NOTE SU DIPENDENZA DEGLI STATI E GLOBALIZZAZIONE, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTE SU DIPENDENZA DEGLI STATI E GLOBALIZZAZIONE

Indice:

1) Posizione del problema; 2) Dipendenza giuridica e politica; 3) Forme e regolarità politiche; 4) Sovranità e indipendenza: Bodin 5) Transizione di epoche e idee della globalizzazione; 6) Loro inconvenienti; 7)  Fini della politica; 8) Conclusione.

1.0 Il pianeta è diviso tra tanti Stati sovrani, i quali formalmente – ossia sul piano giuridico – sono uguali, ma la cui differenza di potere reale ne riduce – correlativamente – la possibilità di esercitare (parzialmente) prerogative e diritti, in applicazione del detto di Spinoza per cui tantum juris quantum potentiae.

Santi Romano (tra i tanti) scriveva che «essendo la comunità internazionale, di regola, paritaria, nel senso che i suoi membri non dipendono l’uno dall’altro, ciascuno di essi… si dice che ha una sovranità perché non è in una posizione subordinata verso altri soggetti»[1]. Tuttavia, proseguiva, tale regola non è assoluta[2]; ma derogarne è sicuramente un’eccezione[3]. Ed occorre distinguere «l’appartenenza ad un’unione amministrativa o alla Società delle nazioni, tanto meno una semplice alleanza, non significa da per sé perdita della sovranità. Viceversa, gli Stati soggetti a protettorato o alla tutela della Società delle nazioni sono eccezionalmente degli Stati internazionalmente non sovrani, cioè subordinati agli Stati protettori o alla Società medesima, che, rispetto ad essi, sono quindi sovrani». Secondo il giurista siciliano, contrariamente all’opinione di altri «la verità è invece che lo Stato protetto, come quello tutelato, non assume solo obbligazioni singole e determinate, ma entra in un complesso “status subiectionis”, si sottomette ad altri soggetti per una sfera più o meno ampia della sua personalità, e tutto ciò riguarda non la sua libertà nel campo dei rapporti veramente obbligatorii, ma la sua posizione d’indipendenza, la sua sovranità e, come conseguenza, anche la sua capacità».

Effetto della mancanza di sovranità è «la limitazione della capacità internazionale degli Stati protetti o tutelati: limitazione che si ha anche…. verso i terzi, il che conferma (trattarsi)… di una posizione personale»[4].

Tale limitazione di capacità non è incompatibile con la personalità internazionale[5]; come conferma, scrive Santi Romano, la condizione degli Stati vassalli (dell’Impero ottomano).

Diverso era il regime giuridico delle colonie, in particolare perché la presenza dello Stato colonizzatore si estendeva anche all’amministrazione interna e diffusa dei territori coloniali.

Tutte tali classificazioni hanno il connotato comune di essere giuridiche – e non solo politiche – e di tradursi in modificazioni degli ordinamenti (e dei collegamenti tra questi) e della normativa conseguente.

Tuttavia, vi sono altre forme di dipendenza assai note, che rispettano formalmente il carattere sovrano dello Stato dipendente[6].

Così ad esempio all’epoca della Guerra Fredda si parlava di «Stati-satellite» in relazione agli Stati dell’Est europeo a regime comunista, quali nazioni egemonizzate da una grande potenza, ma formalmente sovrane (tale carattere era, di rimando, attribuito da oltre cortina a Stati facenti parte della Nato, come Italia e Germania Ovest). Tenuto conto che il dominio politico della potenza egemone nell’Est europeo era esercitato attraverso «partiti fratelli» (comunisti) più che regolamentato in istituti giuridici (i quali comunque, non mancavano) il termine era adeguato alla realtà politica. Com’era naturale, il crollo del comunismo fu anticipato dalla de-comunistizzazione di alcuni di tali Stati e la regolamentazione giuridica dello stato di «satellite», seguì la fine politica dei partiti comunisti.

Stato-fantoccio è un concetto assai prossimo a quello di Stato-satellite. Per lo più l’espressione è usata per Stati – o regimi politici – che devono la loro esistenza a un soggetto più potente, quasi sempre un altro Stato. Spesso è un modo per esercitare l’occupazione militare: in altri casi, anche se il rapporto di «filiazione» tra Stato fantoccio e sconfitta – occupazione militare è (quasi) una regolarità, lo Stato-fantoccio subentra all’occupazione. Non è detto tuttavia che tale carattere implichi una subordinazione giuridica (anzi in genere non esiste) ma è dovuto a motivi politici e militari. Stati-fantoccio hanno ottenuto spesso anche il riconoscimento non solo delle potenze occupanti (o ex-occupanti) ma anche di Stati terzi.

2.0 La distinzione tra l’una e l’altra categoria di Stati per così dire «a sovranità limitata»  (o a indipendenza relativa) consiste sotto il profilo giuridico, dalla assenza, nel primo caso (protettorati, colonie) di una (completa) capacità internazionale, e sul piano interno dalla presenza di organi di «controllo»            (in effetti di governo o meglio – secondo i casi – di sorveglianza del governo) nominati dallo Stato protettore (ovvero dominante); nella seconda invece la capacità internazionale è piena e l’intromissione nelle attività di governo interne è esercitata (quasi) sempre per influenza politica sull’attività e spesso sulla nomina delle cariche di governo e/o di (alta) rilevanza politica.

Ovviamente in tale ultima classe, vale quanto scriveva Santi Romano per il protettorato (v. sopra): la forma e gli istituti concreti che il dominio politico può assumere non consente di tracciare confini netti; in astratto la differenza degli uni e degli altri è distinguibile agevolmente, in concreto no. Questo soprattutto perché il concetto di dipendenza politica è più ampio e determinante, ovvero è difficile che una dipendenza giuridica non si traduca in politica; nonché – e anche come conseguenza, perché le forme che il dominio assume possono cambiare senza che ne muti la sostanza. L’Egitto moderno ad esempio fu giuridicamente un protettorato della Gran Bretagna solo per pochi anni durante il primo conflitto mondiale, e poi fino al 1922. Ciò non toglie che prima e dopo la Gran Bretagna ne condizionava la politica in modo determinante, di guisa che l’Egitto «indipendente» fu teatro di battaglie tra potenze dell’Asse ed alleati nella seconda guerra mondiale, a quasi vent’anni dalla concessa «indipendenza».

3.0 Le forme (giuridiche) di dipendenza tra gli Stati (o tra Stati ed altri territori) costituiscono un reperto archeologico dopo la fine della seconda guerra mondiale e la decolonizzazione. È difficile trovare un trattato di diritto internazionale, di recente pubblicazione, che li prenda in esame. In qualche modo è comprensibile, atteso che di Stati protetti e di colonie (in senso giuridico, ben s’intende) non risulta che ne esista uno.

Peraltro l’esistenza di unità politiche «dipendenti» si riscontra costantemente nella storia. Lo erano la Giudea, l’Arabia Nabatea, l’Armenia (e altri) ai tempi dell’Impero romano. La Cipro dei Lusignano dipendeva da Venezia, la Transilvania dall’Ungheria nel Medioevo. Le repubbliche rivoluzionarie e poi i regni napoleonici dopo la rivoluzione francese dalla Francia. E così fino alla seconda guerra mondiale (ed oltre).

Tuttavia tale (apparente) assenza – a noi contemporanea – non significa che il rapporto di dominio sia venuto meno. Vale pur sempre la regolarità del politico esposta da Tucidide nel famoso dialogo tra gli ambasciatori ateniesi e i maggiorenti di Melo[7]. Pertanto il dominio (e la differenza tra rapporti di forza che presuppone) si esercita in modo diverso. Ciò per varie ragioni.

In primo luogo perché così viene occultato: non traducendo in istituti giuridici il rapporto di comando-obbedienza, questo è meglio nascosto. Si ubbidisce meglio e con minor resistenza a chi non comanda palesemente e con frastuono di «grida». Inoltre così è attenuata anche la responsabilità: uno Stato sovrano – anche se satellite o fantoccio – è responsabile pienamente dei propri atti (e omissioni), una colonia o un protettorato no (o non pienamente).

4.0 I giuristi, come Santi Romano, pongono il problema in termini giuridici (capacità-personalità); a un pensiero politico realista occorre qualcosa di diverso: più sein che sollen. Si può definire – com’è stato fatto – la sovranità come «competenza sulle competenze»; la si può denotare in un elenco di attività e funzioni (le vraies marques di Bodin); o come decisione sull’idea di diritto che debba valere nella comunità, o semplicemente negandola come fa Kelsen.

Ma, a basarla sul dato reale e concreto, la migliore definizione la si ricava da Sieyés, nelle sue considerazioni sulla Nazione, applicabili alla sovranità «La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre conforme alla legge, essa è la legge stessa. Prima di essa e al di sopra di essa non c’è che il diritto naturale… una nazione non può né alienare né interdire a se stessa la facoltà di volere; e qualunque sia la sua volontà, non può perdere il diritto di mutarla qualora il suo interesse lo esiga»[8]. È il volere libero, il connotato sostanziale del sovrano.

La stessa impostazione che dava Bodin della sovranità ruota intorno alla volontà del sovrano ed ai suoi limiti, ovvero se sia obbligato dai trattati con gli Stati esteri; o dalla legge; o dalla costituzione; o dal diritto naturale[9].

Bodin si pone anche il problema se possa dirsi sovrano un principe che sia feudatario o tributario e inizia affermando «Abbiamo detto poc’anzi che si può dire sovrano solamente chi non dipende, eccezione fatta per Dio, altro che dalla sua spada. Se uno dipende da altri non è più sovrano»[10].

Nel capitolo successivo, dopo aver dato una soluzione così semplice (sovranità = non dipendenza da altri) Bodin espone quali sono le vraies marques de la souveraineté. E scrive: «Infatti, chi non riterrebbe sovrano colui che possa dettar legge a tutti i suoi sudditi, decidere la guerra e la pace, nominare tutti gli ufficiali e magistrati del paese, levare taglie e affrancare chi meglio creda, dar la grazia a chi abbia meritato la morte? Che altro ancora si può richiedere per considerare sovrano un principe?»[11]; ma subito dopo ritorna sullo stretto rapporto sovranità/indipendenza «come potrebbe essere sovrano chi riconosca la giurisdizione di un superiore il quale possa annullare i suoi giudizi, modificare le sue leggi, castigarlo se commette abusi?»[12] e aggiunge, in sostanza, che il tutto è un principio d’ordine[13].

Anche quando scrive della prima marque (cioè del potere di dare, modificare, abrogare le leggi) specifica «Perciò possiamo concludere che la prima prerogativa sovrana è il potere di dare la legge a tutti in generale e a ciascuno come singolo; ma ancora questo non è sufficiente, se non si aggiunge: “senza il bisogno del consenso di nessuno”. Se il principe dovesse attendere e osservare il consenso di un superiore, non sarebbe che un suddito; se di un uguale, avrebbe un compagno di potere; se dei sudditi, del senato o del popolo, non sarebbe sovrano».

Quando poi scrive di un’altra marque, quella di nominare gli alti magistrati, afferma: «Ma ho parlato di ufficiali più alti o di primi magistrati, perché in realtà non vi è Stato ove non sia permesso ai più alti magistrati e a certi corpi e collegi di eleggere qualche ufficiale minore»[14]; così quando tratta del potere di giudicare in ultima istanza (cioè – anche – di annullare le sentenze) sostiene «Ma, al contrario, quando il principe sovrano lascia il suo suddito o vassallo il potere del diritto di giudizio in ultima istanza, o addirittura delle prerogative sovrane che apparterrebbero a lui, egli fa del suddito un principe sovrano»[15].

Bodin doveva cercare di ricondurre alla propria teoria dello Stato (moderno) proiettata nell’avvenire, istituti e rapporti giuridici esistenti in un’età di transizione tra il vecchio ordine feudale (policratico) e il nuovo ordinamento statale; peraltro, forse perché era un giurista, finiva in qualche misura, anche nel cadere in un eccesso di giuridificazione della sovranità[16].

5.0 La teoria di Bodin elaborata, come scritto, in un’epoca di transizione (Hauriou chiamava epoche le diverse fasi di una civiltà o «era»; così l’epoca medievale o quella del rinascimento[17]), può essere rivisitata per valutare la situazione contemporanea anch’essa di transizione (assai avanzata) tra l’ordine westphaliano e uno futuro di cui si percepiscono i contorni.

All’uopo le maggiori differenze tra il vecchio e nuovo ordine sono:

1) Il carattere della globalizzazione. Ovviamente questa non è nata con la fine dell’ordine di Yalta (o con internet), come spesso creduto. Va avanti almeno dalle gradi «scoperte» dei navigatori europei dell’inizio dell’età moderna. La differenza tra il tempo di Filippo II e Elisabetta I e l’attuale è che, fino a qualche decennio fa la globalizzazione era «gestita» o meglio «regolata» e «limitata» dagli Stati (dalla politica): tutela cui si sta sottraendo (o meglio si è già in notevole misura) sottratta.

Il primato dell’economia nella politica si sviluppa riducendo la capacità ordinatrice della seconda e quindi degli Stati.

2) La diffusione dei soggetti «politici».  Non sono solo partiti e movimenti partigiani, ma anche lobbies e centri di potere economico e finanziario, sette e chiese. Qualcuno potrebbe obiettare: nulla di nuovo. E in effetti una situazione del genere ha più punti di contatto con l’assetto policratico dei feudatari, delle gilde e degli ordini monastico-militari che con l’età moderna.

3) Le ideologie pacifiste e la diffusione di forme di guerra «alternativa». Ossia non violente o comunque a «bassa intensità».

Il lavoro che ne tratta è l’ormai «classico» «Guerra senza limiti» dei colonnelli cinesi Quiao Liang e Wang Xiangsui. Quel che ne consegue è che simili forme di guerra rientrano facilmente nella disponibilità di soggetti non-politici (nel senso sopra precisato). Come scrivono i colonnelli suddetti «Quando la gente comincia ad entusiasmarsi e a gioire proponendo per la riduzione di forze militari come mezzo per la risoluzione dei conflitti, la guerra è destinata a rinascere in altre forme e su di un altro scenario, trasformandosi in uno strumento di enorme potere nelle mani di tutti coloro che ambiscono ad assumere il controllo di altri paesi o aree. In tal senso esistono fondate ragioni per sostenere che l’attacco finanziario di George Soros all’Asia Orientale, l’attacco terroristico di Osama Bin Laden all’ambasciata militare in Sudan, l’attentato chimico alla metropolitana di Tokyo da parte dei discepoli  di Aum Shiri Kyo e i disastri perpetrati ai danni della rete da personaggi come Morris Jr., il cui livello di distruzione non è certo secondario a quello di una guerra, rappresentano una “semi-guerra”, una “quasi-guerra” e una “sotto-guerra”, vale a dire la forma embrionale di un altro genere di guerra»[18].

4) Il potere indiretto. Diversamente dagli imperi europei dell’era moderna dove la potenza colonizzatrice (e dominante) aveva responsabilità per la gestione dei territori soggetti, nel caso delle forme di dominio contemporanee, proprio perché esercitato più con strumenti politici che formalizzate giuridicamente, la responsabilità della potenza (o del potere) egemone non è giuridicamente configurabile. Anche se poi è chiaro che dietro a certi belligeranti e a certe guerre, vi sono potenze che «tirano i fili». Ma è una situazione estremamente comoda quella di uno Stato (o altro soggetto) che esercita un potere senza assumerne la responsabilità. Per questo è molto ricercata e sviluppata in questo tempo di pacifismo imperante (e d’ipocrisia diffusa), anche se non sconosciuta nei secoli passati.

5) Il consenso di terzi nell’esercizio di prerogative sovrane. È questo, come scrive Bodin che de-sovranizza il principe (v. sopra citato rif. nota 11). Nella realtà la dipendenza politica di uno Stato da un altro si è sviluppata, nel corso del XX secolo, in forme diverse, prima sconosciute o comunque meno frequentate.

Tipica è la dipendenza «ideologica» (a partire dalle repubbliche giacobine), dopo la pausa del XIX secolo, è aumentata nel secolo passato; il fattore d’incremento principale è stato il partito (e quindi lo Stato) totale, in effetti anche transnazionale. Com’è evidente nel comunismo «organizzato» prima nel Comintern e poi nel Cominform, ma anche nella diffusione, già nel secondo anteguerra, di partiti fascisti, giunti per lo più al potere nei rispettivi Stati a seguito dell’occupazione militare delle potenze dell’Asse.

La stessa dipendenza economica è incrementata (ideologicamente). Se si reputa ottimale un assetto libero-scambista, questo, in generale è preferibile: ma se si vuole negare che uno Stato abbia il diritto d’imporre limitazioni alla circolazione di merci, servizi e persone, anche nei casi di necessità estrema (eccezione), non lo è. Al contrario: il tutto riduce drasticamente la legittimità del  potere politico, il quale istituito per il conseguimento del bene comune, trova in questo la propria regola di comportamento.

Altri tipi di dipendenza – spesso correlativi alla «permeabilità» degli Stati, si possono sviluppare attraverso il progresso tecnologico: se i due bravi colonnelli sopra citati configurano un atto di guerra con attacchi informatici, il relativo mezzo può essere utilizzato come strumento d’influenza e quindi di dipendenza.

Il potere mediatico può ottenere lo stesso risultato: anche in tal caso la corrispondente forma di guerra, ossia la guerra psicologica può convertirsi, in periodo di pace, in un’influenza/dominio sull’opinione pubblica di un popolo, determinandone scelte e orientamenti.

6) La negazione del nemico. L’aspirazione diffusa alla pace, convertita in «dottrina» dalle ideologie pacifiste che hanno come connotato comune di aver trovato l’elisir per eliminare la lotta (i mezzi sono diversi secondo l’una o l’altra)[19] comporta anche la negazione del nemico; ma la lotta è una condizione generale della politica, e l’ostilità (attuale o potenziale) ne è il corollario (e il presupposto).

La negazione del nemico è l’altra faccia di quella della guerra (convenzionale o meglio, tradizionale): solo assai più radicale. Per cui si crede che evitando la prima venga meno anche il secondo; nella realtà anche mancando quella la competizione per il potere tra diversi gruppi umani rivali continua ad esistere, e a generare altre forme di lotta per il potere: quelle, sopra ricordate, dei «bravi colonnelli» cinesi.

7) Pluralismo e responsabilità. Il pluralismo e le creazioni di aree – per lo più riferibili al diritto privato (quello che Hauriou chiamava droit commun – internazionale per natura) – attraverso Tribunali internazionali, costituiscono altre occasioni appetibili di rendere permeabili gli Stati. Ancor di più quando norme e decisioni internazionali divengono vincolanti attraverso meccanismi appositi, previsti anche per disposizione costituzionale (come l’art. 10 della nostra Costituzione). La responsabilità del sovrano è così dispersa – come il potere – nell’organizzazione policratica e nelle riserve di competenza correlate. Un’esigenza e assetto condivisibile ma che crea delle ghiotte opportunità di influenza.

Nella realtà il diritto, sia che consista in trattati che in decisioni di Corti interne o internazionali, secondo il pensiero politico (e giuridico) classico non poteva prevalere sulla politica e sulla necessità di protezione della comunità che la connota. Vale in generale ciò che diceva Bismarck dei trattati «Nessuna grande nazione potrà essere indotta a sacrificare la propria esistenza sull’altare della fede nei patti».

8) L’economia cosmopolitica e l’economia politica. Scriveva Friedrich List che i primi economisti come «Quesnay, che fece sorgere per primo l’idea della libertà universale del commercio, fu il primo ad allargare le ricerche su tutto il genere umano, senza però tener conto del concetto di nazione»[20].

In realtà List capiva assai bene come tra economia «cosmopolitica» e «politica» il fundamentum distinctionis era proprio l’insopprimibilità della politica come essenza (à la Freund) e come protezione dell’esistenza e conseguimento del bonum commune. Se le idee di Adam Smith sono astrattamente fondate, sono del tutto applicabili solo in un contesto senza guerra e senza volontà di dominio (cioè nel collodiano paese dei balocchi o qualche utopia del genere). Infatti scrive di Smith «Anche se, qua e là, parla della guerra, succede solo di passaggio e assai raramente. Tutti i suoi argomenti si basano sulla pace eterna…Evidentemente Adam Smith ha concepito la pace come pace eterna al modo dell’abate di St. Pierre». E lo stesso J. B. Say, il quale «chiede esplicitamente, per poter concepire l’idea della libertà di commercio, che si ammetta l’esistenza di una Repubblica Universale»[21]; e che se avesse scritto di economia politica (e non cosmopolitica) «difficilmente avrebbe potuto fare a meno di partire dal concetto e dalla natura della nazione e di dimostrare quali cambiamenti essenziali l’economia del genere umano deve subire per il solo fatto che il genere umano è suddiviso in nazionalità distinte, formanti un fascio di forze e di interessi, e poste, nella loro libertà naturale, di fronte ad altre società simili a loro»[22].

E List sostiene che «Tutti gli scrittori teorici hanno ripetuto questo errore. Anche Sismondi chiama l’economia politica “la science qui se charge du bonheur de l’espèce humaine”». Differente è la politica. Questa ha il compito di proteggere l’esistenza (particolare) di una comunità umana e come conseguire il bene comune della stessa[23].

Ed è perciò concettualmente e (spesso) oggettivamente contrapposta al principio cosmopolitico. List ricorda che Thomas Cooper «nega perfino l’esistenza della nazionalità. Egli chiama la nazione “una invenzione grammaticale fatta solo per evitare perifrasi, una cosa inesistente (a non entity) che esiste solo nelle teste degli uomini politici”»[24] affermazione che l’economista tedesco considera coerente «perché è chiaro che se si ammette l’esistenza della nazione, con la sua natura ed i suoi interessi, si presenta anche la necessità di modificare l’economia della società umana in relazione a questi interessi speciali»[25].

E proseguiva insistendo sugli inconvenienti, per l’economia di una nazione, che possono derivare dal differente grado di sviluppo con le altre; onde per beneficiare realmente di un sistema di libero scambio internazionale occorre che le comunità nazionali raggiungano «un uguale grado di civiltà, di formazione politica e di potenza»[26]; per cui «Perché la libertà di commercio possa agire liberamente e naturalmente, occorre prima di tutto che i popoli meno progrediti vengano portati, mediante interventi  di vario genere, allo stesso livello di sviluppo al quale è pervenuta l’Inghilterra»[27].

List, che è considerato spesso un avversario del laissez-faire, appare più esattamente come un realista difensore delle insopprimibili esigenze e presupposti della politica (e del politico).

9) I diritti umani. Che dei diritti umani e delle loro violazioni si sia fatto un uso improprio (per l’intervento negli affari – un tempo interni – degli Stati sovrani) è cosa spesso affermata e nota. Già Hobson stigmatizzava l’analogo uso, da parte della Gran Bretagna nel XIX secolo dell’affermazione che «la nostra politica imperiale e coloniale è animata dalla volontà di diffondere in tutto il mondo le arti del libero autogoverno di cui godiamo in patria» e la contestava affermando che «alla vasta maggioranza dei popoli del nostro impero noi non abbiamo attribuito alcun vero potere di autogoverno, né abbiamo alcuna seria intenzione di farlo, né d’altra parte crediamo seriamente che sia possibile farlo» dato che «dei trecentosessantasette milioni di sudditi che vivono fuori dalle isole britanniche, non più di undici milioni, ossia uno su trentaquattro, hanno una qualche forma di autogoverno per quanto riguarda la legislazione e l’amministrazione»[28] e che «da quando le prime luci del nuovo imperialismo negli anni settanta hanno dato piena coscienza politica all’impero, è divenuto un vero luogo comune del pensiero liberale sostenere che la missione imperiale dell’Inghilterra è quella di diffondere l’arte del libero governo»[29].

Un giudizio simile mutatis mutandis, merita l’uso strumentale dei diritti umani.

  1. Le idee sopra elencate sono le principali giustificazioni ideologiche di una globalizzazione che cerca di eliminare (o ridurre) i limiti che la politica e gli Stati possono porle.

In effetti le controindicazioni che una situazione del genere possa provocare sono già indicate nel pensiero politico (ed economico) di cui gli autori sopra ricordati costituiscono una (quantitativamente) piccola parte.

Il primo di tali inconvenienti è che l’ordine mondiale globalizzato non si pone – o non lo fa adeguatamente – il presupposto e la conseguenza che si accompagnano a quello: ossia il potere e la responsabilità.

Maurice Hauriou sosteneva che «il potere è una libera energia della volontà che si fa carico d’intraprendere il governo di un gruppo umano attraverso l’ordine ed il diritto»[30]. In tale definizione, proseguiva, vi sono tre elementi essenziali: 1) che il potere è una libera energia della volontà; 2) che il potere è un imprenditore di governo; 3) e che lo fa con la creazione dell’ordine e del diritto. Nelle concezioni globalizzatrici, a parte il richiamo all’idea d’impero, d’altra parte non meglio precisata, questa è soprattutto di assai dubbia praticabilità. Infatti in primo luogo si pone il problema di chi è lo Stato imperiale. Forse gli USA? E allora perché, malgrado guerre umanitarie e interventi di peace-keeping, non riescono a «normalizzare» i popoli (e gli Stati) occupati dalla NATO (o da coalizioni di Stati membri della NATO)[31]. E Cina e Russia che fanno?

Per cui l’idea d’impero – data la scarsa probabilità che la «testa» ne siano gli USA, diventa evanescente, ma più realistica. Così nel notissimo saggio di A. Negri e M. Handt, «Impero» in cui la forma di governo dell’Impero è una galassia formata da organizzazioni di Stati, Banca             mondiale, clubs vari e multinazionali[32]. È chiaro che un sistema siffatto, in effetti policratico, è «governabile» solo a prezzo di guerre, talvolta «tradizionali» (anche se mascherate da «operazioni di polizia internazionale»), più spesso asimmetriche (nel senso dei colonnelli cinesi più volte ricordati): a regolarlo sono assai più i rapporti di forza che il diritto.

Per cui come un governo siffatto possa garantire un’impresa di governo attraverso l’ordine e il diritto è difficile da immaginare. Di fatto non c’è un governo nel senso di un centro di riferimento in fatto e in diritto irresistibile; non c’è neppure una volontà, che richiede di essere personale (o pluripersonale) di un organo deputato a decidere (parlamento, consiglio dei ministri, Capo dello Stato), ma solo procedure informali riconducibili ad accordi, evidentemente fondati sui rapporti di forza; non c’è neanche un ordine, intesto nel senso di ordine sotto un’autorità (e una gerarchia) riconosciuta[33]; ne è configurabile un diritto – almeno completamente – perché questo va comunque distinto – come scriveva Hauriou – in droit disciplinaire (quello emanato dall’istituzione e basato sul rapporto di comando-obbedienza) e droit commun (quello fondato sulla socievolezza umana e quindi internationale)[34]. E il droit disciplinaire qui  manca (il che non significa che non vi sia il rapporto comando-obbedienza).

  1. Scrive Freund peraltro che il bene comune – scopo dell’azione politica – si distingue, secondo il presupposto dell’amico/nemico (e del comando/obbedienza) nei due aspetti della sicurezza esterna e della concordia interna. Ma, in una società globalizzata la prima ha un senso depotenziato, almeno se la globalizzazione è intesa, come generalmente ritenuto, quale percorso per eliminare guerra e ostilità. Una volta che si fantastica di toglierle di mezzo, il problema (si immagina) è risolto. Quindi niente Stati (in senso westphaliano) né «politica» in un mondo globalizzato.

Quanto alla concordia interna, fondata più sul presupposto del comando-obbedienza, che su quello dell’amico-nemico, questo appare un obiettivo ancor più difficile da conseguire per un potere globalizzatore. Alla base di quella c’è il romano idem sentire de re publica, cioè la condivisione in un gruppo umano della fiducia in istituzioni, valori, interessi nonché la consapevolezza di una comune appartenenza (per lingua, tradizione, religione). Ovviamente tutti tali elementi determinano la particolarità e la specificità del gruppo politico, come tale già contrapposto ad un potere che si pretende universale[35].

Peraltro, nel processo di formazione delle unità politiche è l’idem sentire, o per dirla alla Payne, il common sense comunitario che favorisce e determina il costituirsi dell’unità politica e non viceversa (o per lo meno è questo il percorso normale e maggiormente praticato).

Questo in una società planetaria manca o è carente e inidoneo a costituire una base di consenso e condivisione a un potere universale, mentre fondamentalisti, nazionalisti, gruppi etnici (e così via) tuttora hanno la capacità di costituire sintesi politiche. Finché le identità delle varie comunità saranno così diverse è bizzarro pensare che, nella modestia di un sentire comune «universalista» si possa costituire (qualcosa che somigli a) una unità politica.

In Europa le ultime costituite, cioè Italia e Germania, a parte i fattori unificanti (lingua, territorio, «razza», consuetudini, e per l’Italia la religione cattolica), hanno richiesto un’opera di convinzione dello spirito pubblico durata oltre mezzo secolo (almeno: dall’età napoleonica a oltre metà dell’800); e comunque diverse guerre. Pretendere di costruirne anche solo un surrogato a tavolino e con la collaborazione di banche e burocrazie è frutto di aspirazioni scambiate per realtà possibili.

  1. Senza le condizioni possibili per realizzare l’unità politica, come può fondarsi un ordine internazionale «globalizzato»?

Machiavelli nel Principe scriveva che «Dovete adunque sapere come e’ sono dua generazioni di combattere: l’uno, con le legge; l’altro, con la forza. Quel primo è proprio dello uomo; quel secondo, delle bestie. Ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo: pertanto ad uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo»[36]. Tale passo è stato interpretato in più modi e d’altra parte il pensiero denso e la scrittura efficace e concisa del Segretario fiorentino esprimono spesso meno parole che giudizi: uno dei quali è quello, ripreso secoli dopo da de Maistre che dove non c’è sentenza c’è lotta. Istituzioni (politiche) leggi, sentenze e ciò che presuppongono (cioè consenso, idem sentire, tradizione e così via) sono sistemi per produrre ordine e decisioni alternativi alla lotta. Giudizio che anche nei tempi presenti appare confermato. Dopo la caduta dell’ordine di Yalta – che era un ordine di sistemi politici «regionali» (occidente, comunismo, e – al massimo – «terzo mondo») le guerre convenzionali e «innovative» appaiono aumentate, ed estese a regioni del pianeta prima risparmiate, come l’Europa orientale, il Caucaso e parte del Medio Oriente. Dei soggetti «guerreggianti» oltre agli Stati e ai movimenti di liberazione nazionale, abbiamo un po’ di tutto.

D’altra parte la stessa invocazione alla «pace» e alla riduzione degli armamenti appare diventata uno strumento di guerra. Se la deterrenza della guerra consiste nel fatto che i contendenti possono arrecarsi danno reciproco, il limitare giuridicamente la possibilità di reazione è il tentativo di usare del diritto per impedire – nella maggior parte dei casi – la resistenza alla forza, e così cristallizzare i rapporti di potere, mantenendone le ineguaglianze.

Il che è soprattutto temibile nel caso di guerre condotte con mezzi non violenti, come quelle descritte dai «bravi colonnelli». Il tutto finisce col somigliare ad una rivisitazione attualizzata alla situazione contemporanea dei Trattati ineguali tra potenze europee ed asiatiche dell’800.

Con in più due caratteri specifici: che – per lo più, ciò serve a ridurre i rischi dell’aggressore, il quale, se sa di non dover subire una reazione violenta, può tranquillamente esercitare l’azione non violenta. E la seconda, usuale, che il tutto più che nei trattati è sancito attraverso la persuasione dell’opinione pubblica. La pace (intesa come non-violenza) è così mezzo di dominio.

Che «forza» e «legge» siano modi di combattere, come scrive Machiavelli, ossia d’imporre la propria volontà, è spesso dimenticato; così del pari, è – anche se in misura minore – trascurato che forza e legge sono anche modi di governare, non (totalmente) alternativi, ma piuttosto complementari. La «legge» senza forza è inutile: la forza senza legge è arbitrio violento.

Nella realtà occorrono entrambi. Se la combinazione di forza e regola è la normalità del governo dei gruppi umani, così come il potere responsabile è l’ordinatore ideale, quello che si profila nel mondo globalizzato appare tra i meno preferibili. Perché si risolve nell’affidare prevalentemente alla forza e all’astuzia (del potere esistente) il massimo della potenza disponibile senza la prospettiva che possa riuscire a creare un ordine che sia veramente tale.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

[1] V. Corso di diritto internazionale, Padova 1933, p. 115.

[2] V. «poiché la regola dell’indipendenza internazionale dei soggetti, non è assoluta, ma ha delle eccezioni, ne viene che un soggetto può assumere una posizione di superiorità verso un altro, in base allo stesso diritto internazionale, e quindi si possono avere degli Stati che sono titolari di una potestà sovrana di mero diritto internazionale su Stati che, per la loro posizione sempre internazionale, sono subordinati ai primi e per ciò non sovrani. Così, p. es., nel protettorato» op. loc. cit.

[3] V. «Come si è visto, che un soggetto sia per diritto internazionale sovrano rispetto ad un altro non sovrano, nel senso che su questo eserciti una potestà, non è la regola, ma l’eccezione» op. cit.

[4] Op.cit., p. 117; e conclude «data la grande varietà che il protettorato può assumere, è difficile formulare principii generali, ma si può affermare che essi implicano sempre una limitazione della capacità di diritto e inoltre la perdita in taluni casi, o la diminuzione in altri, della capacità di agire».

[5] Op. cit., p. 118

[6] Anche giuridicamente, ma solo fino a un certo punto. Diversamente dallo «status» dei protettorati, le limitazioni vi sono, ma a parte la minore entità, non si traducono in una condizione stabile e regolata da dipendenza, ma a modifiche secondarie, ma talvolta significative, dei diritti degli stessi. Così le collaborazioni tra amministrazioni civili e militari.

[7] «Le nostre opinioni sugli Dei, la nostra sicura scienza degli uomini ci insegnano che da sempre, per invincibile impulso naturale, ove essi, uomini o Dei, sono più forti, dominano» v. La guerra del Peloponneso trad. it. di P. Sgroj V, 105/110.

[8] Qu’est-ce le tiérs État trad. it. di G. Troisi Spagnoli, in Opere Tomo I, Milano 1993, pp. 255-257.

[9] Scrive Bodin «Se dunque il principe sovrano è per legge esente dalle leggi dei predecessori, ancor meno egli sarà obbligato a osservare le leggi e le ordinanze fatte da lui stesso: si può ben ricevere la legge da altri, ma non è possibile comandare a se stesso, così come non ci si può imporre da sé una cosa che dipende dalla propria volontà, come dice la legge: nulla obligatio consistere potest, quae a voluntate promittentis statum capit; ragione necessaria, che dimostra in maniera evidente come il re non possa essere soggetto alle leggi» Six livres de la République, trad. it. di M. Isnardi Parenti, Torino 1988, p. 360.

[10] Op. cit., p. 407 (il corsivo è nostro).

[11] Op. cit., p. 480.

[12] Op. cit., p. 481.

[13] «E in breve abbiamo dimostrato le assurdità intollerabili che conseguirebbero se i vassalli fossero sovrani, anche nel caso che non abbiano nulla che non dipenda da altri; e che cosa avverrebbe se si considerassero uguali il padrone e il servitore, il signore e il suddito, chi presta giuramento di fedeltà e chi lo riceve, chi comanda e chi è obbligato all’obbedienza» (il corsivo è nostro) op. loc. cit.

[14] Op. cit., p. 503.

[15] Op. cit., p. 511 (il corsivo è nostro).

[16] V. J. Freund secondo cui «i giuristi, seguiti da certi filosofi della politica, hanno cercato di spogliare della sovranità il comando. E Bodin è in parte responsabile di questa opera» L’essence du politique, Paris 1965, p. 117.

[17] V. La science sociale traditionnelle, rist. in Ecrits sociologiques, Dalloz, Paris 2008, p. 233 ss.

[18] Guerra senza limiti, L.E.G., Gorizia 2001, p. 39 e i colonnelli aggiungono «Comunque si scelga di definirla, questa nuova realtà non può renderci più ottimisti che in passato. Ciò perché la riduzione delle funzioni della guerra in senso stretto non implica affatto che quella guerra abbia cessato di esistere. Anche nella cosiddetta era postmoderna e post-industriale la guerra non sarà mai eliminata del tutto. E’ solo tornata a invadere la società in modi più complessi, più estesi, più nascosti e sottili», op. loc. cit. (il corsivo è nostro).

[19] V. Sul pacifismo e sulla pace le considerazioni di Freund, op. cit., pp. 620 ss; v. A. Salvatore, Il pacifismo, Roma 2010. In genere sull’incompatibilità tra sovranità dei popoli e globalizzazione v. l’attento studio di Alain de Benoist, Oltre la sovranità, Arianna Editrice, Bologna 2012, in particolare pp. 97-106.

[20] Das nationale system der Politischen Ökonomie, trad. it. Di H. Avi e P. Tinti Milano 1972, p.149 (il corsivo è nostro); e prosegue «Quesnay tratta evidentemente dell’economia cosmopolitica, cioè di quella scienza che insegna come tutto il genere umano può raggiungere il benessere, mentre per contro l’economia politica ed altre scienze si limitano ad insegnare come solo una data nazione possa raggiungere il benessere, la civiltà e la potenza, nelle condizioni mondiali date e per mezzo della sua agricoltura, industria e commercio. Adamo Smith diede alla sua dottrina la medesima estensione, ponendosi il compito di giustificare l’idea cosmopolitica dell’assoluta libertà del commercio mondiale… Adamo Smith non si pose il compito di trattare dell’oggetto dell’economia politica, vale a dire della politica che ogni paese deve seguire per fare dei progressi nelle sue condizioni economiche. Egli intitola la sua opera: Della natura e delle cause della ricchezza delle nazioni, cioè di tutte le nazioni delle quale si compone il genere umano. In una parte speciale della sua opera egli parla dei diversi sistemi dell’economia politica, ma solo con l’intenzione di dimostrare la loro vanità e per provare che al posto dell’economia politica o nazionale deve subentrare l’economia universale».

[21] E prosegue «Quei principi, però, che riguardano gli interessi di nazioni intere come tali ed in rapporto alle altre nazioni, formano invece l’economia pubblica (économie publique). Mentre l’economia politica tratta gli interessi di tutte le nazioni, di tutta la società umana in generale», op.cit., p. 50 (i corsivi sono nostri).

[22] Op. loc. cit. (il corsivo è nostro).

[23] Come scrive Freund: «qual è il bene specifico dell’attività politica… come Hobbes non cessa di ripetere il bene comune dello Stato e quello del popolo che formano insieme una collettività politica. In effetti se gli uomini continuano a vivere in collettività politiche, è perché vi trovano un interesse. Ci sono forti probabilità che se la natura umana non trovasse alcuna soddisfazione (bien) in tale genere di vita nessuna unità politica potrebbe essere stabile e durevole», v. Qu’est ce-que la politique, Paris 1965,p. 38.

[24] Op. cit., p. 151.

[25] Op. loc. cit..

[26] Op. cit., p. 155.

[27] Op. cit., p. 159.

[28] V. Imperialism. A study, trad. it., di L. Meldolesi, Milano 1974, p. 102.

[29] Op. cit., p. 105.

[30] Précis de droit constitutionnel, Sirey, Paris 1929, p. 14.

[31] Volutamente ho rispolverato il termine di «normalizzazione» di bresneviana memoria, perché, malgrado tutto, l’intervento del 1968 in Cecoslovacchia del patto di Varsavia (cioè di un vero impero regionale) riuscì a ricondurre all’«obbedienza» una nazione riottosa, senza che ciò degenerasse in guerre civili o partigiane: fu un intervento di successo, come, in passato, molti del XIX secolo. Che poi il comunismo sia imploso è un fatto che trascende la dimensione politica e strategica dell’ordine nell’impero sovietico: il crollo del comunismo è dovuto all’incompatibilità del sistema con i presupposti del politico e, più in generale, con le innate tendenze dell’uomo.

[32] Il carattere informale e non strutturato del potere globalizzatore è stato notato da molti. Tra i quali ricordiamo F. Cardini, La Globalizzazione, Rimini 2004; G. Ferrara, Derubati di sovranità, Vicenza 2014.

[33] Che è poi il senso agostiniano di ordine e di pace «la pace della città è l’ordinata concordia dei suoi cittadini nel comandare e nell’obbedire; la pace della città celeste è la più perfetta e armoniosa concordia nel gioire di Dio e nel godere vicendevolmente in Dio; la pace di tutte le cose è la tranquillità dell’ordine. E l’ordine è la disposizione degli esseri uguali e disuguali che assegna a ciascuno il posto che gli conviene» v. De civitate Dei, trad. it., Roma 1979, p. 1161.

[34] V. M. Hauriou, op. cit., p. 97 ss.

[35] Come scrive M. Veneziani Comunitari o liberali, Laterza, Bari 2006,p. 105 «Da una parte la globalizzazione congiunta all’internazionalismo porta a superare i confini territoriali; ma può esistere una comunità illimitata, che coincide alla fine con l’umanità? Puoò esistere cioè una comunità che non riconosce tratti specifici, provenienze condivise, tradizioni comuni ma solo la comune appartenenza al genere umano? Più giusto in questo caso è parlare di cosmopolitismo e non di democrazia comunitaria»; il che pone il problema del politico e della sua pretesa estinguibilità.

[36] Principe XVIII (il corsivo è nostro).

STATO RAPPRESENTATIVO E VINCOLO DI MANDATO, di Teodoro Klitsche de la Grange

STATO RAPPRESENTATIVO E VINCOLO DI MANDATO

C’è da chiedersi perché i “vecchi” giuspubblicisti e scienziati della politica chiamavano lo Stato loro contemporaneo, ossia lo Stato post-rivoluzione francese preferibilmente Stato rappresentativo e, come concetti prossimi e/o derivati, le istituzioni di quello rappresentative, il regime politico rappresentativo, la stessa democrazia rappresentativa e rappresentativo il governo (e la forma di governo). Oggigiorno, a partire (grosso modo) dalla metà del secolo scorso, al posto di rappresentativo lo si caratterizza come liberale o democratico-liberale (raramente borghese)[1].

Dagli autori e dai loro contributi (citati in nota e da altri) risulta la duplicità dei significati dei termini rappresentanza e rappresentativo i cui estremi sono da un lato il carattere necessario, per cui non c’è possibilità di governo e quindi di sintesi politica senza rappresentanza. Come sostiene Carl Schmitt la rappresentanza è un principio di forma politica; senza quel principio (così come senza quella d’identità) non c’è forma di Stato[2].

Scrive Schmitt “Nella realtà della vita politica esiste tanto poco uno Stato che possa rinunciare agli elementi strutturali del principio di identità, quanto poco uno Stato che possa rinunciare agli elementi strutturali della rappresentanza. Anche là dove è fatto il tentativo di realizzare incondizionatamente un’identità assoluta, rimangono indispensabili gli elementi e i metodi della rappresentanza, come viceversa non è possibile nessuna rappresentanza senza raffigurazioni dell’identità”.

Dall’altro la necessità che il rappresentante sia scelto dai rappresentati e sia in sintonia con essi. Ambo i caratteri sono già presenti nel discorso di Sieyés del 7 settembre 1791 all’Assemblea costituente francese, così come le ragioni che li rendono insopprimibili[3].

Se è vero che la rappresentanza è necessaria perché è principio di forma politica è anche vero che (l’altro polo del significato del termine) viene considerato rappresentante chi è, in qualche misura, in sintonia con i rappresentati. Scrive Fisichella “In termini di rapporto tra elezione e rappresentanza, si possono configurare tre combinazioni principali. Si può ipotizzare, per cominciare, una elezione senza rappresentanza … Ancora più nutrita è la combinazione inversa, cioè la rappresentanza senza elezione. Del monarca si dice che rappresenta la nazione, senza che nelle monarchie ereditarie egli passi attraverso il momento elettivo”[4]. Ma se “tralasciamo l’elezione che non dà luogo a rappresentanza, in quanto esula dal nostro tema che invece ha per oggetto appunto la rappresentanza, ci accorgiamo che rimangono i due casi della rappresentanza senza elezione e della rappresentanza elettiva … vale chiedere in prima istanza a quale livello incide l’elemento elettivo, cioè in altri termini quali differenze sussistono tra rappresentanza elettiva e non”[5]. Quanto alla somiglianza sociologica delle istituzioni rappresentative “come riproduzione del microcosmo rappresentativo del macrocosmo sociale … Siamo nel contesto della concezione «descrittiva» della rappresentanza o, se vogliamo, della rappresentanza come rappresentatività”, ma non è detto che un organo non elettivo non sia meno rappresentativo in questo senso. Parimenti per la rappresentatività psicologica per cui “non è necessario enumerare altri casi, oltre i due ora richiamati, per inferirne la possibilità dell’esistenza di assemblee che siano rappresentative anche se non elettive”. Pertanto a fare “la differenza” è il carattere partecipativo dell’elezione “Solo la rappresentanza elettiva è la rappresentanza democratica, nel senso che in essa si realizza il precetto partecipativo”[6]. E prosegue “La repubblica di cui parla il Federalist per distinguerla dalla democrazia, è pur sempre una realtà democratica, se la sua rappresentanza vi è elettiva”. Anche perché la procedura elettiva ha un (potente) effetto di integrazione.

A concludere questo breve excursus su un tema quanto mai trattato dalla dottrina così come dalla politica “militante”, se ne deduce che carattere (e funzione) principale della rappresentanza è dare capacità d’azione (e quindi esistenza) alla comunità di cui le istituzioni rappresentative sono organi. É l’impossibilità (se non per comunità piccolissime) di agire come politica che determina l’inevitabilità della rappresentanza politica. E la necessità anche dei di essa corollari, affinchè possa operare congruamente alla funzione principale.

  1. L’insistenza con cui i “vecchi” giuristi (Mosca, ancorché ricordato soprattutto come scienziato della politica, era professore di diritto costituzionale) definivano come “rappresentativo” lo Stato successivamente denominato “liberale” o (meglio) “democratico-liberale” è probabilmente da ricondurre al (sotteso) concetto di costituzione e in genere di ordinamento (e non lontano dalla concezione schmittiana della costituzione).

Questo è in primo luogo, relativamente allo Stato rappresentativo (o borghese) l’ordinamento di uno status mixtus cui concorrono sia i principi di forma politica (identità e rappresentanza, istitutivi dell’organizzazione politica) che dell’ “ordine” borghese (con funzione limitativa del potere politico e pubblico in generale)[7].

Dato che l’esistenza (e la capacità d’azione) politica è costituita e modellata dai primi (e i secondi non sono necessari a quella) sono questi, e in particolare il principio rappresentativo a connotarlo. Anche se tale rappresentanza, avendo un carattere democratico (o proiettato verso la democrazia), è orientata verso tale specie del genere rappresentativo. Successivamente tale carattere è passato in secondo piano, cedendo la priorità alla tutela del diritti fondamentali (e quale principio organizzativo orientato alla libertà, alla distinzione dei poteri).

Ciò non toglie che come scriveva Santi Romano “Costituzione, significa, come si è detto, assetto o ordinamento che determina la posizione, in sé e per sé e nei reciproci rapporti che ne derivano, dei vari elementi dello Stato, e, quindi, il suo funzionamento, l’attività, la linea di condotta per lo stesso Stato e per coloro che ne fanno parte o ne dipendono”[8].

  1. Da qualche anno si è contestato il precetto, derivante dal carattere rappresentativo dell’unità politica, per cui il rappresentante non può avere vincoli di mandato (disposto fin dalla Costituzione francese del 1791, Titolo III, cap. I, art. 7). Si sostiene data la scarsa fedeltà dei parlamentari al partito nelle cui liste sono stati eletti, (al punto che la maggioranza dei parlamentari della legislatura passata ha cambiato partito) l’opportunità di abolire, ma per lo più limitare quel principio con precetti antivoltagabbana.

A tal fine si vorrebbe limitare la libertà di decisione dei parlamentari sia con norme comportanti decadenza dall’incarico, sia con sanzioni economiche. Cioè circoscrivere giuridicamente ciò che politicamente non tollera limiti. Una proposta ufficiale è quella di recente lanciata da Di Maio. Secondo il quale introdurre il vincolo di mandato sarebbe “l’unico vero antidoto alla piaga dei voltagabbana che ammorba il Parlamento da anni” perché si tratta di gente che si prende 15.000 euro al mese grazie al voto dei cittadini per portare avanti un programma e poi invece fa quello che gli pare… Per noi il parlamentare è un portavoce delle istanze degli italiani (cioè Di Maio rivaluta il “corriere politico” così svalutato da Sieyès) … Se il programma per cui è stato votato non gli sta più bene, allora prende e se ne va a casa senza stipendio, senza buonuscita”.

Tutte tali proposte, ancorché quelle dei Cinquestelle siano blande, violano il principio della libertà (d’azione e di opinione) degli organi rappresentativi e dei loro componenti e che non si limita alla sola salvaguardia dall’invadenza del Giudice penale, ma ha portata (e ratio) generale. Scriveva Orlando che “l’istituto delle immunità parlamentari non ha bisogno di essere collegato con alcuna ragione di convenienza specifica, ma si giustifica come si giustifica ogni istituto di diritto comune, cioè con la semplice enunciazione di quella che i romani chiamavano ratio iuris[9]; onde le prerogative parlamentari vanno considerate nella loro inscindibile connessione.

Immunità personali, reali, funzionali sono tutte specificazioni del principio che “nessuna volontà esteriore può, non diremo limitare, ma neanche semplicemente concorrere con quella dell’Assemblea nell’esercizio delle sue attribuzioni”. Il principio che le accomuna consiste nell’inviolabilità; perché ciò che conta è che “la persona (o il collegio di persone) che dell’inviolabilità è coperta, non può essere  sottoposta ad alcuna giurisdizione, in quanto questa si attui attraverso una coazione sulla persona” e va intesa come “indipendenza da ogni giurisdizione[10].

Ciò stante la coazione che verrebbe esercitata nel parlamentare anche nell’ipotesi blanda dei Cinquestelle, è comunque lesiva dell’indipendenza del Parlamento[11]. Perché “Che fra gli organi onde lo Stato manifesta la sua volontà e la attua, uno ve ne sia che su tutti gli altri sovrasta, superiorem non recognoscens, e che non potendo appunto ammettere un superiore (ché allora la potestà suprema si trasporterebbe in quest’altro) deve essere sottratto ad ogni giurisdizione e diventa, per ciò stesso, inviolabile ed irresponsabile, è noto”[12].

La notorietà di cui scriveva il Presidente della vittoria si è, evidentemente, assai ridotta; ciò non toglie che l’esigenza per cui era (ed è) stata (fin dagli albori del costituzionalismo moderno) prescritta nelle Carte Costituzionali non sia venuta meno.

Sanzionare il parlamentare anche solo con pronunce di decadenza dall’incarico o di perdita dello stipendio e della pensione è una forma, meno intensa di altre, di esercitare pressioni sul rappresentante. Da parte o di altri poteri dello Stato, nel caso quello giudiziario, e/o anche di poteri non statali (partiti e non solo).

Perché anche se a promuovere il giudizio per la decadenza dallo stipendio fosse anche solo un comitato di elettori, a pronunciarlo sarebbe – a quanto pare – un Giudice (ossia un potere costituito esterno al Parlamento).

E quello del quis judicabit? è il problema principale della decisione. Mentre la “sanzione” prevista dall’ordinamento rappresentativo (ed esercitata da sempre) è quella più logica e conforme al sistema: che il rappresentante fellone sia giudicato dagli elettori i quali, conformemente al carattere democratico della rappresentanza, come hanno il potere di nominarlo, hanno anche quello di giudicarne l’operato e negargli la conferma nell’incarico[13].

Potere che è più complicato da esercitare – e ce ne rendiamo conto – quando, con la seconda Repubblica si sono promulgate leggi elettorali che, progressivamente, hanno prodotto più camere di nominati (dai partiti) che di eletti (dal popolo).

Nella speranza (o illusione) che il futurellum dia maggior spazio alla scelta da parte degli elettori delle persone (e non solo dei partiti), non è comunque ravvisabile l’opportunità che si proceda ad un ulteriore condizionamento dell’indipendenza delle camere.

Insomma: pezo el taco del buso.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Si ricordano alcuni luoghi in cui il termine rappresentativo è utilizzato come nel testo v. V.E. Orlando principi di diritto costituzionale, Barbera (s.d.) p. 64 ss.: “Il governo rappresentativo suppone innanzi tutto che i cittadini partecipino, per mezzo di diritti politici, alla cosa pubblica: riferendocene quindi al criterio delle tre forme secondarie, possiamo dire che questa forma di governo deve necessariamente essere semilibera o libera… esso è dunque una forma di governo popolare o libera o democratica che dir si voglia” nel concetto di rappresentanza si differenzia la distinzione da quello diretto “Il criterio che distingue questo tratto caratteristico si può averlo da questa considerazione materiale, cioè che l’esercizio dei diritti politici, al popolo riservati, non si fa direttamente dai cittadini medesimi… ma bensì per mezzo di rappresentanti, scelti dal popolo”. Caratteristica del governo rappresentativo erano l’armonia tra coscienza popolare e diritto positivo, la distinzione dei poteri, la tutela giuridica e la pubblicità (e con ciò l’opinione pubblica è elemento di controllo). La forma di governo rappresentativo si connette sia alla forma monarchica che a quella repubblicana democratica; Gaetano Mosca parla di “sistema” e “regime” rappresentativo, i quali riproducono, anche in forma democratica (elezione dei rappresentanti) il potere delle minoranze organizzate sulla maggioranza “Quel che avviene colle altre forme di Governo, che cioè la minoranza organizzata domina la maggioranza disorganizzata, avviene pure, e perfettamente, malgrado le apparenze contrarie, col sistema rappresentativo… Accade nelle elezioni, come in tutte le altre manifestazioni della vita sociale, che gl’individui, che hanno la voglia e soprattutto i mezzi morali, intellettuali e materiali per imporsi agli altri, primeggiano su questi altri e li comandano” Elementi di scienza politica, Torino 1923, p. 142 (in altre opere ripete sempre l’aggettivo “rappresentativo”, con significato conforme. V. ad es. “Lo Stato città antico e lo stato rappresentativo moderno” in Partiti e sindacati nella crisi del regime parlamentare, Bari 1949, p. 37 ss.).

Scrive Santi Romano “Più volte, si è avuta l’occasione di notare che, fra le istituzioni governative dello Stato, alcune hanno carattere rappresentativo, cioè rappresentano il popolo o la nazione e sono quindi, quelle nelle quali trova la sua più tipica espressione la forma del governo democratico, in quegli Stati in cui alla democrazia diretta si è sostituita, in tutto o in parte, quella indiretta, ossia rappresentativa. Fra tali istituzioni, basti ricordare le camere parlamentari, che nelle costituzioni che hanno adottato il sistema bicamerale sono spesso entrambe rappresentative, mentre talvolta siffatto carattere ha una sola delle due camere, e il presidente o la suprema istituzione governativa della repubblica, che, per definizione, è sempre rappresentativa… l’istituto della rappresentanza politica è uno di quegli istituti, che erano sorti nel medioevo anche nell’Europa continentale, compresa l’Italia, ma che, in quanto sono ora tipiche espressioni del moderno costituzionalismo, derivano, direttamente o indirettamente, dal diritto costituzionale inglese… Essa partiva dal principio della sovranità popolare, e riteneva che gli elettori, come organi del popolo, delegassero, mediante l’atto elettivo, detto perciò mandato, l’esercizio di tale sovranità agli eletti… I primi dubbi sulla consistenza di tale teoria sorsero quando al principio della sovranità popolare fu sostituito quello della sovranità dello Stato”.

Tali istituzioni “si dicono rappresentative vengono così qualificate perché, nella loro stessa struttura, nel modo con cui sono designate le persone ad essere preposte, in tutti i momenti del loro funzionamento, è implicito lo scopo che esse hanno di mantenere in un continuo e stretto rapporto lo Stato con la nazione, cioè col suo popolo”. Anche se l’elezione non basta a conferire loro il carattere rappresentativo. La rappresentanza può essere “necessaria, che si ha quando il rappresentato non ha la capacità di agire da sé, e quella volontaria, che ha luogo per volontà dello stesso rappresentato, nonché del rappresentante, fuori dei casi di incapacità”. La rappresentanza politica “è una rappresentanza necessaria. Il popolo quando non si ha un governo democratico diretto, non ha la possibilità giuridica di curare e tutelare i suoi interessi se non per mezzo di rappresentanti e, di solito, scegliendo esso stesso questi ultimi. È inoltre rappresentanza legale, che ha, cioè per fonte la legge” (v. Principii di diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 160 ss.).

[2] V. anche “La diversità delle forme di Stato si basa sul fatto che ci sono due principi di forma politica contrapposti, dalla cui realizzazione ogni unità politica assume la sua forma concreta … Lo Stato è una condizione, e precisamente la condizione di un popolo. Ma il popolo può raggiungere e ottenere in due diversi modi la condizione dell’unità politica. Esso può già nella sua immediata datità – in virtù di una forte e consapevole omogeneità, in seguito a stabili confini naturali o per qualsiasi altra ragione – esser capace di agire politicamente. Inoltre esso è come entità realmente presente nella sua immediata identità con se stesso un’unità politica … Il principio contrapposto parte dall’idea che l’unità politica del popolo in quanto tale non può mai esser presente nella reale identità e perciò deve esser sempre effettivamente presente” V. Verfassungslehre trad. it. di A. Caracciolo La dottrina della costituzione, Milano 1984 pp. 270-272.

[3] V. Diceva l’abate rivoluzionario “È quindi necessario convenire che il sistema di rappresentanza e i diritti che volete ricollegarvi in tutti i gradi devono essere determinati prima di decidere alcunché sulla divisione del corpo legislativo e sull’appello al popolo delle nostre deliberazioni. I moderni popoli europei somigliano ben poco a quelli antichi. Tra noi non si tratta che di commercio, di agricoltura, di opifici … Tuttavia non potete rifiutare la qualità di cittadino e i diritti correlativi, a questa moltitudine senza istruzione che la necessità di lavorare assorbe completamente. Perché proprio come noi debbono obbedire alla legge, devono anche, come voi, concorrere a farla. E questo concorso dev’essere uguale. Può esercitarsi in due modi. I cittadini possono accordare la loro fiducia a qualcuno di loro: senza spogliarsi dei loro diritti, ne affidano l’esercizio. È in vista dell’utilità comune che nominano delle rappresentanze ben più capaci di loro di capire gli interessi generali, e d’interpretare, in vista di questi, la loro propria volontà. L’altro modo d’esercitare il proprio diritto a formare la legge è di partecipare in prima persona a farla. Questa partecipazione diretta è ciò che caratterizza la vera democrazia. Quella mediata è connaturale al governo rappresentativo. La differenza tra questi due sistemi politici è enorme” e proseguiva “Non è dubbio, tra noi, su quale debba essere la scelta tra questi due metodi per fare la legge. In primo luogo, la stragrande maggioranza dei nostri concittadini non ha abbastanza istruzione, né abbastanza tempo a disposizione per volersi occupare direttamente delle leggi che devono governare la Francia; la loro opinione è dunque di nominare dei rappresentanti”. Ciò comporta che “i cittadini che si nominano dei rappresentanti rinunciano e devono rinunciare a fare essi stessi direttamente la legge: e, di conseguenza, non hanno alcuna volontà particolare da imporre. Ogni influenza, ogni potere compete ad essi sulla persona dei loro mandatari; ma questo è tutto. Se dettassero delle volontà questo non sarebbe più uno stato rappresentativo; sarebbe uno stato democratico”: di conseguenza è inammissibile il mandato imperativo come se ciascun deputato fosse il commesso del proprio committente (il collegio elettorale) “un deputato lo è della nazione intera; tutti i cittadini ne sono i mandanti … non c’è né può esservi, per un deputato altro mandato imperativo, o del pari, altre aspirazioni, che quelle nazionali; non deve dar ascolto ai suggerimenti dei suoi elettori se non quando siano conformi ai desideri generali”; infatti nell’assemblea “Non si tratta, qui, di registrare, uno scrutinio popolare, ma di proporre opinioni, infine formare in comune una comune volontà”; e “È pertanto inutile che vi sia una decisione nei baliaggi o nelle municipalità, o in ciascuna casa di città o di paese, perché le idee cui mi oppongo non portano che ad una specie di Certosa politica. Questi tipi di pretese sarebbero assai più che democratiche. La decisione non spetta, e non può non spettare che alla sola Nazione, riunita in assemblea. Il popolo o la nazione non può avere che una sola voce, quella della legislatura nazionale” (il corsivo è mio).

[4] V. La rappresentanza politica, Milano 1983, pp. 11-12.

[5] Op. cit. pp. 12-13.

[6] Op. cit. p. 14

[7] C. Schmitt, op. cit., p. 267.

[8] E proseguiva, criticando la concezione di chi ritiene costituzionale solo lo Stato borghese “E sempre in base a tale principio nel campo della dottrina si è spesso ritenuto e da qualcuno si ritiene ancora, che diritto costituzionale sia soltanto quello dello Stato a regimec.d. libero, o, specificando di più, con riguardo alla figura che tale regime ha assunto nello Stato moderno, quello dello Stato «rappresentativo», mentre un diritto costituzionale non avrebbero gli Stati c.d. assoluti o dispotici o anche semiliberi… Ogni Stato è per definizione, come si vedrà meglio in seguito, un ordinamento giuridico, e non si può immaginare, quindi, in nessuna sua forma fuori del diritto… Uno Stato «non costituito» in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del suo corpo”, op. cit., pp. 2-3.

[9] Diritto pubblico generale, Milano 1954, p. 484.

[10] Op. cit., pp. 485-486.

[11] Per salvaguardare la quale è da sempre (addirittura) disposta la “giurisdizione domestica” per i dipendenti delle Camere.

[12] Orlando op. cit., p. 487 (il corsivo è mio).

[13] C’è da valutare poi se un simile tipo di sanzione (il cambiamento di gruppo politico e perciò di partito) sia volto a tutelare (e in quale misura) la fedeltà al partito o quella agli elettori nel caso, non infrequente che non coincidano. L’antico reato di fellonia prescriveva sanzioni contro il vassallo sleale verso il signore feudale (il rapporto era tra persone fisiche determinate).

Così com’è stato sinteticamente esposta la proposta dei 5 stelle (ed altre analoghe) pare prevedeva una fattispecie  – il cambio di gruppo parlamentare – più volta ad assicurare la fedeltà al partito che ai propri elettori. Sarebbe poi interessante a tal fine sapere chi può farlo valere (il partito? Un suo organo?  O sarebbe attivabile con azione popolare?

SOVRANISMO E LIBERTA’ POLITICA, di Teodoro Klitsche de la Grange

SOVRANISMO E LIBERTÁ POLITICA

1.0 Se si chiedesse, in un’inchiesta demoscopica, a cosa fa pensare la parola “sovranità”, oltre a una maggioranza di risposte improbabili, qualcuno risponderebbe ad una “autorità che giudica con decisioni inappellabili su ogni possibile oggetto e rapporto”. L’elemento più importante di una simile “definizione” è il soggetto, ossia che si tratta di un’ “autorità”. E ciò coincide con la concezione della sovranità interna allo Stato (alla sintesi politica). Se tuttavia si analizzano meglio, dal lato esterno, gli elementi essenziali del concetto, è necessario introdurre, per ottenere una definizione esaustiva (che ne comprenda quanti più elementi essenziali), il termine “antitetico” ad autorità, e cioè libertà. E questa non è contraddizione ma complementarietà: nella storia la formazione di sintesi politiche (Stati) si è realizzata, verso l’interno con la riduzione-relativizzazione dei poteri intermedi e, in una certa misura, dei diritti individuali, ossia nella costruzione di un potere irresistibile; all’esterno, attraverso la rivendicazione della esistenza politica indipendente (ovvero libera da interferenze e rapporti ineguali) della comunità (dell’istituzione) che rivendicava la sovranità. La prima espressione politico-costituzionale di ciò l’offre la dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti: “Quando nel corso degli umani eventi si rende necessario ad un popolo sciogliere i vincoli politici che lo avevano legato ad un altro ed assumere tra le altre potenze della terra quel posto distinto ed eguale cui ha diritto per Legge naturale e divina…” Questa è conseguenza naturale del potere (pubblico, di cui la sovranità e la “figura” apicale) di avere in se quali “poli” autorità e libertà e di doverli contemperare, senza poterli eliminare. Come scriveva de Maistre, è connaturato allo spirito europeo gravitare verso “quello Stato in cui il governante governa il meno possibile, e il governato è meno possibile governato. Sempre in guardia contro i suoi padroni, l’europeo ora li ha scacciati, ora ha opposto loro delle leggi. Ha tentato di tutto, ha esaurito tutte le forme immaginabili di governo per fare a meno di padroni o per ridurre il loro potere” onde “il più grosso problema europeo è di sapere come si possa ridurre il potere sovrano senza distruggerlo”2. Il problema, sosteneva de Bonald, consiste nel fatto che il potere è per sua natura indipendente “Ogni potere è necessariamente indipendente dai soggetti sottoposti alla sua azione …. Potere e dipendenza si escludono l’un l’altro per definizione, come rotondo e quadrato”3; onde, sul piano interno (allo Stato) conciliare potere e controlli sul potere è arduo e si corre il rischio o l’indebolire troppo il primo o, di converso, i secondi4; perché, come riteneva de Bonald “il potere è esercitato in virtù di certe leggi che costituiscono il modo della sua esistenza e ne determinano la natura, e quando vien meno a queste leggi, pone in forse la sua esistenza, si snatura e cade nell’arbitrio”5.

2.0 Nella dottrina dello Stato borghese la sovranità come indipendenza dall’esterno è – come in ogni Stato sovrano – riconosciuta, senza alcuna differenza rilevante rispetto a quella dello Stato assoluto. Verso l’interno, invece, all’ “espropriazione/riduzione” dei poteri intermedi (connessa al principio di funzionalizzazione, per cui ogni potere pubblico è funzione, inalienabile ed inappropriabile da chiunque e attribuito alla sintesi politica) si accompagna la tutela dei diritti fondamentali (cioè della divisione Stato/società civile) e la distinzione dei poteri (nel senso di Montesquieu) con la conseguente giuridificazione dei rapporti di subordinazione/coordinazione tra potestà, organi, uffici pubblici. La combinazione del potere sovrano con i principi sopra ricordati dello Stato borghese ha fatto sì che l’esercizio delle manifestazioni peculiari di quello fosse confinato nell’emergenza: solo quando ricorre questa, l’“état de siége”, l’“ausnahmezustand” o la “necessità” di Santi Romano, il potere sovrano manifesta tutto il proprio carattere d’assolutezza e definitività con la sospensione (anche) dei diritti fondamentali e vistose deroghe a competenze e assetti degli organi pubblici. Ovviamente questo è il caso classico dell’ “eccezione che conferma la regola”, cioè che il sovrano, in applicazione del detto romano salus rei publicae suprema lex, ha il potere di sospendere – nelle parti più garantite – il diritto (e i diritti) vigenti ove l’esistenza della comunità lo richieda. Quanto all’aspetto esterno, i costruttori e i teorici dello Stato borghese, non avevano dubitato della sovranità della Nazione: a partire da chi, come Sieyès ne aveva fatto il centro delle rivendicazioni rivoluzionarie, e dal Comitato di salute pubblica de “La patrie en danger”; fino ai liberali e ai mazziniani del Risorgimento che volevano costituire, e costituirono, lo Stato quale istituzione politica della comunità nazionale, in un ordine internazionale in cui questa assumeva il proprio posto, uguale e libero come e tra le altre. Giustamente Benedetto Croce sosteneva che il capolavoro del liberalismo dell’‘800 fosse il Risorgimento italiano6; con esso si costituirono insieme lo Stato nazionale (altrove opera della monarchia assoluta) e liberale: la sovranità (nell’ordinamento internazionale) e la libertà individuale e sociale. Comunque nel pensiero liberale si è spesso fatta strada l’idea – peraltro tutt’altro che peregrina, attesi gli eccessi della rivoluzione francese, che, come scriveva Orlando “indebolire il potere è rinforzare la libertà”7, e che è l’esatto opposto di quello che pensava Hegel ossia “che lo Stato è la realtà della libertà concreta”8. Nel XIX secolo tuttavia la conciliazione delle istanze della borghesia, integrata nelle strutture dello Stato attraverso (soprattutto) i Parlamenti e ilcarattere (relativamente) moderato della lotta politica fece si che la “contraddizione” autorità/liberta non fosse collocata ai posti prioritari dell’agenda politica. Nella prima metà del ‘900 si cercò di “conciliare” altrimenti il rapporto, eliminando (o credendo) di eliminare le sovranità. Come scrive Schmitt nella Politische theologie, furono in particolare Kelsen e Krabbe a sostenere ciò9 e il giurista di Plettemberg lo considerava conseguenza (logica) dell’ideologia liberale10. Altra conseguenza di un liberalismo debole contemporaneo è la dottrina del c.d. “neocostituzionalismo”, del quale L. M. Bandieri in un denso saggio11 sostiene essere un normativismo di valori e non di norme.

3.0 Il c.d. “sovranismo” (male assoluto – almeno secondo le classi dirigenti in affanno), non è né contrario alla concezione liberal-borghese, almeno nelle sue connotazioni tradizionali (sopraricordate), né oppressivo della libertà, almeno se inteso come normalmente sembrano intenderlo i “sovranisti”, ossia quale difesa della autodeterminazione e dell’identità dei popoli. Tantomeno è poi contrapposto alla democrazia, anzi ne è conseguenza necessaria. Quanto al primo aspetto è chiaro che altro è compulsare delle libertà civili e politiche all’interno, altro è deciderlo per proteggere la comunità dalle aggressioni e interferenze esterne. L’ultimo esempio di ciò è stato l’ Ètat d’urgence deciso da Hollande (certo non un sovranista) in Francia: è vero che comporta, come tutte le emergenze delle limitazioni alla libertà, ma, a parte la prassi consolidata al riguardo (anche delle liberaldemocrazie), cioè che lo distingue da situazioni apparentemente analoghe (regime dei colonnelli et similia) è lo scopo: li è di sopprimere la libertà, qua di conservarne gran parte, limitandone strettamente necessario12.

4.0 Scriveva S. Tommaso che è libero chi è causa di se (del suo): liber est qui causa sui est13. Tale definizione metafisica della libertà pare la più adatta per significare essenza e condizione della sovranità. In tal senso il concetto di “suità” che se ne ricava corrisponde a quanto scrive Santi Romano per distinguere tra istituzione “perfetta” a quella che non lo è “Ci sono istituzioni che s’affermano perfette, che bastano, almeno fondamentalmente, a se medesime, che hanno pienezza di mezzi per conseguire scopi che sono loro esclusivi. Ce ne sono altre imperfette o meno perfette, che si appoggiano a istituzioni diverse, e ciò in vario senso. Può darsi infatti che a quest’ultimo esse siano soltanto coordinate; talvolta invece si hanno enti maggiori in cui le prime si comprendono e a cui sono subordinate”.14 D’altra parte sempre l’Aquinate sosteneva che è servo chi è di altri (servus autem est, qui id quod est, alterius est); e – commentando la “Politica” di Aristotele – la comunità politica perfetta è quella ordinata a garantire i mezzi ad un’esistenza indipendente. Anche Bodin scriveva che sovrano è chi non dipende da altri15. Applicando tali criteri non sono né libere, né comunità perfette quelle che giuridicamente e politicamente dipendono da altri e pertanto non hanno la piena disponibilità di determinare i propri scopi né i mezzi per conseguirli. Questa, in diritto internazionale, era la condizione degli Stati sotto protettorato al tempo del colonialismo.

5.0 E questa indipendenza intesa come libera auto-determinazione e quindi indipendenza da altri, è l’essenza delle rivendicazioni sovraniste. Anche se spesso i leaders politici identitari insistono su una pluralità di aspetti e di criteri differenziali (in particolare culturali, religiosi ed etnici) atti a discriminare tra cittadini e non, la suità, come libera autodeterminazione delle comunità e quindi degli scopi e dei mezzi appare il punto d’Archimede della loro concezione. E non solo perché la composizione di un’unità politica, la concessione della cittadinanza a gruppi di non-cittadini alterano il tutto, ma perché se sono libera determinazione della volontà comunitaria, non ledono il principio dell’essere causa sui. Occorre, per chiarire il tutto, ricordare quanto sosteneva Renan nella celebre conferenza Qu’est-ce-que une nation? e adattarlo mutatis mutandi alla questione. Dopo aver affermato che “l’essenza di una nazione sta nel fatto che tutti i suoi individui condividano un patrimonio comune”; patrimonio che consiste di più legati: etnia, religione, lingua, geografia, comunanza d’interessi. Ma questo, prosegue Renan, non esaurisce quanto necessario per costituire una nazione. “Una nazione è un’anima, un principio spirituale. Due cose, le quali in realtà sono una stessa cosa sola, costituiscono quest’anima e questo principio spirituale: una è nel passato, l’altra è nel presente. Una è un comune possesso di una ricca eredità di ricordi: l’altra è il consenso presente, il desiderio di vivere insieme, la volontà di continuare a far valere l’eredità ricevuta indivisa. L’uomo, signori, non s’improvvisa”. La nazione “Presuppone un passato, ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme. L’esistenza di una nazione è (mi si perdoni la metafora) un plebiscito di tutti i giorni” perché “L’uomo non è schiavo né della propria razza, né della lingua, né della religione, né del corso dei fiumi, né della direzione delle catene montagnose. Una grande aggregazione di uomini, sana di spirito e generosa di cuore, crea una coscienza morale che si chiama nazione”. E chiarisce ulteriormente cosa intendeva “Se si sollevano dubbi sulle frontiere, consultate le popolazioni coinvolte. Esse hanno ben diritto di dare un parere sulla questione. Ecco una cosa che farà sorridere i geni della politica, quegli esseri infallibili che passano la vita a sbagliare e che, dall’alto dei loro superiori principi hanno compassione della nostra modesta proposta. Consultare le popolazioni! Quale ingenuità! È proprio una di quelle misere idee francesi che pretenderebbero di sostituire la diplomazia e la guerra con mezzi di così infantile semplicità”.

6.0 La sovranità è necessaria per avere un futuro comune; lo è ancor più per decidere quale debba essere. Se è democratica, non può prescindere dalla volontà popolare. E d’altra parte le volontà “altre” nel modo contemporaneo sono meno quelle degli altri Stati che dei cosiddetti “poteri forti”, la cui caratteristica comune – che accomuna chiese e logge, sindacati e corporazioni – è di non essere democratici (quasi sempre), e sempre se ci riferisce alla volontà sovrana nella sintesi politica. Non si capisce di converso, come sia possibile determinare un destino comune di un mondo globalizzato, in cui manca sia la comunità, e più ancora, un’istituzione politica credibile e responsabile. Nel noto saggio Impero di A. Negri e M. Hardt, la forma di governo dell’ “Impero” consiste in una nebulosa fatta di organizzazioni internazionali, lobby, FMI, Banca mondiale, sette, clubs, imprese multinazionali, in effetti prive di forma, intesa questa nel senso di un’istituzione capace di determinare pubblicamente e responsabilmente scopi (e mezzi) dell’esistenza comunitaria e dotata delle capacità e attribuzioni conferite all’uopo. Tutte cose che si trovano in uno Stato sovrano ben ordinato e perfino in Stati relativamente disordinati, ma che non è dato percepire e distinguere in un quid senza forma e responsabilità. Per cui, in mancanza di alternative reali, è meglio tenersi il vecchio: Stato sovrano, democrazia e responsabilità dei governanti verso i governati.

NOTE

1  conclude “Noi, pertanto, rappresentanti degli Stati Uniti d’Americo, riuniti in Congresso generale, appellandoci al Supremo Giudice dell’universo quanto alla rettitudine delle nostre intenzioni , solennemente proclamiamo e dichiariamo, in nome e per autorità dei buoni Popoli di queste Colonie, che queste Colonie Unite sono, e devono di diritto essere Stati liberi e indipendenti; che sono disciolte da ogni dovere di fedeltà verso la Corona britannica e che ogni vincolo politico fra di esse e lo Stato di Gran Bretagna è e dev’essere del tutto reciso; e che quali Stati Liberi e Indipendenti, esse avranno pieno potere di muovere guerra, di concludere la pace, di stipulare alleanze, di regolare il commercio, e di compiere tutti quegli altri atti che gli Stati Indipendenti possono di diritto compiere” (il corsivo è mio).

2 Du Pape, I

3 Observations sur l’ouvrage De M. me La Baronne De Staël trad. it. « La costituzione come esistenza » Roma 1985 p. 51.

4 Va da se che, in uno Stato liberale il problema è insopprimibile, perché, come scritto nel “Federalista” dato che gli uomini non sono angeli e non sono angeli i governanti occorrono sia i governi che i controlli sui governi.

5 Op. loc. cit.

6 “Se per la storia politica si potesse parlare di capolavori come per le opere dell’arte, il processo della indipendenza, libertà e unità d’Italia meriterebbe di esser detto il capolavoro dei movimenti liberali-nazionali del secolo decimo-nono: tanto ammirevole si vide in esso la contemperanza dei vari elementi, il rispetto dell’antico e l’innovare profondo, la prudenza sagace degli uomini di stato e l’impeto dei rivoluzionari e dei volontari, l’ardimento e la moderazione; tanto flessibile e coerente la logicità onde si svolse e pervenne al suo fine” Storia d’Europa nel secolo IXI, p. 224, Bari 1938.

7 Più estesamente “Gli Stati moderni europei retti con forme libere, sono detti per antonomasia rappresentativi, ma non è men vero che tutti gli Stati rappresentino il popolo, qualunque sia la loro forma. Ed è un altro pregiudizio che da quello deriva e che i casi speciali dell’epoca presente han coltivato, il credere il popolo continuamente in opposizione, anzi in lotta col governo, tendendo a strappargli dei diritti che esso gelosamente contende. In conseguenza, come disse, il Laveleye, pei liberali della vecchia scuola, indebolire il potere è rinforzare la libertà” in Diritto pubblico generale, Milano 1954, p. 572.

8 V. Lineamenti di filosofia del diritto, § 260.

9 V. riportiamo i passi salienti delle critiche di Schmitt “Kelsen risolve il problema del concetto di sovranità semplicemente negandolo. La conclusione delle sue deduzioni è «Il concetto di sovranità dev’essere radicalmente eliminato». Di fattosi tratta ancora dell’antica negazione liberale dello Stato nei confronti del diritto e dell’ignoranza del problema autonomo della realizzazione del diritto. Questa concezione ha trovato un rappresentante significativo in H. Krabbe, la cui dottrina della sovranità del diritto riposa sulla tesi che ad essere sovrano non è lo Stato, bensì il diritto. Kelsen sembra scorgere in lui solo un precursore della sua dottrina dell’identità di Stato ed ordinamento giuridico. In verità la teoria di Krabbe ha una radice ideologica comune con il risultato di Kelsen”; secondo Krabbe “Lo Stato ha solo il compito di «costruire» il diritto: cioè di fissare il valore giuridico degli interessi … Lo Stato viene ridotto esclusivamente alla produzione del diritto” in Polische Theologie I, trad. it. in Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 56.

10 Ma l’altra conseguenza logica, a considerare il liberalismo nel suo complesso, nella storia e nella prassi, e non solo quale “tipo ideale”, è proprio la tesi di Schmitt che iscrive lo Stato liberale nella categoria dello status mixtus quale compromesso tra principi di forma politica e principi dello Stato borghese, v. in particolare Verfassungslehere trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1984, p. 171 ss. ed anche 265 ss. di cui si ricorda il passo saliente “I principi della libertà borghese possono ben modificare e temperare uno Stato, ma da soli non fondano una forma politica. «La libertà non costituisce nulla», come ha detto giustamente Mazzini. Da ciò segue che in ogni costituzione con l’elemento dello Stato di diritto è connesso e misto un secondo elemento di principi politico-formali”.

11 Pubblicato in italiano su Behemoth (on-line) n. 54.

12 “In un certo senso è adattabile al rapporto tra stato d’emergenza in un senso o nell’altro, questo scriveva V. E. Orlando sull’ “atto politico”. Ossia che a distinguerlo dal semplice atto amministrativo era assai più lo scopo che la “natura” dell’atto “Bensì la distinzione acquista un’importanza effettiva, quando il carattere politico che vuolsi attribuire all’atto dipende non tanto dalla natura di esso quanto dallo scopo cui, a torto o a ragione, si dicono diretti: noi accenniamo a quegli atti del potere esecutivo che infrangono le leggi sotto l’impulso di una pubblica necessità, assumendo per gistificazione il motto: salus reipubblicae suprema lex. Non è qui certamente luogo adatto per discutere la teoria di tali atti motivati da urgente necessità politica”. V. Digesto Italiano Contenzioso amministrativo” vol. VIII p. 925

13 De regimine principum I, 1.

14 Santi Romano, L’ordinamento giuridico, rist. Firenze 1967, p. 38 (il corsivo è mio).

15 I sei libri della Repubblica, Torino 1988, p. 407.

Teodoro Klitsche de la Grange

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