Le ultime notizie sull’Ucraina da Jacques Baud

Thomas Kaiser (TK): Nelle ultime due settimane, la narrazione dei media mainstream è leggermente cambiata. Si sente parlare sempre meno direttamente della guerra, non si parla più delle alte perdite dei russi e dei successi militari degli ucraini. Che cosa è cambiato?

Jacques Baud (JB): In realtà non è cambiato nulla. Si tratta di un cambiamento di percezione. È noto da diverse settimane che la situazione dell’Ucraina e delle sue forze armate è catastrofica. Le perdite umane e materiali del paese sono molto elevate. Inizialmente, l’Ucraina e i nostri media hanno minimizzato queste perdite per sviluppare una narrazione su una sconfitta russa e una vittoria ucraina. Oggi, la realtà sul campo di battaglia costringe l’Ucraina a riconoscere queste perdite. Allo stesso tempo, Zelensky ha capito che queste perdite potevano essere usate come argomento per fare pressione sull’Occidente per ottenere ulteriori aiuti.

TK: D’altra parte, il problema è sempre quello della consegna delle armi richieste. Chi dovrebbe far funzionare le armi quando la maggior parte dell’esercito è accerchiata nel Donbass?

JB: Prima di tutto, è importante capire che le consegne di armi occidentali pongono diversi problemi. In primo luogo, nemmeno le agenzie d’intelligence statunitensi sanno se e dove finiranno le armi consegnate. Il capo dell’Interpol avverte che alcune di queste armi potrebbero finire nelle mani di organizzazioni criminali. Già alcuni missili anticarro Javelin sono stati offerti sulla Darknet per 30.000 dollari. A quanto pare, queste armi sono rivendute non appena arrivano a Kiev. In secondo luogo, le armi sono spesso distribuite in base all’ordine di arrivo e non sempre raggiungono coloro che ne hanno più bisogno sul campo. Infine, spesso finiscono nelle mani della coalizione russa.

TK: Come possiamo dirlo?

JB: Attualmente, le milizie della Repubblica di Donetsk sono equipaggiate con missili Javelin, che provengono dalle scorte ucraine catturate dall’esercito russo. Ricordiamo che gli elicotteri ucraini che erano andati ad esfiltrare i combattenti da Azovstal sono stati abbattuti con missili Stinger forniti dagli Stati Uniti. Inoltre, le armi fornite dall’Occidente costituiscono solo una frazione di quelle distrutte dai russi. Per esempio, la Gran Bretagna e la Germania stanno inviando all’Ucraina tre lanciarazzi multipli M270 ciascuno, ma all’inizio della guerra l’Ucraina aveva diverse centinaia di sistemi equivalenti. In altre parole, queste armi non cambieranno nulla, ma prolungheranno solo il conflitto e ritarderanno il tempo dei negoziati, come ha spiegato Davyd Arakhamia, capo negoziatore e stretto consigliere di Zelensky.

TK: È davvero incredibile. Si è sempre parlato d’ingenti perdite russe. Possono essere verificate e quali sono le perdite da parte ucraina?

JB: In realtà, il numero di soldati uccisi non è noto, né ai russi né agli ucraini. I numeri citati dai media occidentali sono quelli diffusi dalla propaganda ucraina. Tuttavia, all’inizio di giugno, il presidente Zelensky ha svelato il tasso di mortalità delle forze armate ucraine e ha parlato di 60-100 soldati uccisi al giorno. Una settimana dopo, Mykhailo Podoliak, consigliere di Zelensky, ha dichiarato che le forze armate ucraine perdevano dai 100 ai 200 uomini al giorno. Oggi, Arakhamia parla di 200-500 morti al giorno e di un totale di 1000 perdite (morti, feriti, catturati, disertori) il giorno. Non è chiaro se queste cifre siano corrette.

TK: Ci sono osservazioni in base alle quali si può avere un quadro realistico dei numeri?

JB: Gli esperti vicini all’intelligence ritengono che queste cifre siano molto al di sotto della realtà. D’altra parte, le cifre ucraine sono ancora più alte delle stime dell’esercito russo. Alcuni sostengono che le forze ucraine abbiano 60.000 morti e 50.000 dispersi. Tuttavia, questi numeri non sono al momento verificabili.

TK: Perché gli ucraini riportano solo ora cifre così alte di vittime?

JB: È molto probabile che gli ucraini stiano riportando cifre elevate per fare pressione sull’Occidente affinché aumenti le sue forniture di armi. Tuttavia, questo non spiega tutto. La questione fondamentale è il modo in cui la leadership ucraina conduce le sue operazioni. Invece di avere un approccio dinamico al campo di battaglia e di trarre vantaggio spostando le truppe, l’Ucraina – e Zelensky in particolare – ordina alle sue truppe di “alzarsi e combattere”. Una situazione non dissimile da quella della Francia durante la Prima Guerra Mondiale. Questa è la principale differenza tra l’Ucraina e la Russia: in Ucraina le operazioni sono gestite dalla leadership politica, mentre in Russia sono gestite dallo Stato Maggiore. Questo spiega il fallimento dell’approccio ucraino. Anche i militari statunitensi sembrano aver individuato questo problema.

TK: In che modo?

JB: Secondo Arakhamia, i tentativi di guadagnare terreno contro l’esercito russo servono solo a garantire in seguito una migliore posizione di partenza per i negoziati con i russi. Si tratta di una guerra puramente politica, senza alcun riguardo per le vite dei soldati. Quest’approccio è sostenuto dai paesi occidentali e dalla nostra diplomazia. È molto preoccupante.

TK: All’inizio della guerra si sottolineava la volontà di resistenza degli ucraini. Non esiste più?

JB: Penso che i soldati ucraini stiano facendo il loro lavoro con coraggio. Combattono da posizioni rinforzate e dalle trincee che hanno scavato nel 2014 intorno al Donbass. Purtroppo, una volta di fronte all’artiglieria e a un nemico mobile, le loro possibilità di successo sono scarse. Sembra che lo Stato Maggiore ucraino volesse ritirare questi uomini in posizioni di combattimento più favorevoli, ma la leadership politica del paese si è rifiutata. In questo contesto, i nostri media e i politici hanno giocato un ruolo perverso perpetuando l’illusione di una vittoria ucraina e la promessa di forniture di armi su larga scala.

TK: Così facendo, hanno preso per il naso l’opinione pubblica, compresi gli ucraini.

JB: Sì. Oggi è chiaro che gli ucraini e l’Occidente si sono mentiti a vicenda solo per mettere nei guai la Russia. Gli ucraini sono ora costretti a inviare le loro unità territoriali mal equipaggiate e mal preparate dall’ovest del paese al Donbass. Questo crea malcontento e ci sono state numerose manifestazioni contro Zelensky nella parte occidentale del paese e a Kiev. A causa di ciò, Kiev ha dovuto emanare nuove leggi per mettere a tacere coloro che non sono d’accordo con il governo. La nostra diplomazia ha chiaramente contribuito attivamente alla morte di migliaia di militari ucraini. Tuttavia, oggi sembra che siano i militari occidentali a cercare di riportare alla ragione il modo in cui affrontiamo questo conflitto.

TK: Ma non ci sono movimenti di resistenza nei territori occupati dalla Russia?

JB: È interessante notare che non ci sono movimenti di resistenza popolare alla presenza russa. La narrazione occidentale di un’eroica resistenza popolare contro la Russia si basa essenzialmente sulle dichiarazioni dei nazionalisti della parte occidentale del paese. In realtà, le aree occupate dalla coalizione russa nella parte orientale e meridionale del paese sono abitate da russofoni. Gli ucraini non hanno mai considerato questa popolazione come ucraina, come dimostra la legge sui popoli indigeni dell’Ucraina, adottata all’inizio del luglio 2021. Dopo essere stata bombardata regolarmente dal 2014 dal proprio esercito, come a Donetsk, la popolazione russofona del sud del Paese non si oppone più di tanto alla presenza russa. Anzi, tende a vedere i russi come dei liberatori.

TK: Su questa base, possiamo già prevedere cosa intende fare la Russia in Ucraina?

JB: I russi sono molto discreti sulle loro intenzioni, in quanto adattano i loro obiettivi alla volontà degli ucraini di negoziare. Finché gli ucraini rifiuteranno di negoziare, i russi continueranno ad avanzare e a guadagnare territorio. A marzo erano pronti a negoziare sulla base delle proposte di Zelensky. Tuttavia, su pressione di Boris Johnson, Zelensky ha ritirato la sua offerta. Dopodiché, i russi hanno continuato a fare progressi.

TK: Che cosa significa ora?

JB: Non rimetteranno sul tavolo dei negoziati ciò che gli ucraini avrebbero potuto recuperare a marzo. A questo punto, è probabile che i russi si spingano ulteriormente verso Odessa per stabilire un collegamento con la Transnistria. Non è improbabile che si verifichi una “ri-creazione” della Novorussia nell’Ucraina meridionale. La conseguenza più importante delle azioni russe è che l’Ucraina perderà l’accesso al mare.

TK: Ultimamente i nostri media hanno riportato la notizia che la Russia è responsabile dell’aumento dei prezzi del grano e della conseguente carestia. Ha qualche informazione in merito?

JB: Le accuse contro la Russia fanno parte della narrativa occidentale per isolare la Russia dal resto del mondo e per assolvere l’Occidente dai propri errori. Innanzitutto, l’aumento globale dei prezzi dei cereali non è direttamente dovuto alla guerra, ma è il risultato delle misure adottate per affrontare il CoViD-19 e delle condizioni create dalle sanzioni occidentali, cercando deliberatamente di drammatizzare la situazione. Lo stesso fenomeno si può osservare nei prezzi del petrolio.

L’attuale aumento dei prezzi dei cereali è il risultato di diversi fattori. In primo luogo, le restrizioni ai pagamenti che inducono gli acquirenti a temere le sanzioni statunitensi nei loro confronti. In secondo luogo, le spedizioni sono diventate troppo costose perché il mercato del petrolio si è ridotto a causa delle sanzioni occidentali. In terzo luogo, le sanzioni occidentali impediscono ai fertilizzanti di entrare nel mercato; questi prodotti non sono soggetti a sanzioni, ma ci sono state restrizioni sui mezzi di pagamento che hanno indotto gli acquirenti a temerli.

TK: Tuttavia, si accusa l’Ucraina di non poter fornire grano a causa dei russi. È davvero così?

JB: No, non è vero, per due motivi principali. Il primo è che i nostri media, ovviamente, non riportano che i porti del Mar Nero sono stati minati dall’Ucraina perché temeva un attacco dal Mar Nero. A causa delle tempeste, molte di queste mine si sono staccate e si muovono liberamente. Sono diventate un pericolo per la navigazione marittima. La Marina turca ha dovuto disinnescarne alcune che avevano raggiunto il Bosforo.

La seconda ragione è che la Russia non blocca i porti ucraini. Al contrario, permette ai convogli navali di rifornire i porti ucraini; garantisce persino corridoi marittimi le cui coordinate sono trasmesse a intervalli regolari sulle frequenze radio marittime internazionali. Il problema è che questi corridoi non vengono utilizzati a causa delle mine ucraine. Per inciso, Davyd Arakhamia ha chiarito che l’Ucraina non ha alcuna intenzione di rimuovere le sue mine dal Mar Nero. È diventato un po’ di moda incolpare Putin per le decisioni dell’Occidente che non sono state pensate a fondo e non sono inserite in una strategia coerente.

TK: Questo ha effettivamente creato una carenza nel mercato? O si tratta di un processo artificiale per far salire i prezzi?

JB: Non sono un esperto di commercio di cereali. Ma da un lato l’Ucraina non è riuscita a vendere il suo raccolto di grano del 2021 prima dell’offensiva russa, dall’altro la Russia sembra aspettarsi un raccolto eccezionale per il 2022. Di conseguenza, non sembra che ci sia una carenza di grano. Il problema è che il grano non riesce a raggiungere il mercato. Ciò è dovuto principalmente alle sanzioni occidentali contro la Russia e la Bielorussia. Naturalmente, questa situazione ha suscitato l’interesse degli speculatori, ma non sono in grado di valutare quest’aspetto.

TK: La Polonia ha ripetutamente mostrato di essere piuttosto preoccupata che un attacco russo sul suo territorio possa avvenire presto. Quanto è realistico questo scenario?

JB: La Polonia ha ripetutamente gettato benzina sul fuoco di questo conflitto. Sogna di realizzare il vecchio progetto dell’Intermarium, voluto dal maresciallo Pilsudski negli anni Trenta, che avrebbe unito i paesi tra il Mar Baltico e il Mar Nero. Questo ricorda la nostalgia del Regno di Polonia del XVII secolo. La Polonia sogna un conflitto aperto con la Russia perché crede, come l’Ucraina, che con l’aiuto della NATO potrebbe sferrare il colpo finale per sconfiggere la Russia una volta per tutte, in modo da realizzare questo vecchio sogno. Questo dimostra, tra l’altro, che l’interesse della Polonia per l’Europa è solo superficiale.

TK: Perché i paesi europei non si accorgono del gioco sporco che si sta facendo?

JB: L’obiettivo dei paesi occidentali (tra cui ovviamente la Svizzera) è quello di destabilizzare il governo russo in un modo o nell’altro. Per questi paesi, il fine giustifica i mezzi. Pertanto, non abbiamo alcuna remora ad attaccare la popolazione russa (anche nei nostri paesi) e a sacrificare quella ucraina. Come ha detto Andrés Manuel López Obrador, presidente del Messico, a proposito della politica della NATO nei confronti dell’Ucraina: “Noi forniamo le armi, voi fornite i cadaveri! Questo è immorale”.

TK: Signor Baud, grazie mille per questa intervista.

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 Intervista di Thomas Kaiser a Jacques Baud pubblicata su The Postil Magazine il 1° luglio 2022
Traduzione in italiano di Confab per SakerItalia

http://sakeritalia.it/ucraina/le-ultime-notizie-sullucraina-da-jacques-baud/?fbclid=IwAR3WptXsdYrrmXMQt91WCvdOEjt03LuvbFDddT_xsZw3jRab-vfL4IJMCGc

La guerra segreta di Zelensky tra purghe e complotti, di Gianandrea Gaiani

https://www.analisidifesa.it/2022/07/la-guerra-segreta-di-zelensky-tra-purghe-e-complotti/

(aggiornato alle 13,55)

Le “purghe” senza precedenti negli ambienti dei servizi di sicurezza ucraini (SBU) sembrano allargarsi anche a magistratura, vertici militari ed esponenti politici.

Il 17 luglio il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha licenziato il capo del Servizio di sicurezza nazionali (SBU), Ivan Bakanov, e la procuratrice generale, Irina Venediktova in base dell’articolo 47 della Carta disciplinare delle forze armate ucraine. L’articolo recita che un ufficiale o un funzionario può essere rimosso per “mancato esercizio delle funzioni, che ha provocato vittime umane o altre gravi conseguenze” o ha creato situazioni tali da poter portare a queste conseguenze.

Circa Bakanov, il presidente ha dichiarato che “questa persona è stata licenziata da me all’inizio dell’invasione su vasta scala e, come si può vedere, tale decisione era assolutamente giustificata”, ha dichiarato il presidente ucraino. “Sono state raccolte prove sufficienti per la notifica, a questa persona, di sospetto tradimento. Tutte le sue azioni criminali sono documentate.

Tutto ciò che ha fatto in questi mesi e anche prima riceverà un’adeguata valutazione legale. Il presidente ha aggiunto che “saranno ritenuti responsabili anche tutti coloro che assieme a lui facevano parte di un gruppo criminale che ha lavorato nell’interesse della Federazione russa”. Il riferimento è al passaggio di informazioni segrete al nemico e ad altre forme di collaborazione coi servizi speciali russi. “Sono state prese decisioni sul personale nei confronti dei capi regionali del settore della sicurezza Kherson, Kharkiv.

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Il presidente ucraino ha reso noto che sono stati avviati 651 procedimenti criminali per tradimento e collaborazionismo. “In particolare, oltre 60 impiegati dell’ufficio del procuratore e dell’SBU sono rimasti nel territorio occupato e stanno lavorando contro il nostro Stato”.

Queste rimozioni hanno dato il via a “purghe” che starebbero colpendo molti ufficiali dello SBU accusati di collusione con i russi nelle zone occupate dalle truppe russe e dai secessionisti del Donbass accompagnati da rastrellamenti in tutte le aree a ridosso del fronte (quindi Mikolayv, Odessa, Kharkhiv, Dniptro, Zaporizhzhia e altre regioni dove la precisione dei raid missilistici russi (soprattutto contro i depositi di armi e munizioni giunte dall’Occidente) induce gli ucraini a ritenere vi siano molti “collaborazionisti” tra i civili e i funzionari pubblici.

Rastrellamenti e rappresaglie nei confronti di “collaborazionisti” o supposti tali erano già stati segnalati nelle aree intorno a Kiev e Sumy da dove le truppe russe si erano ritirate a fine marzo .

Oggi l’SBU ha reso noto di aver identificato “tutti i collaboratori che si sono uniti alla direzione principale del Ministero degli affari interni della regione di Kherson creata dall’amministrazione dell’occupazione. Sono stati raccolti i dati di ciascun collaboratore, documentata l’attività criminale e stabilite posizioni e movimenti: 26 rappresentanti del dipartimento regionale del Ministero degli Affari Interni che si nascondono nel territorio temporaneamente occupato della regione di Kherson, hanno già ricevuto avvisi di garanzia. 14 di loro sono ex dipendenti della polizia nazionale”.

Zelensky aveva annunciato nei giorni scorsi il licenziamento di altri 28 membri dell’SBU, epurazione che potrebbe indicare che qualcosa di grave sta succedendo a Kiev anche se le voci diffusesi nei giorni scorsi di un tentato golpe e attentato contro il presidente non hanno trovato conferme.

Oggi il presidente ha cacciato  Ruslan Demchenko, primo vice segretario del Consiglio di Sicurezza e Difesa Nazionale già accusato dal giornalista ucraino Yurii Butusov di essere un agente russo.

Diverse le possibili interpretazioni della situazione attuale: Zelensky potrebbe voler punire i vertici dei servizi di sicurezza a causa del pessimo andamento della guerra e soprattutto per l’elevato numero di civili che restano nelle zone interessate dall’avanzata russa.

Non si può escludere che il presidente cerchi capri espiatori per giustificare gli insuccessi recenti e quelli forse imminenti, oppure che punti a consolidare il suo potere rimuovendo periodicamente funzionari divenuti troppo potenti e quindi potenzialmente pericolosi.

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Al di là del linguaggio propagandistico e della retorica sull’unità nazionale contro l’invasore, non va dimenticato che il conflitto in corso è anche una guerra civile con parte della popolazione delle regioni orientali e oltre 50 mila combattenti ucraini schierati al fianco dei russi.

Da quanto apprendiamo da fonti ucraine, in molti negli ambienti militari, di sicurezza e politici di Kiev trovano sempre di più ingiustificato combattere, subire ampie perdite e vedere devastata l’intera Ucraina nel vano tentativo di mantenere il controllo su Donbass e altri territori dove gran parte della popolazione guarda con ostilità (ricambiata) a Kiev.

Un accordo con i russi porterebbe alla perdita di almeno il 25 per cento del territorio nazionale ma consentirebbe all’Ucraina di sopravvivere e di puntare a ricevere aiuti militari dalla NATO ed economici dalla UE in vista di una possibile adesione a quest’ultima organizzazione.

Per evitare contestazioni Zelensky ha già messo fuorilegge 12 partiti, incluso quello Comunista a cui sono stati confiscati beni mobili e immobili: di fatto ogni forma di opposizione viene gestita con le leggi entrate in vigore dopo l’inizio della “operazione speciale” russa in Ucraina come “tradimento” e “complicità con gli invasori” anche se in molti casi il sospetto è che si tratti di una faida tra Zelensky e l’ex presidente Petro Poroshenko a cui da fine maggio sembra venga impedito di lasciare l’Ucraina.

Le recenti purghe sono state accolte con sarcasmo a Mosca dove la portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, sul suo canale Telegram ha commentato che “la denazificazione è in pieno svolgimento”.

Del resto le citate rimozioni sono solo le ultime in ordine di tempo di una lunga serie. Il 18 luglio è stata rimossa dal Parlamento la ministra per le Politiche sociali Maryna Lasebna, mentre è stato arrestato l’ex capo del servizio di sicurezza in Crimea Oleh Kulinich.

Recentemente era stato rimosso il difensore civico Lyudmila Denisova (considerata politicamente vicina a Poroshenko) licenziata con l’accusa di inventare reati falsi o di aggravarne altri.

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Nei giorni scorsi Zelensky aveva licenziato il capo dell’SBU di Kharkiv, Roman Dudin mentre il 28 giugno era stato rimosso il capo dell’amministrazione militare regionale di Kherson, Hennadii Lahuta e il vice ministro per il Digitale Senik Dmytro Yurievic.

Il 14 giugno era stato licenziato il capo dell’amministrazione militare di Chernivtsi e al capo dell’agenzia dei Progetti per le infrastrutture Kryvoruchko Olena. A fine marzo era stata la volta del capo del dipartimento sicurezza interna Andriy Olehovych Naumov e il capo dell’SBU a Kherson (città conquista rapidamente dai russi a fine febbraio), Serhiy Oleksandrovych Kryvoruchko.

Per tutti l’accusa è di tradimento. Le ‘purghe’ di Zelensky non hanno risparmiato neppure il corpo diplomatico: il 25 giugno il presidente ucraino aveva rimosso dal loro posto gli ambasciatori di Georgia, Slovacchia, Portogallo, Iran, Libano. Il 9 luglio era stata invece la volta degli ambasciatori in Germania, Ungheria, Repubblica Ceca, Norvegia e India.

Un parlamentare vicino all’ex presidente Poroshenko (nazionalista e ostile alla Russia), Oleg Sinyutka, ha dichiarato in parlamento che “il paese sta scivolando gradualmente verso una forma di governo dittatoriale” come riporta l’agenzia Adnkronos anche se tali valutazioni vengono solitamente ignorate dalla gran parte dei media occidentali, sempre più “militanti”.

Al di là delle comprensibili esigenze di mantenere la compattezza in una nazione in guerra, va rilevato che l’Ucraina neppure prima dell’attacco russo brillava per democrazia e trasparenza, come abbiamo recentemente illustrato su Analisi Difesa citando le classifiche stilate da importanti centri studi internazionali.

Foto Ministero della Difesa Ucraino

 

https://www.analisidifesa.it/2022/07/smettiamo-di-fingere-di-non-essere-anche-noi-in-guerra-contro-la-russia/

Smettiamo di fingere di non essere anche noi in guerra contro la Russia

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C’è una immagine che continua a tornarmi alla mente ogni volta che si parla del terribile scontro in atto fra la Russia e l’Ucraina, nonché del ruolo, ad esso strettamente connesso, che viene svolto in questo periodo dagli Stati europei.
L’immagine è purtroppo quella manzoniana dei capponi che Renzo Travaglino porta in regalo all’avvocato Azzeccagarbugli e che, benché legati a testa in giù e chiaramente avviati ad un triste destino, continuano, incapaci di fare altro, a beccarsi ferocemente fra di loro.

È una immagine che si fa poi ancora più vivida quando dalla condizione Europea si passa ad esaminare quella di una Italia che a tutt’oggi continua imperterrita ad adottare moduli di comportamento, soprattutto politici, già discutibili allorché le cose andavano bene ad assolutamente inaccettabili per chi invece si trova nel bel mezzo di una guerra.

Anche se non vogliamo ammetterlo ufficialmente e ci appigliamo ad ogni bizantinismo disponibile per negarlo, è infatti l’Occidente, l’intero Occidente in tutte le sue componenti e non soltanto l’Ucraina, che sta combattendo contro la Russia in questo momento.

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Si tratta di un fatto di cui il nostro avversario si è reso pienamente conto, come ci ricordano ogni giorno le sue azioni sul terreno, le sue scelte in ambito internazionale ed infine le dichiarazioni, sempre in quel senso, dei suoi esponenti politici di rilievo.

Anche se Il Presidente Putin fosse pazzo – e non lo è – vi sarebbe sempre da riconoscergli una adamantina coerenza perlomeno nel mantenere questo atteggiamento.

Dall’altra parte invece noi abbiamo adottato un comportamento schizofrenico , tirando il sasso ma cercando nel contempo di nascondere la mano, forse sperando che il tutto possa alla fine risolversi in una limitata ” proxy war ” , vale a dire in uno scontro che si esaurisca entro i confini dell’unico stato della nostra parte per il momento direttamente coinvolto e comporti invece per la grande maggioranza di noi soltanto uno sforzo di supporto , che potrà magari rivelarsi molto oneroso sotto molti aspetti ma non ci costerà  mai quell’insieme di lutti, rovine e lacrime che produce un vero conflitto.

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È abbastanza logico che ciò avvenga, considerato come, sulla scia degli Stati Uniti, anche l’Europa avesse finito nei decenni successivi al crollo del Muro di Berlino con l ‘adottare progressivamente un sistema di confronto bellico che limitava il vero intervento dell’Occidente soltanto all’erogazione del fuoco e ad altri compiti connessi al suo elevato livello tecnologico, lasciando invece invariabilmente a sole forze locali il privilegio di scendere sul terreno, di combattere ….e di conseguenza di morire.

Così nella ex Jugoslavia ci siamo prima battuti contro i Serbi lasciando che fossero i Croati ad affrontarli da soli sul terreno, poi più a sud abbiamo utilizzato i Kosovari, ma curandoci bene di non mettere un solo “boot on the ground ” sino alla firma della tregua.

DONETSK REGION, UKRAINE - MAY 22, 2022: Servicemen of the People's Militia of the Donetsk People's Republic at a military vehicle in Mariupol which is controlled by the Donetsk People's Republic. Tension began to escalate in Donbass in February 2022. The Russian Armed Forces are conducting a special military operation in Ukraine following requests for assistance from the leaders of the Donetsk People's Republic and Lugansk People's Republic. Vladimir Gerdo/TASS Óêðàèíà. Äîíåöêàÿ îáëàñòü. Ìàðèóïîëü. Âîåííîñëóæàùèå Íàðîäíîé ìèëèöèè ÄÍÐ ó âîåííîé òåõíèêè. Â îòâåò íà îáðàùåíèå ðóêîâîäèòåëåé ðåñïóáëèê Äîíáàññà ñ ïðîñüáîé î ïîìîùè Âîîðóæåííûå ñèëû ÐÔ ïðîâîäÿò ñïåöèàëüíóþ âîåííóþ îïåðàöèþ íà Óêðàèíå. Âëàäèìèð Ãåðäî/ÒÀÑÑ

In Afghanistan infine l’onore di travolgere i talebani dopo gli attentati delle Torri Gemelle + stato lasciato ai  tagiki, agli uzbeki, agli hazara e alle altre minoranze della “Alleanza del Nord”, mentre la NATO ha scelto di entrare nel quadro soltanto in un momento decisamente successivo, allorché sembravano esistere  ragionevoli speranze di ricostruire il paese in tempi accettabili.

Questo significa che anche nel conflitto in atto  noi saremmo disposti a combattere ” sino all’ultimo soldato ucraino ” e non oltre?  Un timore che sempre più di frequente comincia a trasparire dai discorsi del Presidente Zelensky.

Probabilmente se potessimo lo faremmo e forse questa era l’idea iniziale di molti dei protagonisti coinvolti, ivi compresa una Italia che almeno a parole si incancrenisce in quel rifiuto della “guerra come mezzo di soluzione delle controversie internazionali” sancito dalla nostra Costituzione al punto tale da rifiutare di rendersi conto di alcune delle realtà che ha vissuto o da camuffarle, se del caso, sotto circonlocuzioni giuridiche estremamente precise soltanto nel non dire nulla.

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Così siamo andati alla prima guerra del Golfo nel quadro di “una operazione di polizia internazionale condotta sotto l’egida delle Nazioni Unite per il ripristino della sovranità kuwaitiana”, mentre successivamente, prima nel caso del Kosovo, poi in quello della Libia, la parola “guerra ” non è stata mai pronunciata e almeno in una occasione il Governo Italiano è arrivato a negare anche un coinvolgimento delle nostre forze che in effetti invece era avvenuto.
Rifiutare di accettare di essere in realtà coinvolti in una grande guerra anche questa volta è molto più difficile, anche se forse non del tutto impossibile, almeno per qualche tempo ancora.

Sta comunque divenendo progressivamente sempre più chiaro come questo non sia solo un conflitto limitato che abbia come posta la definizione delle frontiere della Ucraina ma si configuri invece come l’inizio di un cambiamento epocale destinato a condizionare in maniera diversa da quella attuale i futuri equilibri di potere del mondo.
Come tale esso è uno scontro di giganti che assume sempre di più, giorno dopo giorno una configurazione in tal senso.

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Ricordate quali fossero sino a pochi anni fa i “rogue states”, ossia le nazioni considerate dall’Occidente come “Stati canaglia “?

Erano la Corea del Nord, l’Iran, lo Yemen, la Siria, la Libia, tutti paesi di limitato rilievo, con l’unica eccezione dell’Iran.  Ora, come indicato dagli USA e confermato di recente dal nuovo Concetto Strategico approvato a Madrid dalla Nato, sono invece la Russia, la Cina e un Iran cui pare riservato il privilegio di essere sempre presente in liste di questo genere.

Inoltre la guerra non è più soltanto quella di un tempo, vale a dire la guerra guerreggiata da combattere con il fucile in mano, l’elmetto in testa e le bombe a mano nel tascapane.

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Si tratta invece di un fenomeno ben più complesso, che va sotto il nome di “guerra ibrida ” ed investe tutti i settori in cui un attacco comunque condotto potrebbe indebolire l’avversario, anche soltanto potenziale.

Nel complesso si tratta di un tipo di Guerra in cui già da parecchio tempo la Russia si è scelta l’intero Occidente come avversario, scatenando offensive informatiche mirate, corrompendo, uccidendo, cercando di falsare i risultati di democratiche elezioni. Siamo in guerra da tempo dunque: una guerra non dichiarata ma nel contempo estremamente dura, guerra per la sopravvivenza ….quella guerra che con una visione ben più precisa della nostra il Santo Padre aveva da tempo individuata e definita come ” una guerra mondiale a pezzi”.

Come se ciò non bastasse da quando abbiamo iniziato a sostenere l’Ucraina fra noi e la Russia sono intercorsi una serie di atti che non sono certo stati di cortesia e che in altri tempi avrebbero costituito un preciso ed inequivocabile casus belli.

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Abbiamo deciso contro Mosca una pesantissima serie di sanzioni economiche? Non dimentichiamoci che anche se gli USA tendono a passare la cosa sotto silenzio l’attacco di Pearl Harbour altro non fu che la reazione di Tokyo ad analoghe sanzioni decise da Washington nei riguardi del Giappone.

Da tempo poi vi è un flusso continuo di armi, munizioni, materiali ed istruttori che parte dai nostri paesi ed è diretto in Ucraina. Per tacere poi dei volontari che vanno nella medesima direzione senza essere minimamente ostacolati … e c’è da chiedersi quanta parte del famoso “Battaglione Azov” fosse composta da cittadini dei nostri paesi.
Si aggiunga a questo una efficace, articolata ed onnipresente attività informativa che dal locale, al tattico ed allo strategico copre tutti i settori di interesse delle forze ucraine ed il quadro del nostro pressoché totale coinvolgimento diverrà completo.

Possiamo quindi ancora sostenere con un filo di logica di non essere in guerra? Di sicuro no, e sarebbe probabilmente bene che anche noi arrivassimo ad accettare in pieno questa scomoda verità. Se non altro per essere pronti domani ad affrontarne eventualmente le sgradite conseguenze!

Foto: Ministero della Difesa Ucraino, Ministero della Difesa Russo e TASS

LA DIS-INTEGRAZIONE DELLE STELLE, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA DIS-INTEGRAZIONE DELLE STELLE

Le ultime vicende del Movimento 5 stelle, ridotto, da quel che risulta, a meno di un quarto dei suffragi conseguiti nel 2018 e afflitto da una continua emorragia di parlamentari (ormai rimasti a circa la metà degli eletti alle ultime politiche) in tutte le forme (dimissioni, scissioni, allontanamenti, ecc.), induce a fare qualche considerazione, che non ha l’ambizione di essere esauriente, ma piuttosto di evidenziarne (qualche) concausa. Questo partendo da alcune regolarità e costanti della politica. A cominciare da Machiavelli, il quale, nel Principe, scrive delle difficoltà dei principi “nuovi”, che più per fortuna che per virtù hanno ottenuto il potere “non sanno e non possano tenere quel grado: non sanno, perché, se non è uomo di grande ingegno e virtù, non è ragionevole che, sendo sempre vissuto in privata fortuna, sappi comandare; non possano, perché non hanno forze che gli possino essere amiche e fedeli”. E che i governanti 5 Stelle fossero degli inesperti era vanto degli stessi ed occasione d’ironia dei loro (tanti) avversari. Parimenti è vero che nella loro ascesa al potere vi sia stata più fortuna che virtù, perché insistere sulla crisi che attanagliava e attanaglia l’Italia, governata da una classe dirigente decadente, è facile: si attacca chi è poco difendibile.

La lunga serie di “no” esibiti dal movimento prima del 2018 era corroborato dalla contraria opinione e pratica delle élite, le quali né autorevoli né legittime proprio per tali loro qualità asseveravano a contrario i “no”, spesso contraddittori o ingiustificati, dei grillini. Ma tale vantaggio è venuto meno – più che altro si è ridotto – una volta andati al governo: la necessità di scelte ha costretto a ridimensionare radicalmente il dissenso, e quindi il consenso che ne conseguiva.

Ma in particolare occorre valutare il giudizio di Machiavelli sulla “forze amiche e fedeli” che (non) sostengono il principe nuovo (e “fortunato”). Il genio di Machiavelli individua così i limiti dei politici – e governanti – improvvisati, spinti su dalle circostanze, più che da una reale capacità e applicazione, nell’ “inesperienza” e nella mancanza di “seguito” da intendersi nel senso weberiano del rapporto tra capo e “fedeli” (“forze amiche e fedeli”)”.

E tra le forze amiche e fedeli occorre distinguere due categorie: gli aiutanti, cioè i collaboratori del vertice politico, e gli elettori. All’uopo può servire quanto sosteneva, per gli Stati, ma applicabile (in larga parte) a tutti i gruppi politici, un acuto giurista come Rudolf Smend. Questi sosteneva “l’integrazione è un processo di vita fondamentale per ogni formazione sociale nel senso più lato. Questa, in prima analisi, consiste nella produzione o formazione di unità o totalità a partire dagli elementi singoli, cosicché l’unità ottenuta è qualcosa di più della somma delle parti unificate”, ogni gruppo politico realizza necessariamente attraverso l’unione delle volontà dei componenti, l’integrazione; la quale, secondo Smend, può distinguersi in materiale, funzionale o personale; e in genere è, in proporzione diversa tra loro, tutte e tre le cose insieme. Se si riscontra la rilevanza e l’esistenza delle suddette forme d’integrazione nel M5S, se ne avverte la carenza.

L’integrazione personale è quella suscitata dalla forte considerazione della personalità del capo. Ma a concedere che il capo fosse uno (è dubbio) è chiaro che il M5S ne ha cambiati diversi, da Casaleggio a Di Maio, da Crimi (??) a Conte. Fermo sullo sfondo Grillo.

Al contrario di Forza Italia, fondata sul forte (un tempo) richiamo aggregante di Berlusconi e della sua storia di successo, nessuno dei “capi” 5S ha costituito un forte elemento di integrazione personale.

Né è migliore l’impressione che si può ricavare dall’integrazione funzionale, la quale consiste nelle attività e procedure di partecipazione alla decisione – e alla direzione – politica: elezioni, referendum, congressi, manifestazioni, assemblee “Nella vita di ogni struttura le procedure di decisione e discussione sono – come scriveva Smend – prevalentemente indirizzate alla formazione della volontà comune: così il gruppo realizza la propria unità come unità di volontà, indirizzata a scopi comuni… la partecipazione, anche meramente consultiva, al processo decisionale permette sia di sondare gli umori della base sia, soprattutto, di coinvolgerla nella decisione e nell’azione”. Nei partiti “tradizionali” con prevalente organizzazione territoriale (per lo più a carattere democratico) sono l’elezione dei dirigenti e la discussione nei vari organi a rivestire il ruolo maggiore.

Nel movimento si è parlato spesso di piattaforma digitale, d’iscritti, , ma a parte la non chiarezza del tutto, è sicuro che:

  1. a) le procedure suddette sono da millenni di competenza di assemblee: dall’Agorà ateniese ai Soviet della rivoluzione d’ottobre, a decidere era un insieme di partecipanti riunito collettivamente, e non un singolo davanti ad un computer.
  2. b) Per quanto ci riguarda c’è l’interrogativo: può produrre – e quanta – integrazione nel gruppo un iscritto che a casa sua decida se Caio deve fare il Ministro e Sempronio l’assessore? Probabilmente se il giudizio è rispettato qualche effetto integrativo lo può avere, ma assai modesto rispetto alla decisione in praesentia. In secondo luogo diverse sentenze hanno giudicato non democratiche o poco democratiche norme e pratiche interne del M5S. Non è il caso di insistervi, ma occorre prenderne atto.

Infine l’integrazione materiale, intesa come fede comune in determinate idee e valori, in una visione condivisa del mondo. Ma il cartello di “no” del M5S serviva bene ad identificare il nemico ma assai male a fidelizzare l’amico. Oltretutto una volta al governo è stato costretto a compiere scelte destinate a scontentare parte dei “no”. Ancor più se a partire dal governo Conte bis, il M5S si alleava col PD, maggiore espressione dell’establishment destinatario dei “no”.

Se è vero quanto scriveva Smend, che l’unità politica è un processo, un divenire dinamico (Schmitt) realizzata in un’unione di volontà, non c’è da stupirsi che l’unione di volontà non vi sia né tra vertice e base né all’interno del vertice. Con la conseguenza di scissioni, dimissioni, ecc. Dei vecchi partiti ideologici della Prima Repubblica si è detto tutto il male possibile (e anche di più) ma fenomeni di decomposizione erano eccezionali e limitati per lo più a reali differenze ideali e politiche, come quelle tra seconda e terza internazionale.

Ma se il “collante” delle idee è tenue o inesistente, l’unione di volontà non si realizza o se si realizza lo è in modo debole e transitorio. Non era solo la disciplina a generare il partito “classico”, fino all’ “Ordine dei Portaspada” di Stalin, ma ancor di più la comunanza di ideali (ed obiettivi).

Attorno a quel che resta del M5S si aggirano i (soliti) megafoni delle élite. Con la logica che li contraddistingue qualcuno proclama la crisi del populismo basandosi sull’equazione Populista=M5S ergo crisi dei M5S=crisi dei populisti. Dimenticando che, a parte quel che succede all’estero, dal 2018 (al più tardi) l’elettorato anti establishment italiano è largamente e costantemente superiore al 50% dei suffragi espressi e che la crisi del M5S non ha giovato ai partiti di regime (PD in primis) ma ha solo trasferito gran parte dell’elettorato anti-élite ad altri due partiti anti-establishment come la Lega e FdI.

Onde il calo del M5S non è dovuto al tramonto del populismo, ma, in larga parte, al dissolversi dell’ “unione di volontà” tra vertice e base elettorale e l’evaporazione a tous azimouts dell’(irrisolta e tenue) identità del movimento.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

IL RITRATTO DI ITALIAN GRAY, di Pierluigi Fagan

IL RITRATTO DI ITALIAN GRAY. Conoscerete la trama del famoso romanzo di Oscar Wilde in cui un tizio ottiene di rimanere giovane e bello purché non si specchi mai verificando così che la sua immagine reale è quella di un vecchio incartapecorito. Noi italiani, da trenta anni, funzioniamo nella stessa maniera.
Nello specchio c’è la nostra classe politica, lì in pubblico stante l’ampia classe dirigente che gli fa da coorte e non appare. Noi italiani siamo i giusti, giovani, belli, saggi che per lo più si fanno i fatti loro, individualmente o per famiglie o per bande, salvo talvolta incrociare qualche specchio e rimanere disgustati dall’orribile riflesso. Ma non capiamo che quello che vediamo è il nostro riflesso, pensiamo sia qualcun altro che ha preso il nostro legittimo posto.
Noi italiani siamo diventati una massa informe di gente che ha l’intestino al posto del cervello, con tutte le conseguenze della metafora in termini di fori eiettivi.
Quattro anni fa, vinse le elezioni una inedita forza politica che molti hanno salutato come il necessario superamento della vetusta dicotomia “destra-sinistra”, un trucco per dividere il popolo. Oggi, molti degli eletti sono in un vasto arco di forze politiche che vanno dall’estrema sinistra alla destra, ieri una deputata è andata addirittura con Renzi. Perché? Perché presupporre ci sia un modo di decidere sulle cose di governo di un Paese che sia “popolare” è una illusione pari a quella che esista un modo di deciderle giusto perché “tecnico”. I popolari (non uso qui populisti per disgusto epistemico verso il termine, poi vi sarò costretto per ragioni di pubblico intendimento) e i tecnicisti si corrispondono, sono illusioni politiche figlie della confusione vastamente diffusa e non figlia del long-Covid che gli è successivo.
In Italia abbiamo una destra post-fascista nel senso che non è fascista ma sentimentalmente non è poi così critica verso quella esperienza. In effetti non la conosce affatto, non è un giudizio di merito, è un giudizio confuso anch’esso, come quelli che palpitano a vedere bandiere con falce e martello nel Donbass, un giudizio sentimentale, una identità non precisa ma dal vago sapore, una parentela di quinto grado, ma pur sempre una parentela.
Poi abbiamo una destra popolare, a metà tra un partito di destra con venature sociali ed uno non saprei dire se non che deriva da un posizionamento cultural-geografico legato al Nord (?) poi apertosi ad istanze “populiste”. Una di quelle pietanze con decine di verdure fatte a lungo a cuocere assieme così che alla fine non sa di niente pur essendo fatta di tutto. C’è chi ha studiato alla Bocconi o chi rappresenta la piccola-media imprenditoria che opera dentro la catena del valore tedesca e chi ha fatto fortuna scrivendo libri avvelenati contro l’euro e l’Europa e la Germania. Antistatalisti, quindi fondamentalmente liberisti, ma sovranisti ma anche un po’ euristi, purché senza migranti e altre diavolerie post-moderne. Soprattutto senza mascherine.
Poi abbiamo una destra implicita, piccola borghesia che ha un solo interesse nella vita: poche norme e niente tasse, libertariana la si direbbe. Per lo più vota una forza politica inventata di sana pianta a tavolino da un signore multimiliardario con tre canali televisivi e qualche giornale, che è adorato come si adora l’idealtipo, l’eroe simbolico che assume in sé tutte le essenze bramate: soldi, figa e botox, barzelletta e risate, chiagni e fotti, un classico. Metà commedia dell’arte, metà “fatti li caxxi tui e goditi la vita”.
Poi abbiamo una destra conservatrice. In fondo “classica”, i valori fondamentali, l’ordine fondamentale, la tradizione fondamentale. Sono pochi o forse più che pochi meno del passato, ma tenaci, se non altro dal chiaro profilo che non va a mode ma a radici (tradizionale, appunto).
Poi abbiamo una destra che sarebbe già qualcosa se fosse solo liberale ma in realtà non discende propriamente dal liberalismo politico che non ha alcuna tradizione nel Bel Paese. A volte si abbina a forme liberali che chiamano “progressiste” creando così una parziale sovrapposizione con certa sinistra nominale che ha perso il significato del termine, spostandosi verso il liberalismo che di suo ha in effetti un campo molto largo che va da Hayek a Stuart Mill. Non avendo però alcuna reale competenza politica ma scimmiottando posizione politiche di ben altra levatura in Europa o Gran Bretagna, a volte si rende conto di non saper che pesci pigliare e quindi propende per il “governo dei tecnici”, come ci fosse un modo solo “tecnico” di prender decisioni politiche, un assurdo mai verificatosi o tale teorizzato in duemila anni e passa di filosofia politica occidentale. Ma a loro questa cosa piace in particolare poiché anelano il “Nuovo” come una volta si anelava il “Giusto”, che per loro sono sinonimi.
C’è poi un centro. Il centro è una posizione geometrica ovvero il luogo intermedio tra una destra ed una sinistra. Il loro vantaggio è prender o non prender il meglio o il peggio dei due mondi, ma senza averne fatta sintesi effettiva, non hanno teoria, hanno solo l’istinto a mettersi nel mezzo quando forze opposte spingono di qui e di là. Nell’ansia che crea il conflitto e la disputa sul dover prender decisioni, loro sono l’ansiolitico, né-né o sia-sia, sono “emergenti” dal conflitto di paradigmi, non hanno consistenza autonoma e quindi galleggiano con la leggerezza del sughero. Inaffondabili.
Poi c’è un centro-sinistra simmetrico l’altro centro-destra ovvero le due categorie paradossali della tradizione politica anglosassone che però ci si dimentica esser interna ad imperi. Avere un impero migliora molto la competizione tra classi sociali così si davano due modi, un po’ più conservatori o un po’ più liberali di declinare il bottino. Questo “centro-sinistra” è in realtà un “liberalismo di sinistra stuartmilliano” (ma dato che in Italia, come detto, non si conoscono i fondamentai plurali della composita tradizione liberale, nessuno se ne rende conto e si continua ad usare una etichetta sbagliata) che invero, di sinistra non ha che tracce, a volta solo sentimentali ma sempre più sbiadite ancorché vergognose e ultra-minoritarie.
Poi c’è una sinistra che per lo più non ha partito e stante che di tradizione era solita averne qualche decina poiché il settore è molto litigioso al suo interno e pieno di sfumature che si ritengono esiziali e decisive quando il resto del quadro politico va sempre più dall’altra parte. Ma poiché questa tradizione fa più riferimento agli ideali declinati in opere scritte di un secolo e mezzo fa che alla realtà e poiché ha perso ogni facoltà di salvare un nocciolo della posizione politica da rideclinare in concreto in un mondo nel frattempo piuttosto cambiato che non comprendono, è indifferente alla deriva. L’anagrafe ne sta falcidiando le fila e fra un po’ rimarrà solo il ricordo o una confusa “nostalgia canaglia”.
Infine, c’è una quasi-sinistra dalle ambizioni popolari senza però una chiara percezione di cos’è davvero oggi il popolo italiano, né il mondo. Soprattutto dedita a recitare il mantra penitenziale “non c’è più la destra e la sinistra”, per celare la propria identità di cui ha introiettato la vergogna visto sia le confuse manifestazioni pubbliche del concetto (del centro-sinistra che in realtà è un liberalismo progressista, della sinistra teorica surreal-patetica) e visto il bombardamento trentennale delle destre che ne hanno ridicolizzato le aspirazioni in un mondo che “non è più quello di una volta”. Essa è contro per principio ma quando è a favore, è a favore di cose per lo più irrealizzabili o a scadenza pluri-decennale, così quando fa opposizione va tutto bene, semmai ha la ventura di dover governare qualcosa non sa bene che pesci prendere anche perché la complessa realtà coi suoi attriti disordinati e contradditori le sfugge.
Quest’ultima e la precedente, condividono l’assoluta mancanza di cognizione su cosa dovrebbe esser una democrazia. I primi perché a lungo flirtanti col romanticismo rivoluzionario, i secondi perché attratti della teoria populista che si farebbe fatica a definire una vera e propria teoria, ma di questi tempi nessuno se ne accorge, è “nuova” e quindi sembra idonea per simpatia a corrispondere alla novità dei tempi.
Così questa Italia fatta da persone assai confuse che scambiano qualche scabroso pseudo-leader per la parte di popolo che l’ha votato, per quanto in condizioni oggettive sempre più precarie o negative (non tutti, c’è una piccola Italia che è sempre più ricca e gode di tale confusione che alimenta attivamente tramite i super-media e i circuiti di riproduzione culturale di cui è proprietaria o su cui ha influenza decisiva, quell’Italia che ha i soldi che però a nessuno viene in mente di andargli a prendere, per carità, il problema è altrove -euro-UE-neoliberismo-globalismo-capitalismo-postmodernismo altri oggetti della mente teorizzante), andrà a votare chissà cosa, pensando cosa, aspettandosi cosa. Andrà a votare più spesso contro qualcuno che non a favore di qualcosa.
Dati i presupposti confusi, ci sarà un po’ di confusione, poi tutti si renderanno conto che “così non si può più andare avanti” non poi perché si avrà un soprassalto di lucidità realista ma perché ci sarà qualche ricatto concreto che metterà di fronte a situazioni imbarazzanti, ed alla fine si invocherà a maggioranza il fatidico “fate funzionare le cose, per Diana!”. E si tornerà così a qualche forma di tecnicismo di unità nazionale, ma quantomeno senza la solfa del “non ci fanno votare” poiché lo avremo appena fatto.
Potremo tornare così all’adorato specchio delle nostre brame a chiedere sul chi è il meglio del reame, sputando sull’orrenda immagine di quell’estraneo che non riconosciamo nostro.

Una storia di due accordi sul gas: Azerbaigian-UE e Russia-Iran, di Andrew Korybko Analista politico americano

21 LUGLIO 2022

Una storia di due accordi sul gas: Azerbaigian-UE e Russia-Iran

Alcuni osservatori hanno ipotizzato che Baku sia in competizione con Mosca, ma questa interpretazione o ignora ciò che il presidente Aliyev ha detto ai media russi durante il suo viaggio a Mosca il giorno prima dell’inizio dell’operazione militare speciale in corso del suo ospite in Ucraina, oppure coloro che condividono questo punto di vista semplicemente non ne sono a conoscenza.

La scorsa settimana sono stati raggiunti due importanti accordi sul gas: quello dell’Azerbaigian con l’UE e quello della Russia con l’Iran . Il primo menzionato vedrà questo paese del Caucaso meridionale raddoppiare le sue esportazioni di gas verso il blocco per raggiungere i 20 miliardi di metri cubi entro il 2027, mentre il secondo ha portato la Grande Potenza eurasiatica a impegnarsi a investire fino a 40 miliardi di dollari nella Repubblica islamica. Alcuni osservatori hanno ipotizzato che Baku sia in competizione con Mosca, ma questa interpretazione o ignora ciò che il presidente Aliyev ha detto ai media russi durante il suo viaggio a Mosca il giorno prima dell’inizio dell’operazione militare speciale in corso del suo ospite in Ucraina, oppure coloro che condividono questo punto di vista semplicemente non ne sono a conoscenza.

Il leader azero ha rassicurato i suoi interlocutori russi di non avere tali intenzioni nei confronti delle forniture di gas all’UE, rimarcando che “penso che qui non si parli di concorrenza, i volumi non sono comparabili, ma è chiaro che anche piccoli volumi a volte possono fare la differenza nel mercato del gas. Per evitare ciò, siamo pronti e stiamo lavorando con la parte russa in questa direzione”. Nonostante i tempi concomitanti di questi due importanti accordi sul gas siano casuali, emanano comunque l’ottica del coordinamento, non della concorrenza. In parole povere, l’Azerbaigian sta sostituendo le risorse russe che l’UE prevede di eliminare gradualmente sotto la pressione degli Stati Uniti, mentre la Russia sta sostituendo quel mercato perduto con quello dell’Iran.

Questo in realtà non è nemmeno così male come “scambio”, per mancanza di una descrizione migliore. L’Azerbaigian è molto più piccolo della Russia, quindi il suo governo può reinvestire i profitti derivanti dalle sue raddoppiate vendite di gas all’UE per aiutare una percentuale maggiore della sua popolazione. L’Iran, nel frattempo, possiede alcune delle più grandi riserve di gas del mondo, che possono essere sfruttate utilizzando la tecnologia russa e successivamente esportate nel mercato globale in coordinamento con Mosca. Nel loro insieme, si stima che queste due grandi potenze abbiano quasi un terzo delle riserve mondiali di gas, il che può portare alla creazione di un meccanismo simile all’OPEC (anche se solo informale) tra loro e forse anche il gigante del gas Qatar.

L’Azerbaigian non è in grado di fare nulla del genere, ma ciò non significa nemmeno che stia ottenendo l’estremità corta del bastone. Piuttosto, svolgendo un ruolo sempre più strategico nella sicurezza energetica dell’UE, questo stato ferocemente sovrano può scoraggiare preventivamente le ingerenze occidentali contro la sua leadership in virtù della sua ritrovata importanza per il blocco. Lo stesso si può dire anche di Turkiye per estensione, dal momento che il gasdotto transanatolico (TANAP) attraversa il territorio di quella Grande Potenza. Come il suo alleato azerbaigiano, è anche ferocemente sovrano e pratica una politica estera indipendente , con grande dispiacere dei suoi tradizionali partner occidentali. Per questo TANAP può tutelare anche i propri interessi.

Per quanto riguarda la Russia, non solo è pronta a sbloccare l’enorme potenziale energetico dell’Iran nei prossimi anni e forse anche a coordinarsi con esso attraverso un meccanismo simile all’OPEC, ma i suoi nuovi investimenti nella Repubblica islamica possono anche garantire la sicurezza energetica del loro partner indiano condiviso anche con i due. Queste tre grandi potenze si stanno impegnando congiuntamente per creare un terzo polo di influenza nell’attuale fase intermedia bipolare della transizione sistemica globale alla multipolarità , con il corridoio di trasporto nord-sud(NSTC) che rappresenta la manifestazione fisica di questo asse emergente, quindi è naturale che Iran e Russia diano la priorità all’esportazione di gas verso l’India rispetto all’arrivo sul mercato.

Il quadro più ampio in gioco è che sia l’UE che l’India stanno assicurando la loro sicurezza energetica a medio e lungo termine attraverso i principali accordi sul gas di questa settimana tra quel blocco e l’Azerbaigian da un lato e Russia e Iran (i due principali partner eurasiatici di Delhi) dall’altro. Ciò significa che tutto è in realtà reciprocamente vantaggioso per tutti i soggetti coinvolti, senza che nessuno di questi accordi avvenga a spese di nessun altro, il che è sorprendente considerando che qualcosa di così significativo come questi due sviluppi non è mai accaduto prima a pochi giorni l’uno dall’altro. Tutto ciò dimostra che il multipolarismo sta già incidendo sulle relazioni internazionali, anche all’interno della “ sfera di influenza ” degli Stati Uniti nell’UE.

https://oneworld.press/?module=articles&action=view&id=3093

LA TEMPESTA PERFETTA, di Marco Giuliani

LA TEMPESTA PERFETTA

Debito pubblico, inflazione, guerra: Draghi a casa, la parola ora passerà ai cittadini

 

Come era prevedibile, non da ora, Draghi è andato K.O. dopo una strisciante instabilità provocata da una serie di politiche improvvide, avventate, telecomandate sovente da Biden e dai falchi sparsi presso le sedi Nato e UE. Ma soprattutto, dopo aver relegato in secondo piano gli interessi di tutti quegli italiani, quelle imprese e quei soggetti più deboli (come i giovanissimi e gli anziani) che non riescono più a sopportare i contraccolpi di una crisi sistemica e di un potere d’acquisto che è crollato di almeno il 20%. La stessa percentuale dell’aumento dei beni primari, degli alimenti, dei carburanti e persino – udite udite – dei prodotti per gli animali. Una tendenza, per fortuna al momento in stand-by, che ha portato l’Italia sull’orlo dell’autoflagellazione economica. Una tempesta perfetta.

Ma qual è stata la condizione scatenante il crollo del governo dopo giorni di fibrillazioni, malumori e la spinta di un’inflazione galoppante che, come mezzo secolo fa, era il tempo della Guerra dello Yom-Kippur, sta poco a poco raggiungendo il 10% in termini percentuali? Certo la pandemia, certo la crisi internazionale, ma in primo luogo è stata la diplomazia italiana a sacrificare i bisogni della sua popolazione pur di obbedire agli ordini di Washington e di Bruxelles, le quali hanno scelto una politica iperaggressiva verso tutti quei paesi – in primis la Russia e la Cina – che ritengono estranei al loro sistema, al loro universo moralista e alla presunta superiorità ideale fondata esclusivamente su una mitologia costruita a tavolino in nome del liberismo più smaccato e globalizzante. Draghi e il suo esecutivo hanno scelto la guerra, non la pace. E lo hanno fatto all’insegna del “costi quel che costi”, spendendo miliardi e miliardi in armi, inasprendo sanzioni che agli Usa fanno il solletico e per cui l’unica vittima, ahimè, è divenuta la stessa Europa. Ne sa qualcosa la Germania, anche Lei ai limiti della crisi strutturale. Si è giunti a tanto, si suppone (ma è una supposizione più che fondata), per tutta una serie di interessi che nulla hanno a che fare con i doveri e i diritti di chi questo governo aveva l’onere di rappresentare e tutelare.

Draghi è un uomo-Nato, un uomo-Usa, e benché forte di un Parlamento sino a poche ore fa asservito tout-court e di un sistema mediatico (in buona parte di proprietà degli Agnelli-Elkann) per il 90% letteralmente prono ai capricci dell’esecutivo, non era nel modo più assoluto in grado di amministrare il soggetto Italia in un momento del genere. Perché un paese, ricordiamo ancora, fondamentalmente pacifista, ha urgente necessità di riforme che affrontino i temi sociali, l’evasione fiscale, la malasanità, i problemi della ricerca, della scuola e delle università, non soltanto i tornaconti di chi vuole mettere in un angolo le cosiddette “grandi autocrazie” planetarie per assorbirle negli ingranaggi delle proprie regole.

Il Parlamento italiano, ridotto ormai a un ufficio di ratifica e timbri, da almeno due anni a questa parte non ha rappresentato affatto la maggioranza dei cittadini e ciò per cui i partiti e i suoi delegati, dopo il 2019, NON vennero scelti. Ha preferito, Pd in testa, spendere soldi per acquistare missili Stinger da spedire agli ucraini anziché investire per risanare le strutture ospedaliere più malandate del Meridione. Ha fatto le veci NON del piccolo artigiano che rischia di fallire perché non riesce a sostenere i costi della sua impresa, dell’operaio in cassa integrazione con famiglia o dei lavoratori costretti a dimezzare la spesa al supermercato perché i prezzi lievitano, ma si è preoccupato di far tacere il dissenso, della moneta unica, dei grandi gruppi di potere, dei mezzi di produzione militare, dei diktat imposti da Bruxelles e dalla Casa Bianca. Mostrando, al cospetto della crisi, la stessa sensibilità di un elefante dentro un negozio di vetri di Murano. D’altra parte, chi proviene dalle scuole della Federal Reserve e della Goldman Sachs, come avrebbe potuto? Come sarebbe stato possibile trasformare i grandi banchieri da tecnici regolatori del capitalismo in gestori politici di crisi che loro stessi – per tenere il passo con i sistemi monetari intercontinentali – contribuirono a generare? Ma tu vagli a spiegare che non è il caso, se Dio vuole, di comprare materiali energetici da altri dittatori pagandoli il doppio, pur di fare un torto a Putin e obbedire agli ordini di nonno Biden.

Per fermare lo scempio della guerra ibrida intrapresa da Palazzo Chigi non sono bastati neanche, cosa sino a poco tempo fa impensabile, gli appelli disperati di un Papa che anzi, è stato ridicolizzato (e talvolta vilipeso) a mezzo stampa dai megafoni stonati degli atlantisti nostrani più agguerriti. Gli stessi personaggi – scrivani, portaborse e burocrati strampalati – che hanno contribuito a escludere i cittadini russi, in quanto russi, dalle manifestazioni musicali, culturali e sportive. Già, lo sport; il valore più sano (insieme allo studio) che una società liberale e moderna dovrebbe trasmettere alla sua comunità, ma che invece è stato vilmente utilizzato per creare nuovi motivi di scontro interculturale e politico. Il tutto, all’insegna del quod bellum iustum est.

Non sarebbero certo bastati (vero, Draghi?) un paio di bonus da 200 € per risolvere in modo strutturale una serie di gravissime falle di sistema provocate da quarant’anni di malagestione della cosa pubblica. Non è il caso di aggiungere altro. Ora si ricomincia, palla al centro.

 

MG

 

BIBLIOGRAFIA & SITOGRAFIA

 

Army Command and General Staff College,  Fort Leavenworth, Kansas, 1996 –

G.W. Gawrich, The 1973 Arab-Israeli War. The Albatross of Decisive Victory, Combat Studies Institute, U.S.

Sky TG24, edizione del 21/07/2022 –

Televideo Rai del 21/07/2022, pp. 120-130 –

www.manageritalia.it

www.ilpensierostorico.com

 

 

 

 

 

Il grande botto, di Giuseppe Masala

Manuale di sopravvivenza per espettare serenamente il Grande Botto.
1) Spegniamo la televisione;
2) Non compriamo i giornali;
3) Leggiamo lo Zauberberg di Mann, anche se non ci capiremo nulla impareremo comunque qualcosa: per esempio che non tutti siamo nati per essere filosofi e che fondamentalmente ci interessa altro.
4) Rifuggiamo dalle persone ad alto grado di mantenimento del proprio ego: chi ostenta vestiti, macchine e viaggi costosi. E soprattutto i peggiori, quelli che vanno in crociera.
5) Troviamoci una passione: uno strumento musicale, gli scacchi, la matematica. A libera scelta.
6) Non giudichiamo e non invidiamo. Impariamo ad apprezzare la solitudine come un momento di liberazione.
7) Rifuggiamo da idee strane, tipo voler salvare il mondo, troppi già lo fanno portandolo alla rovina.
8 ) Chi ha una fattoria con gli animali è già il Re del mondo. Se non l’abbiamo possiamo alternare sempre una visita ad una biblioteca ed una passeggiata nel bosco. Lo saremo lo stesso.
9) Boycottiamo il Sistema. E’ solo un’illusione a vantaggio di pochi. Alla fine che abbiamo da perdere? Berlusconi, la Gelmini, Brunetta, Letta, Conte? Tanto di guadagnato, o no?
10) Il Grande Botto non è detto che sia il male, anzi. Only the brave…

 

LO STATO DELLE COSE DELLA GEOPOLITICA, di Massimo Morigi _ 4a di 11 parti

AVVERTENZA

La seguente è la quarta di undici parti di un saggio di Massimo Morigi. Nella prima parte è pubblicata in calce l’introduzione e nel file allegato il testo di Morigi, nella sua terza parte è disponibile a partire da pagina 130. L’introduzione è identica per ognuna delle undici parti e verrà ripetuta solo nelle prime righe a partire dalla seconda parte.

PRESENTAZIONE DI QUARANTA, TRENTA, VENT’ANNI DOPO A LE
RELAZIONI FRA L’ITALIA E IL PORTOGALLO DURANTE IL PERIODO
FASCISTA: NASCITA ESTETICO-EMOTIVA DEL PARADIGMA
OLISTICO-DIALETTICO-ESPRESSIVO-STRATEGICO-CONFLITTUALE DEL
REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO ORIGINANDO DALL’ ETEROTOPIA
POETICA, CULTURALE E POLITICA DEL PORTOGALLO*

*Le relazioni fra l’Italia e il Portogallo durante il periodo fascista ora presentate sono
pubblicate dall’ “Italia e il Mondo” in undici puntate. La puntata che ora viene
pubblicata è la prima e segue immediatamente questa presentazione, e questa prima
puntata (come tutte le altre che seguiranno) è preceduta dall’introduzione alla stessa di
Giuseppe Germinario. Pubblicando l’introduzione originale delle Relazioni fra l’Italia
e il Portogallo durante il periodo fascista come prima puntata e che, come da indice,
non è numerata, la numerazione delle puntate alla fine di questa presentazione non
segue la numerazione ordinale originale in indice delle parti del saggio, che è stata
quindi mantenuta immutata, quando questa presente.

QUARTA PUNTATA STATO DELLE COSE

DIETRO L’UCRAINA/ I piani americani che hanno indotto Mosca alla guerra, di Giuseppe Gagliano

Ecco come Obama e Biden hanno provocato la trappola che ha costretto la Russia a intervenire in Ucraina, secondo Michael Brenner

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Soldati delle forze ucraine (LaPresse)

Professore emerito di affari internazionali nell’Università di Pittsburgh e membro del Center for Transatlantic Relations presso Sais/Johns Hopkins, Michael Brenner è stato direttore del programma di relazioni internazionali e studi globali presso l’Università del Texas. Ha anche lavorato presso il Foreign Service Institute, il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti e Westinghouse. È autore di numerosi libri e articoli sulla politica estera americana, la teoria delle relazioni internazionali, l’economia politica internazionale e la sicurezza nazionale.

Secondo lo studioso americano per capire il conflitto attualmente in corso con la Russia è necessario tenere presenti tre aspetti.

In primo luogo, la guerra in Ucraina è il culmine di una crisi iniziata poco dopo l’insediamento dell’amministrazione Biden. Questa crisi è di per sé una ripresa del fuoco dalle braci mal spente dell’iniziale conflagrazione risalente al colpo di Stato fomentato da Washington nel marzo 2014.

In secondo luogo, le fasi successive di questa crisi devono essere intese nel contesto della crescente ostilità delle relazioni russo-americane. I suoi indicatori sono stati l’intervento di Mosca nella guerra civile siriana (2015), le decisioni delle successive amministrazioni statunitensi di terminare o ritirarsi dagli accordi sul controllo degli armamenti risalenti alla Guerra fredda – che hanno suscitato la preoccupazione di Mosca per le intenzioni militari di Washington –, il graduale allargamento della Nato verso Est, le “rivoluzioni colorate” orchestrate alla periferia della Russia, e il sentimento antirusso suscitato dall’affare manipolato “Russiagate”.

Terzo, l’Ucraina è stata l’occasione, non la causa, della rottura definitiva delle relazioni tra Mosca e Washington.

Da aprile 2021 i contorni della strategia americana nei confronti dell’Ucraina e della Russia si sono ben presto chiariti: organizzare un incidente provocatorio nel Donbass che scateni una reazione russa che potrà poi essere utilizzata per confermare le affermazioni speculative di Washington sui preesistenti piani di invasione russa.

Il significativo rafforzamento delle forze ucraine lungo la linea di contatto nel Donbass, abbondantemente rifornite di missili anticarro Javelin e antimissili Sprint, prefigurava la preparazione di azioni militari offensive. L’azione Usa stava facendo esattamente quello di cui abbiamo accusato Mosca: pianificare un attacco deliberato. Washington si aspettava che la conseguente crisi costringesse gli europei occidentali ad accettare una serie completa di sanzioni economiche, inclusa la cancellazione del Nord Stream 2 contro la Russia. Era il fulcro del piano. Il team di politica estera di Joe Biden era convinto che le sanzioni draconiane avrebbero causato il collasso dell’economia fragile e non diversificata della Russia. Il vantaggio secondario per gli Stati Uniti sarebbe una maggiore dipendenza europea dagli Usa per le risorse energetiche, e implicitamente l’allineamento europeo con le posizioni politiche di Washington. Così, la paura della Russia e la dipendenza economica perpetuerebbero indefinitamente lo status di vassallo degli Stati europei che è loro proprio da 75 anni.

Pertanto, secondo Brenner, l’obiettivo principale di Washington nella crisi ucraina era la Russia: la crescente obbedienza degli alleati europei a Washington era un guadagno collaterale. Il diffuso boicottaggio delle esportazioni russe di gas naturale e petrolio è stato visto come un modo per drenare le risorse finanziarie e l’economia del Paese mentre i proventi dalle sue esportazioni diminuivano.

Se a questo si aggiunge il piano per escludere la Russia dal meccanismo di transazione finanziaria Swift, lo shock subito dall’economia doveva portare alla sua implosione. Il rublo sarebbe crollato, l’inflazione aumentata, il tenore di vita crollato, il malcontento popolare avrebbe indebolito Putin così tanto che sarebbe stato costretto a dimettersi o sarebbe stato sostituito da una cabala di oligarchi scontenti. Il risultato sarebbe stato una Russia più debole, legata all’Occidente, o una Russia isolata e impotente.

Come ha detto il presidente Biden: “Per l’amor di Dio, quest’uomo non può rimanere al potere”.

Per comprendere appieno la tattica adottata dagli Stati Uniti, bisogna tener conto di un fatto cruciale: pochissime persone nella Washington ufficiale si preoccupavano della stabilità dell’Ucraina o del benessere del popolo ucraino. I loro occhi erano fissi su Mosca. Nella mente degli strateghi di Washington, l’Ucraina rappresentava un’opportunità unica per giustificare l’imposizione di sanzioni paralizzanti che avrebbero messo fine alle presunte ambizioni di Putin in Europa e oltre. Inoltre, i legami sempre più stretti tra la Russia e gli Stati europei sarebbero stati interrotti, probabilmente in modo irrimediabile. Una nuova cortina di ferro avrebbe diviso il continente, segnato da una linea di sangue: sangue ucraino. Questa realtà geostrategica permetterebbe all’Occidente di dedicare tutte le sue energie al confronto con la Cina. Tutto ciò che gli Stati Uniti hanno fatto con l’Ucraina nell’ultimo anno è stato guidato da questo obiettivo generale.

Questi scenari ottimistici avevano in comune la speranza che la nascente partnership sino-russa sarebbe stata fatalmente indebolita, ribaltando l’equilibrio a favore degli Stati Uniti nella prossima battaglia con la Cina per la supremazia globale.

Come è stato concepito e deciso questo piano? In verità, gli obiettivi generali erano stati definiti dall’amministrazione Obama. Lo stesso presidente ha dato la sua approvazione al colpo di Stato di EuroMaidan (2014), che è stato supervisionato direttamente dall’allora vicepresidente Joe Biden, che ha agito come pilota per l’Ucraina tra marzo 2014 e gennaio 2016. Poi, l’amministrazione americana ha adottato misure forti per bloccare l’attuazione degli accordi di Minsk II, protestando con Merkel e Macron. Ecco perché Berlino e Parigi non hanno mai fatto il minimo gesto per convincere Kiev a rispettare i propri obblighi.

L’operazione per provocare una crisi nel Donbass è stata architettata da figure influenti – in particolare Anthony Blinken, segretario di Stato, e Jake Sullivan, capo del Consiglio di sicurezza nazionale – e circoli neoconservatori durante la presidenza Trump, la cui incoerenza e disordine ha impedito la definizione di una politica calibrata nei confronti dell’Ucraina e della Russia; così il peso delle sanzioni è aumentato negli anni 2016-2020.

La strategia era quella di aumentare la pressione su Mosca per stroncare sul nascere l’aspirazione della Russia a diventare ancora una volta un attore importante in grado di privare gli Stati Uniti dei suoi privilegi di egemone mondiale e unico sovrano d’Europa. Era guidata dall’ardente Victoria Nuland e dai suoi compagni neoconservatori del Consiglio di sicurezza nazionale (Nsc), della Cia, del Pentagono, del Congresso e dei media. Poiché Blinken e Sullivan erano essi stessi sostenitori di questa strategia di confronto, l’esito del dibattito era una conclusione scontata.

Per quanto riguarda l’Ucraina, il piano era pronto e in attesa della decisione della Casa Bianca. I fautori di una nuova Guerra fredda in tutta l’amministrazione hanno potuto imporre le loro opinioni su un governo in cui non c’erano voci dissenzienti e guidato da un presidente passivo e malleabile. Così prendeva corpo il piano antirusso in Ucraina con il rafforzamento delle forze militari lungo la linea di contatto nel Donbass e discorsi bellicosi sulla necessità di imporre sanzioni economiche più pesanti a Mosca in caso di conflitto, provenienti sia da Washington e Bruxelles.

I leader del Cremlino sembrano essere stati pienamente consapevoli di quello che stava succedendo. L’obiettivo americano di riportare la Russia al suo posto subordinato era dato per scontato dal Cremlino. Ma c’era incertezza su quali iniziative aspettarsi sul campo: un grande assalto delle forze di Kiev nel Donbass o piccoli atti provocatori per provocare una reazione russa che potesse fungere da pretesto per l’imposizione di sanzioni, inclusa la chiusura del Nord Stream 2?

È probabile che gli alti funzionari di Washington non abbiano fatto loro stessi una scelta riguardo alle modalità tattiche della loro azione. Le divergenze tra i diversi attori e un presidente titubante avrebbero potuto benissimo lasciare aperte opzioni per arrivare a un consenso morbido e oscuro. L’alternanza di retorica bellicosa e parole rassicuranti in pubblico di Biden, così come le conversazioni telefoniche “non andiamo in guerra” che ha avviato con Putin e riaffermato nei comunicati stampa, ne sono un esempio, una prova tangibile.

Ma alla fine è stata presa la decisione di lanciare l’operazione contro la Russia. Prova innegabile di ciò sono gli annunci molto specifici del presidente Biden, di Anthony Blinken e del direttore della Cia William Burns sulla data dell’“offensiva” russa. Potevano essere così affermativi perché erano ben consapevoli della data fissata per l’inizio dell’operazione militare ucraina contro il Donbass e sapevano che Mosca avrebbe immediatamente reagito militarmente. Queste affermazioni non erano basate su informazioni privilegiate ottenute attraverso intercettazioni di comunicazioni russe o la presenza di una talpa al Cremlino. Washington non ha tale accesso ai centri decisionali di Mosca, come dimostra il fatto che gli Stati Uniti sono rimasti sorpresi da tutte le altre iniziative significative della Russia, compreso l’intervento militare in Siria nel 2015.

Il conto alla rovescia è stato innescato da un aumento di 30 volte dei bombardamenti ucraini nel Donbass, anche contro quartieri residenziali, tra il 16 e il 23 febbraio 2022, come riportato dagli osservatori dell’Osce. La forma e la portata esatte della reazione del Cremlino erano imprevedibili, ma questo di per sé non era un problema per Washington, dal momento che qualsiasi azione militare di Mosca serviva al suo grande scopo. Inoltre, gli americani erano convinti che l’ambizioso programma di addestramento ed equipaggiamento dell’esercito ucraino lanciato dal 2018 – e integrato dall’erezione di un’importante rete di fortificazioni che costituiscono una linea Maginot in miniatura – avrebbe impedito una disfatta delle forze di Kiev e, di conseguenza, creato le condizioni per una guerra di logoramento i cui effetti sull’economia e sull’opinione pubblica russa sarebbero stati particolarmente marcati.

Joe Biden ha richiamato indirettamente l’attenzione su questo punto durante una conferenza stampa tenutasi all’inizio di febbraio 2022. Ha affermato che una forte reazione da parte della Russia avrebbe garantito l’unità della Nato e l’accordo degli Stati membri al fine di imporre forti sanzioni. Una reazione più limitata, ha detto in quell’occasione, avrebbe provocato probabilmente un acceso dibattito tra i governi alleati sull’opportunità o meno di escludere la Russia dal sistema Swift e sospendere il progetto Nord Stream 2. Pertanto, l’attacco preventivo russo su larga scala del 24 febbraio ha permesso agli americani di vedere realizzata la loro opzione preferita, quella di sanzioni massicce.

Che dire della ripetuta affermazione di Joe Biden secondo cui Volodymyr Zelensky ha sfidato l’“avvertimento” del presidente degli Stati Uniti di un’imminente operazione militare russa? Abbiamo potuto consultare la trascrizione di questa famosa conversazione telefonica durante la quale il primo esprimeva infatti il suo scetticismo mentre il secondo insisteva a gran voce sul fatto che non c’erano dubbi. Ci sono solo due spiegazioni per questo indovinello. La prima è che Zelensky e la sua squadra di diplomatici dilettanti – tratti dalla sua ex squadra di produzione televisiva – sono rimasti sbalorditi all’avvicinarsi del fatidico giorno e, di conseguenza, hanno cercato di ottenere un certo margine di manovra. La seconda è che Zelensky potrebbe non essere stato informato della data esatta dell’offensiva dell’esercito ucraino contro il Donbass. I suoi stessi comandanti militari e alti funzionari della sicurezza avrebbero potuto venire a patti con gli americani – che erano stati a lungo presenti e attivi nel cuore dei principali centri decisionali del Paese – senza perdere la fiducia del presidente ucraino. La sua inclinazione a parlare nel modo sbagliato potrebbe essere la ragione principale di ciò, così come il fatto che è stato solo un presidente di facciata dalla sua elezione nel 2019.

Stravagante? No, solo strano. Come ci ha insegnato Sherlock Holmes: “Una volta eliminate tutte le altre possibilità, tutto ciò che resta – per quanto strano – è la verità”.

https://www.ilsussidiario.net/news/dietro-lucraina-i-piani-americani-che-hanno-indotto-mosca-alla-guerra/2376515/?fbclid=IwAR3ZEc97t35AEDe6AaBWk5Fk8JkRt1bhlJXjtZ9MyuTH_DyWr7TKPGmk8pc

Per la prima volta in 12 anni, le partecipazioni sono scese sotto il trilione! La Cina ha perso fiducia nei buoni del tesoro statunitensi?_da Guancha

Per la prima volta in 12 anni, le partecipazioni sono scese sotto il trilione! La Cina ha perso fiducia nei buoni del tesoro statunitensi?

Fonte: Rete di osservatori

2022-07-20 15:44

[Testo/Rete di osservatori Li Li] Il 18 il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha pubblicato i dati secondo cui la Cina continentale ha ridotto le sue disponibilità di debito statunitense per sei mesi consecutivi e le sue partecipazioni sono scese al di sotto di $ 1 trilione per la prima volta in 12 anni, o circa 980,8 miliardi di dollari al mese Ridotte le partecipazioni di circa 23 miliardi di dollari. Inoltre, il Giappone, l’attuale maggiore detentore di titoli del Tesoro statunitensi, e più di 10 principali detentori d’oltremare di titoli del Tesoro statunitensi hanno tutti venduto titoli del Tesoro statunitensi a vari livelli.

Cosa ha causato la caduta in disgrazia del debito statunitense? Wang Yongzhong, direttore e ricercatore dell’International Commodities Research Office dell’Institute of World Economics and Politics dell’Accademia cinese delle scienze sociali, ha dichiarato a Observer.com che le sanzioni statunitensi e il congelamento di beni di paesi come Russia e Afghanistan hanno chiamato mettere in discussione la sicurezza di investire nel debito statunitense. Inoltre, uno dei motivi è anche l’inflazione statunitense che ha portato a “ridotti rendimenti sull’investimento in obbligazioni statunitensi”.

“Anche gli stessi titoli del Tesoro USA sono attività rischiose, quindi anche le nostre partecipazioni stanno diminuendo.” Wang Yongzhong ha introdotto che l’allocazione più flessibile e diversificata delle attività estere della Cina è la tendenza generale. Tuttavia, ha anche affermato che le attività in dollari USA sono ancora una risorsa all’estero molto importante per la Cina. “Sebbene il potere d’acquisto del dollaro USA sia fortemente diminuito, è ancora una ‘valuta forte’. Rispetto all’acquisto di obbligazioni di altri paesi , come l’acquisto di obbligazioni europee, giapponesi, non ottengono gli stessi rendimenti delle obbligazioni statunitensi”.

Screenshot del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti

Cina e Giappone continuano a vendere obbligazioni statunitensi e le partecipazioni cinesi scendono sotto i 1 trilione di dollari per la prima volta in 12 anni

Il 18 luglio, il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha pubblicato il suo International Capital Flows Report (TIC) per maggio 2022. Secondo il rapporto, alla fine di maggio, le disponibilità di debito statunitense della Cina continentale sono diminuite di $ 22,6 miliardi rispetto al mese precedente a $ 980,8 miliardi, il sesto calo mensile consecutivo e il livello più basso da maggio 2010.

Allo stesso tempo, anche il Giappone, che è un alleato economico degli Stati Uniti e il più grande “creditore” degli Stati Uniti, sta riducendo continuamente le sue disponibilità di dollari.

Inoltre, più di 10 importanti detentori di debito degli Stati Uniti all’estero, tra cui Arabia Saudita, India e Australia, hanno venduto tutti il ​​debito degli Stati Uniti a vari livelli. Tuttavia, il Regno Unito, che è al terzo posto in termini di disponibilità di debito statunitense, ha comunque aumentato le sue partecipazioni a maggio, raggiungendo $ 634 miliardi, con un aumento di $ 21,3 miliardi rispetto al mese precedente.

Secondo i dati diffusi dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, alla fine di maggio i funzionari esteri avevano venduto $ 8,3 miliardi netti in obbligazioni a lungo termine e $ 22,8 miliardi netti in obbligazioni a breve termine. Complessivamente, le disponibilità estere di titoli del Tesoro statunitensi sono scese a 7.421 trilioni di dollari a maggio da 7.455 trilioni di dollari di aprile, il livello più basso da maggio 2021.

La prossima volta che il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti rivelerà la dimensione delle attività di debito statunitensi nelle economie estere è il 15 agosto.

Allora, qual è il motivo per cui i principali detentori esteri di debito statunitense questa volta vendono invariabilmente obbligazioni statunitensi?

Gli Stati Uniti sanzionano altri paesi, sollevando interrogativi sulla sicurezza del debito statunitense

Wang Yongzhong, direttore e ricercatore dell’International Commodities Research Office dell’Institute of World Economics and Politics dell’Accademia cinese delle scienze sociali, ha dichiarato a Observer.com che le sanzioni statunitensi contro Russia, Afghanistan e altri paesi hanno ridotto la stabilità del debito statunitense . Ritiene che la questione della sicurezza del debito statunitense sia una delle ragioni della “riduzione del debito statunitense da parte della Cina”.

“In passato, gli investitori globali, inclusa la Cina, consideravano il debito statunitense un ‘bene sicuro e di alta qualità’. Ma dopo lo scoppio del conflitto russo-ucraino nel febbraio di quest’anno, gli Stati Uniti e alcuni paesi europei hanno congelato il Gli Stati Uniti hanno inoltre congelato i beni all’estero dell’ex governo afghano (circa 9,5 miliardi di dollari USA) , e se ne sono appropriati indebitamente senza autorizzazione (di cui oltre 3 miliardi di dollari USA) come risarcimento per le famiglie delle vittime dell'”11 settembre” La banca centrale e persino il mondo intero hanno avuto grossi dubbi sulla sicurezza di questo titolo statunitense”, ha spiegato Wang Yongzhong. “Se ci sarà un conflitto tra la Cina e gli Stati Uniti in futuro, gli Stati Uniti congeleranno anche il debito statunitense che deteniamo? Questo è un fattore per la Cina per ridurre le sue disponibilità di debito statunitense”.

Il professor Huang Renwei, vice preside esecutivo del “Belt and Road” e del Global Governance Institute dell’Università Fudan, ha anche menzionato nel programma “This Is China” trasmesso l’11 luglio che gli Stati Uniti congelano le proprietà russe o ne confiscano una parte, e la Russia è non è consentito utilizzare SWIFT (System for International Settlement of Funds). Perdere il credito delle persone per aver depositato la loro proprietà negli Stati Uniti. Al fine di prevenire future sanzioni statunitensi, sia gli alleati statunitensi che non gli alleati statunitensi devono ridurre le loro riserve in dollari USA e ridurre la loro dipendenza da SWIFT (International Funds Clearing System). Questo è il più grande danno al sistema di egemonia del dollaro.Questo danno non è evidente a breve termine, ma se tutti riducono la riserva in dollari anno dopo anno e aumentano gli altri sistemi di regolamento anno dopo anno, allora la riserva in dollari e SWIFT (The International Funds Settlement System), i due più importanti strumenti del dollaro USA, rischiano il collasso.

Screenshot del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti

Gli ultimi dati dal sito web del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti mostrano che le disponibilità russe di debito statunitense sono solo $ 2,004 miliardi. Già nel 2010 la Russia deteneva un debito di USD 176,3 miliardi ed era uno dei principali creditori esteri degli Stati Uniti, scendendo a 131,8 miliardi di USD nel 2014, per poi precipitare a 14,9 miliardi di USD nel 2018. La Russia ha continuato a vendere il debito degli Stati Uniti fino ad oggi sono rimasti solo circa 2 miliardi di dollari ed è vicino alla liquidazione.

L’elevata inflazione negli Stati Uniti influisce sul reddito degli investimenti in obbligazioni statunitensi

Wang Yongzhong ha detto a Observer.com che un altro motivo importante per la “caduta in disgrazia” del debito statunitense è la questione del “reddito da investimento”.

“L’inflazione negli Stati Uniti ha raggiunto l’8%, il 9%, il dollaro si è ridotto e il prezzo del mercato obbligazionario statunitense è fortemente diminuito. Sebbene il dollaro si sia apprezzato rispetto ad altre valute, si è notevolmente ridotto in termini di potere d’acquisto. Quindi questo investimento Il ritorno è decisamente negativo. La Cina prenderà sicuramente in considerazione questo reddito da investimento, giusto?”, ha detto Wang Yongzhong.

Le informazioni pubbliche mostrano che i funzionari della Fed hanno alzato i tassi di interesse negli ultimi tre incontri per frenare l’aumento dell’inflazione negli Stati Uniti.Il primo aumento dei tassi è stato a marzo, aumentando i tassi di interesse di 25 punti base. Questo è stato seguito da un aumento del tasso di 50 punti base a maggio. Il mese scorso, la Fed ha annunciato un aumento del tasso di 75 punti base, il più grande aumento in quasi 30 anni.

Secondo i dati diffusi dal Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti il ​​13 luglio, l’indice dei prezzi al consumo (CPI) negli Stati Uniti è aumentato dell’1,3% su base mensile a giugno e del 9,1% su base annua, il più alto aumento su base annua da allora novembre 1981. Reuters ha riferito che i funzionari della Fed hanno dichiarato il 15 luglio che potrebbero continuare ad aumentare i tassi di interesse di 75 punti base nella riunione del 26-27 luglio.

Tuttavia, dal rapporto sull’inflazione “mal di testa” del 13 luglio, alcuni operatori del mercato ritengono che la Fed considererà l’aumento del tasso di inflazione di un punto percentuale. Secondo un rapporto di Bloomberg del 14 luglio, gli economisti di Citigroup negli Stati Uniti prevedono che la Federal Reserve alzerà i tassi di interesse di 100 punti base.

Il Wall Street Journal ha riferito che il governatore della Fed Christopher Waller ha dichiarato in una riunione a Victor, Idaho, il 14: “I rialzi eccessivi dei tassi non sono ciò che vogliamo. Un aumento dei tassi di 75 punti base è già aggressivo. “Non si può dire, “Poiché non hai aumentato i tassi di 100 punti base, non hai fatto il tuo lavoro”.

La Federal Reserve statunitense non ha aumentato i tassi di ben 100 punti base da quando ha iniziato a utilizzare il tasso sui fondi federali come principale strumento decisionale all’inizio degli anni ’90. E l’aumento dei tassi di interesse di 100 punti base porterà a un “restringimento globale” dei fondi globali, portando a un rapido ritorno del dollaro negli Stati Uniti. Inoltre, l’aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti scatenerà anche il panico e porterà a problemi di cambio in molte valute . La scorsa settimana il tasso di cambio euro-dollaro si è avvicinato a un livello di parità di 1:1.

Screenshot del rapporto dell’Associated Press

Secondo il rapporto dell’Associated Press del 15 luglio, il tasso di cambio dell’euro rispetto al dollaro è sceso al livello più basso degli ultimi 20 anni. La Federal Reserve statunitense ha alzato in modo aggressivo i tassi di interesse per ridurre l’inflazione, mentre la Banca centrale europea (BCE) ha finora resistito a forti aumenti. Un euro più debole potrebbe essere un mal di testa per la BCE, in quanto potrebbe significare prezzi più alti per i beni importati, in particolare il petrolio, che è denominato in dollari. E per gli Stati Uniti, un dollaro più forte ridurrebbe anche la competitività dei prodotti americani sui mercati esteri.

La grave inflazione interna negli Stati Uniti, unita ai continui aumenti dei tassi di interesse da parte della Fed, sono tutte ragioni importanti per la svendita globale del debito statunitense.

Wang Yongzhong ha detto a Observer.com: “Anche gli stessi titoli del Tesoro USA sono attività rischiose, quindi anche le nostre partecipazioni stanno diminuendo”.

Screenshot dell’orologio del Tesoro degli Stati Uniti alle 10:30 del 20 luglio, ora di Pechino

Un orologio del debito nazionale degli Stati Uniti viene eretto sulla West 43rd Street a New York, negli Stati Uniti, che aggiorna i dati sul debito totale degli Stati Uniti in tempo reale.A partire dalle 10:30 del 20 luglio, la seguente pagina di aggiornamento del disavanzo del debito federale degli Stati Uniti come un aeroplano il cruscotto mostra gli Stati Uniti. Il debito federale totale ha superato la soglia dei 30,59 trilioni di dollari, salendo al 129,88% del PIL. Per mezzo secolo, gli Stati Uniti fungono da fondamento a sostegno dello status di valuta del dollaro attraverso l’uso del debito statunitense sotto forma di prodotti di investimento.

La Cina sta gradualmente promuovendo l’allocazione diversificata delle attività estere e la riduzione delle sue partecipazioni nel debito statunitense è una tendenza

Wang Yongzhong ha introdotto che per la Cina, è la tendenza generale continuare a ridurre le sue partecipazioni in titoli del tesoro statunitensi e rendere più flessibile e diversificata l’allocazione delle attività all’estero. Ha suggerito che alcuni investimenti possono essere gradualmente aumentati, come l’acquisto di azioni in alcuni mercati emergenti esteri; aumentando in modo appropriato gli investimenti negli asset di paesi con buone prospettive di sviluppo economico come i paesi “Belt and Road” e il sud-est asiatico, che sono relativamente amichevole con il mio paese, ecc. Allo stesso tempo, Wang Yongzhong ha anche ricordato che la diversificazione delle attività all’estero non dovrebbe essere affrettata: “Questo è facile a dirsi, ma è anche difficile investire”.

Secondo Wang Yongzhong, sebbene nel lungo periodo la riduzione delle disponibilità di debito statunitense sia una tendenza e diminuirà gradualmente, le attività in dollari statunitensi sono ancora risorse molto importanti al momento. “Sebbene il potere d’acquisto del dollaro sia fortemente diminuito, è ancora una ‘valuta forte’. Rispetto all’acquisto di obbligazioni di altri paesi, come quelle europee e giapponesi, i rendimenti che si ottengono non sono buoni come quelli statunitensi”, ha affermato disse.

Parlando dell’impatto delle relazioni sino-americane sulla “riduzione del debito degli Stati Uniti da parte della Cina”, Wang Yongzhong ha affermato che la guerra commerciale sino-americana non è la ragione della riduzione del debito cinese da parte della Cina. “In effetti, la Cina era relativamente fiduciosa in il dollaro USA e il debito USA prima. Non si arriva al punto delle “sanzioni finanziarie”. Ma dopo che Biden ha congelato i beni russi e quelli afgani, la fiducia nel dollaro è diminuita”.

“Questa è essenzialmente una questione di relazioni sino-americane”. Tan Yaling, direttore del China Foreign Exchange Investment Research Institute di Pechino, ha dichiarato in un’intervista al “South China Morning Post” di Hong Kong il 20 luglio: “In passato, detenere un gran numero di azioni era dovuto alle buone relazioni bilaterali, ma ora la Cina potrebbe dover evitare il rischio di un conflitto con gli Stati Uniti”.

Rispetto alle obbligazioni statunitensi, le obbligazioni del tesoro cinesi non sono di dimensioni elevate ma stabili e hanno rendimenti elevati

Wang Yongzhong ha introdotto che, rispetto alle obbligazioni statunitensi, sebbene l’entità del debito nazionale cinese non sia molto elevata, il rendimento del debito nazionale cinese è comunque buono. Il tasso di cambio RMB stesso è relativamente stabile e i titoli di stato cinesi sono relativamente popolari.

Secondo il sito web del Ministero delle Finanze cinese, con l’approvazione del Consiglio di Stato, il Ministero delle Finanze emetterà 20 miliardi di yuan di titoli di Stato nella regione amministrativa speciale di Hong Kong nel 2021. Nel 2022 a Hong Kong saranno emessi 23 miliardi di yuan di titoli di Stato.

Wang Yongzhong ha sottolineato che per il mercato finanziario i titoli di stato cinesi sono asset di alta qualità.

Le informazioni pubbliche mostrano che sotto la pressione dell’inflazione globale, i prezzi cinesi sono rimasti stabili. Secondo i dati diffusi di recente dal National Bureau of Statistics of China, da gennaio a giugno, l’indice nazionale dei prezzi al consumo (CPI) è aumentato dell’1,7% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e l’IPC di giugno è rimasto piatto su base mensile -mese. Nella prima metà dell’anno i prezzi sono rimasti generalmente stabili entro un range ragionevole.

“A differenza di altri grandi paesi, l’inflazione non è il problema più preoccupante in Cina.” Xie Peihua, chief investment officer della Bank of Singapore, ha dichiarato alcuni giorni fa sul Financial Times che l’IPC del 2,5% di giugno di quest’anno ha mostrato il cibo cinese ed energia La resilienza, gli stimoli fiscali e monetari offrono ampio spazio per raggiungere gli obiettivi del PIL. La People’s Bank of China è l’unica banca centrale che non ha alzato i tassi di interesse per frenare le pressioni inflazionistiche. Lo yuan è rimasto stabile rispetto a un dollaro più forte e la Cina ha la capacità di allentare le condizioni di credito abbassando i tassi di interesse.

Il sito web del Wall Street Journal ha riferito che il tasso di inflazione in Cina era leggermente superiore alle attese a giugno a causa dell’aumento dei prezzi di cibo e carburante, ma le pressioni sui costi sono rimaste modeste rispetto all’elevata inflazione in Europa e negli Stati Uniti.

Secondo il rapporto economico annuale pubblicato di recente dalla Banca dei Regolamenti Internazionali, l’economia mondiale rischia di entrare in un nuovo periodo di alta inflazione. Agustin Carstens, direttore generale della banca, ha dichiarato di recente in un’intervista ai media che la Cina ha mostrato una forte resilienza economica sullo sfondo dell’elevata inflazione globale, che offre alla banca centrale spazio per adeguare in modo costruttivo la politica monetaria.

“La Cina continuerà a dare slancio alla crescita economica mondiale”, ha affermato Carstens.

Russia e Iran hanno annunciato che abbandoneranno il dollaro USA, esperti: costituiscono una “alternativa parziale” al dollaro USA

Vale la pena ricordare che, nello stesso momento in cui la Cina ha ridotto le sue disponibilità di debito statunitense a meno di 1 trilione di dollari, Russia e Iran hanno annunciato che avrebbero gradualmente abbandonato il dollaro USA nel commercio tra i due paesi .

Alla vigilia della visita del presidente russo Vladimir Putin in Iran, il 18 luglio il segretario stampa presidenziale russo Peskov ha rivelato che la Russia e l’Iran continueranno a sviluppare relazioni bilaterali e legami economici e commerciali.I passi verso la deprecazione del dollaro USA nel commercio bilaterale alla fine porteranno a una completa deprecazione del dollaro USA.

Il vice governatore della Banca centrale dell’Iran per gli affari internazionali ha precedentemente rivelato che Russia e Iran stabiliranno il commercio bilaterale nella valuta locale di entrambe le parti e che i due paesi hanno firmato accordi pertinenti.

Il 19 luglio il presidente russo Vladimir Putin è arrivato a Teheran, in Iran, e lo stesso giorno i due Paesi hanno firmato un memorandum d’intesa del valore di circa 40 miliardi di dollari Usa sulla cooperazione nel settore del gas naturale .

Putin è arrivato a Teheran il 19 e ha incontrato il presidente iraniano Rahey, la foto è della spinta ufficiale del governo iraniano

Sia la Russia che l’Iran sono sanzionate dagli Stati Uniti. In precedenza, la Russia ha lanciato ufficialmente il meccanismo di regolamento del “rublo di gas naturale” e il sistema di regolamento finanziario interno della Russia si sta confrontando con il sistema di regolamento occidentale. Da parte iraniana (27 giugno), durante il vertice BRICS a Pechino, il Ministero degli Affari Esteri iraniano ha annunciato di aver presentato domanda per entrare a far parte dei paesi BRICS .

Per quanto riguarda la questione della “de-dollarizzazione”, Wang Yongzhong ha affermato che allo stato attuale il dollaro USA è ancora in una posizione molto forte. Per il momento, è ancora difficile per queste valute sostituire il dollaro USA a breve termine e non hanno avuto un impatto relativamente ampio sul dollaro USA. Soprattutto nel settore finanziario, tutti hanno l’abitudine di usare dollari americani.

“È difficile per le valute diverse dal dollaro sostituire il dollaro USA. In passato, il dollaro USA ha impiegato molto tempo per sostituire la sterlina britannica. Quando altri paesi aumenteranno l’insediamento in non dollari, formeranno un “parziale sostituzione” per il dollaro USA, ma vogliono sfidare lo status del dollaro. , è ancora troppo presto”, ha detto Wang Yongzhong.

https://m.guancha.cn/economy/2022_07_20_650151.shtml

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