alcune versioni italiane dei miei saggi sono disponibili qui. Marco Zeloni sta ora pubblicando anche alcune traduzioni in italiano. Grazie a tutti i traduttori.
Discutendo dei deboli borbottii nelle capitali occidentali sui “negoziati” sull’Ucraina la scorsa settimana, ho sottolineato quanto sia insicuro e fragile l’ego strategico collettivo occidentale e quanto poco possa tollerare l’opposizione o la critica. Mi è sembrato che valesse la pena di approfondire un po’ questo concetto, poiché ci aiuta a capire perché l’Occidente si sia cacciato in situazioni così disastrose, come quella attuale dell’Ucraina. Cercherò anche di spiegare come sia i ferventi ammiratori della politica occidentale sia i suoi più acerrimi critici facciano in realtà parte dello stesso incoerente discorso strategico. Tutto inizia con l’etnocentrismo
L’etnocentrismo è un termine che indica la tendenza universale a vedere il mondo esterno attraverso il prisma della propria storia e cultura. L’influenza dell’etnocentrismo sulla strategia, soprattutto quella occidentale, non è un argomento nuovo e decenni fa sono stati scritti dei libri al riguardo, anche se apparentemente non hanno influenzato né il pensiero né il comportamento.
L’etnocentrismo ci conforta sul fatto che fondamentalmente comprendiamo il mondo e che possiamo ragionevolmente comprendere e persino prevedere come e perché gli altri si comportano. Nei casi più estremi, l’etnocentrismo incorpora un volgare razzismo e presupposti di superiorità culturale: le altre nazioni o culture sono ritenute deboli e inferiori. Questo è stato il caso più noto delle supposizioni tedesche sulla facilità con cui l’Unione Sovietica sarebbe crollata nel 1941, ma è stato anche vero per le supposizioni giapponesi sugli Stati Uniti nello stesso anno: una buona bastonata sarebbe stata tutto ciò che serviva. In entrambi i casi, si andava oltre il semplice pregiudizio, fino ad arrivare a teorie pseudo-scientifiche di superiorità radicale. Nell’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda, invece, l’etnocentrismo si estendeva a una teoria ideologica completa del mondo e del suo funzionamento, tale per cui qualsiasi evento, ovunque, poteva in linea di principio essere analizzato e affrontato secondo una visione coerente.
L’etnocentrismo è spesso più una debolezza e un fastidio che un pericolo, ma può essere davvero molto pericoloso quando – come sopra – è combinato con il potere di fare del male. Il tipo di etnocentrismo che caratterizza la mente strategica occidentale in questo momento non è nuovo o unico, ma è legato a un potere e a un dominio maggiori di quelli che qualsiasi blocco politico ed economico è mai riuscito a raggiungere prima. Inoltre, i seguaci di questa ideologia – perché così è diventata – occupano la maggior parte dello spazio concettuale nel mondo di oggi e vedono questa egemonia come del tutto meritata, grazie alla correttezza delle loro convinzioni e alla purezza dei loro cuori. Trovano che le minacce ad essa siano destabilizzanti e persino spaventose. Semmai, questa ideologia è diventata progressivamente più rigida e onnicomprensiva dalla fine della Guerra Fredda, con la globalizzazione che ha ridotto e concentrato le fonti di notizie e con l’emergere di una nuova élite politica globale transnazionale, che condivide idee, formazione ed esperienze lavorative e che è servita da una Casta Politica e Manageriale (PMC) che diventa sempre più omogenea, e persino formica, con il passare degli anni.
Abbiamo quindi un insieme di presupposti etnocentrici che sono sviluppati come nessun altro nella storia, e anche molto pericolosi a causa della rigidità con cui sono sostenuti, del potere delle nazioni coinvolte e – fino a poco tempo fa, comunque – della capacità di queste stesse nazioni di imporre i loro giudizi agli altri. Di quali ipotesi stiamo parlando? Ne suggerirei tre e, come di solito accade con le ideologie assemblate un po’ alla volta nel tempo da diversi attori, la somma totale non è forse così coerente come potrebbe essere. Tuttavia, possiamo dire che il complesso strategico occidentale (e tornerò su questo concetto) probabilmente articolerebbe i suoi presupposti in questo modo, se fosse sfidato a farlo.
Primo: la maggior parte delle persone nel mondo sono come noi, o ragionevolmente tali. Se non si comportano come noi, o se i loro Paesi non si comportano come noi, è perché sono fuorviati o vittime di governi dittatoriali e di strutture di potere maligne. Se queste strutture possono essere rovesciate, molto rapidamente le persone nei Paesi interessati si dimostreranno come noi.
In secondo luogo, quando le persone non sono come noi o gli Stati non assomigliano ai nostri, capiamo e possiamo spiegare perché è così e sappiamo cosa bisogna fare per correggerlo. Così, possiamo essere delusi da comportamenti individuali o collettivi, ma li troviamo sempre abbastanza facili da spiegare. C’è poco al mondo che non siamo in grado di capire.
Infine, tutte le crisi e i conflitti internazionali riguardano fondamentalmente noi. Se come individui sosteniamo le politiche e le azioni dei governi, dei movimenti e delle organizzazioni internazionali occidentali, allora pensiamo che le crisi in altre parti del mondo siano causate dalla resistenza agli sviluppi democratici e alla diffusione delle nostre idee, o dalle macchinazioni di imprenditori politici che fomentano folle populiste anti-occidentali. Se le Nostre idee sembrano in difficoltà è perché non sono state spinte abbastanza o sono state deliberatamente sabotate. Ma paradossalmente, se ci opponiamo ai governi e alle organizzazioni internazionali occidentali, allora vediamo tutte le crisi e i conflitti del mondo come il risultato delle loro aggressioni e dei loro sforzi di destabilizzazione. In entrambi i casi, quindi, ciò che accade nel mondo riguarda solo noi.
Ora, cercare di descrivere un’ideologia incoerente in termini coerenti tende a produrre un risultato che assomiglia alla parodia o alla satira, e non sono sicuro che i rappresentanti del Complesso di Sicurezza Occidentale (Western Security Complex, in breve WSC), si esprimano in modo così schietto. Ma chiunque ne abbia frequentato una parte riconoscerà immediatamente le componenti della loro ideologia. Il fattore aggiuntivo che distingue il WSC di oggi dai suoi predecessori, anche di una generazione fa, è la delicatezza infantile del suo ego e la sua incapacità di sostenere le critiche, per non parlare dell’ammissione del fallimento. Si tratta di una questione generazionale di cui ho già parlato in precedenza.
Quindi, una parola sul complesso di sicurezza occidentale. La prima cosa da dire è che chiunque può farne parte o, se preferite, chiunque può affermare di esserne membro. Per molti versi questo è strano, perché la maggior parte delle comunità di esperti richiede almeno una certa competenza dimostrata, o un processo di ammissione. È improbabile che una pubblicazione come The Lancet includa articoli di persone che non hanno una formazione medica: il Complesso medico, il Complesso giuridico, il Complesso accademico in generale, il Complesso degli esperti di vino o dei fan dei Grateful Dead… tutti questi gruppi, sebbene possano avere contorni sfumati e persone a cui viene negata l’adesione per motivi controversi, sono comunque gruppi coerenti e si basano in linea di principio su conoscenze ed esperienze dimostrate. Anche i gruppi al di fuori del mainstream, come i praticanti della Medicina Tradizionale Cinese o i Riflessologi, hanno i loro standard professionali e i loro requisiti di appartenenza. Ma di fatto chiunque può scrivere su questioni di sicurezza e farsi pubblicare, anche su media influenti.
È strano se ci si pensa. Se un giornalista e opinionista, noto in passato per aver scritto di questioni di finanza commerciale internazionale, pubblica un articolo su uno dei principali quotidiani occidentali che sostiene, ad esempio, la fornitura di armi nucleari tattiche per l’Ucraina, nessuno lo riterrà strano e, se riflette il discorso dominante, potrà godere di una notevole pubblicità, anche se l’autore potrebbe non avere idea di cosa stia parlando. E un opinionista di spicco che non ha mai visitato la Cina, non parla il mandarino, non ha una particolare conoscenza dell’Asia o degli affari esteri in generale, non si sentirà inibito a scrivere sulle pagine di un’importante testata giornalistica, chiedendo una guerra con la Cina domani, se non oggi.
Perché? Perché gli opinionisti si sentono qualificati ad offrire opinioni su questioni di guerra e di pace, mentre esiterebbero ad essere altrettanto dogmatici sui vini della Linguadoca-Rossiglione o sugli assoli di chitarra di Jerry Garcia? E perché le loro opinioni tendono a rientrare in due categorie internamente molto omogenee: la maggioranza che sostiene che tutto ciò che l’Occidente sta facendo è giusto e va continuato, e una minoranza molto più piccola che sostiene che tutto ciò che l’Occidente sta facendo è sbagliato e va fermato? E soprattutto perché questi opinionisti, siano essi favorevoli o contrari, danno per scontato che le azioni occidentali in qualsiasi crisi determinino ciò che accadrà?
Non è che argomenti come la politica estera, la gestione dei conflitti e delle crisi siano intellettualmente semplici da capire. Di recente ci si è resi ridicoli parlando della guerra in Ucraina, degli effetti delle sanzioni, della fornitura di attrezzature occidentali, della stabilità del sistema politico russo… tutte cose che richiedono anni di studio e di esperienza per poter dire qualcosa di sensato. Credo che le ragioni siano essenzialmente due, oltre all’ovvio fatto che essere un membro del PMC significa non dover mai chiedere scusa, anche perché si scrive per lo più per persone ignoranti come voi.
Il primo, a mio avviso, è la convinzione che esistano campi di competenza chiamati “strategia” o “geopolitica” che permettono a chi ne fa parte (o si considera tale) di esprimersi su qualsiasi questione. Ora, naturalmente la “strategia” esiste come materia reale e importante. Comporta lo studio degli scritti dei teorici di tutti i tempi (Clausewitz, Mahan e tutti gli altri). È perfettamente legittimo applicare le intuizioni di Clausewitz all’attuale conflitto in Ucraina (io stesso mi dichiaro colpevole), ma non ci si può atteggiare a esperti di quella crisi, o di qualsiasi altra, solo perché la strategia è un argomento che interessa, o perché se ne è letto un libro all’università. D’altra parte, è molto dubbio che esista davvero un titolo di lavoro come “geostratega” o una materia come “geopolitica”. Esistono ovviamente interazioni complesse tra geografia, strategia, economia e politica in diverse regioni del mondo, ma è piuttosto fuorviante supporre che si possa semplicemente trasporre un modo di pensare (spesso materialista e riduttivo) da un’area del mondo a un’altra. Se si vede qualcuno che si presenta come “scrittore di questioni strategiche” o altro, in genere significa che ha solo una conoscenza superficiale di molte cose diverse. Questo è diverso dall’essere, per esempio, un esperto dell’industria petrolifera mondiale o dei flussi commerciali globali dell’elettronica, dove si deve effettivamente sapere qualcosa.
Il secondo è quello che io chiamo il credenzialismo dello status. Si parla di credenzialismo quando la frequentazione di un’università o di una business school, o il passaggio attraverso un qualche tipo di formazione professionale per ottenere una qualifica, fornisce credenziali, ma non necessariamente conoscenze e competenze. Il prototipo è l’MBA che conosce il valore attuale netto di tutto e il valore di niente, e che in realtà ha meno valore per un’organizzazione rispetto a chi ha lasciato la scuola a sedici anni, ma sa effettivamente come funzionano le cose. Questo accade in qualche misura anche nel campo dei conflitti e della sicurezza: l'”ex diplomatico”, l'”ufficiale militare in pensione”, l'”ex analista di intelligence” non hanno il diritto automatico di sentirsi dire cosa pensare al di fuori delle materie in cui hanno avuto esperienza professionale diretta. Molte di queste persone si sono rese ridicole dall’inizio del conflitto in Ucraina. (Dubito, infatti, che esista qualcosa di così semplice e generico come un “esperto militare”, e molti ufficiali militari con cui ho parlato la pensano allo stesso modo).
Ma ci sono anche altri tipi di credenziali, che non hanno nulla a che fare con la competenza in materia di conflitti. Dopotutto, se siete avvocati per i diritti umani, il vostro modello di business dipende dall’esistenza di violazioni dei diritti umani, e quindi reagirete immediatamente su Twitter a qualsiasi notizia, voce o persino menzogna deliberata su tali violazioni, e rivendicherete il diritto di dire ai governi cosa fare perché le vostre credenziali dicono che parlate a nome degli oppressi. E così un gruppo di voi scriverà un op-ed per un’illustre fonte di notizie dal titolo “Perché Vladimir Putin non merita un giusto processo e dovrebbe essere lapidato” e nessuno penserà che sia strano. All’altro estremo della scala, un economista, incatenato a una spiegazione materialista e razionalista del comportamento umano, si annoderà intellettualmente cercando di ridurre la crisi ucraina, o le tensioni con la Cina, o i recenti colpi di stato in Africa, a cause economiche che comprende, al fine di far progredire il proprio modello di business. E a sua volta questo incoraggerà altri gruppi d’interesse ad affrettarsi a pubblicare affermazioni secondo cui “si tratta di” fattori X, Y e Z che “vengono ignorati”. In parte, si tratta di ciò che gli psicologi chiamano Bias Cognitivo, ovvero quando le persone vedono le questioni in termini di ciò che conoscono, anche se in realtà non si tratta di ciò che riguarda principalmente la questione. Ma in parte è anche una caratteristica del nostro ambiente mediatico, intellettuale e delle ONG, aspramente competitivo, i cui attori fanno leva su un presunto status morale per pronunciarsi su argomenti sui quali sono profondamente ignoranti.
Poi, ci sono quelli che credono che il loro status individuale li autorizzi a farsi ascoltare, anche se non sanno nulla dell’argomento. La fama, o almeno la notorietà, dà il diritto di essere ascoltati. (Forse ricorderete la grottesca commedia dell’attore George Clooney che si è rivolto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per parlare del Darfur). Può anche essere possibile costringere gli altri a prendervi in considerazione perché rivendicate una sorta di autorità morale personale anche se, ancora una volta, non avete idea di cosa state parlando. E per alcune persone, sentirsi fortemente coinvolti in una questione diventa di per sé una qualifica, e nella nostra economia della disattenzione, purtroppo, coloro che gridano più forte spesso ottengono il pubblico più numeroso.
A dire il vero, i conflitti e le crisi non sono le uniche aree che attraggono esperti auto-selezionati: il cambiamento climatico e Covid sono altri esempi recenti. Ma il motivo per cui il WSC è così grande e poroso da permettere a quasi tutti di entrarvi, è che le crisi, e soprattutto i conflitti, sono di natura complessa, sono drammatici ed eccitanti e sollevano questioni morali e politiche in modo molto crudo. Spesso sono coinvolti molti soldi e ci sono così tanti possibili punti di ingresso – legali, etici, strategici, culturali, economici – che alla fine c’è spazio per tutti.
Avrete notato, naturalmente, che tutti gli attori che ho elencato sono occidentali e che gran parte del discorso della WSC consiste, come ci si aspetterebbe, in una competizione spesso brutale tra gruppi d’interesse per imporre la propria interpretazione di una situazione, nel perseguimento del proprio modello di business. Dopotutto, di cosa si è occupata la guerra civile nello Yemen? A seconda della persona con cui si parla, è una crisi politica, una guerra civile, una crisi umanitaria, una crisi dei diritti umani, una crisi ambientale, una crisi interna nord-sud, un risultato della rivalità saudita-iraniana, in qualche modo colpa dell’Occidente e molte altre cose. Probabilmente sono tutte queste cose in qualche misura, ma dobbiamo ricordare, ancora una volta, che si tratta di interpretazioni imposte dall’esterno, le armi di una lotta fratricida all’interno del CMS per controllare il discorso, influenzare la politica e, alla fine, accedere ai finanziamenti.
Ovviamente non è possibile o auspicabile impedire alle persone di esprimere le proprie opinioni al mondo su questioni importanti, anche se queste opinioni sono prive di valore. Ma, come in altri settori, il male scaccia il bene, e questo è un problema più grave quando sono in gioco delle vite che non quando, ad esempio, si tratta di musica. Non si può limitare il commento a esperti di spessore (non che siano tutti d’accordo, comunque), ma probabilmente è giusto dire che con le barriere all’ingresso per commentare pubblicamente i principali eventi mondiali più basse che mai, e con lo stock di competenze autentiche non più grande che mai, beh, la qualità è destinata a scendere.
Tuttavia, mi sembra che se stiamo decidendo se spendere o meno una parte dei nostri neuroni rimanenti per leggere un altro articolo su, ad esempio, la Cina, il G20, i BRICS o Taiwan, allora è ragionevole chiedere che chi scrive abbia almeno una conoscenza limitata di ciò di cui sta parlando. Leggendo fino alla fine una diatriba anti-occidentale di tremila parole che tratta tutti questi punti con grande veemenza e un linguaggio intemperante, sarebbe deludente scoprire che, ad esempio, l’autore è “un musicista e attivista politico con sede in Australia e vice-convocatore del Wollongong Green Party” o qualcosa di simile. So che viviamo in un mondo post-verità, post-autorità, non gerarchico, dove la verità è qualsiasi cosa si voglia, ma ci sono dei limiti: una concezione sbagliata della “verità” può avere conseguenze terribili nel mondo reale.
Parte del problema del WSC è una sorta di variante dell’effetto Dunning-Kruger. Le persone che sanno molto su una cosa, e che hanno un pubblico fedele, possono iniziare a credere di poter scrivere di questioni correlate, poi di questioni meno correlate, infine di questioni che non sono affatto correlate. Ma poiché il loro pubblico li legge in gran parte per avere le proprie opinioni confermate da qualcuno con un’apparente autorità, questo sembra non avere importanza. Così, qualcuno che è abbastanza bravo (per esempio) sui meccanismi dell’organizzazione militare o sul funzionamento dei mercati valutari, improvvisamente appare come opinionista sulla recente ondata di colpi di stato nell’Africa occidentale francofona, avendo appena scoperto, forse, che la maggior parte della regione è francofona.
Questo è un buon esempio, in realtà, perché è possibile stabilire alcune semplici qualifiche pragmatiche per fare opinionismo in modo responsabile sull’argomento. Con questo non intendo lasciare un contributo su un sito di notizie o di commenti, ma afferrare davvero le persone per il bavero e affermare che capite la questione e che dovrebbero ascoltarvi. Ne elenchiamo alcuni.
In primo luogo, è ovvio che bisogna conoscere la storia degli Stati africani francofoni dopo l’indipendenza, e come e perché ciò è avvenuto nel modo in cui è avvenuto. Bisogna comprendere le origini del franco CFA e la sua svalutazione nel 1994, ad esempio, e i cambiamenti politici sismici avvenuti dopo la fine della guerra fredda e il discorso di Mitterrand a La Baule nel 1990, che incoraggiava i sistemi multipartitici e la conseguente instabilità e conflittualità. Dovete avere familiarità con la rapida disintegrazione della posizione francese in Africa, al punto che già nel 2005 il libro di Glaser e Smith Comment la France a perdu l’Afrique ne parlava come di un fatto assodato, e il successivo libro di Glaser, uscito nel 2014, AfricaFrance, sosteneva in modo persuasivo che la situazione era ormai cambiata e che erano i leader africani ad avere il sopravvento sugli inquilini dell’Eliseo.
Naturalmente, bisogna avere familiarità con la letteratura generale sullo Stato patrimoniale in Africa, che è ormai ben consolidata, con scrittori come William Reno o Jeffrey Herbst, che hanno originariamente mostrato come, con territori troppo grandi per essere controllati da Stati deboli, i leader africani istituiscano sistemi patrimoniali per accedere e distribuire le ricchezze provenienti dalle risorse naturali e dai governi stranieri per mantenersi al potere, impedendo al contempo lo sviluppo e la crescita economica e l’ascesa di una classe media urbana che potrebbe minacciare il loro monopolio sull’accesso ai meccanismi di arricchimento e quindi al potere. Quindi la politica, sia essa democratica o attraverso colpi di stato militari, è una lotta per il controllo dello Stato e delle sue capacità di ricerca di rendite, proprio come accadeva in alcune parti d’Europa nell’era pre-moderna. (Nel frattempo, scrittori come Christopher Clapham hanno spiegato per decenni come gli Stati e i governanti apparentemente deboli in Africa sopravvivano e prosperino in un sistema internazionale ostile. E naturalmente non guasterebbero nemmeno un francese fluente, un’esperienza recente sul campo e conversazioni con politici, studiosi e giornalisti locali.
Ricorda di aver letto, nell’ultimo mese o giù di lì, qualcosa sulla recente ondata di colpi di Stato che tradisca lontanamente questo livello di competenza? Non ricordo. In generale, gli “esperti strategici” che la settimana prima si erano occupati dell’Ucraina e quella prima ancora della Cina e di Taiwan, e che fino a quel momento non si erano resi conto che la Nigeria e il Niger erano due Paesi diversi, si sono precipitati sulla stampa, afferrando di sfuggita uno dei vari quadri concettuali onnicomprensivi venduti al supermercato del WSC. Per una parte si trattava di un complotto russo-cinese, probabilmente guidato dal gruppo Wagner, per l’altra di una rivoluzione anticoloniale e anti-occidentale. Nessuno pensava che valesse la pena di andare a scoprire cosa stesse accadendo. E praticamente tutti questi opinionisti erano occidentali e convinti che non ci fosse nulla di molto complicato o difficile da capire. Le diverse fazioni del WSC, spesso aspramente divise dal punto di vista ideologico, condividevano la convinzione di aver capito tutto del problema. È sorprendente che le poche voci africane che sono riuscite a farsi sentire, come Ken Opalo e Chima Okezue, abbiano offerto un’analisi nettamente diversa.
La natura amorfa e divisa del WSC rende ancora più difficile comprendere la portata della sua influenza. Non è tutta una cospirazione: l’Agenzia svedese per lo sviluppo, che sta lavorando su procedure di controllo dei veicoli sensibili alle differenze di genere, sarebbe estremamente offesa se le dicessero che fa parte di una gigantesca cospirazione con la CIA. In effetti, anche varie parti del governo degli Stati Uniti lavoreranno, come al solito, in modo incrociato tra loro. Ma l’influenza del WSC è così pervasiva (così come, naturalmente, l’influenza delle istituzioni economiche e sociali dominate dall’Occidente) che non credo sia esagerato dire che l’Africa di oggi, ad esempio, è sottoposta a una maggiore influenza occidentale in tutti i settori rispetto all’epoca coloniale. Dopotutto, a quei tempi il numero di amministratori coloniali era esiguo, nella maggior parte delle colonie il potere veniva esercitato indirettamente attraverso i capi locali, e lo zambiano o il burkinabé medio (all’epoca, ovviamente, non esistevano questi Paesi) potevano non aver mai visto un europeo in tutta la loro vita. Oggi sono ovunque, spesso giovani, spesso motivati, spesso intenzionati a fare del bene (questo vale anche per l’assistenza alla sicurezza), mentre la crescente urbanizzazione di molti Paesi africani fa sì che un numero molto maggiore di africani abbia contatti diretti con gli occidentali.
Questo sarebbe meno importante se in Africa, o anche in Medio Oriente, ci fossero più fonti indipendenti di comprensione e commento al di fuori del CMS e della sua influenza. Ma in entrambe le aree, un pensiero veramente indipendente e informato sulle questioni di sicurezza è molto raro, in parte perché gli argomenti sono considerati molto delicati e in parte per mancanza di risorse. Le istituzioni che esistono dipendono in ultima analisi da una fazione o dall’altra del CMS per i loro finanziamenti. Ad esempio, una prestigiosa istituzione africana che conoscevo bene ai tempi, pubblicizza i suoi principali finanziatori come “la Fondazione Hanns Seidel, l’Unione Europea, la Fondazione Open Society e i governi di Danimarca, Irlanda, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia”. Questa fondazione, nel caso ve lo steste chiedendo, è una Stiftung, finanziata dal governo tedesco come modo per perseguire una politica estera a distanza.
Quindi, in una forma o nell’altra, le varie lobby in competizione all’interno del WSC siedono in cima alla concezione stessa di cosa sia la sicurezza. (Come dicevo agli studenti in Africa: Finché possiamo controllare i vostri cervelli, non abbiamo bisogno di controllare i vostri Paesi). E questo è ancora il caso, probabilmente più di allora. I modelli di pensiero e di discorso sulla sicurezza – quelli che Foucault chiamava notoriamente discorsi – sono stati dominati fin dagli anni Cinquanta dalle forze politiche e intellettuali in competizione tra loro che oggi costituiscono il complesso di sicurezza occidentale, anche tra coloro che si considerano aspramente anti-occidentali.
La forma più caratteristica di questo dominio è l’appropriazione di un intero soggetto della storia come se esistesse solo perché l’Occidente l’ha creato. L’ego strategico occidentale non può tollerare l’idea che ci siano stati sviluppi nella storia che non sono stati opera sua. Prendiamo ad esempio gli imperi. Gli imperi sono essenzialmente l’epitome dell’idea che la terra e le persone appartengono a un governante, o a una famiglia, piuttosto che costituire una nazione. Questo sistema era la norma in tutte le parti del mondo fino a tempi molto recenti, e gli imperi si espandevano e si contraevano in seguito a guerre, matrimoni e problemi dinastici. I trasporti marittimi hanno permesso a spagnoli, portoghesi e arabi di dominare territori molto lontani e, verso la fine del XIX secolo, le tecnologie della rivoluzione industriale hanno permesso a inglesi e francesi di espandere notevolmente i propri imperi e ai tedeschi di iniziare a copiarli. In effetti, gli imperi, almeno da Alessandro agli Ottomani, sono stati la principale forza strutturante della storia mondiale. Tuttavia, per la WSC, “impero” significa soprattutto l’impero britannico e francese dal 1880 al 1960 circa, in gran parte in Africa: il che è strano se si considera che probabilmente nessun singolo fattore spiega la recente serie di crisi nei Balcani, in Medio Oriente, nel Maghreb e nell’Africa occidentale più delle conseguenze della diffusione dell’Islam e dell’Impero Ottomano. Ma questa storia non riguarda noi, quindi non viene menzionata.
Lo stesso vale per la schiavitù, per la quale il WSC si fissa in modo monomaniacale sul coinvolgimento europeo nella tratta atlantica degli schiavi, come se la schiavitù non fosse stata endemica in Africa (e altrove) per eoni, e fosse continuata in Africa fino a quando l’ultima parte di essa non è stata portata sotto il dominio coloniale. Per non parlare del massiccio commercio di schiavi musulmani verso l’Oriente, o anche del commercio molto più piccolo, ma comunque rispettabile, di europei catturati e venduti come schiavi nell’Impero Ottomano. Per quanto disdicevole sia l’argomento e disgustose le conseguenze, sembra che l’ego strategico occidentale non possa accettare che una parte della storia non riguardi noi. Dopo il crollo della Libia nel 2011, molti occidentali si sono stupiti che la schiavitù sia ricominciata, seguendo le stesse rotte e verso alcune delle stesse destinazioni, come ai tempi dell’Impero Ottomano. Non ne sapevano nulla.
Tuttavia, sono le dottrine conflittuali della CMS che da decenni strutturano le istituzioni internazionali e, soprattutto, il modo di pensare alle questioni internazionali. Il fatto che esista ancora un Comitato speciale delle Nazioni Unite sulla decolonizzazione, ad esempio, è un risultato diretto del dominio del pensiero occidentale sullo sviluppo del mondo postbellico. Si consideri che, almeno fino agli anni Venti, la maggior parte delle persone viveva in territori, piuttosto che in Paesi, sotto schemi mutevoli di controllo politico che spesso operavano in modo diverso a diversi livelli. Al livello più alto, il padrone fittizio poteva cambiare – dagli egiziani agli inglesi in Sudan, per esempio – con poca o nessuna differenza nella vita quotidiana. (Franz Kafka nacque come ebreo di lingua tedesca, suddito dell’Impero austriaco, in una regione di lingua ceca di quello che un tempo era stato il Regno di Boemia). L’idea che i gruppi etnici e linguistici debbano avere il controllo su strutture politiche sovrane, per quanto oggi sembri normale, è stata ampiamente praticata solo circa un secolo fa. I leader “indipendentisti” di quelle che allora erano colonie assorbirono questo pensiero politico europeo all’avanguardia, di solito attraverso l’educazione in Europa o nelle scuole missionarie. Erano le élite coloniali autoctone del loro tempo (come ce ne sono sempre state fin dai tempi dei Romani) che parlavano la lingua coloniale e ammiravano e volevano copiare il potere coloniale. (Come ha giustamente osservato Franz Fanon, ogni suddito coloniale desiderava segretamente essere bianco).
È in Africa che quella che Basil Davidson ha definito la “maledizione dello Stato-nazione” ha portato il maggior scompiglio. Sebbene il continente, con le sue scarse comunicazioni e la bassa densità di popolazione, così come la mancanza di frontiere naturali, le migliaia di lingue e le massicce variazioni culturali, fosse un’arena poco promettente per la rapida costruzione di Stati-nazione dall’alto verso il basso, e sebbene fossero state proposte molte alternative, dalle federazioni con le potenze coloniali alle entità politiche basate su strutture politiche tradizionali, i sostenitori del modello westfaliano di Stato-nazione hanno avuto la meglio, con conseguenze che si stanno ancora verificando. Da parte loro, le nazioni coloniali, stanche dell’onere finanziario e sempre più dubbiose sul valore delle colonie, non potevano immaginare altra struttura che lo Stato-nazione e incoraggiavano calorosamente questi progetti.
Ma questo era un discorso d’élite. Quando ero all’università, ricevevamo i manifesti della Federazione Internazionale degli Studenti (sic) con sede a Praga (sic) che ci invitavano a “sostenere il popolo angolano nella sua lotta per l’indipendenza”. Ma naturalmente per la maggior parte degli angolani “popolo” e “indipendenza” non erano altro che parole: L’Angola non era un Paese occupato, anzi non era nemmeno un Paese. Gran parte del movimento “indipendentista”, infatti, è meglio comprensibile come una ribellione dell’élite locale per sottrarre il controllo al potere esterno. L’FLN, ad esempio, aveva deciso di creare un Paese indipendente da chiamare Algeria, secondo gli ultimi modelli occidentali, ma con un’ideologia vagamente marxista-nazionalista, sotto il proprio controllo. (Naturalmente l’Algeria non è mai stata un Paese indipendente, ma una colonia da sempre: anche il nome deriva da Al-Jazira, “le isole”. Quella parte significativa della popolazione che cercò di rimanere neutrale o addirittura di appoggiare i francesi non lo fece per amore della potenza coloniale, ma per paura e antipatia verso le pratiche spietate e le ambizioni dell’FLN.
Ci troviamo quindi nella curiosa posizione in cui i problemi di tutto il mondo, creati dall’adozione di norme politiche occidentali, vengono ora analizzati… in base a queste stesse norme. Ci può essere un dibattito aspro e acrimonioso sull’Ucraina, per esempio, ma è in gran parte confinato all’interno del contenitore di idee che il WSC può comprendere, esse stesse ampiamente basate, ovviamente, sul moderno liberalismo occidentale. Uno dei motivi per cui questo non è così evidente come dovrebbe essere è che la CMS è profondamente e rumorosamente divisa al suo interno, come la Corte ottomana o il Papato rinascimentale, anche se, a differenza di loro, conduce le sue battaglie apertamente. Così, oggi leggiamo che gli Stati Uniti vogliono condizionare i futuri aiuti militari all’Ucraina, tra decine di altri obiettivi scollegati tra loro, ad eterni favoriti come i progressi nel “controllo civile democratico delle forze armate” e l'”agenda delle donne nella pace e nella sicurezza”, che gli stessi gruppi di interesse spingono da decenni in tutto il mondo. Come le fazioni di quei giorni, tuttavia, anche quelle del CMS perseguono fondamentalmente gli stessi obiettivi – potere, status e denaro – e condividono lo stesso quadro intellettuale generale. È vero, il gruppo di addestramento militare, il ricercatore dell’Università militare, il capo di una ONG per i diritti umani finanziata dall’estero, il gruppo di formazione sulla sensibilità di genere in visita, tutti finanziati dallo stesso governo, possono in prima istanza lavorare in contrasto l’uno con l’altro, riflettendo la competizione tra le diverse fazioni del governo nazionale per definire e controllare i problemi del Paese in questione. Ma condividono una serie di presupposti comuni sul mondo: Il nostro. Anche il giornalista investigativo che parla con il difensore dei diritti umani, che ha criticato pubblicamente le forze di sicurezza addestrate dai formatori e studiate dal ricercatore, e che è stato criticato per la mancanza di sensibilità di genere dalla ONG straniera, torna a casa per scrivere una storia che descrive il problema nel modo in cui lo intenderebbe il CMS: non necessariamente come lo descriverebbero i locali.
Il risultato è stato il progressivo trionfo del discorso del WSC, in tutta la sua complessità internamente incoerente. Il che va bene fino a quando il WSC non si imbatte in qualcosa che non può capire, ma che non può nemmeno ignorare. Dietro la confusione e la stupidità di molti commenti della CMS sull’Ucraina, anche da parte di “esperti militari” e “commentatori strategici”, c’è un ostinato rifiuto di accettare che nel mondo accadano cose che non rientrano nel suo quadro di riferimento. Fin dall’inizio, la guerra è stata interpretata in termini di ciò che la CMS capisce e di cui può parlare: un amalgama di Afghanistan, Iraq e Apocalypse Now. Alla fine il WSC non è in grado di immaginare un mondo che non riguardi loro. È impensabile che nel mondo ci siano guerre, rivoluzioni e cambi di governo in cui l’Occidente non sia l’attore principale, e in cui le cause locali e spesso radicate, che il CMS non può comprendere, siano i principali motori. L’ego collettivo del WSC non potrebbe sopportare a lungo una simile conoscenza: in ultima analisi, è meglio che la recente crisi politica in Pakistan o i colpi di stato in Africa occidentale siano il risultato di malvagie macchinazioni da parte dell’Occidente, piuttosto che siano in primo luogo eventi condotti dai locali per le loro ragioni, sfruttando l’Occidente lungo il percorso. Come un bambino che si comporta male per attirare l’attenzione, il WSC preferisce essere visto come il colpevole piuttosto che essere semplicemente ignorato, come sempre più spesso accade. Poverini: fanno quasi pena. Quasi.
l sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure
Su PayPal, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)
Negli ultimi dieci giorni Kiev ha fatto causa alla Polonia presso l’OMC, Zelensky ha suggerito che il vicino occidentale del suo Paese sta facendo gli interessi della Russia, Varsavia ha cercato di estradare un “eroe” ucraino dal Canada per sospetti crimini di guerra e la Polonia ha concluso che Kiev è responsabile dell’incidente dello scorso novembre che ha ucciso due polacchi. È sufficiente dire che lo sforzo cumulativo di tutto questo è che la percezione media dei polacchi nei confronti dell’Ucraina probabilmente peggiorerà proprio prima delle elezioni nazionali del 15 ottobre.
All’inizio della settimana, Rzeczpospolita ha riferito che gli investigatori polacchi hanno concluso che un missile di difesa aerea S-300 ucraino è responsabile dell’incidente di Przewodow dello scorso novembre, che ha causato la morte di due polacchi e che all’epoca Kiev ha falsamente attribuito alla Russia. Per un brevissimo momento c’è stata la possibilità che scoppiasse la Terza Guerra Mondiale, ma fortunatamente i funzionari polacchi e statunitensi hanno rapidamente smentito le affermazioni del regime. Zelensky ha ancora insistito sul fatto che il Cremlino ha attaccato il territorio della NATO, ma ora la Polonia sa che è stata Kiev.
La tempistica di questa rivelazione non è stata casuale, poiché segue il deterioramento delle relazioni polacco-ucraine da metà settembre. Varsavia ha mantenuto unilateralmente il divieto sulle importazioni agricole ucraine allo scadere dell’accordo temporaneo della Commissione europea della primavera scorsa, il che ha indotto Zelensky a suggerire, durante il suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che la Polonia stesse facendo il gioco della Russia. La Polonia ha poi annunciato che non invierà armi moderne all’Ucraina e i suoi funzionari hanno condannato anche questo regime.
Sebbene abbiano anche riaffermato il loro sostegno al ruolo di Kiev nel condurre la guerra per procura della NATO contro la Russia, l’illusoria fiducia che fino ad allora aveva caratterizzato le loro relazioni bilaterali negli ultimi 19 mesi è andata indiscutibilmente in frantumi. Anche prima di questa rapida sequenza di eventi, il consigliere senior di Zelensky, Mikhail Podolyak, aveva previsto all’inizio di agosto che i legami tra i due sarebbero tornati alla loro natura storicamente competitiva alla fine del conflitto. Non sapeva che sarebbero tornati a quel punto solo sei settimane dopo.
Quest’ultimo sviluppo arriva sulla scia di un altro scandalo collegato alle loro relazioni, dopo che Zelensky ha applaudito con entusiasmo un nazista ucraino che è stato onorato come “eroe” venerdì scorso al Parlamento canadese. Ben presto si è scoperto che si era arruolato volontario in una divisione che ha genocidiato i polacchi, il che ha spinto il Ministro dell’Istruzione polacco a chiedere l’estradizione di questo probabile criminale di guerra. Considerando lo stato attuale delle relazioni polacco-ucraine, questa mossa rappresenta un ulteriore deterioramento dei loro legami.
Negli ultimi dieci giorni, Kiev ha fatto causa alla Polonia presso l’OMC, Zelensky ha suggerito che il vicino occidentale del suo Paese sta facendo gli interessi della Russia, Varsavia ha cercato di estradare un “eroe” ucraino dal Canada per sospetti crimini di guerra e la Polonia ha concluso che Kiev è responsabile dell’incidente dello scorso novembre che ha ucciso due polacchi. È sufficiente dire che lo sforzo cumulativo di tutto questo è che la percezione media dei polacchi nei confronti dell’Ucraina probabilmente peggiorerà proprio prima delle elezioni nazionali del 15 ottobre.
A proposito di queste ultime, il partito di governo “Diritto e Giustizia” (PiS) sta lottando per respingere le forti sfide dell’opposizione “Piattaforma Civica” (PO) e del partito anti-establishment Confederazione. Il partito ha quindi deciso di porre la sicurezza nazionale al centro della sua piattaforma elettorale, il che spiega perché la Polonia si stia finalmente schierando contro l’Ucraina. Le recenti osservazioni del ministro della Difesa Mariusz Blaszczak sulla disputa sul grano possono essere interpretate come l’attribuzione di una dimensione di sicurezza rilevante a questa questione agricola.
Questo approccio è funzionale agli interessi elettorali del PiS nei confronti dei due partiti precedentemente citati, in quanto mira a riaffermare le credenziali di sicurezza nazionale del partito in carica in risposta alle accuse di ipocrisia mosse da PO e a cercare di portare dalla sua parte alcuni dei sostenitori anti-ucraini della Confederazione. L’obiettivo finale è quello di rimanere davanti a PO e contenere l’ascesa della Confederazione, in modo che quest’ultima abbia meno influenza sul PiS nell’ipotesi in cui i due decidano di formare un governo di coalizione dopo le prossime elezioni.
Queste motivazioni elettorali e gli sviluppi associati costituiscono il contesto per comprendere correttamente la tempistica con cui la Polonia ha rivelato che Kiev è responsabile dell’incidente dello scorso novembre che ha ucciso due polacchi. Quest’ultima mossa ha lo scopo di infiammare al massimo il risentimento popolare contro il regime ucraino, ma soprattutto non contro il popolo ucraino, per aiutare il PiS a vincere la rielezione con il più ampio margine possibile.
Il partito al potere sa che probabilmente sarà impossibile contenere completamente questo sentimento nazionalista, ed è per questo che ci sono ragioni per sospettare che ci possano essere ulteriori motivi dietro la sua ultima coltivazione. È possibile che vogliano ottenere il sostegno popolare dopo le elezioni, a patto che vincano e indipendentemente dal fatto che debbano formare un governo di coalizione con la Confederazione, per perseguire i migliori termini commerciali e di investimento possibili con l’Ucraina.
A tal fine, potrebbero fare pressioni per ottenere questo risultato al posto della restituzione da parte dell’Ucraina in bancarotta per l’uccisione accidentale dei due polacchi lo scorso novembre, in assenza della quale il PiS potrebbe minacciare un’escalation della guerra commerciale in corso. L’asso nella manica della Polonia è il controllo di quasi tutti gli accessi di terzi al Paese attraverso le sue vie di comunicazione stradali e ferroviarie, che nessun altro Stato dell’UE è in grado di eguagliare in termini di qualità o quantità, il che porta a ipotizzare che possa ostacolare anche i legami commerciali e di investimento con l’Ucraina fino alla risoluzione della controversia.
Questo sarebbe rilevante soprattutto per quanto riguarda la Germania, che sta facendo un grande gioco di potere in Ucraina a spese della Polonia, come è stato spiegato in precedenza in questa analisi qui. Tenendo conto di questa nuova sfida geostrategica, la Polonia potrebbe prendere seriamente in considerazione questo scenario per tenere sotto controllo la Germania e allo stesso tempo garantire la sua prevista “sfera di influenza” nell’Ucraina occidentale. Il ruolo ufficialmente dimostrato di Kiev nell’incidente di Przewodow fornisce il pretesto perfetto per raggiungere questi due obiettivi.
Anche se il PiS evitasse di sfruttare questa opportunità per qualsiasi motivo, magari a causa delle pressioni americane nel caso in cui Washington si preoccupasse che la disputa polacco-ucraina andasse fuori controllo, il partito probabilmente otterrebbe comunque qualche punto politico grazie alla sua ultima rivelazione. Il fatto è che i polacchi medi ora sanno che il regime di Zelensky ha le mani sporche del sangue dei loro due compatrioti, nonostante le sue smentite, e difficilmente gli perdoneranno di aver cercato di insabbiare la cosa.
l sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure
Su PayPal, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)
**Una discussione generale sul posto dei cittadini bianchi africani nel continente, in seguito all’indignazione dei social media – alimentata da alcuni media – per la vittoria in un concorso di bellezza di una bianca dello Zimbabwe.**
Sudafricani bianchi nella città di Città del Capo. Nonostante tutte le emigrazioni e le tensioni razziali, ci sono 4,6 milioni di sudafricani bianchi ancora all’interno del Paese e un buon numero di essi occupa ancora posizioni nell’esercito, nella polizia, nella magistratura, nel parlamento e nelle imprese private.
Non sono un’appassionata di concorsi di bellezza. Non mi interessano quasi per niente. Ma sono attratto dalle controversie, soprattutto da quelle che si sviluppano sulle varie piattaforme di social media, tra cui Twitter.
No, Elon Musk, non lo chiamerò mai “X”. Andiamo avanti…
Anche se non ho un account personale, Twitter è probabilmente la piattaforma più interessante di tutti i social media. Su Twitter si possono raccogliere molte informazioni di qualità variabile: alcune davvero buone, altre mediocri e altre ancora assurde.
Su questa piattaforma si possono trovare molte controversie inventate, come la polemica sulla decisione degli zimbabwesi di far vincere il concorso di bellezza Miss Universo Zimbabwe 2023 a una cittadina bianca della loro nazione.
Ironia della sorte, la mia prima conoscenza di Twitter risale al luglio 2009, quando si scatenò una finta indignazione orchestrata dai media euro-americani.
L’allora presidente russo Dmitry Medvedev si era recato in Nigeria per una visita di Stato. Durante la sua visita, ha firmato un memorandum d’intesa (MOU) con il governo federale nigeriano, che avrebbe visto Gazprom investire 2,5 miliardi di dollari per costruire raffinerie, oleodotti e centrali a gas nel Paese.
Il Presidente Medvedev durante la sua visita di Stato in Nigeria nel giugno 2009
Come ci si può aspettare, i media aziendali euro-americani hanno iniziato un’immediata campagna di calunnie, sostenendo che i russi erano “razzisti” e che avevano deliberatamente chiamato la joint venture “nigaz” perché era foneticamente vicino alla “parola con la N”, che è tabù nell’Occidente collettivo, ma quasi priva di significato per l’africano nero medio, che non è ipersensibile alle questioni razziali.
Escludo i neri sudafricani dalla descrizione di cui sopra. Rispetto agli altri africani, sono di gran lunga più sensibili alle questioni razziali a causa della loro storia unica.
All’interno della Federazione nigeriana, questa finta indignazione non ha avuto alcun effetto. Nessuno si è scagliato contro i russi, come si aspettavano i media aziendali euro-americani, ma i neri americani – che conoscono poco il continente africano – si sono sentiti eccessivamente offesi dalle notizie e si sono scatenati su Twitter. Anche alcuni americani bianchi liberali si sono uniti a loro nella finta indignazione.
Nel frattempo, molti nigeriani sono rimasti talmente sorpresi dalla polemica online che hanno aperto un account su Twitter solo per controllare la situazione. Il sottoscritto non ha aperto un account, ma ha visitato la piattaforma di social media per la prima volta.
Per mantenere l’indignazione, i media hanno messo i loro giornalisti sulla storia. La British Broadcasting Corporation (BBC), che ha una grande presenza nel continente, ha inviato i suoi reporter a parlare con i nigeriani comuni nelle strade. E sembravano sorpresi che ai nigeriani non importasse nulla della somiglianza tra Nigaz e la “parola con la N-word”.
La Reuters ha inviato i propri giornalisti in Nigeria ed è tornata con una notizia che implicava che alla maggior parte dei nigeriani non importava nulla della finta polemica. In altre parole, nonostante il titolo fuorviante della Reuters, non c’è stato alcun dibattito sul razzismo, almeno non all’interno dei confini dello Stato federale nigeriano.
In effetti, un nigeriano nervoso intervistato dalla Reuters ha dichiarato quanto segue:
“I bianchi stanno esagerando. Finché i russi ci pagano, possono chiamarlo come vogliono“.
L’interlocutore nigeriano, parlando con l’agenzia di stampa Reuters, non si riferiva ai bianchi nel loro complesso, ma al numero senza precedenti di giornalisti americani ed europei che nel giugno 2009 hanno curiosato in Nigeria alla ricerca di africani neri arrabbiati con la Russia per aver ideato il nome “Nigaz”, che è solo un innocente portmanteau delle parole “Nigeria” e “Gazprom”.
Dr. Richard Leakey (1944-2022) è stato un paleoantropologo keniota che ha ricoperto diverse cariche governative. È stato direttore dei Musei nazionali del Kenya e ha fondato il suo partito politico, Safina, nel 1995.
I media euro-americani hanno dimenticato che la maggior parte dell’Africa sub-sahariana non ha il tipo di tensioni razziali che si osservano attualmente negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Sudafrica e, in misura molto minore, in Zimbabwe.
A parte il Sudafrica e lo Zimbabwe, paesi come il Kenya, la Namibia, lo Zambia, il Botswana e l’Angola hanno piccole comunità di cittadini bianchi che sono generalmente in rapporti amichevoli con la maggioranza nera africana.
Oltre ai bianchi, in Kenya sono presenti anche piccole comunità di cittadini arabi e indiani. Nel 2017, un proclama presidenziale ha riconosciuto ufficialmente la comunità indiana come “44ª tribù del Kenya“.
Come ho detto in questo vecchio articolo di Substack, la Namibia post-indipendenza ha effettivamente scritto una costituzione che protegge i diritti dei suoi cittadini bianchi.
Nella prima stagione del reality show continentale Big Brother Africa (BBA), che si è svolta dal 25 maggio 2003 al 7 settembre 2003, la Namibia è stata rappresentata da Stephan Ludik, che è bianco.
Per inquadrare le cose nel giusto contesto, i namibiani bianchi costituiscono solo l’1% della popolazione nazionale. Quindi, per aggiudicarsi il posto di concorrente namibiano di BBA, Stephan ha dovuto affidarsi ai voti dei namibiani neri che hanno deciso di scegliere lui al posto degli altri namibiani neri in gara accanto a lui.
.
Nel 2003, il cantante bianco namibiano Stephan Ludik ha rappresentato la Namibia nella prima edizione del Grande Fratello Africa.
Naturalmente, la selezione di Stephan Ludik causò un po’ di sgomento in altri Paesi africani, tra cui la Nigeria. Ma poi tutti se ne sono fatti una ragione. Per tutta la durata del reality show, i telespettatori dell’Africa nera lo hanno sempre votato come il coinquilino più popolare di quella stagione del BBA..
Il namibiano bianco Manfred Starke gioca per il calcio della sua nazione
Il vicino nord-orientale della Namibia è lo Zambia. Quando la colonia della Rhodesia settentrionale (oggi Zambia) esisteva ancora, la sua popolazione bianca – per lo più di origine scozzese – sosteneva la maggioranza nera africana nella sua richiesta di totale indipendenza dal Regno Unito.All’epoca, la Rhodesia del Nord, il Nyasaland e la Rhodesia del Sud facevano parte di una super-colonia denominata Central Federation of Rhodesia and Nyasaland (1953-1963), meglio conosciuto con questo acronimo, CAF.
L’ultimo primo ministro della CAF, Sir Roland Welensky, è nato nella Rhodesia settentrionale. A differenza della maggior parte dei rhodesiani del Nord, si oppose all’indipendenza dal Regno Unito.
Con grande disappunto delle élite bianche locali della Rhodesia meridionale (oggi Zimbabwe), il 31 dicembre 1963 il Ministero delle Colonie britannico sciolse la federazione coloniale per pacificare la maggioranza nera in protesta nella Rhodesia settentrionale e nel Nyasaland.
Poiché molti bianchi in Zambia avevano appoggiato l’indipendenza, nella maggior parte dei casi non ci furono tensioni tra loro e la maggioranza nera africana. Anzi, alcuni zambiani bianchi hanno persino intrapreso una carriera politica di successo.
Negli Stati Uniti, ci sono spesso aree in cui la minoranza razziale nera è dominante (ad esempio, città come Atlanta, Memphis e Detroit).
In Zambia, non ci sono aree in cui la minoranza razziale bianca – lo 0,2% della popolazione nazionale – sia dominante. Pertanto, un bianco zambiano può avere una carriera politica di successo solo se riesce a conquistare la maggioranza dei voti dei neri zambiani. Un esempio di questo tipo di politico è Guy Scott, che nel 1990 si è unito al Movimento per la Democrazia Multi-Partitica (MMD), partito di opposizione.
All’epoca, i partiti politici più piccoli come l’MMD stavano lottando per spodestare l’allora partito di governo United National Independence Party (UNIP), che aveva gestito lo Zambia dal 1964 al 1991 come una dittatura civile monopartitica di orientamento socialista (non marxista).
Il leader dell’UNIP Kenneth Kaunda si è battuto per l’indipendenza dello Zambia dal dominio britannico. Ha guidato lo Zambia come Presidente dall’ottobre 1964 al novembre 1991.
La dittatura è terminata dopo un emendamento costituzionale che ha permesso la formazione di nuovi partiti politici di opposizione e l’organizzazione di elezioni democratiche multipartitiche il 31 ottobre 1991.
In quelle elezioni, i cittadini zambiani votarono in modo schiacciante per estromettere dal potere il corrotto UNIP, catapultando l’allora nuovissimo partito MMD alla guida nazionale del Paese.
Come sempre accade nel continente, la popolarità dell’MMD finì per scemare a causa degli scandali di corruzione del suo fondatore, Frederick Chiluba, che guidò il Paese come Presidente nazionale dal 1991 al 2002.
Dopo il suo ritiro dalla carica pubblica, gli investigatori anticorruzione hanno confermato che aveva effettivamente convertito fondi governativi per uso personale.
Il suo stesso protetto e successore, il presidente Levy Mwanawasa, lo ha perseguito per corruzione a partire dal 2003. Dopo un lungo processo, i giudici delle corti inferiori hanno assolto Chiluba nel 2009.
A quel punto, Levy Mwanawasa era già morto e il suo successore, il presidente Rupiah Banda, bloccò la procura statale dall’appellarsi ai tribunali superiori per il caso di corruzione di Chiluba.
Ciononostante, ci sono state altre cause – anche nel Regno Unito – per le proprietà acquisite illegalmente all’estero da Chiluba mentre era in carica.
Dal suo ritiro dalla politica attiva nel 2002 alla sua morte nel 2011, Chiluba è stato perseguitato da varie cause per l’uso improprio di fondi pubblici durante il suo mandato.
BARRA LATERALE: CHILUBA IL LEADER NANO SENSIBILE
Durante la sua carriera, prima come popolare leader sindacale e poi come Presidente dello Zambia, Chiluba è stato costantemente deriso per il suo aspetto sia dagli alleati che dagli avversari. Era alto 1,5 metri (5 piedi).
Durante gli esordi come politico dell’opposizione, Chiluba veniva costantemente definito un nano di un metro e mezzo da Kenneth Kaunda, allora Presidente in carica.
Ciononostante, Chiluba rimase popolare e spodestò Kaunda nelle elezioni presidenziali dell’ottobre 1991. Il partito politico da lui creato, il Movimento per la Democrazia Multi-Partitica (MMD), ottenne il 74% dei seggi nella legislatura nazionale durante le concomitanti elezioni parlamentari.
Dopo che la sua popolarità ha iniziato a diminuire a causa degli scandali di corruzione, i media locali hanno iniziato a emulare le provocazioni personali di Kaunda nei confronti di Chiluba. Il quotidiano Zambian Post scrisse un editoriale sprezzante in cui lo definiva “un ladro nano vanitoso, travestito, con i tacchi alti e adultero”.
Un tentativo di colpo di Stato militare nel 1997 spaventò Chiluba e lo costrinse a incarcerare temporaneamente gli oppositori politici, tra cui l’ex presidente Kenneth Kaunda.
Sensibile alla sua bassa statura, il Presidente Chiluba spese fondi governativi per più di cento paia di scarpe su misura, con tacchi rialzati, per sembrare più alto di quanto fosse in realtà. Persino i suoi stessi ministri si prendevano gioco di lui. Uno di questi ministri era Michael Sata, che alla fine avrebbe lasciato l’MMD per formare un proprio partito e candidarsi alle presidenziali.
Molte delle scarpe, ordinate dalla Svizzera, erano monogrammate con le iniziali di Chiluba. Ha anche fatto spese per abiti a tre e due pezzi, perché doveva essere elegante per il pubblico zambiano. Purtroppo per lui, l’opinione pubblica zambiana non è rimasta affatto impressionata.
Ma, molto prima che il partito perdesse popolarità a causa degli scandali di corruzione, l’MMD è stato il veicolo che ha lanciato la carriera politica di Guy Scott, di origine scozzese.
Alle elezioni parlamentari dell’ottobre 1991, uno dei tanti politici vittoriosi dell’MMD era Guy Scott, che aveva conquistato un seggio legislativo nazionale nel distretto settentrionale di Mpika.
Poco dopo, il Presidente Chiluba nominò Scott Ministro dell’Agricoltura. Scott sarebbe rimasto in quella posizione fino al suo licenziamento nel 1993. Con il declino della popolarità del MMD, Scott abbandonò il partito nel 1996.
Nel 2001, Scott vinse un altro seggio parlamentare nella capitale dello Zambia, Lusaka, come membro del neonato Fronte Patriottico, nato come partito di rottura del sempre più impopolare MMD.
Tuttavia, il leader del nuovo partito, Michael Sata, non ebbe la stessa fortuna di Guy Scott.
Michael si è candidato alle presidenziali nel 2001, nel 2006 e nel 2008. In ogni occasione è stato sconfitto dai presidenti in carica, il presidente Levy Mwanawasa e successivamente il presidente Rupiah Banda.
Nel tentativo di conquistare il potere, Michael Sata ha sfruttato le crescenti tensioni tra i proprietari cinesi delle miniere di rame dello Zambia e i lavoratori locali che protestavano per i “bassi salari” e le “cattive condizioni di lavoro”.
Immagine del febbraio 2012: l’ex presidente Rupiah Banda (secondo da sinistra) scherza con il vicepresidente in carica Guy Scott (estrema sinistra). Il Presidente in carica Michael Sata (terzo da sinistra) è accanto al primo leader dello Zambia Kenneth Kaunda appoggiato a un bastone da passeggio.
Nonostante i tentativi dei media euro-americani di dipingerla diversamente, le tensioni erano in gran parte culturali.
I proprietari cinesi delle miniere di rame non conoscevano la robusta attività sindacale dello Zambia e le ferie troppo generose, assenti in Cina. Mentre i lavoratori zambiani non avrebbero mai potuto accettare un sistema di lavoro in dormitorio di tipo cinese, in cui i lavoratori a basso salario – con pochi o nessun vantaggio aggiuntivo – trascorrono molte ore a lavorare per un’azienda, che fornisce loro dormitori all’interno della propria sede o nelle vicinanze.
Per aumentare le sue possibilità di vittoria elettorale, Michael Sata ha iniziato a fare commenti anti-cinesi sui media locali. Ha dichiarato che Taiwan e Hong Kong sono “nazioni sovrane” e ha promesso di cacciare gli imprenditori cinesi dallo Zambia, nonostante il fatto che questi uomini d’affari asiatici abbiano letteralmente salvato migliaia di posti di lavoro locali nell’industria mineraria del rame, dopo che molte aziende estrattive occidentali avevano ridimensionato le loro attività nel Paese a causa di problemi di non redditività legati ai cicli decennali di “boom and bust” dei prezzi del metallo.
Durante la campagna presidenziale del 2011, Michael ha rinnovato la sua retorica anti-Cina, accusando le imprese minerarie cinesi di avere “condizioni di lavoro da schiavi” e di “ignorare gli standard di sicurezza e le pratiche culturali locali”. Ha ribadito il suo impegno a sbarazzarsi degli imprenditori cinesi in Zambia.
Il Presidente Guy Scott stringe la mano ai capi militari dello Zambia dopo aver assunto i poteri presidenziali nell’ottobre 2014.
In risposta, Zhongnanhai ha replicato affermando esplicitamente che la Cina avrebbe ritirato tutti i suoi investimenti se Michael Sata avesse vinto le elezioni presidenziali del 2011. A tutt’oggi, quella brusca risposta è l’unica e sola volta in cui il governo cinese si è espresso pubblicamente su un’elezione in Africa.
Alla fine, Michael Sata ha vinto le elezioni ed è diventato Presidente dello Zambia, mentre Guy Scott è entrato nella storia come primo zambiano bianco a salire alla carica di Vicepresidente.
Nel frattempo, la Cina ha fatto tesoro della minaccia pre-elettorale e ha mantenuto intatti i suoi investimenti in Zambia.
Una volta concluse le elezioni generali, il Presidente Michael Sata ha dato un’occhiata all’economia dello Zambia e si è reso conto del ruolo chiave che la Cina stava svolgendo. Ha abbandonato la retorica anti-cinese e si è mosso rapidamente per migliorare i legami diplomatici, provocando un diffuso sconcerto tra i media aziendali euro-americani, precedentemente entusiasti.
Il 28 ottobre 2014, mentre era ancora al suo primo mandato, Michael Sata è morto per una malattia non dichiarata, diventando così il secondo Presidente zambiano a morire improvvisamente in carica dopo Levy Mwanawasa nel 2008.
La morte di Mike Sata ha spianato la strada a Guy Scott per diventare il secondo leader bianco di un governo democraticamente eletto nell’Africa subsahariana.
BARRA LATERALE: SCOTT E BERENGER
I leader bianchi del Sudafrica dell’apartheid e dello Stato rhodesiano non riconosciuto non contano, poiché solo minuscole frazioni della popolazione nazionale hanno potuto esprimere il proprio voto.
Guy Scott è stato il secondo leader bianco a far parte di un governo salito al potere nell’Africa subsahariana attraverso un’elezione basata sul diritto di voto universale.
Paul Bérenger appartiene alla comunità franco-mauriziana, che rappresenta il 2% (circa) della popolazione nazionale di Mauritius.
In conformità con la Costituzione dello Zambia, il Presidente Guy Scott ha organizzato le elezioni presidenziali del 2015, ma ha rifiutato di parteciparvi.
Contrariamente a quanto riportato da alcune fonti mediatiche, egli era in realtà idoneo a concorrere alle elezioni in quanto la Corte Suprema dello Zambia aveva contestato la formulazione di un emendamento costituzionale del 1996 che stabiliva che un cittadino è idoneo a concorrere alla carica presidenziale solo se entrambi i genitori sono zambiani per nascita o discendenza.
L’emendamento era stato introdotto da Frederick Chiluba per impedire al suo nemico giurato – l’ex presidente Kenneth Kaunda – di partecipare alle future elezioni presidenziali.
Quattordici anni dopo, la controversa disposizione costituzionale è stata nuovamente sollevata perché il Presidente in carica Guy Scott è nato da genitori immigrati dal Regno Unito.
Alcuni zambiani hanno cercato, senza successo, di utilizzare la disposizione per bloccare l’ascesa di Scott alla presidenza dopo la morte di Michael Sata.
Dopo aver rifiutato di partecipare alle elezioni presidenziali del 2015, Scott si è ritirato quando è salito al potere un nuovo Presidente.
Guy Scott ha sempre difeso Robert Mugabe, con il quale ha avuto un buon rapporto di lavoro in qualità di vicepresidente dello Zambia e, successivamente, di presidente ad interim.
Il vicino dello Zambia a sud è lo Zimbabwe. Come nello Zambia, la popolazione bianca dello Zimbabwe rappresenta meno dell’1% della popolazione nazionale.
A differenza dello Zambia, esistono alcune tensioni razziali tra bianchi e neri dello Zimbabwe a causa della sua storia.
Negli anni ’60, i britannici stavano liquidando il loro impero coloniale. Nella maggior parte delle colonie, il processo di decolonizzazione si svolse senza problemi. Tuttavia, nei territori autogestiti del Sudafrica e della Rhodesia, l’amministrazione coloniale britannica in partenza incontrò un muro.
Le élite dominanti bianche locali non erano disposte a collaborare con il Ministero coloniale britannico, che desiderava un accordo di condivisione del potere tra bianchi e neri come parte dei suoi sforzi di decolonizzazione.
Il Fronte Rhodesiano, che gestiva la colonia autogestita della Rhodesia del Sud, dichiarò il suo territorio uno Stato indipendente nel novembre 1965. Ciò intensificò la guerra civile, iniziata un anno prima che la Rhodesia si dichiarasse “Stato sovrano”.
Per tutta la sua esistenza, lo Stato rhodesiano (1965-1979), sotto il governo di Ian Smith, non è stato formalmente riconosciuto da nessun altro Paese al mondo, compreso il Sudafrica dell’apartheid, che lo ha sostenuto militarmente ed economicamente.
Nel 1980, lo Stato rhodesiano era scomparso e al suo posto c’era lo Zimbabwe sotto il controllo di Robert Mugabe. Dal 1980 al 2000, le relazioni tra bianchi e neri in Zimbabwe sembrano andare bene. I bianchi hanno ricoperto il ruolo di legislatori e alcuni anche di ministri del governo di Mugabe. La magistratura dello Zimbabwe comprendeva diversi giudici bianchi.
Tuttavia, nel 2000, Mugabe decise di iniziare a confiscare le fattorie di proprietà dei bianchi sostenendo che il governo britannico non aveva rispettato le disposizioni sulla distribuzione delle terre previste dall’Accordo di Lancaster House. Il governo britannico ha contestato duramente le affermazioni di Mugabe.
La maggior parte delle violente confische di terreni agricoli agli agricoltori bianchi dello Zimbabwe non sono state effettuate da agenzie governative ufficiali. Sono state effettuate da un’organizzazione non governativa pro-Mugabe chiamata Zimbabwe National Liberation War Veterans Association, che contava 30.000 membri e riceveva finanziamenti dal partito politico al potere, lo ZANU-PF.
Gli agricoltori bianchi che hanno opposto resistenza sono stati violentemente aggrediti e alcuni sono emigrati nel Regno Unito, nell’Europa continentale e in Australia. Ma moltissimi non hanno lasciato il continente. Sono rimasti in Zimbabwe o si sono trasferiti in altri Paesi africani che li hanno accolti. Esempi di questi Paesi rifugio sono: Sudafrica, Namibia, Zambia, Mozambico, Tanzania, Kenya, Malawi e Nigeria.
Gli agricoltori bianchi dello Zimbabwe provano un trattore donato dal governo dello Stato di Kwara, nella Nigeria centro-settentrionale. Gli agricoltori hanno anche potuto ottenere prestiti dalle banche nigeriane locali.
Su invito del governo dello Stato di Kwara, nel 2005 sono giunti in Nigeria duemila agricoltori bianchi dello Zimbabwe, ai quali sono stati offerti gratuitamente ampi appezzamenti di terra – per lo più sterile e indesiderata – per riprendere le loro attività agricole.
Il governo federale nigeriano ha dato la sua benedizione alle azioni dello Stato di Kwara e il clamore all’interno del Paese si è limitato a un numero esiguo di individui, autoproclamatisi “anticolonialisti”, che hanno cercato, senza riuscirci, di fomentare l’animosità razziale tra i nigeriani. Molti di questi agricoltori zimbabwani, arrivati senza un soldo, sono riusciti a ottenere finanziamenti dalle banche nigeriane locali per iniziare l’attività.
A questo punto, è importante notare che non tutti i bianchi dello Zimbabwe sono agricoltori che vivono nelle aree rurali. Infatti, molti bianchi in Zimbabwe sono medici, ingegneri, avvocati, architetti, accademici universitari che vivono in centri urbani come le città di Harare e Bulawayo.
Questi bianchi urbani non sono dovuti fuggire dallo Zimbabwe perché non erano il bersaglio dell’Associazione dei Veterani della Guerra di Liberazione Nazionale dello Zimbabwe, piuttosto malavitosa.
Timothy Stamps, medico bianco dello Zimbabwe, era all’epoca Ministro della Sanità nel governo del Presidente Robert Mugabe. Per questo motivo, nel luglio 2002 è stato tra i 92 cittadini dello Zimbabwe colpiti da sanzioni dell’Unione Europea (UE). I suoi beni nell’UE (che allora comprendeva anche il Regno Unito) furono congelati e gli fu vietato di entrare in qualsiasi Paese dell’Unione.
Timothy Stamps è stato ministro della Sanità nel governo di Mugabe dal 1986 al 2002. Ha difeso la controversa “riforma agraria”. Un ictus devastante lo ha reso inabile nel 2001 e l’anno successivo si è ritirato dal servizio governativo, ma non prima di essere stato colpito dalle sanzioni dell’UE.
Diversi uomini d’affari bianchi urbani dello Zimbabwe avevano forti legami con il partito ZANU-PF al potere e sono quindi finiti nelle liste delle sanzioni. Un buon esempio è John Bredenkamp, che era sulla lista delle sanzioni sia degli Stati Uniti che dell’Unione Europea.
Nonostante la sua retorica razziale, Mugabe ha dato ordine che l’ottuagenario ex leader rodiese, Ian Smith, fosse lasciato solo nella sua fattoria. Tuttavia, nel 2005 Smith ha scelto di emigrare in Sudafrica per motivi di salute. Morì nella città sudafricana di Città del Capo nel 2007 in seguito a un ictus.
John Bredenkamp aveva forti legami con il partito di Mugabe, che ha finanziato per molti anni. Come diversi uomini d’affari bianchi dello Zimbabwe, è finito su diverse liste di sanzioni dell’Occidente collettivo.
Dato che i professionisti bianchi urbani dello Zimbabwe erano in qualche modo protetti da ciò che i contadini bianchi dello Zimbabwe rurale stavano affrontando, non sorprende che Kirsty Coventry non si sia sentita a disagio nel rappresentare il suo Paese alle Olimpiadi del 2008, con la sorpresa di molte persone nell’Occidente collettivo che non hanno idea delle sfumature della situazione all’interno dello Zimbabwe.
I media aziendali euro-americani sono rimasti ulteriormente sorpresi quando Mugabe ha definito la nuotatrice bianca dello Zimbabwe la nostra “ragazza d’oro” e l’ha premiata personalmente con 100.000 dollari americani, in contanti, per la sua prestazione olimpica.
Kirsty Coventry ha ricevuto un enorme premio in denaro da Mugabe per aver vinto tre medaglie d’argento e una d’oro alle Olimpiadi del 2008. Dal 2018 è ministro del governo dello Zimbabwe.
I
Nel novembre 2017, le Forze armate dello Zimbabwe – nate come ali armate di due distinti partiti comunisti – hanno messo in atto un colpo di Stato militare soft, che non ha realmente rovesciato Mugabe, ma lo ha tenuto in una sorta di semi-arresto domiciliare per “incoraggiarlo” a dimettersi.
Mugabe ha rifiutato di dimettersi e ha insistito per occuparsi degli affari del governo. Tre giorni dopo il colpo di Stato morbido, i putschisti hanno temporaneamente rilasciato Mugabe dagli arresti domiciliari per partecipare a una cerimonia di laurea alla Zimbabwe Open University nella capitale Harare.
I putschisti hanno anche permesso a Mugabe di fare una trasmissione televisiva in cui ha ribadito di essere ancora presidente.
Un carro armato militare durante il colpo di Stato del 2017, durato 7 giorni. I putschisti non hanno cercato di prendere il potere per sé, ma hanno trascorso la settimana cercando di “convincere” Mugabe a ritirarsi dalle cariche pubbliche.
I leader del colpo di Stato hanno continuato a trattare il Presidente Mugabe con rispetto e lo hanno persino scortato a una cerimonia di laurea tre giorni dopo il colpo di Stato militare durato una settimana.
Purtroppo per Mugabe, i parlamentari del suo stesso partito politico hanno minacciato di metterlo sotto impeachment se si fosse rifiutato di dimettersi. Questa minaccia ha infine costretto Mugabe a dimettersi dalla carica di Presidente, ponendo fine allo straordinario colpo di Stato durato una settimana senza spargimento di sangue.Prima del colpo di Stato, Cina e Sudafrica erano stati informati in anticipo dai cospiratori del colpo di Stato in Zimbabwe.Il capo dell’esercito dello Zimbabwe, il generale Constantino Chiwenga, ha informato le sue controparti militari cinesi durante una visita ufficiale in Cina, quattro giorni prima del colpo di stato.I sudafricani sono stati informati con sei giorni di anticipo da Christopher Mutsvangwa, leader dell’Associazione dei Veterani della Guerra di Liberazione Nazionale dello Zimbabwe, un tempo pro-Mugabe, che aveva guidato le violente espropriazioni di terreni agricoli.
Da quando l’ex capo dell’intelligence centrale, Emmerson Mnangagwa, ha assunto la presidenza, l’economia dello Zimbabwe si è stabilizzata grazie al sostegno cinese e russo. I contadini bianchi dello Zimbabwe hanno iniziato a tornare e alcuni sono riusciti a ricorrere ad azioni legali per recuperare le terre espropriate.
Dato il raffreddamento delle tensioni razziali in Zimbabwe, non credo che sia particolarmente scioccante vedere una cittadina bianca di 21 anni, Miss Brooke Bruk-Jackson, vincere un concorso di bellezza locale. Dopo tutto, nessuna delle concorrenti nere dello Zimbabwe sta contestando la decisione dei giudici del concorso, anch’essi neri.
Ecco il video della “polemica” che sta infiammando alcuni social media:
Naturalmente, i mass media al di fuori del continente africano, in particolare negli Stati Uniti, non hanno resistito a un po’ di polemica.
Il settimanale nero americano Atlanta Black Star ha espresso la sua indignazione, dimenticando che in Zimbabwe nessuno sa nemmeno che esiste:
Anche il Daily Caller, un giornale americano co-fondato dall’ex conduttore di FOX News, Tucker Carlson, è intervenuto, dimenticando che lo Zimbabwe, nell’era post-Mugabe, non è affatto come gli Stati Uniti, dilaniati da polemiche razziali, spesso guidate da persone stupide che pensano che “la matematica sia razzista”:
Alcuni dei commentatori sui social media sono indubbiamente neri africani. Tuttavia, un numero enorme e sproporzionato di commentatori indignati online sembra essere costituito da neri americani che conoscono molto poco il continente e potrebbero rimanere scioccati nell’apprendere che ci sono oltre 200 milioni di persone che non sono affatto nere, ma vivono come cittadini di vari Stati africani.
Così come potrebbero essere sorpresi nell’apprendere che la maggior parte degli abitanti dell’Africa subsahariana non si preoccupa della “Cleopatra nera”, un personaggio del tutto immaginario.
La vera Cleopatra era di parziale ascendenza greca e regnava come regina dell’Egitto tolemaico, uno Stato greco espatriato in terra africana.
Ci sono più piramidi nel Regno di Kush e negli Stati che gli sono succeduti che nell’Antico Egitto, anche se di dimensioni molto più ridotte. Inoltre, i successivi regni kushiti erano governati da nubiani che sono indiscutibilmente neri d’Africa. Perché allora questa ossessione per l’Antico Egitto?
Tornando alla polemica sul concorso di bellezza…
Una volta che si lascia l’indignazione confusa all’interno dello spazio virtuale dei social media e si esce nel mondo reale, si noterà che le cose sono notevolmente diverse.
Nello stesso Zimbabwe, la vincitrice del concorso di bellezza, Miss Brooke Bruk-Jackson, sembra ricevere una buona attenzione da parte della stampa. Ecco un’intervista condotta dall’emittente televisiva locale ZimPapers Television Network (ZTN):
Questa intervista trasmessa a tutte le TV dello Zimbabwe mi dice che le vecchie tensioni dell’era Mugabe si stanno lentamente allontanando. E questo non può che essere un bene.
l sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure
Su PayPal, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)
GIU’ LA TESTA. [Settanta anni di storia occidentale in versione condensata] Più l’Occidente perde potere demografico, economico, geopolitico in favore del resto del mondo, più questo “resto” reclama e reclamerà una gestione più democratica del mondo comune.
Più il resto del mondo reclama e reclamerà una condivisione maggiore dei poteri che decidono le cose del mondo, più l’oligarchia del sistema occidentale dissolverà ogni residuo di democrazia interna al proprio sistema.
Più il mondo si avvia a nuovi ordini multipolari, meno democrazia ci sarà in Occidente. Questo perché la “ricchezza delle nazioni” che ordina le nostre società, dipende spesso direttamente, altre volte indirettamente, da quanta porzione di mondo controlliamo come “sistema occidentale”. Meno controllo, meno ricchezza distribuibile, più problemi sociali, quindi meno democrazia.
L’intero movimento storico richiederebbe qui da noi una revisione molto profonda dei nostri modi di essere, dagli individuali ai sociali, dalle istituzioni sociali e giuridiche alle forme politiche, soprattutto, prima, le forme mentali, le immagini di mondo. Stiamo passando ad una nuova epoca storica, ma senza una democrazia tutto questo è impossibile.
La democrazia non è un sistema ad interruttore che c’è o non c’è. Nelle società complesse dovrebbe essere un “tendere a…” con vari gradi di intensità, il continuo rischio di regressione, una lunga scala ascensionale di espansione ed intensione da sperimentare, correggere e riproporre con passi indietro e qualcuno avanti, lungo decenni e decenni.
Quanto alle molto giovani e già appassite “democrazie occidentali”, la forma guadagnata nel dopoguerra ha avuto un certo impeto per i primi tre decenni, poi è stata sistematicamente ridotta e sabotata. La democrazia è un ordine culturale, emerge da un certo modo di essere della cultura (in senso esteso) dei cittadini di uno stato, modo che va coltivato e continuamente evoluto, solo dopo si formalizza in un ordine giuridico, non si compie perché ce l’hai scritto in Costituzione.
La sistematica ed intenzionale erosione democratica degli ultimi quattro decenni è avvenuta perché le élite del sistema occidentale, hanno compreso già da metà anni ‘70 che la triplicazione mondiale della popolazione umana che si è poi compiuta dal dopoguerra ad oggi e l’inevitabile trasferimento al resto del mondo dei modi economici moderni (ben prima della globalizzazione) avrebbero progressivamente chiuso le condizioni di possibilità del sistema di cui loro erano l’oligarchia eletta.
Hanno così varato una doppia strategia adattativa, adattativa per loro. Non vedendo alternative se non rimettendo in discussione i loro unilaterali interessi, le élite hanno stracciato il contratto sociale. Se non si capisce il punto critico, non si capisce la svolta neoliberale . Sappiamo da millenni che certe persone sono avide, non si spiega con l’epidemia di avidità la svolta anni ’80-’90, c’era una razionale.
Da una parte hanno liberalizzato la circolazione dei capitali, i loro, di modo da scommettere sulle crescite di questi nuovi spazi (soprattutto in Oriente, materie prime, scommesse sulle altrui scommesse, nuove tecnologie) ed accumulare così depositi di valore in pochissime mani come forse mai -complessivamente- prima registrato nella storia umana. Oltretutto stoccati in decine e decine di paradisi fiscali quasi tutti, invariabilmente, anglosassoni.
Lo spazio per una crescita continuata della complessiva ricchezza occidentale andava a va a restringersi oltreché per ragioni esterne, per ragioni interne di fine ciclo. Il sistema di economia moderna, come ogni cosa, ha un suo ciclo, non è un ordine eterno. Ha a che fare con umani e natura, enti finiti, difficile trarre un infinito dai finiti. Segue una curva logistica e sempre che poi non si trasformi in una a campana, è una erezione eterna solo nella metafisica economica.
Dall’altra, sapendo che l’intero movimento economico collegato alla loro “globalizzazione” avrebbe generato una pressione restrittiva verso il medio e basso sociale interno, hanno costruito teorie versione migliore dei mondi possibili per dar sostegno a quello che stava succedendo nel mentre hanno cominciato sistematicamente a ridurre quantità e qualità democratica dell’ordine interno. Questa seconda azione era in previsione del quando la narrazione si sarebbe scontrata con gli effetti della diversa realtà. Coi muscoli bolliti, quando la rana realizza che nella pentola il calore è insopportabile, non può più saltar fuori. Noi tutti, oggi, siamo quella rana, ci manca la democrazia per provar a saltar fuori, ci hanno bollito i muscoli democratici a fuoco lento. Ma adesso sono passati direttamente al cervello.
Negli ultimi quaranta anni è crollato il Politico occidentale. Vanno a votare sempre meno persone, più per abitudine che per convinzione o passione politica. La “passione” è un sentimento impossibile oggi da collegare a “politica”. E dire che viene da polis, la nostra forma di vita associata, l’essere in società con estranei e tuttavia, dipendervi, non si vede di cosa di più importante dovremmo occuparci in quanto soci di una società. La qualità della conoscenza distribuita rispetto ai problemi che abbiamo è infima, così il dibattito pubblico che la riflette in modo anche peggiore.
Il pluralismo politico ha perso interamente la sua fazione di sinistra che pure era quella che aveva spinto alla democratizzazione sin dalla Rivoluzione francese, nel movimento primo Novecento per il suffragio universale e poi nel dopoguerra. Il suo centro ha perso in Europa la sua matrice cristiana e sociale ed è diventato sempre più anglo-liberale. La sua destra, un destra che storicamente col concetto di democrazia c’entra poco visto che crede le diseguaglianze “di natura”, è cresciuta in composizione cha va da un confuso nazionalismo sovranista che però poi viene tradito non appena si ottengono posizioni di governo, ad un eterno tradizionalismo conservatore, a qualche esuberanza demagogica che però serve solo a trasformare rabbia repressa in voti per andare a gestire il sistema in nome e per conto l’élite liberale. Magari versione un po’ meno “woke” ma con non meno intenzione nel controllare lavoro, redditi, fisco, leggi, diritti sociali, cultura, democrazia imponendo diseguaglianze in favore del dominio oligarchico.
A fine anni ’70, mentre l’oligarchia americana convocava i vassalli europei e giapponesi per spiegare loro che i gravi e crescenti problemi di governabilità che si andavano a registrare negli anni ’60-‘70 erano dovuti ad un “eccesso di democrazia” (rapporto alla Commissione Trilaterale 1975, parliamo di Samuel Huntington, il “principe” della “scienza” politica di Washington), un astuto cinese dal nome Deng Xiaoping, che aveva studiato in Francia per “Imparare la conoscenza e la verità dell’Occidente per salvare la Cina”, cominciò a trapiantare semi di sistema economico moderno nel suo paese andato incontro a seriali fallimenti a seguito della applicazione delle idee marxiste-leniniste-maoiste in economia. Quel complesso teorico di audaci ambizioni era validissimo sul piano teorico e su quello critico, ma del tutto fallimentare sul piano economico. A seguire, la svolta cinese si è espansa al Sud Est asiatico e poi a tutto l’ex-Terzo Mondo. Quel Sud Globale che oggi reclama più democrazia nella conduzione dell’ordine del mondo agli stessi che negli ultimi decenni l’hanno contratta nei nostri paesi.
Quello di Deng era “capitalismo”? Purtroppo, definire “capitalismo” porta via interi boschi per trarne carta su cui scrivere definizioni poi da rivedere, collegare tra loro, precisare, ambientare in storia e geografia, con spruzzi antropo-culturali e vari tipi di distinzioni tassonomiche che si perdono nelle varie eccezioni a gran sempre più fine; quindi, alla fine, è un imprendibile ed imprecisabile concetto-saponetta e quindi la domanda non ha senso. Basta andare in libreria o biblioteca e vedere quanti si sono periti di dar la loro definizione che è sempre parziale ed incompleta, da più di un secolo e mezzo. È un ordine economico? Sociale? Politico? Geopolitico? Culturale? Storico? Religioso? Il concetto così formulato è inservibile. Ce lo scambiamo con l’aria di chi capisce bene cosa intende, ma credo non sia così, è ormai un vago “luogo comune” per giochi linguistici sociali. La diagnosi su “in quale sistema viviamo?” non è chiara, ovvio non lo si sappia gestire diversamente.
C’è una differenza fondamentale tra sistema cinese e sistema occidentale e non è nell’economia ma nella relazione tra economia e politica. Nel sistema cinese, c’è una economia di tipo moderno-occidentale, con più o meno Stato e relativo mercato, ma l’ordinatore finale della società è politico, è nel Partito Comunista Cinese, partito unico che ha in esclusiva tutte le chiavi ordinative in mano (giuridiche, militari, fiscali). Nel sistema occidentale, invece, la forma economica è solo di mercato (tutt’altro che smithiano, in realtà corrotto, manipolato, mono o oligopolista, spesso aiutato dallo Stato in vari modi), ma soprattutto la politica è decisa dall’economia, non dai cittadini. In Occidente, Il partito unico che ha tutte le chiavi in mano, è fatto dai funzionari del sistema che garantisce ad una ristretta élite di accumulare sempre più ingenti quantità di capitale e potere, qualunque cosa succeda nel mondo e nel mercato stesso. Anzi, tanto più è difficile sfruttare il mondo come è stato fatto per almeno tre secoli, tanto meno funziona il mercato interno, tanto più potere e capitale vogliono accumulare temendo l’implosione sociale o ambientale o geopolitica e quindi tanto meno democrazia possono sopportare.
I cittadini debbono veder svanire il loro peso politico democratico e subordinarsi sempre più, lavorare sempre di più, guadagnare sempre di meno, rendersi flessibili e morbidi, pensare sempre meno, discutere sempre meno, stare con la testa china su qualche device elettronico per sognare o sfogarsi. Al limite, possono scrivere contro l’ennesima ingiustizia, fare “critica culturale” o denunciare le trame oscure di quelli di Davos. Possono cioè “criticare”, così certificano che qui da noi c’è la libertà. È la democrazia “liberale” ovvero la dittatura della minoranza per evitare quella della maggioranza.
Negli ultimi due anni, abbiamo visto l’Europa, sistema storico che ha all’incirca più di due millenni ed a lungo dominante, disintegrare ogni propria autonomia in favore dell’élite americana. Tre giorni dopo l’inizio della voluta guerra in Ucraina, l’Europa si è “consegnata” ed è oggi una inerte e vassalla propaggine del sistema americano. Gente che solo fino a tre anni fa era convinta che tutto il mondo fosse un mercato post-storico destinato a sciogliere gli stati centralizzati in favore di nebulose di città-Stato profumate di innovazione, scambi senza frontiere e gobal-cosmopolitismo, ora sbava urlante per produrre più carri armati, più missili, più bombe per dar una lezione alle odiate autocrazie e difendere le nostre prerogative di “civiltà”.
Alcuni studiosi hanno scritto analisi e libri sul quanto repentino e profondo fu il cambio di mentalità tra primavera ed autunno del 1914. Speriamo sia vera quella battuta delle ripetizioni di tragedie in farse, letterariamente suona bene ma nei fatti non ne sarei così sicuro. Dopo due conflitti mondiali di origine intra-occidentale, c’è sempre la possibilità del “non c’è due senza tre”, è nella nostra poco compresa e scabrosa genetica storico-culturale.
Siccome qui in Occidente non siamo cinesi ovvero non abbiamo quella storia, geografia e cultura, da noi è impensabile un sistema politico con un partito unico per giunta socialista o addirittura comunista, almeno nelle dichiarazioni. Da noi, invertire le relazioni tra politica ed economia, avrebbe dovuto vedere una cosciente, forte e costante pressione di massa per evolvere e migliorare la nostra democrazia.
Ma le élite a partire da quelle di Washington, proprio cinquanta anni fa decisero che questa strada doveva esser percorsa al contrario. La sinistra che pure aveva contribuito a svilupparla ed un po’ se l’era trovata in atto per reazione al collasso bellico, che più di ogni altra parte politica avrebbe dovuto strenuamente difenderla, non avendone una teoria nei sacri testi tutti di economia e con un po’ di “rivoluzione” qui e lì, non si è accorta di niente. Ha continuato la sua “critica al capitale”, una sorta ormai di inoffensiva contro-religione negativa ai cui officianti non si nega una cattedra universitaria, con le sue sterili e formali dispute scolastiche che non interessano nessuno ed annichiliscono ogni fluttuazione sociale perché non conforme alle previsioni dei sacri testi. Questo nella sinistra intellettuale che sognando il superamento del capitalismo intanto s’è fatta scippare la minima democrazia.
Quella che interpreta weberianamente la politica come professione, s’è invece adeguata presto alla versione di una economia sempre più per pochi, sempre più ricchi, sempre più potenti, un modo economico sempre meno sociale e sempre più individualista ed americano. Una sinistra senza identità perché non ha un chiaro progetto sul mondo (del resto visto che i teorici s’impegnano solo in critica cosa vuoi che sappia costruire?), votata sempre meno perché se devi avere ad ordinamento il sistema di mercato allora scegli chi di quel sistema è conseguenza o al limite, la sarabanda di destra che tanto non mette certo in discussione i fondamentali e si dedica ai “valori” immateriali. Un po’ più armi e crocifissi ed un po’ meno gay e migranti.
Senza una minima forma di reale democrazia non possiamo dire niente, fare niente, decidere niente, cambiare niente. C’è gente che è morta, nella storia, per averla e darcela in eredità. Noi l’abbiamo persa come si perde il tempo, senza accorgersene. I posteri si domanderanno dove avevamo la testa…
l sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure
Su PayPal, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)
Traduciamo e pubblichiamo questa approfondita analisi storica e strategica degli errori commessi dall’Occidente che hanno condotto alla guerra in Ucraina. Buona lettura. Roberto Buffagni
La guerra in Ucraina è in buona parte il risultato di gravi errori di calcolo strategico-storici e storico-strategici commessi dell’Occidente alla fine della Guerra Fredda. I primi errori, strategico-storici, sono implicati da una filosofia della storia escatologicamente progressista – progressista, cioè definita in termini puramente occidentali, non a caso conformi agli interessi dell’Occidente. Il secondo tipo di errori, quelli storico-strategici, derivano da una serie di ipotesi, generate dal primo tipo di errori, sul tipo di strategia di cui l’Occidente avrebbe avuto bisogno per assicurarsi di essere “dalla parte giusta della storia”. Nel contesto di questi errori di calcolo, l’Occidente ha anche commesso una serie di valutazioni errate sulla Russia, contribuendo a produrre il dilemma di sicurezza russo-occidentale che si sta riproducendo oggi nei campi, nei villaggi e nelle città dell’Ucraina.
GLI ERRORI DI CALCOLO STRATEGICO- STORICI DELL’OCCIDENTE
(1) L’errata filosofia della storia occidentale. Il primo errore storico-strategico successivo alla Guerra Fredda si radica nella filosofia della storia escatologica e occidentalocentrica dell’Occidente. Invece di vedere lo sviluppo della storia umana come circolare, l’Occidente lo vede lineare e progressivo. Il senso – radicato nell’escatologia cristiana dell’Anticristo, dell’apocalisse, della seconda venuta di Cristo, della salvezza dell’umanità e dell’avvento del Regno Celeste alla fine dei tempi – è che la Storia si dirige verso una particolare conclusione o esito. La storia, in questa visione, non è una serie di cicli ripetuti di ascesa e caduta, costruzione e distruzione, guerra e pace. Il punto finale della storia si sta decidendo in una lotta crepuscolare tra il bene e il male, in cui il primo vincerà. Non volendo essere perdenti in questa lotta, e non essendo meno incentrati su se stessi e orientati sui propri interessi degli altri, gli occidentali immaginano naturalmente una fine della Storia in cui il modello occidentale, essendo dalla parte giusta della Storia, alla fine trionferà. Le forze che si oppongono a questa conclusione della storia sono naturalmente “dalla parte sbagliata della Storia” e “malvagie”. Non ci può essere alcuna giustificazione per le loro azioni se violano le regole della “democrazia” nelle loro nazioni, e la legge dell’espansione della democrazia in tutto il mondo – la diffusione della “buona novella” e del Verbo dei valori democratici universali a livello globale, con l’arrivo dell’inevitabile, unica pace possibile: la pace democratica.
(2) La teleologia occidentale della fine della Storia nella pace democratica. Il secondo errore storico-strategico è stato quello di riempire il quadro storico-filosofico con contenuti che stabiliscono che non è tanto l’Occidente in sé a guidare la storia, ma i suoi elementi di civiltà: le libertà individuali, il governo repubblicano o, dove possibile, persino democratico, e le economie di libero mercato o il capitalismo. Francis Fukuyama in “La fine della storia e l’ultimo uomo” ha esposto questo argomento. Dopo la guerra fredda e il crollo dell’impero comunista sovietico, il repubblicanesimo capitalista era l’ultima ideologia o modello che restasse in piedi. Negli anni Quaranta, le “democrazie” occidentali (le democrazie sono poche, tutti gli Stati occidentali sono repubbliche) avevano apparentemente condotto la lotta per sconfiggere il fascismo in Germania, Italia, Giappone e, come spesso si dimentica, nell’Europa orientale. Hanno poi contenuto e superato l’altra ideologia che le sfidava, il comunismo, portandolo alla disillusione nei confronti di se stesso e provocando, in larga misura, alla sua dissoluzione. Ciò ha confermato l’escatologia dell’Occidente riguardo alla direzione e alla fine della Storia.
L’umanità era entrata nella fase finale della storia, che avrebbe portato a un mondo di Stati repubblicani, capitalisti e di libero mercato. Poiché, secondo la “teoria della pace democratica”, le repubbliche non si fanno guerra tra loro, il nuovo mondo di Stati repubblicani si sarebbe presto trasformato in un regno celeste di pace eterna e prosperità per tutti. L’eccitazione, in alcune comunità o sottoculture occidentali – ad esempio, nei circoli neocon – era palpabile. C’era una nuova energia ansiosa e un’impazienza intollerante verso qualsiasi resistenza oggettiva o soggettiva. Questa analisi teleologica lasciava da parte il bagaglio di centinaia di storie nazionali, di centinaia di memorie nazionali, di centinaia di culture nazionali, delle numerose religioni e civiltà che hanno generato e, di conseguenza, delle centinaia di questioni internazionali, interculturali e interconfessionali da risolvere. Inoltre, l’analisi aveva enormi implicazioni strategiche per il completamento della marcia del repubblicanesimo nel mondo.
GLI ERRORI STORICO- STRATEGICI DELL’OCCIDENTE
(1) Salvare la storia con la promozione della democrazia e l’espansione della NATO. L’origine religiosa della fede degli occidentali in una fine capitalista e repubblicana della storia non preclude necessariamente l’attività umana per accelerare lo sviluppo storico. Come alcune tradizioni cristiane ritengono che la purificazione dell’umanità e la grazia sulla terra possano contribuire ad avvicinare la salvezza finale, o come alcuni comunisti hanno revisionato il marxismo per giustificare la possibilità di un avvento del comunismo in Stati prevalentemente agricoli, soprattutto per mezzo di forze rivoluzionarie organizzate e guidate da un partito affiatato di rivoluzionari professionisti in grado di “telescopare” o contrarre il corso dello sviluppo storico tra la “fase democratica capitalista e borghese” e la rivoluzione socialista, così anche gli umanisti che credono nell’inevitabile avanzamento delle libere repubbliche in tutto il mondo si sforzano di accelerare l’avvento di una comunità globale repubblicana e della pace democratica. Ciò si è riflesso nella vasta espansione degli sforzi di promozione della democrazia dell’Occidente, in particolare degli Stati Uniti, volti a spingere le società meno mature verso la transizione democratica. A volte, le famigerate rivoluzioni colorate sono state soltanto alimentate, piuttosto che direttamente organizzate, ma il risultato è stato lo stesso: l’incorporazione degli aspiranti, e di alcuni dei non aspiranti di ogni specifico Stato, nel sistema occidentale, al fine di liberarli e salvarli dalla guerra, dalla povertà e dall’autoritarismo. Alcuni, come i russi e i cinesi, erano costernati per la curiosa correlazione tra vicinanza politica e geografica degli “Stati obiettivo” dell’Occidente, da un lato, e i propri alleati e vicini, dall’altro. Due corollari di questo proselitismo sono stati l’espansione della Comunità Europea per espandere le economie dominate dal mercato nei mondi post-sovietici e post-comunisti e – cosa più sconcertante per Mosca e Pechino – l’espansione del blocco militare più potente della storia mondiale, la NATO. Quest’ultimo corollario espansionistico è stato venduto come l’allargamento di un’alleanza puramente difensiva, in perfetta sintonia con l’imminente pace democratica. I membri della NATO vivrebbero in una zona di sicurezza e in una comunità di democrazie, e gli altri desidererebbero, naturalmente, unirsi alla pace.
(2) Trasformare l’Ucraina da Stato cuscinetto a dilemma di sicurezza. La sconvolgente portata della tracotanza politica e dell’errore storico di questa strategia della NATO, in particolare nel momento in cui è diventata sempre più stridente ed egoistica, è stata visibile a tutti i più esperti pensatori strategici dell’Occidente: George Kennan, John Mearsheimer, Michael Mandelbaum, tra gli altri (e compreso il sottoscritto). Altri, come Zbigniew Brzezinski, hanno visto la luce sul letto di morte.
Questi uomini navigati e ragionevoli hanno notato e avvertito fin dall’inizio che una simile politica avrebbe spinto Mosca nelle braccia di Pechino, creando un baluardo di potenza strategico anti-occidentale. È in questo errore di calcolo, di gravità storica, che l’odierno conflitto ucraino trova la sua genesi, poiché la “politica della porta aperta” della NATO ha sollevato la questione della copertura totale del confine russo da parte dei membri dell’alleanza. Tentando di far entrare l’Ucraina nella NATO – ufficialmente dal vertice di Budapest del 2008, ufficiosamente quasi di certo dal 1991 – l’alleanza si è privata di uno Stato cuscinetto tra Russia e Occidente che avrebbe in gran parte prevenuto e precluso il conflitto con la Russia, soprattutto se una strategia di buffer-building invece che di alliance-building fosse stata applicata anche al Baltico, alla Bielorussia e alla Moldavia. Fin dall’inizio, l’espansione della NATO ha screditato la democrazia e gli occidentalisti russi, e ha resuscitato la tradizionale norma di vigilanza sulla sicurezza della Russia nei confronti dell’Occidente. I nuovi membri della NATO nutrivano forti rancori storici e animosità culturali e religiose nei confronti della Russia, e la Russia aveva una sensibilità storicamente radicata nei confronti dei suoi vicini occidentali, a causa di un modello secolare di interferenze politiche, sovversioni e interventi, animosità culturali e religiose, interventi militari e invasioni provenienti dall’Occidente, dall’Occidente e per l’Occidente.
L’Ucraina è stata una questione particolarmente problematica, visti gli elementi storici, culturali, religiosi ed etno-nazionali comuni tra Russia e Ucraina. Le identità nazionali ucraine e russe sono inestricabilmente intrecciate da esperienze storiche comuni e da legami politici, in parte comuni, in parte meno. Insistendo sul suo diritto di espandersi in Ucraina, la NATO ha trasformato il segno neutro sotto il quale esisteva l’Ucraina post-sovietica in un segno negativo per Mosca. Da potenziale Stato cuscinetto per l’Occidente (e per la Russia), l’Ucraina è diventata un oggetto del desiderio e di contesa tra l’Occidente e una Mosca già in uno stato di maggiore vigilanza a seguito di diverse ondate di espansione della NATO, anche ai confini con gli Stati baltici. In breve, l’Occidente ha sostituito un cuscinetto di sicurezza con un dilemma di sicurezza e un’alta probabilità di conflitto con la Russia.
Forse ancora più importante è il fatto che, a causa della storia spesso comune dei due Paesi, l’Ucraina era uno Stato diviso, diviso lungo linee etniche, linguistiche, identitarie, geografiche, storico-politiche e socioeconomiche. Gli sforzi della NATO per espandersi in Ucraina hanno aggravato le tensioni tra l’Ucraina occidentale e quella sud-orientale, dove queste divisioni erano pronte a esplodere, come un soldato che calpesta una mina. La rivolta di Maidan, sostenuta dall’Occidente, è stata la violenta scintilla che ha fatto esplodere questa polveriera.
(3) Ridimensionare la guerra convenzionale, mentre si spinge la Russia verso la guerra convenzionale in Ucraina. Allo stesso tempo, mentre l’ultima fase della presunzione storica di una pace democratica e altri fattori hanno contribuito a produrre un nuovo approccio “non convenzionale” alle dottrine militari e di sicurezza nazionale occidentali, il rivoluzionarismo cromatico dell’Occidente e l’espansionismo di NATO e UE hanno spinto la Russia verso la guerra convenzionale in Ucraina. Ma l’imminenza della pace democratica sembrava significare, almeno in Occidente, che il rischio di guerra era diminuito, e che le guerre convenzionali del tipo visto in Europa erano finite, così provando e anticipando l’avvento della pace democratica. Le vere grandi potenze erano ormai unanimi sulla superiorità dei sistemi politico-economici capitalistici e repubblicani; insieme avevano adottato i valori universali. Con una Russia indecisa, la debolezza post-Guerra Fredda, gli accordi di controllo degli armamenti dell’era della perestrojka, e la “politica assicurativa” dell’espansione della NATO erano garanzie affidabili che i timori di una minaccia russa all’Europa fossero limitati se non inesistenti. La guerra e le forze armate convenzionali potevano ancora emergere nel Terzo Mondo, ma per decenni non avrebbero rappresentato una minaccia, per le potenti macchine militari occidentali. Fuori dell’Occidente, la democrazia garantiva la pace con il Giappone e l’India, e la Cina era creduta in procinto di compiere una “transizione alla democrazia” di tipo sovietico, di cui Piazza Tienanmen era stata un presagio. Senza la minaccia di una guerra convenzionale di grandi dimensioni, le spese per la difesa e l’intelligence potevano essere ridotte, o almeno gli aumenti di bilancio potevano essere rallentati.
Nello stesso momento in cui i timori di una guerra convenzionale sono diminuiti, è emersa una nuova minaccia non convenzionale per la sicurezza, rappresentata dal terrorismo jihadista e dalle controinsurrezioni. La principale minaccia non convenzionale proveniva dal “Terzo Mondo”. Per questo motivo, una parte significativa delle spese per la difesa e l’intelligence è stata dirottata verso il “controterrorismo”, il nation-building e le esigenze di ingegneria sociale interna. Questo spostamento è stato particolarmente forte dopo il 2000, quando l’11 settembre ha scatenato la guerra contro il terrorismo jihadista, la guerriglia e l’insurrezione. Ma nel frattempo, le successive ondate di espansione della NATO e il conseguente ritorno all’autoritarismo più tradizionale della Russia e alla sua cultura di vigilanza sulla sicurezza stavano intensificando le tensioni con l’Occidente, facendo crescere le spese militari russe e aumentando la preoccupazione generale dello Stato riguardo alla percezione della crescita convenzionale dell’Occidente, dai Balcani al Caucaso, dalla Siria all’Ucraina, e alla necessità di una maggiore attenzione dello Stato e della società alla sicurezza nazionale. Dopo le rivoluzioni colorate in Georgia e Ucraina a metà degli anni Duemila e la guerra ossetiana Georgia-Russia dell’agosto 2008, la Russia ha intrapreso un grande sforzo di riforma e modernizzazione militare.
GLI ERRORI DI VALUTAZIONE DELL’OCCIDENTE NEI CONFRONTI DELLA RUSSIA E IL NUOVO CALCOLO RUSSO
L’errore di lettura strategica dell’Occidente è stato forse ancora più evidente quando si è trattato di sviluppare le relazioni con la Russia post-sovietica. Errori storici e strategici hanno portato a un atteggiamento accondiscendente nei confronti della Russia, a una sottovalutazione dello status di grande potenza storicamente persistente della Russia, a una sopravvalutazione del permanere della debolezza russa post-sovietica, a una tendenza a ignorare gli interessi nazionali e il senso dell’onore della Russia, e a un completo fraintendimento della determinazione – della Russia, e non solo di Putin – a contrastare l’emergere di una minaccia militare ai suoi confini. Le grandi potenze non permettono questo tipo di dinamica, e la Russia è determinata a preservare il suo status di grande potenza per ragioni di storia, sicurezza, tradizione e onore. Numerosi studiosi occidentali hanno osservato che se l’Ucraina si unisse al campo occidentale e le facesse perdere il punto d’appoggio nel Mar Nero che le conferisce la flotta basata in Crimea, la Russia farebbe molta fatica a mantenere lo status di grande potenza.
Il già citato ritorno della cultura russa di vigilanza sulla sicurezza e il suo rifiuto della democratizzazione provocata dal rivoluzionarismo di promozione della democrazia e dalla militarizzazione della democrazia con l’espansione della NATO sono direttamente collegati anche all’ interpretazione occidentale completamente errata del crollo sovietico e della Russia post-sovietica in generale. L’Occidente ha interpretato erroneamente la caduta del regime comunista sovietico come una rivoluzione dal basso o come una “transizione democratica”. Non si trattava di nessuna delle due cose. Nel primo caso, le élite politiche sono state inclini a credere nel mito di una “rivoluzione popolare” dal basso, su ampia base sociale, perché questa era la teleologia politica dettata dal modello “fine della storia”. Nel frattempo, gli accademici inserirono il caso russo nella teoria popolare all’epoca: la teoria della transizione. In realtà, la trasformazione del regime sovietico/russo fu principalmente una rivoluzione dall’alto, con elementi secondari di una nascente rivoluzione dal basso e di “patti di transizione” o negoziati tra regime e opposizione verso una trasformazione democratica, ma questi ultimi elementi furono abortiti quasi immediatamente dopo il fallito colpo di Stato dell’agosto 1991 (cfr. Gordon M. Hahn, Russia’s Revolution From Above: Reform, Transition, and Revolution in the Fall of the Soviet Communist Regime, 1985-2000 (Transaction Publishers, 2002, Routledge, 2017).
Ciò significa che, piuttosto che un’ampia massa di rivoluzionari repubblicani che insorgono per cambiare il regime e prendere il potere, come in una rivoluzione dal basso, o a condividere il potere e rimanere politicamente vigili dopo una transizione negoziata dall’ancien regime, la rivoluzione è stata guidata dall’alto, all’interno dello Stato, da attori del Partito-Stato che avevano un’adesione limitata, se non addirittura una limitata comprensione, di che cosa siano governo repubblicano ed economia di mercato. Questi attori hanno dominato la leadership e l’apparato statale nella “nuova” Russia dopo il 1991. Il fatto che una parte della leadership e della burocrazia russa e una parte della società avessero un’adesione al modello repubblicano-capitalista rendeva possibile una trasformazione completa verso il regime repubblicano di mercato, che però restava un compito estremamente difficile. Ma poiché l’Occidente presupponeva che la rivoluzione avesse una base sociale più ampia di quanto fosse in realtà, non sentiva l’urgenza di fornire alla Russia un’assistenza economica che allora era, invece, assolutamente critica. L’assistenza arrivò, ma troppo poco e troppo tardi. Peggio ancora, l’Occidente iniziò a discutere e poi ad attuare l’espansione della NATO, delegittimando le forze filo-occidentali, filo-repubblicane e filo-libero mercato. La rivoluzione filo-repubblicana russa dall’alto è stata quindi messa a dura prova, con le rivoluzioni colorate e le successive ondate di espansione della NATO e dell’UE in arrivo (Hahn, Russia’s Revolution from Above, capitolo 11). All’inizio degli anni Duemila, quindi, la rivoluzione filorepubblicana russa dall’alto era morta.
Gli occidentali erano consapevoli, anche se forse sottovalutavano, il fatto che la rivoluzione era zavorrata dal complesso e sfaccettato fardello dell’eredità comunista sovietica: una politica totalitaria, un’economia ipercentralizzata e un’ideologia, una cultura e una politica anti-occidentali, anti-capitaliste e anti-libertarie. Ma non hanno visto arrivare la rinascita del passato tradizionalista pre-sovietico della Russia, tuttora utilizzabile. Questo sviluppo è stato il risultato diretto delle tensioni a cui l’espansione della NATO sottopose la debole base sociale e democratica della rivoluzione russa dall’alto. Con l’affievolirsi dell’influenza dei repubblicani russi, l’élite politica e intellettuale russa ha iniziato a cercare un nuovo percorso nel passato del Paese. La cultura, il pensiero, la storia e la politica russa pre-sovietica erano l’ovvia alternativa a una revanche comunista in risposta all’invasione occidentale annunciata dall’espansione della NATO e dell’UE. Nel Rinascimento religioso russo e nell’Età d’Argento durante il crepuscolo imperiale alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo, la cultura e i discorsi russi riflettevano non solo le idee che alimentarono l’ondata rivoluzionaria e la presa del potere comunista: comunismo proletario, socialismo agrario, utopismo rivoluzionario e internazionalismo comunista. Altrettanto influenti furono le idee dell’universalismo e del comunitarismo ortodosso, del messianismo russo, dell’anarchia slavofila e del “comunitarismo” agrario, del panslavismo, del liberalismo cristiano, del liberalismo occidentale, del sentimento antiborghese: in sintesi, varie forme di conservatorismo non occidentale e/o utopico. La politica, sotto l’autocrazia della Russia imperiale, era autoritaria, ma liberale per gli standard sovietici, e concedeva, occasionalmente, ulteriori liberalizzazioni. Per gli standard odierni costituisce un autoritarismo temperato, a volte morbido a volte meno, ma non era totalitaria, e quindi risponde al desiderio dei russi di libertà significative rispetto dell’esperienza sovietica. Allo stesso tempo, coincide con la sfiducia dei russi nei confronti dell’Occidente e con lo status di grande potenza del loro Paese.
Con il discredito del comunismo e del socialismo alla fine dell’era sovietica e quello del capitalismo e del repubblicanesimo nella depressione dei selvaggi anni ’90, sono stati questi conservatorismi russi pre-sovietici a emergere dal sedimento della memoria nazionale, scoperto dopo la liberalizzazione della perestrojka di Mikhail Gorbaciov e la debole democrazia di Boris Eltsin, che però ha permesso un discorso pubblico molto libero sul passato, il presente e il futuro della Russia. L’autoritarismo morbido con un notevole sostegno popolare e il ritorno dell’anticapitalismo o almeno dei sentimenti antiborghesi, l’universalismo e il comunitarismo russo ortodosso, il neo-eurasismo semi-universalista, il nazionalismo russo di Stato (non etnico) e la preferenza per la solidarietà nazionale rispetto al pluralismo politico sono tornati alla ribalta nella cultura russa – politica, economica e strategica. L’alternativa russa tradizionalista non è stata capita, perché l’Occidente l’ha ignorata o non l’ha mai presa sul serio. Dopotutto, la fine della storia prevista dai pensatori occidentali anticipava un futuro che si allontanava da queste tradizioni.
Inoltre, la recente rinascita russa ha visto il ritorno di una visione semi-messianica, neo-eurasiana, in cui la Russia è vista come una forza principale, se non la principale, in una grande alternativa eurasiatico-centrica all’Occidente, in cui Russia e Cina dovrebbero radunare il “Resto” contro l’Occidente, allo scopo di: difendere la religione contro il secolarismo; i valori tradizionali della famiglia contro il femminismo radicale, il genderismo, il transgenderismo e il transumanesimo; il comunitarismo contro l’individualismo, e il nazionalismo e la civiltà contro il globalismo. Ogni civiltà, in questa visione, è libera di determinare il tipo di sistema politico ed economico in cui vivere. Così, l’India e varie democrazie africane e latinoamericane si stanno integrando con diverse organizzazioni internazionali dell’alternativa sino-russa, dai BRICS all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, all’Unione Economica Eurasiatica e alla One Belt One Road. Il nuovo messianismo russo emergente – che ha anche radici nell’escatologia e nella teleologia di ispirazione cristiana – ritiene che la Santa Russia abbia una missione speciale, negli affari mondiali. Tale missione, al momento, si limita a quella incarnata dalla strategia neo-eurasianista, attualmente parte del partenariato sino-russo previsto da Mosca.
In termini di affari militari e di sicurezza, la Russia sta ancora una volta andando per la sua strada. Nonostante le guerre cecene e l’ascesa dell’Emirato del Caucaso, entrambi legati ad Al Qa`ida e poi all’ISIS, i russi non hanno mai ricevuto il promemoria sull’abbandono della guerra convenzionale, e di certo non l’hanno ricevuto i militari russi. Certo, nei depressi anni ’90 i leader civili russi sono stati costretti a tagliare i bilanci della difesa, e il jihadismo nel Caucaso ha richiesto di dirottare gli scarsi finanziamenti verso l’antiterrorismo e la contro-insurrezione. Ma questo è avvenuto solo ai margini e per necessità, a differenza che in Occidente, dove le nuove dottrine sono state accolte con entusiasmo e si sono radicate nella sua peculiare filosofia della fine della storia.
CONCLUSIONE
Tornando al 2022, vediamo che l’Occidente ha condotto, anzi trascinato l’Ucraina in una catastrofe. Con l’adesione alla NATO e all’Occidente in senso lato che le è stata prospettata per due decenni, Washington e Bruxelles hanno impegnato l’Ucraina nel tipo di ingegneria sociale che oggi spesso infligge alle proprie popolazioni, ma su una scala molto più grande. I governi sono stati rovesciati, la politica e l’economia sono state ridisegnate, l’ultranazionalismo, il neofascismo e, cosa più pericolosa, l’antirussismo sono stati non solo tollerati, ma per molti versi incoraggiati dall’Occidente in Ucraina. L’Occidente ha creato in provetta una “anti-Russia”, secondo la terminologia di Putin, ai confini della Russia, mentre ha alimentato i timori per la sicurezza in Russia soprattutto attraverso un’espansione della NATO che per l’Ucraina è rimasta temporaneamente in sospeso, ma che è risultata fin troppo reale per la Russia, con la sua memoria storica di otto secoli di interferenze, interventi e invasioni occidentali. La Russia non ha mai effettuato una transizione su larga scala da un’economia manifatturiera a una virtuale come quella occidentale. Questo, e il fatto che la Russia abbia conservato il know-how e la capacità bellica convenzionale si manifesta nella guerra provocata dal messianismo repubblicano e dalla teleologia storica dell’Occidente.
I numerosi errori di calcolo dell’Occidente hanno spinto l’orso russo nell’abbraccio del panda cinese. Gran parte del Resto del mondo è pronta ad abbracciare l’orso in risposta all’egemonia occidentale, alle rivoluzioni colorate, all’espansione della NATO ora anche in Asia, alle richieste dell’Occidente di sanzioni per la guerra in Ucraina, alle pesanti pressioni di FMI e Banca Mondiale. In Ucraina, il nuovo messianismo conservatore neo-eurasiatico della Russia sta cercando di proteggere le sue retrovie in Occidente, mentre si rivolge verso est. Nella sua arroganza, l’Occidente non solo ha “perso la Russia”, ma sta per perdere anche l’Ucraina e forse molto altro. I suoi calcoli sbagliati hanno creato un nuovo mondo, ma non l’utopia repubblicana del mercato che aveva immaginato profilarsi all’orizzonte tre decenni fa. Trascurando la permanenza del conflitto nella Storia, l’Occidente ha fatto rivivere sia il conflitto che la Storia, e lo ha fatto in modi che potrebbe rimpiangere.
[1] Gordon M. Hahn, Ph.D., è un analista esperto di Corr Analytics, www.canalyt.com .
Il dottor Hahn è l’autore del nuovo libro: Russian Tselostnost’: Wholeness in Russian Thought, Culture, History, and Politics (Europe Books, 2022). È autore di cinque libri precedenti: The Russian Dilemma: Security, Vigilance, and Relations with the West from Ivan III to Putin (McFarland, 2021); Ukraine Over the Edge: Russia, the West, and the New Cold War (McFarland, 2018); The Caucasus Emirate Mujahedin: Global Jihadism in Russia’s North Caucasus and Beyond (McFarland, 2014), Russia’s Islamic Threat (Yale University Press, 2007) e Russia’s Revolution From Above: Reform, Transition and Revolution in the Fall of the Soviet Communist Regime, 1985-2000 (Transaction, 2002).
Inoltre, il dottor Hahn ha pubblicato numerosi rapporti di think tank, articoli accademici, analisi e commenti su media in lingua inglese e russa. Ha insegnato presso le università: Boston, American, Stanford, San Jose State e San Francisco State e come borsista Fulbright presso l’Università statale di San Pietroburgo, in Russia. È stato inoltre senior associate e visiting fellow presso il Center for Strategic and International Studies, il Kennan Institute di Washington DC e la Hoover Institution.
l sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure
Su PayPal, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)
Se le dichiarazioni del Presidente Macron sulla “sovranità” (sovranità europea, cioè) sono un dato di fatto, il concetto di autonomia strategica, sostenuto da Parigi per decenni, sta conquistando cuori e menti. Meglio ancora: “la battaglia ideologica è stata vinta”, si vanta. Ma qual è la realtà?
Un contesto contraddittorio
.
Il capo di Stato ha approfittato della sua visita in Cina lo scorso aprile per gettare una nuova chiave di volta nella mischia internazionale (cfr. “Macron esorta gli europei a non considerarsi “seguaci” degli Stati Uniti”, Politico.eu, 9 aprile 2023). I suoi commenti, secondo i quali l’Europa nel suo complesso dovrebbe prendere le distanze dall’alleato americano, non erano rivolti esclusivamente alla situazione con la Cina e Taiwan. L’obiettivo era quello di dare un tono a una serie di colloqui cruciali in Europa. A seguito degli sviluppi globali degli ultimi anni, le idee francesi sull’autonomia europea stanno guadagnando terreno… nella retorica. In questo caso, Emmanuel Macron sta usando la situazione nell’Indo-Pacifico per ribadire il concetto: “La cosa peggiore sarebbe pensare che noi europei dovremmo essere dei seguaci”. Le sue dichiarazioni arrivano in un momento di intensi negoziati europei su questioni decisive dal punto di vista dell’autonomia. Essi contrappongono la Francia, spesso sola, a una maggioranza guidata dal gruppo polacco-baltico-nordico.
Per Parigi, questa o quella crisi esterna non deve rimettere in discussione il lavoro a lungo termine della diplomazia francese, che si spera stia per trionfare. Emmanuel Macron teme che “nel momento in cui sta chiarendo la sua posizione strategica”, l’Europa sia “presa da uno sconvolgimento del mondo e da crisi”. Potrebbe trattarsi dell’Ucraina o della Cina. Per quanto riguarda il chiarimento delle posizioni sull’autonomia strategica, i due campi hanno valutazioni diametralmente opposte della situazione. Da un lato, gli shock degli ultimi anni – la presidenza Trump, il perseguimento dell’approccio “America first” da parte dell’amministrazione Biden, la pandemia e la guerra in Ucraina – hanno evidenziato la necessità di evitare dipendenze e vulnerabilità. D’altra parte, in risposta alla guerra in Ucraina, l’Europa sta “facendo la NATO”. Per usare il termine coniato da Nicole Gnesotto, ex direttore dell’Istituto per gli studi sulla sicurezza dell’UE, stiamo vivendo un “momento atlantico”.
Il progresso e i suoi limiti
.
In linea con la prima caratteristica della situazione attuale, ossia la crescente consapevolezza della posta in gioco geopolitica, questioni finora vietate o bloccate nell’UE vengono messe all’ordine del giorno e affrontate – rispetto al normale ritmo delle istituzioni europee – con una rapidità senza precedenti. Semiconduttori, supercomputer, materie prime, fisica quantistica, acquisti congiunti di armi: tutto è sul tavolo e per una volta non ci sono tabù. Secondo Emmanuel Macron: “Da un punto di vista dottrinale, giuridico e politico, credo che non ci sia mai stata una tale accelerazione del potere europeo”. Forse è un’affermazione un po’ affrettata.
Da un lato, perché stiamo assistendo agli stessi vecchi blocchi in una veste diversa. Gli Stati membri che finora hanno rifiutato l’idea dell’autonomia cercano ora di snaturarla, inserendovi delle qualifiche. Si parla di autonomia “aperta”, che consentirebbe l’accesso a progetti e fondi europei a Paesi terzi, in particolare agli alleati della NATO non appartenenti all’UE. D’altra parte, c’è il rischio che questo grande slancio si trasformi in una corsa a perdifiato. Anche a causa delle richieste di generalizzazione del voto a maggioranza qualificata, con il pretesto dell’efficienza. Questo nonostante il mantenimento della regola dell’unanimità nei settori strategici sia l’unica salvaguardia rimasta per coloro che, spesso solo in Francia, si oppongono alla rinuncia all’autonomia. Senza questa regola, la maggioranza bloccherebbe l’intera Europa in una posizione di dipendenza, prima dall’America e poi da qualsiasi altra potenza in futuro.
Punti di forza e contro-forza
.
Per quanto riguarda la dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti, che non è diminuita di una virgola dalla fine della Guerra Fredda, Charles Kupchan (direttore degli Affari europei presso il Consiglio di sicurezza nazionale sotto i presidenti Clinton e Obama) osserva: “Il controllo della sicurezza è il fattore decisivo per determinare chi è al posto di guida”. L’autore principale della Strategia di Difesa Nazionale degli Stati Uniti del 2018 è ancora più schietto. Per Elbridge Colby: “La sicurezza fisica è la chiave di volta di tutti i valori e gli interessi; senza di essa, la libertà e la prosperità non possono essere godute e possono persino essere perse del tutto”. Naturalmente, continua, “il potere duro non è l’unica forma di potere, ma è quella dominante”. Non è un caso che, mentre gli sforzi dell’UE mirano a “un certo grado” di autonomia nei blocchi tecnologici civili, Washington rimanga concentrata a tenere sotto controllo la dimensione militare di tale autonomia.
L’America sta consolidando il suo predominio in materia di sicurezza: la guerra in Ucraina ha confermato il suo ruolo di protettore finale, attraverso l’articolo 5, e ha rafforzato la sua posizione di “prima potenza europea”. Almeno per il momento, e con molte incertezze a medio e lungo termine. Le questioni relative agli armamenti stanno diventando più cruciali che mai: questo è sempre stato il settore in cui si gioca concretamente il rapporto di dipendenza asimmetrica tra gli Stati Uniti e gli alleati europei. Con il moltiplicarsi delle iniziative e dei finanziamenti dell’UE, la spinosa questione dell’accesso di terzi (nota come “criteri di ammissibilità”) si fa sempre più acuta. I fondi erogati rimarranno all’interno dell’Unione, per rafforzare il suo DTIB autonomo, o, al contrario, saranno utilizzati per acquistare dall’estero, anche se questo significa aumentare la dipendenza e la vulnerabilità? Purtroppo, per rimanere nelle grazie di Washington, la stragrande maggioranza dei Paesi europei preferisce tradizionalmente la seconda opzione.
(*) Hajnalka Vincze, Senior Fellow au Foreign Policy Reserach Institute (FPRI) de Philadelphie, est une analyste indépendante spécialisée dans la politique européenne et les relations transatlantiques. Ses écrits sont publiés en Europe et aux Etats-Unis. En France elle contribue régulièrement au magazine DefTech, ainsi qu’aux revues Défense & Stratégie et Engagement.
l sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure
Su PayPal, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)
La grande “rovina” cosacca, che come le stesse eredità cosacche è stata fatta propria dagli ucraini moderni per il fatto di essere avvenuta nelle terre cosacche, fu un periodo di guerra civile, anarchia, caos e devastazione alimentato dagli interventi delle potenze straniere. Per molti versi, assomiglia alla “Smuta” o Tempo dei Problemi della Russia di sette-otto decenni prima, che combinava caos, conflitti interni e interventi stranieri, soprattutto polacchi. La grande “rovina ucraina” o cosacca del XVII secolo, che durò dalla morte dell’hetman cosacco Bodgan Khmelnitskiy nel 1657 fino all’ascesa del successivo grande hetman, Ivan Mazepa, nel 1687. Khmelnitskiy portò i cosacchi dominanti di Zaporozhian a firmare il Trattato di Pereslavl del 1654, che portò molte terre cosacche sotto la sovranità russa. Ma il caos e la distruzione vennero cuciti attraverso macchinazioni politiche, violenti raid e attacchi su larga scala da parte della Polonia-Lituania, dell’Impero Ottomano e del Khanato dei Tartari di Crimea, occasionalmente sostenuti dalla Svezia per contestare la sovranità russa e cosacca. In particolare, la guerra polacco-russa (1654-1667), scatenata dal trattato di Pereslavl, generò gran parte dei conflitti e delle dislocazioni della Rovina. Altre guerre infuriarono in quella che oggi è l’Ucraina: la guerra ucraino-polacca (1666-1671), la guerra ucraino-moscovita (1665-1676) e la guerra polacco-turca (1672-1676), con vari gruppi cosacchi che si univano e cambiavano spesso schieramento.
Allo stesso tempo, la protezione e la presenza della Russia, combinata con la pressione di altri “Altri“, in particolare gli odiati polacchi, formarono un contraltare con il quale un’identità cosacca iniziò a consolidarsi in una più ampia fascia della popolazione su entrambe le sponde del Dniepr. Il tentativo russo di sottomettere e organizzare i cosacchi, che avevano dichiarato la loro fedeltà allo zar, violò le tradizioni cosacche di decentramento, libertà anarchica, mancanza di uno Stato di diritto, con conseguenti conflitti interni e violenza. Il malcontento e i disaccordi interni sul dominio russo alimentarono ulteriori conflitti tra coloro che lo sostenevano e coloro che vi si opponevano. Ulteriori tensioni interne furono alimentate dal conflitto tra i nobili non cattolici e la classe ufficiale cosacca o “starshina” per le nuove terre senza proprietari confiscate alla Polonia, che costituivano circa il 50% del territorio cosacco. La lotta per queste terre divideva i contadini poveri dai cosacchi ricchi e possidenti.
Ma la cosa più inquietante fu la lotta tra Russia e Polonia per il controllo dei territori cosacchi, con la Polonia che lottava per controllare la riva “destra” o occidentale dell’Ucraina e la Russia che di solito controllava la riva “sinistra” o orientale. Ciò costrinse hetmen, starshina e “società” cosacche a dividersi tra queste e altre forze esterne, portando a lotte di potere interne, a continui spostamenti di fedeltà che misero cosacchi contro cosacchi e cosacchi contro elementi esterni. Le conseguenze della “rovina” comportarono: la divisione delle terre cosacche (ucraine) tra Russia, Polonia-Lituania e Turchia ottomana, la riva destra controllata dai polacchi, la perdita da parte dell’Ucraina di più della metà dei suoi abitanti, molti dei quali si trasferirono sulla riva sinistra controllata dalla Russia, e la devastazione di massa degli insediamenti cosacchi. Solo alla fine del regno di Caterina la Grande, quando i cosacchi della riva sinistra persero la limitata autonomia di cui avevano goduto con il Trattato di Pereslavl, l’intera riva sinistra del territorio cosacco e gran parte delle terre della riva destra furono stabilizzate e integrate nel sistema imperiale russo.
In definitiva, la grande “rovina” del XVII secolo potrebbe benissimo impallidire, in termini di significato, di fronte all’attuale periodo di difficoltà che l’Ucraina ha iniziato a vivere sotto l’Operazione Militare Speciale russa. L’Ucraina, naturalmente, non è il primo Paese in questa parte del mondo a cadere vittima dell’apparentemente eterna contesa tra Russia e Occidente. Quando l’abilità nel governare fallisce da una o da entrambe le parti della cortina di ferro che divide Est e Ovest, i piccoli Paesi situati a cavallo tra Est e Ovest subiscono le conseguenze più perniciose. È il caso dell’odierna espansione della NATO in tutta l’Europa orientale fino ai confini della Russia e della risposta militare russa che ne è conseguita. Nessun Paese nell’era post-Guerra Fredda ha vissuto una catastrofe simile a quella che si sta verificando in Ucraina con la sua seconda “rovina”.
Per quanto riguarda il bilancio umano dell’escalation della guerra, possiamo ipotizzare almeno 120.000 morti e 220.000 feriti da parte ucraina. Questa stima è forse bassa. La maggior parte delle stime occidentali indicano un numero troppo basso di perdite ucraine e un numero troppo alto di vittime russe. Le stime occidentali e ucraine sulle perdite ucraine sono così assurdamente basse che non vale nemmeno la pena di citarle. D’altra parte, una fonte in grado di valutare le immagini satellitari dei cimiteri in almeno sette regioni dell’Ucraina e l’aumento delle loro dimensioni giunge a stimare 350.000-400.000 vittime di soldati ucraini. Inoltre, poiché in via generale il rapporto tra morti e feriti in ogni guerra è solitamente di 1 a 5 o di 1 a 7, una stima ragionevole del totale delle vittime (cioè tra morti e feriti) da parte ucraina è di circa 2 milioni. Tuttavia, a queste conclusioni si perviene utilizzando dei mezzi di calcolo piuttosto approssimativi. Ad esempio, la popolazione delle regioni occidentali dell’Ucraina è stata coinvolta in misura molto minore nella composizione degli equipaggi dell’esercito e dunque giustapporre lo stesso numero di nuove tombe realizzate nelle zone orientali del Paese ed utilizzarlo anche per i cimiteri della parte occidentale è fuorviante. E allora, volendo ridurre questa stima a 200.000 morti (piuttosto che a 350.000-400.000) e ipotizzando un rapporto tra morti e feriti di 1 a 3, talvolta ritenuto appropriato, potremmo stimare le perdite delle forze ucraine a 800.000 (https://telegra.ph/INTEL-EXCLUSIVE-08-02). Questo è il tetto-limite più elevato di quello che ritengo essere una possibile stima del numero di ucraini uccisi e feriti (se escludiamo dal computo le vittime ucraine tra i civili di entrambe le parti e tra coloro che combattono dalla parte dei separatisti). Tuttavia, se si leggono le stime del Ministero della Difesa russo sulle perdite ucraine giornaliere, si noterà che esse ammontavano a una media approssimativa di circa 600 al giorno fino alla controffensiva di quest’estate ovvero ai primi 15 mesi di guerra. Ciò significa un numero di 18.000 vittime al mese per i 15 mesi precedenti la controffensiva di quest’estate, per un totale, da febbraio 2022 a maggio 2023, di 270.000 soldati ucraini uccisi e feriti. Le cifre per la controffensiva di quest’estate sono state circa il 20% più alte, con il Ministero della Difesa russo che ha stimato circa 66.000 vittime da giugno ad agosto. Ciò significa un totale di circa 336.000 militari ucraini uccisi e feriti, secondo le fonti ufficiali russe. Tuttavia, sarebbe ragionevole sospettare che le cifre russe siano “ottimistiche”, sovrastimate e quindi elevate. Pertanto, proporrei una stima approssimativa di circa 300.000 vittime tra le forze ucraine tra il 24 febbraio 2022 e il 31 agosto 2023. D’altra parte, anche le fonti ucraine riferiscono di perdite impressionanti, suggerendo un quadro più cupo di quello che ho appena dipinto. Ad esempio, la stampa ucraina riferisce che forse l’80-90% delle forze di terra reclutate nell’autunno del 2022 sono già state perse (https://strana.news/news/445536-itohi-571-dnja-vojny-v-ukraine.html). In breve, potremmo verosimilmente avere avuto a tutt’oggi già mezzo milione di vittime militari ucraine.
Inoltre, in Ucraina ci sono state, molto approssimativamente, circa 50.000 vittime civili. L’organismo OHCHR delle Nazioni Unite ha registrato, dal 24 febbraio 2022 al 27 agosto 2023, 26.717 vittime civili nel Paese, di cui 9.511 morti e 17.206 feriti. Quasi un quarto di queste vittime si è registrato nel territorio controllato dalla Russia. L’OHCHR delle Nazioni Unite rileva, tuttavia, che il numero effettivo di vittime è probabilmente molto più alto (www.ohchr.org/en/news/2023/08/ukraine-civilian-casualty-update-28-august-2023). Questo porta la stima complessiva delle vittime ucraine a circa 350.000 al 1° settembre 2023. Non escludo che possano essere sostanzialmente più alte, ma se i russi riportano le cifre che ho fornito qui, sembra improbabile che siano più alte del 50% o del 100%, ma nessuno potrebbe essere in grado di confermarlo con certezza.
Non ritengo plausibile che le cifre delle vittime ucraine per il periodo qui preso in considerazione possano essere significativamente inferiori a queste. Con l’accelerazione del numero delle perdite ucraine nel mese di settembre, possiamo prevedere che, se tutto il resto rimane approssimativamente come sta andando, l’Ucraina raggiungerà 1 milione di vittime entro il tardo autunno del 2024. Le mie stime, che sembreranno elevate a coloro che si basano su fonti ucraine e occidentali, sono ulteriormente rafforzate dalle notizie di agosto – in quella che probabilmente è la coda della controffensiva – secondo cui Kiev sta costruendo un nuovo cimitero militare che ospiterà altri 400.000 caduti di guerra (https://www.youtube.com/watch?v=bs8-2xAZto0&t=26s&ab_channel=MilitarySummary). Le dimensioni dei cimiteri già esistenti sono enormi e in crescita (https://www.youtube.com/watch?v=6owz8zD6fHs&ab_channel=%D0%90%D0%BB%D0%B5%D0%BA%D1%81%D0%9C%D0%BE%D1%82%D0%BE%D1%80%D0%BD%D1%8B%D0%B9%D0%A5%D0%B0%D1%80%D1%8C%D0%BA%D0%BE%D0%B2).
Le perdite russe saranno probabilmente circa un terzo di quelle ucraine.
Le vittime della guerra sono determinate da un ciclo di escalation alimentato sia dalla NATO che da Mosca. Ogni escalation da una parte incontra regolarmente un’escalation dall’altra, danneggiando non solo le risorse umane e materiali di entrambe le parti, ma portando ad un’ulteriore escalation che determina una ulteriore carneficina degli ucraini, delle loro terre e di ogni tipo di infrastruttura. Ad esempio, quando gli Stati Uniti hanno deciso di inviare munizioni a grappolo all’Ucraina, che ha iniziato a farle cantare, ponendo la Russia in una situazione “peggiore“, la Russia ha annunciato che avrebbe usato e infatti ha iniziato a usare a sua volta le munizioni a grappolo, ponendo anche le forze ucraine in una condizione peggiore. Un così alto numero di vittime di questa portata lascerà una grande ferita nella vita ucraina, e basti paragonare la cicatrice lasciata negli Stati Uniti dalla guerra del Vietnam, che ha visto relativamente meno vittime – circa 210.000 – distribuite nell’arco di quindici anni e non di un anno e mezzo.
La popolazione ucraina sta subendo un altro logoramento: quello dell’esodo di coloro che fuggono dalla guerra, dalla mobilitazione militare, dal collasso economico e da uno Stato corrotto e predatore. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati stima che al 28 agosto 2023, dall’inizio dell'”operazione militare speciale” (SVO) della Russia nel febbraio 2022, 6.203.030 ucraini sono fuggiti dall’Ucraina (https://data2.unhcr.org/en/documents/details/103134).
Questa cifra significa che la popolazione ucraina è scesa da 42 a 36 milioni dall’inizio dell’SVO. Ma questo vale solo per la popolazione ucraina nel territorio controllato da Kiev nel periodo 1991-2014. La perdita della Crimea e della maggior parte degli Oblast di Donetsk e Luhansk nel 2014 e di gran parte degli Oblast di Zaporozhe e Kherson a causa dell’annessione o dell’occupazione russa dall’inizio dell’SVO riduce la popolazione ucraina di altri 4 milioni, il che significa che ora è di circa 32 milioni. Altri stimano che la popolazione all’interno dei confini ucraini del 1991 al 1° gennaio 2023 era di soli 37,6 milioni di persone, 32,6 milioni all’interno dei confini del 2022 (meno la Crimea) e 31,1 milioni nei territori attualmente controllati dal governo ucraino (meno la Crimea e la maggior parte degli Oblast di Donetsk, Luhansk, Zaporozhe e Kherson) (www.wilsoncenter.org/blog-post/ukraines-demography-second-year-full-fledged-war, vedi anche https://t.me/stranaua/120211). Se si aggiungono i morti di guerra e la popolazione sotto il controllo di Kiev, la popolazione del Paese scende a meno di 31 milioni.
Questo quadro si aggrava se si tiene anche conto degli squilibri socioeconomici causati da una massa di rifugiati interni (persone sfollate dalle loro case) di 5.088.000 persone a causa della guerra conteggiati a tutto il 23 maggio 2023 (https://data2.unhcr.org/en/documents/details/103134). Inoltre, secondo l’UNHCR, circa 17,6 milioni di persone in Ucraina necessitano di un urgente sostegno umanitario, compresi i 5 milioni di sfollati interni (www.reuters.com/world/europe/blood-billions-cost-russias-war-ukraine-2023-08-23).
Quindi, se fissiamo la popolazione attualmente sotto il controllo del governo di Kiev a 31 milioni, l’Ucraina ha perso più del 20% della sua popolazione dall’inizio della guerra e attualmente più del 15% della popolazione rimanente è costituita da rifugiati interni e più della metà della popolazione ha bisogno di un urgente sostegno umanitario.
Il quadro demografico è ulteriormente oscurato dal calo dei tassi di natalità causato dagli sconvolgimenti della guerra. Sebbene i tassi di natalità ucraini fossero già in calo a partire dalla rivolta di Piazza Maidan, del 7% all’anno dal 2013, nei primi sei mesi del 2023 sono nati in Ucraina solo 96.755 bambini, il che rappresenta un calo del 28% rispetto al periodo corrispondente del 2021 (135.079 bambini) e ancora meno rispetto al periodo corrispondente dello scorso anno (https://t.me/rezident_ua/19018). Se la guerra continuerà fino al 2024, è possibile che tutte queste perdite – che già costituiscono una catastrofe – vengano raddoppiate, soprattutto se le forze russe inizieranno ad avanzare più rapidamente verso est, minacciando più direttamente altre regioni come Charkiv, Sumy, Chernigov e Mikolaev.
In termini fisici non umani, le perdite dell’Ucraina sono altrettanto sconcertanti. Per quanto riguarda il territorio, l’Ucraina ha perso l’11% del suo territorio dall’inizio della guerra, un’area equivalente al Massachusetts, al New Hampshire e al Connecticut, secondo il Belfer Center della Harvard Kennedy School. Includendo in tale computo la Crimea, l’Ucraina ha perso circa il 17,5% del suo territorio, un’area di circa 41.000 miglia quadrate (106.000 km quadrati) dalla rivolta di Maidan (www.reuters.com/world/europe/blood-billions-cost-russias-war-ukraine-2023-08-23). Inoltre, queste regioni – che comprendono l’industria carbonifera ucraina, gran parte della costa, i porti e le località turistiche – fornivano una quota preponderante del PIL dell’Ucraina. Inoltre, villaggi e città in alcune parti del territorio controllato dall’Ucraina sono stati pesantemente bombardati fino a trasformarsi in dei paesaggi lunari. La distruzione totale delle infrastrutture è stata stimata dalle Nazioni Unite in 100 miliardi (https://news.un.org/en/story/2022/03/1114022). Sebbene si tratti probabilmente di una sovrastima, anche se la cifra fosse la metà, alla fine dell’estate 2023 l’Ucraina avrà subito danni e distruzioni alle infrastrutture per 800 miliardi di dollari. Un altro modo per valutare l’entità dei danni infrastrutturali generali del Paese è la misura dell’assistenza alla ricostruzione. La Banca Mondiale ha stimato l’entità dei danni a marzo 2023 o per il primo anno di guerra e ha concluso che Kiev avrebbe avuto bisogno di 411 miliardi di dollari di assistenza per la ricostruzione se la guerra fosse finita allora (www.worldbank.org/en/news/press-release/2023/03/23/updated-ukraine-recovery-a).
Da allora la guerra si è prolungata di altri sei mesi, quindi possiamo fare una stima approssimativa di 615 miliardi di dollari di aiuti che sarebbero necessari se la guerra finisse entro ottobre. Entro marzo 2024 la somma sarà di circa 1.000 miliardi di dollari. Ciò solleva la questione di quanti di questi arriveranno e in quanto tempo, sollevando l’ulteriore questione di un grave disastro umanitario e di un’ulteriore emigrazione dal Paese.
Il PIL del Paese in dollari correnti è diminuito tra il 2021 e il 2022 di circa il 15% – da 198 a 161 miliardi di dollari (https://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.MKTP.CD?locations=UA). Pertanto, il PIL dell’Ucraina in dollari del 2015 si è contratto del 30% nel 2022 (https://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.MKTP.KD.ZG?locations=UA). Tuttavia, il FMI sostiene che quest’anno la crescita sarà dell’1%-3% (www.reuters.com/world/europe/blood-billions-cost-russias-war-ukraine-2023-08-23). Ciononostante, una fonte conclude che l’Ucraina avrà bisogno di 50 miliardi di dollari di sostegno finanziario nel 2024 (https://t.me/rezident_ua/19017). Anche se il PIL crescesse del 3% fino a raggiungere i 166 miliardi di dollari, con un deficit di bilancio previsto per il 2024 di 40 miliardi di dollari – che è anche l’importo speso per le forze armate quest’anno e che dovrà essere coperto in buona parte dai dollari delle tasse occidentali e dagli euro – il suo rapporto bilancio/PIL si aggira su un catastrofico 25%. Tutto questo mentre l’Ucraina sta beneficiando di una moratoria sui pagamenti fino a metà giugno su 20 miliardi di dollari di debito concordata con gli obbligazionisti internazionali come MFS Investment Management, BlackRock e Fidelity Investments (www.wsj.com/world/europe/ukraine-hunts-for-cash-as-fighting-drains-coffers-a6443e9c).
In termini emotivi, psicologici e sociologici, la catastrofe potrebbe essere ancora più sconvolgente. La sindrome da stress post-bellico e i traumi saranno una pesante tassa a carico dell’intera società. Michael Vlahos cita una cifra di 50.000 ucraini che hanno perso uno o più arti, vicina alla cifra di 67.000 amputati patita dalla Germania per tutta la Prima Guerra Mondiale (https://compactmag.com/article/the-ukrainian-army-is-breaking). Olha Rudneva, responsabile del Centro Superhumans per la riabilitazione dei mutilati militari ucraini, stima che 20.000 ucraini abbiano subito almeno un’amputazione dall’inizio della guerra. Ma prima della guerra, in Ucraina c’erano solo cinque persone con una formazione professionale nel campo della riabilitazione di persone con amputazioni alle braccia o alle mani (www.aol.com/upward-20-000-ukrainian-amputees-060957047.html).
Infine, la “democrazia” che sopravviveva in Ucraina prima della guerra è ora completamente scomparsa. Solo i partiti politici approvati da Zelenskiy possono operare, le elezioni sono state cancellate “fino alla fine della guerra“, tutti i media sono pesantemente censurati e l’affiliata locale della Chiesa ortodossa russa sta subendo una dura repressione, le sue chiese e i suoi monasteri sono stati acquisiti dallo Stato e alcuni dei suoi sacerdoti orfani sono stati arrestati e processati, compreso il metropolita della Chiesa. Zelenskiy sta abbandonando il suo partito politico, pieno di corruzione e di scandali pubblici, e ha annunciato che costruirà un nuovo partito e una nuova classe dirigente basata su coloro che hanno servito in guerra. Questo, insieme alla radicalizzazione che la guerra tende naturalmente a portare con sè, rafforzerà la già troppo forte componente ultranazionalista e neofascista della politica ucraina. Le divisioni sociali saranno aggravate dai vergognosi privilegi e profitti dell’élite ucraina maturati durante la guerra. I “ricchi e famosi” sono visti sui social media mentre festeggiano sulle spiagge esotiche in ogni angolo del mondo, laddove invece i giovani privi di protezioni all’interno del Governo vengono brutalmente sequestrati nelle strade da reclutatori-mobilitatori per essere inviati al fronte. La guerra ha ampliato la corruzione in modo esponenziale, poiché il regime di Zelenskiy permette a criminali e funzionari corrotti di accumulare enormi profitti illegali, funzionali a lubrificare gli ingranaggi della macchina bellica e delle funzioni sociali della macchina statale. L’ulteriore corruzione, criminalizzazione e fascistizzazione del paese più corrotto e neofascista d’Europa renderà in futuro quasi impossibile la rinascita anche di una debole democrazia.
Conclusione.
Sei settimane prima dell’inizio dell’attuale guerra NATO-Russia in Ucraina, avevo proposto le misure che Putin avrebbe potuto adottare come parte di una campagna di diplomazia coercitiva intensificata (https://gordonhahn.com/2022/01/10/putins-military-technical-and-other-options-if-strategic-stability-and-ukraine-talks-fail/). Se fossero state adottate e se l’Occidente avesse accettato negoziati seri sull’architettura di sicurezza dell’Europa e su un’Ucraina neutrale al suo interno, come zona cuscinetto neutrale tra la Russia e la NATO, le cose sarebbero potute andare diversamente. La guerra avrebbe potuto essere evitata e tutte le misure russe adottate prima della guerra avrebbero potuto essere ritirate dopo la conclusione e l’attuazione degli accordi. Quelle effettivamente adottate dall’inizio della guerra e quelle attuate nell’ambito della guerra da entrambe le parti in conflitto difficilmente saranno revocate a breve, sicuramente non in questo decennio. La sicurezza degli Stati Uniti e della NATO è stata rafforzata rifiutando di negoziare con Mosca prima dell’invasione di Putin o impedendo a Kiev di portare avanti il processo di Istanbul iniziato un mese dopo l’invasione? La risposta, come ho cercato di dimostrare sopra, è chiaramente “no“.
l sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure
Su PayPal, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)