NOTE SU COSTITUZIONE E INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALE , di Teodoro Klitsche de la Grange 

NOTE SU COSTITUZIONE E INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALE

  1. E’ opinione generalmente condivisa che i testi costituzionali (spesso identificati con le costituzioni) sono interpretabili, ma che l’interpretazione di questi non è del tutto assimilabile a quella delle leggi ordinarie (o dei negozi, o dei provvedimenti).Questo sia per la presenza, in molte costituzioni, di disposizioni di principio, sia perché alcuni enunciati non hanno carattere normativo, ovvero per l’importanza dei “valori coessenziali alla forma di Stato”[1]; o anche per l’importanza delle “convenzioni costituzionali”, e ancor più di quelle che Mortati chiamava le “esigenze istituzionali latenti” ( e si potrebbe continuare).

A questo si aggiunge che certi tipi di interpretazione sono, per così dire di non agevole attivazione. Ad esempio, in una costituzione “rigida” l’interpretazione “autentica”, essendone competente il titolare del potere costituente il quale, a meno che non si voglia identificarlo- ma ciò non appare possibile in molti testi costituzionali, tra i quali quello italiano vigente- con quello deputato alla revisione costituzionale, non è istituzionalizzato in un organo[2]. Inoltre in tal caso non ne sarebbe previamente giuridificabile l’esercizio, atteso che vale la considerazione di Sieyès che il potere costituente (cioè, per l’abate, la Nazione) al contrario di quelli costituiti non necessita di alcuna legittimazione (né regolamentazione) “giuridica”; “alla volontà nazionale basta invece soltanto la propria realtà per essere sempre legittima. Essa è la fonte di ogni legalità”, cioè non è tenuta a osservare alcuna forma e/o procedimento giuridico previamente stabilito[3]. Inoltre anche le “tecniche” dell’interpretazione costituzionale sono oggetto di vaste discussioni, tendenti ad escluderne talune (come per l’interpretazione evolutiva, che in particolare nelle costituzioni rigide, può costituire violazione della competenza dell’organo di revisione costituzionale) o a ridimensionarne altre (come quella letterale).

Ma la differenza che appare più evidente e peculiare dell’interpretazione costituzionale rispetto a quella legislativa è quella relativa all’oggetto interpretato. Nell’interpretazione della legge o di un atto ci si trova dinanzi ad un testo; nel caso della legge anche ad un sistema legislativo, comunque – almeno in un sistema di diritto moderno continentale[4] -, coordinato o coordinabile e valutabile secondo criteri logico-sistematici.

Tuttavia nel caso della Costituzione non è chiaro, in primo luogo, cosa sia costituzione e cosa no. La dicotomia tra costituzione materiale e formale ne è uno degli esempi. In secondo luogo è controversa anche la distinzione tra costituzione e leggi costituzionali[5]. In terzo luogo vi sono disposizioni costituzionali non scritte; inoltre alcune leggi – come la legge elettorale per la scelta degli organi rappresentativi dello Stato – rientrano nella materia costituzionale, ma non sono “norme costituzionali” (nel senso della rigidità); o queste non sono proprio espresse in un testo, come le “esigenze istituzionali latenti”, ovvero, (come di seguito) i presupposti della costituzione, ovvero le decisioni costituzionali implicite. Appare decisivo il fatto quindi che altro é interpretare un testo (un atto, o un documento) altro è interpretare qualcosa che non lo è.

  1. All’inizio del periodo storico caratterizzato (tra l’altro) dal diffondersi delle costituzioni scritte, de Maistre stigmatizzava la convinzione di “credere che una costituzione politica potesse essere scritta e creata a priori, mentre ragione ed esperienza si uniscono per dimostrare che una costituzione è un’opera divina e che proprio ciò che vi è di più fondamentale e di più essenzialmente costituzionale nelle leggi di una nazione non potrebbe mai essere scritto.” [6]. E dopo aver illustrato gli argomenti a favore della propria tesi enuncia le proposizioni che ne conseguono: “1- Le radici delle costituzioni politiche esistono prima di ogni legge scritta.

2- Una legge costituzionale non è e non può essere che lo sviluppo o la sanzione di un diritto preesistente e non scritto.

3- Ciò che vi è di più essenziale, di più intrinsecamente costituzionale e di veramente fondamentale non è mai scritto, e neppure potrebbe esserlo, senza esporre a pericolo lo Stato.

4- La debolezza e la fragilità di una costituzione sono direttamente proporzionali proprio alla molteplicità degli articoli costituzionali scritti.”[7] E in questa convinzione ironizza su chi crede “che i legislatori siano uomini, le leggi pezzi di carta, e le nazioni possano essere costituite con l’inchiostro. Esse mostrano invece che la scrittura è costantemente un segno di debolezza, di ignoranza o di pericolo; che quanto più una istituzione è perfetta, meno scrive”[8] .

Smend partendo dal proprio peculiare concetto di costituzione afferma “La Costituzione è l’ordinamento giuridico dello Stato, più precisamente della vita in cui esso ha la sua realtà vitale, cioè del suo processo d’integrazione. Il senso di questo processo è la sempre nuova produzione della totalità di vita dello Stato, e la costituzione è la normazione tramite leggi (gesetzliche Normierung) di singoli aspetti di questo processo”[9]e, per cui “La corrente di vita politica spesso può giungere a questa riuscita per vie diverse e non propriamente costituzionali: in questo caso l’adempimento del compito d’integrazione, posto dalle leggi dello spirito rispetto al valore come dagli articoli della costituzione, corrisponderà, nonostante queste singole deviazioni, al senso della costituzione”; ne deriva che “Dunque il senso stesso della costituzione, la sua intenzione tendente non al particolare, ma alla totalità dello Stato e alla totalità del suo processo d’integrazione, non soltanto consente, ma addirittura esige quell’interpretazione elastica, suppletiva della costituzione, che è di gran lunga lontana da ogni altra interpretazione del diritto[10] (i corsivi sono nostri).

Schmitt, come noto, sostiene che “Un concetto di costituzione è possibile soltanto se costituzione e legge costituzionale vengono distinte. Non è ammissibile lo scomporre la costituzione prima in una molteplicità di singole leggi costituzionali e poi definire la legge costituzionale per qualche contrassegno esteriore o addirittura a seconda del metodo della sua revisione. In questo modo va perso un concetto essenziale della dottrina dello Stato e il concetto fondamentale della dottrina della costituzione”[11]; la costituzione nasce da un atto del potere costituente “Questo atto costituisce la forma e la specie dell’unità politica, la cui esistenza è presupposta. Non è che l’unità politica si forma proprio perché «è data una costituzione». La costituzione in senso positivo contiene soltanto la determinazione consapevole della forma speciale complessiva, per la quale l’unità politica si decide”; una costituzione “siffatta è una decisione consapevole che comporta di per sé e si dà essere da se stessa l’unità politica tramite il titolare del potere costituente”[12]; onde “La costituzione vige in forza della volontà politica esistente di chi la pone. Ogni specie di normazione giuridica, anche la normazione legislativo-costituzionale, presuppone come esistente una simile volontà”[13]. La conseguenza è che “ogni unità politica esistente ha il suo valore ed il suo «diritto all’esistenza» non nella giustezza o utilizzabilità delle norme, ma nella sua stessa esistenza. Ciò che esiste come entità politica, è – giuridicamente considerato – meritevole di esistere. Perciò il suo «diritto all’autoconservazione» è il presupposto di ogni ulteriore discussione; essa cerca di conservarsi soprattutto nella sua esistenza, «in suo esse perseverare» (Spinoza); essa protegge «la sua esistenza, la sua integrità, la sua sicurezza e la sua costituzione» – tutti i valori esistenziali”[14]. La costituzione è quindi una decisione, non una legge od una norma “Prima di ogni normazione c’è una decisione politica fondamentale del titolare del potere costituente, cioè in una democrazia del popolo, nella monarchia pura del monarca”[15]. Le disposizioni più importanti non sono norme: “frasi come: «Il popolo tedesco si è data questa costituzione»; «Il potere dello Stato emana dal popolo»; oppure «Il Reich tedesco è una repubblica», non sono leggi e quindi nemmeno leggi costituzionali. Non sono neppure una sorta di leggi-quadro o di principi fondamentali. Ma non per questo sono qualcosa di insignificante o di scarsa importanza. Sono più che leggi e normazioni, ossia le decisioni politiche concrete, che fissano la forma dell’esistenza politica del popolo tedesco e formano il presupposto fondamentale per tutte le altre normazioni, anche quelle delle leggi costituzionali. Tutto quello che c’è all’interno del Reich tedesco nella legalità e nella normatività, vale soltanto sulla base e nell’ambito di queste decisioni. Esse formano la sostanza della costituzione”[16] (i corsivi sono nostri).

L’errore della dottrina dello Stato è “non riconoscere l’essenza di queste decisioni e al di là della sensazione che c’è ancora qualcosa d’altro che una normazione legislativa parlare «conseguentemente» di «mere proclamazioni», «mere dichiarazioni» o addirittura «luoghi comuni». La costituzione stessa in questo modo si dissolve da ambo i lati in un nulla: da una parte alcune locuzioni più o meno di buon gusto, dall’altra una quantità di leggi disparate e caratterizzate esteriormente. Esattamente considerate, queste decisioni politiche fondamentali sono anche per una giurisprudenza positiva l’elemento decisivo e quello veramente positivo[17] (i corsivi sono nostri).

Kelsen, pur notoriamente sostenendo l’opportunità del Giudice (e della Giustizia) costituzionale, non si nascondeva le difficoltà relative, in particolare per le disposizioni di principio e quelle di “valore”. Scrive infatti che “Proprio nel fatto che la considerazione o l’incorporazione di questi principi, ai quali finora, nonostante ogni sforzo, non è stato possibile dare un contenuto piuttosto univoco, non hanno e non possono avere nel processo di creazione del diritto, per motivi indicati, il carattere di una applicazione del diritto in senso tecnico, si trova la risposta al problema se possono essere applicati da un organo di giustizia costituzionale” di guisa che “Proprio nel campo della giustizia costituzionale esse possono svolgere tuttavia un ruolo assai pericoloso: Le disposizioni costituzionali che invitano il legislatore a conformarsi alla giustizia, all’equità, all’uguaglianza etc. potrebbero essere infatti interpretate come direttive riguardanti il contenuto delle leggi: naturalmente a torto, giacchè sarebbe così solo se la costituzione stabilisse una direttiva precisa, se indicasse essa medesima un qualunque obiettivo criterio”[18]

Secondo Santi Romano “La costituzione, nel suo primo aspetto, meglio che come norma, si presenta come un edificio o un complesso di ingranaggi, nel quale si concreta la struttura fondamentale di quella istituzione che si chiama Stato e, quindi, lo stesso Stato. Ma, essendo lo Stato niente altro che un ordinamento giuridico, essa non è che la parte essenziale di quest’ultimo”[19]; “Costituzione in senso materiale e diritto costituzionale sono espressioni equivalenti. Costituzione, infatti, significa, come si è detto, assetto o ordinamento che determina la posizione, in sé e per sé e nei reciproci rapporti che ne derivano, dei vari elementi dello Stato, e, quindi, il suo funzionamento, l’attività, la linea di condotta per lo stesso Stato e per coloro che ne fanno parte o ne dipendono”[20] (i corsivi sono nostri).

Hauriou osservava che la Costituzione della Terza repubblica francese (cioè le tre leggi del 1875 e loro modifiche) non comprendeva che venticinque articoli, limitati alle sole attribuzioni e rapporti dei poteri pubblici, ma la questione più interessante era se si riducesse solo a quelli; in particolare perché non vi era alcun elemento di “costituzione sociale” la cui conseguenza logica era che “i diritti individuali dei francesi, non avrebbero più alcuna esistenza costituzionale”[21].

La conclusione che ne trae – come la grande maggioranza dei giuristi dell’epoca della Terza Repubblica – è che la dichiarazione dei diritti, o meglio la constitution sociale che essa delinea, è diritto vigente malgrado non fosse menzionata dalle leggi costituzionali del 1875.

Questa elencazione – ovviamente non esauriente – delle tesi sostenute da autorevoli giuristi mostra che l’oggetto dell’interpretazione costituzionale differisce radicalmente da quella dell’esegesi legislativa. Vuoi perché  l’oggetto non è una norma, o perché non è espressa in un testo, ovvero perché è controverso se, in casi determinati, sia riconducibile alla costituzione o alla materia costituzionale. Inoltre nella costituzione, nel potere costituente o nel processo costituente c’è preponderanza di elementi “fattuali”, esistenziali e storici (a secondo di come li si sia denominati) il cui connotato comune, al di la delle differenze, è di non essere riconducibili a un dover-essere, e comunque a fatti (giudiziariamente) non valutabili, ma che, al contrario, sono fondanti il diritto.

  1. Ancor più questi giudizi mostrano l’attualità delle considerazioni di de Maistre. Quanto alla prima, cioè che le radici delle costituzioni politiche esistono prima di ogni legge scritta, questa appare sia dal rapporto potere costituente/costituzione, in cui l’esistenza di quello è condizione (di esistenza) e validità di questa; e la cui validità si misura sulla legittimità, e in genere, sulla conformità all’ethos prevalente nella comunità. Quanto alle considerazioni sulla costituzione scritta, è vero che le disposizioni più intrinsecamente costituzionali e realmente fondamentali (per lo più) non sono scritte; e che a scriverle c’è rischio di esporre a pericolo lo Stato, perché ciò rende più fragile l’assetto costituzionale. E questo, si può aggiungere, anche per le costituzioni moderne (intendendo come tali quelle vigenti dal XIX secolo).

A rendere tuttora valida la tesi di de Maistre è la stessa rassegna – meramente esemplificativa – sopra ricordata. Infatti i giuristi (e altri) ivi ricordati, fanno riferimento, come fondamento delle carte costituzionali scritte, a qualcosa che non è scritto; e spesso, che non ha carattere giuridico. Lo stesso Kelsen, nel ritenere non esser possibile “accettare l’estremismo paradossale della celebre tesi di Lassalle che la costituzione di uno stato siano, in definitiva, l’esercito e i cannoni dei quali il governo dispone – giacché essa sottovaluta la forza delle idee e soprattutto delle idee giuridiche – bisogna tuttavia concedere che la costituzione esprime le forze politiche di un determinato popolo, è un documento che attesta la situazione di equilibrio relativo nella quale i gruppi in lotta per il potere permangono fino a nuovo ordine[22] (i corsivi sono nostri).

Nello stesso senso è stato individuato che “il principio normativo originante e giustificante un ordinamento, cioè la costituzione per eccellenza, consiste nella forza normativa della volontà politica, con applicazione realistica del principio di effettività”[23].

Dalla “forza normativa del fattuale” alla realtà della Nazione che ha la propria legittimità, fino ai cannoni di Lassalle è tutto un fondare la Costituzione scritta su elementi non scritti e neppure giuridici, nel senso di fondare il diritto senza essere (in larga misura) giustiziabili (Justiciables). Quel che parimenti interessa è che proprio tali elementi e presupposti non scritti sono quelli squisitamente costituzionali nel senso di co-stituire (cioè tenere insieme in modo stabile e ordinato) una comunità politica.

Quanto alla scrittura come elemento di debolezza e fragilità della Costituzione, occorre dire che è presupposto del ragionamento di molti giuristi, in particolare per quanto riguarda l’essenza dell’ordinamento (e quindi della costituzione), che l’esistenza di un testo scritto non sia necessario. Ciò che è essenziale (e insostituibile) per l’ordine politico e sociale è che vi sia un insieme organizzato di autorità, organi, uffici che assicurino l’unità dell’agire e la regolarità dei rapporti sociali. Come scrive Santi Romano “il diritto, prima di essere norma, prima di concernere un semplice rapporto o una serie di rapporti sociali, è organizzazione, struttura, posizione della stessa società in cui si svolge e che esso costituisce come unità, come ente per sé stante[24] (i corsivi sono nostri).

Ed è nota la tesi di Carré de Malberg che non condivideva la costruzione kelseniana di una gradazione di norme dato che non teneva conto della “gradazione” degli organi statali[25].

In realtà non è soltanto vero che necessario (e sufficiente) perché esista un ordinamento è che vi sia un sistema organizzato di rapporti di subordinazione e coordinazione (“la complessa e varia organizzazione dello Stato” di Santi Romano); e proprio perciò che questi rapporti e comandi siano espressi in norme è opportuno, ma non indispensabile all’esistenza dell’ordinamento; ma ne consegue – spesso – che il carattere normativo (e scritto), come sosteneva de Maistre, non è opportuno, anzi corre il rischio di rivelarsi dannoso (e insieme o no, anche ultroneo).

Anzi procedendo in modo discendente giù per li rami dell’ordinamento, si va dal non scritto allo scritto come dal non justiciable (nel senso sopra precisato) al justiciable.

Ad esempio, per il potere costituente, l’apice della piramide dell’ordinamento: si può solo sapere chi sia (il fatto è storico) e può essere designato nella costituzione (designazione che vale fin quando la Storia non ci ripensa), ma non tollera limiti giuridici né di essere tenuto all’osservanza di quelli; cioè non è giuridificabile né justiciable. Passando al sovrano (ove si acceda alle teorie che vedono anche in un potere costituito – e non solo nel costituente – i connotati della sovranità) buona parte degli atti dello stesso si fondano su mere autorizzazioni, indeterminate (o quasi del tutto) nei presupposti e nel contenuto (la dittatura commissaria del Presidente del Reich secondo Schmitt)[26].

Le stesse espressioni della Costituzione in relazione alle attribuzioni (ed alle limitazioni) degli organi “apicali” in particolare quelli a carattere rappresentativo sono ampie nel conferimento dei poteri, ma scarne e vaghe nell’indirizzare i contenuti (questo vale in particolare per le dichiarazioni cosiddette “programmatiche” delle costituzioni).

L’applicazione della norma ad un caso concreto, nel senso – variamente qualificato – della sussunzione di questo a quella (cioè il modo più “tipico” dell’applicazione/gradazione tra norme) è così realmente possibile solo per gli atti del potere giudiziario di uno Stato di diritto, en quelque façon nul come sosteneva Montesquieu e in forma più limitata per il potere governativo-amministrativo, tenuto conto della discrezionalità nell’an, nel quid o nel quomodo che compete in misura maggiore o minore, totale o parziale, alla pubblica amministrazione secondo le norme di conferimento (e regolanti l’esercizio) delle relative potestà.

Questa costante (dal non justiciable al justiciable), verificabile dall’esame del diritto e della legislazione (costituzionale e ordinaria), in particolare per i casi d’emergenza, corrisponde ad una esigenza razionale perché reale. Il diritto, come scriveva Jhering, serve alla vita[27]. Di qui la necessità sia di autorizzazioni indeterminate che di azioni di salvataggio per salvare l’esistenza delle comunità; come scrive Jhering “Il criterio per valutarle è insito nel loro successo. Dal foro del diritto, che le ha condannate, appellano al tribunale della storia e, fino ad oggi, questa istanza è sempre stata considerata da tutti i popoli come l’istanza suprema. La sentenza da essa pronunciata è decisiva e definitiva”[28]. Questo è il punto in cui “il diritto sfocia nella politica e nella storia”[29].

Alla stessa funzione adempie secondo Santi Romano la necessità “che implica un’esigenza esplicita ed impellente di bisogno sociale, che imponga una determinata condotta in difesa delle istituzioni vigenti” questa “acquista il carattere di una norma giuridica quando si esplica come un’esigenza non puramente razionale, ma istituzionale”[30].

La necessità, così, non solo è diritto non scritto, ma è connaturale all’istituzione, anzi all’essenza di questa.

L’indeterminatezza della “norma” e la sua gradazione inversa (dall’indeterminato al determinato) serve a salvaguardare proprio l’istituzione che ha il proprio fondamento non nel diritto, ma nella storia; e quindi, ai livelli apicali non è (o non è in parte) oggetto di coazione giuridica (e predeterminata dal diritto). Così dalla totale non giuridificabilità, come per il potere costituente e la costituzione, si passa per gradi a norme sempre più determinate perché cresce l’esigenza di salvaguardare un certo grado di certezza (e prevedibilità) attraverso un diritto via via più ricco di contenuti espressi (di comandi applicabili) e così definiti o esattamente definibili: analogamente all’albero di Porfirio che dalla sostanza arriva alla classe indivisibile (o all’individuo concreto) perdendo di estensione e arricchendosi in intensione (cioè di contenuto), così nel diritto indeterminatezza e certezza (nel senso weberiano di calcolabilità e prevedibilità) sono inversamente proporzionali. E ciò che determina il calare dell’una e il progredire dell’altra è la prossimità al momento genetico dell’istituzione (alla “storia”, al “fatto” , alla “vita”).

  1. A questo punto si potrebbe pensare che non solo de Maistre aveva colto nel segno, ma che l’interpretazione della Costituzione è una chimera, perché più è praticabile, meno l’oggetto su cui si esercita è importante e “decisivo”. Il che in subiecta materia è naturale perché a far le costituzioni non sono i giuristi ma la Storia (cioè i più volte ricordati cannoni di Lassalle); ed avendo i giuristi al massimo la funzione, come scriveva sempre Lassalle, di vergare su un foglio di carta le decisioni prese dalla politica, il risultato non è dei più governabili.

Comunque anche se le norme scritte e dal contenuto certo hanno un ruolo costituzionale limitato, ciò non toglie che all’interprete possa essere consentito ricavare un senso (e un significato) da quanto è non scritto e non normativo (o indeterminato) nella Costituzione.

Infatti, e cominciando dalle espressioni a carattere non normativo (quelle che Schmitt definisce le decisioni fondamentali nella costituzione di Weimar)[31] è certo che espressioni come quelle dell’art. 1 della Costituzione italiana vigente: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nella forma e nei limiti della Costituzione” esclude tutta una serie di modifiche che, stante il potere di revisione costituzionale potrebbero essere apportate alla medesima, possano esserlo, appunto, in sede di procedimento di revisione. Con ciò ciascuna di tale modifiche comporta non una revisione della Costituzione, ma un mutamento (radicale) della medesima, cioè una Costituzione nuova. È escluso quindi che la Costituzione vigente sia compatibile con la forma monarchica di governo; che possa trasformarsi in una Repubblica sovietica (uno Stato del socialismo reale) perché un ordinamento comunista-leninista non è una democrazia ma è la forma di oligarchia (ideocratica) più conseguente espressa dalla modernità; o in uno Stato a partito unico fascista o nazionalsocialista; che sovrano possa essere un potere costituito; che uno straniero, o un potere anche non statale possa appropriarsi della sovranità o i poteri costituiti cedergliela. Questo per le di essa determinazioni che appaiono più sicure (secondo la regola in claris non fit interpretatio) tralasciando quelle più controverse.

Nonostante la forma (e il contenuto) non normativo, questo articolo è, comunque, estremamente ricco di senso e, in larga parte, interpretabile in modo univoco[32].

Così del pari le decisioni di cui alla maggior parte dei “principi fondamentali” della costituzione vigente.

Peraltro occorre considerare che l’indeterminatezza delle disposizioni è spesso parziale, a differenza delle norme legislative, le quali consentono (per lo più, ma non sempre) un’applicazione “calcolabile”; ovvero senza zone d’indeterminatezza (e quindi di “libertà” anche dell’organo chiamato ad applicarle). Ciò non toglie che anche una disposizione assai vaga, come in genere quelle attributive di competenza, ad esempio l’art. 70 della costituzione vigente (la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere) permette:; a) di escludere che possano esercitarla altri organi, non abilitati a ciò dalla Costituzione; b) che lo possa fare una Camera da sola. Oltre, s’intende, agli altri limiti derivanti dalla Costituzione e dal suo carattere rigido. Queste conseguenze operano per lo più in negativo: nel senso che non è determinato ciò che l’organo può (e/o deve) fare ma è determinato ciò che è vietato (sia riguardo alla competenza che al contenuto).

Il che comunque è di notevole utilità per l’interprete dato che vale a sgombrare il campo da una considerevole parte dei dubbi e delle possibili lacune che si possono presentare; anche perché la logica della reiezione (quella rivolta ad escludere ragionamenti fallaci o scegliere tra più soluzioni la più probabile) ha una larga applicazione – anche se poco consapevole- in sede giudiziaria (e giuridica)[33].

Ma ciò che più conta è che, anche in assenza di redazione (proclamazione, disposizione, norma) scritta è possibile enucleare delle norme (comandi) dai presupposti fondamentali, condizionanti la validità anche di quelle scritte e utili, e spesso necessari, a chiarirne il significato.

In un certo senso, operando similmente a come fatto dai teorici del diritto naturale, e in particolare dai teologi della Seconda Scolastica. Questi “svilupparono in effetti una dottrina dello Stato scevra di qualsiasi presupposto dogmatico, su fondamenti puramente filosofici. Anche i maggiori teorici di questa tendenza sono d’accordo nel ritenere che l’unione statale abbia le sue radici nel diritto naturale, che in forza di questo spetti alla collettività associata la sovranità sui suoi membri, e che ogni diritto dei governanti provenga dal volere della collettività alla quale il diritto naturale attribuisce la facoltà e l’obbligo di trasmettere i propri poteri”[34].

In effetti come i teologi sostenevano che Dio ha creato l’uomo essere naturalmente sociale, ha voluto anche il potere pubblico, e che nessuna società può conservarsi senza un’autorità dotata del potere di comandare a ciascuno, e quindi la necessità del potere consegue dalle leggi stesse che condizionano l’ordine sociale. Leggi di cui Dio è l’autore[35]. E proprio perché Dio ne è l’autore sono immodificabili dall’uomo, che tuttavia può, nell’esercizio della libertà politica darsi forme politiche diverse, nei limiti delle leggi di natura che condizionano l’ordine sociale e politico. Ad esempio l’intera costituzione, ancor più se – come quasi tutte le costituzioni moderne – frutto di una decisione deliberata, presuppone l’esistenza sia della comunità politica che del potere costituente. E l’uno e l’altro non sono “modificabili” attraverso una procedura giuridica perché sono essi a costituire le condizioni minime perché una costituzione (atto del potere costituente) esista e abbia validità; con l’ulteriore conseguenza che ogni norma costituzionale e in generale la costituzione stessa debbano interpretarsi nel senso di presupporre l’esistenza della comunità politica e del pouvoir constituant. Sono questi imperi causae et fundamenta naturalia: senza i quali non avrebbe senso né scopo un documento chiamato “costituzione”. Ma, proprio perciò la costituzione non può interpretarsi nel senso che neghi (o porti alla rovina) l’esistenza dello Stato – cioè della comunità organizzata – né del potere costituente. Anche perché una simile conclusione interpretativa ha altrettante possibilità di essere efficace, quanto le pillole contro il terremoto: non è nel potere del diritto e tanto meno dell’interprete di questo creare unità politiche o poteri costituenti (semmai, lo è – in una certa misura – di regolarli).

Comunità e poteri non sono enunciati normativi, ma realtà concretamente esistenti: sono tali perché esistono, e in, quanto esistenti, hanno il diritto di essere quel che possono essere (Sieyès)[36] ossia di “conformarsi” come vogliono, nell’ambito del possibile.

Compito del diritto è regolare l’esistente: per cui presupposto ne è che esista qualcosa da regolare: si può pensare, seguendo Santi Romano, che l’esistente sia contemporaneo al diritto[37], ma è impossibile che questo consista in una forma o una regola giuridica di ciò che non esiste.

Di conseguenza e tenuto conto che “diritto non è l’insieme delle statuizioni consacrate in un testo di legge ed operanti pel solo fatto di tale consacrazione, ma quel complesso ordinato di situazioni e di rapporti che si raccoglie in un centro di autorità, e costituisce il diritto «vivente», valevole come tale anche se contrastante con quello legale, allorché l’osservazione documenti l’avvenuta sua stabilizzazione, non si rende possibile escluderne l’autonomo rilievo. In altri termini quando la categoria del giuridico si collochi sotto il segno della effettività si rende necessario alla sua comprensione l’esame del concreto modo di operare delle istituzioni sociali sottostanti alle norme”[38], ciò che è presupposto, nella costituzione, (cioè è “valevole come tale”) è, confermando l’intuizione di de Maistre, la parte “decisiva” e più “importante” della costituzione stessa. Perché, come scrive Sieyès non ha alcuna necessità di essere conforme al diritto, ma è esso a esserne il presupposto e la condizione di validità.

Ad esempio la regola salus rei publicae suprema lex è tale che, oltre a condizionare il normativo costituisce anche il criterio di validità del medesimo: nel senso che la norma o il complesso di norme, confliggenti con l’esistenza dell’istituzione e della comunità organizzata, sono interpretabili solo nel senso che non contraddicano l’esigenza di salvaguardare l’esistenza della comunità. Tale regola contiene la decisione per l’esistenza (politica) della comunità ed è prevalente rispetto all’osservanza del diritto, anche di quello modellato sui “valori” fatti propri dalla costituzione[39].

  1. Analizzando le varie categorie di “fatti normativi”[40], in primo luogo, vi sono realtà che costituiscono i presupposti della costituzione.

Prima si è ricordato la comunità e il potere costituente; occorre specificare che quest’ultimo non va inteso nel senso di organo (lo può essere, ma che lo sia non è connaturale al concetto), ma come entità concreta che decide (e/o mantiene) la costituzione[41].

Più in generale i presupposti sono quelle realtà necessarie perché lo Stato abbia esistenza: lo Stato e non una determinata forma di governo. La dottrina dello Stato ne ha indicati diversi. Secondo von Seydel “questi requisiti essenziali sono:

“1) Territorio e popolo

2) Dominati da un supremo volere”[42]

Nel pensiero di Hauriou ciò che è essenziale nella Costituzione lo si deduce principalmente da quello che è tale perché esista un’istituzione. Così i tre presupposti necessari perché esista lo Stato sono il potere di un governo centrale (elemento coercitivo); l’unità spirituale della nazione (elemento consensuale); l’«entreprise» della cosa pubblica (elemento ideale). Senza andare all’esame delle diverse teorie – che non sempre identificano come “presupposti” essenziali ciò che s’intende per tali, i quali sicuramente sono un elemento oggettivo, cioè un popolo e uno soggettivo, un potere che organizza e controlla – occorre andare alla distinzione, intrinseca alla dottrina teologica cattolica (e non solo) del XVII secolo tra ciò che è legge di natura (sottratta al volere umano) e ciò che è forma di governo (cioè modellabile e conformabile dalla volontà umana)[43].

Di conseguenza occorre anche andare alla ricerca di ciò che è comunque, per natura, costituzionale, anche se non è regolamentato dalla Costituzione (e neppure menzionato); perché non ha bisogno di una decisione (e ancor meno di una norma) umana per essere costituzione; anche perché, a seguire Santi Romano se è l’esistenza dello Stato a implicare necessariamente la costituzione[44], non è necessaria a uno Stato esistente, una esplicita redazione in un testo di ciò che, per il fatto di esistere, “possiede già”.

Hegel scriveva a tale proposito distinguendo “ciò che è necessario, che cioè una moltitudine sia uno Stato e un potere comune, e ciò che invece è soltanto una particolare modificazione di questo potere e non rientra nella sfera del necessario, bensì appartiene, per il concetto, alla sfera del più o meno bene, per la realtà invece alla sfera del caso e dell’arbitrio”; ciò che non è necessario all’essenza, cioè all’esistenza dello Stato e tuttavia fa parte della “realtà di uno Stato che appartiene al caso si deve ascrivere il modo e la maniera in cui il comune potere statale esiste in un centro unitario. Che il detentore del potere sia una sola persona o più persone; che questa sola o queste molte persone giungano a tale maestà per nascita o per elezione: è indifferente per l’unica cosa necessaria, che cioè una moltitudine formi uno Stato”. Per cui né l’unità del diritto, né il procedimento di formazione delle leggi, né l’organizzazione e le procedure giurisdizionali costituiscono parti essenziali della Costituzione.

Nella Verfassung Deutschlands Hegel delinea – in buona sostanza – come contenuto essenziale di una costituzione statale, l’istituzione di un potere pubblico, assoluto in via di principio, dotato dei mezzi sufficienti a far eseguire le proprie deliberazioni. Senza questi requisiti non esiste Stato, né di conseguenza costituzione dello Stato.

Tesi in larga misura simili sono state ripetute da molti, giuristi e non, che si sono occupati del problema di ciò che è essenziale alla costituzione[45]. Tuttavia è da ricordare che la tesi di G. Burdeau che le “costituzioni, per loro ragione d’essere e loro oggetto, obbediscono a regole ineluttabili”[46]. E tali costanti del contenuto di una costituzione sono l’organizzazione del Potere, e la natura e i fini dell’attività politica dei governanti.

Per cui si può individuare ciò che è essenziale nella costituzione nelle disposizioni necessarie all’esistenza ed all’azione della comunità; le quali non sono solo i presupposti dell’unità politica sopra ricordata. Ciò che veramente conta, ed ha carattere essenziale, è che siano previsti i mezzi perché il potere legittimo sia pure efficace: l’organizzazione concreta e particolare che ne consegue, i modi per assicurare ciò, sono secondari, e variano a seconda del tipo e della forma dell’unità politica.

In buona sostanza esistono – e non potrebbe essere diversamente – dei “fatti di normazione” i quali pur non essendo espressi in un testo, costituiscono diritto e più ancora lo determinano[47].

Questi sono intendibili ed interpretabili, come riteneva Betti, secondo cui l’intendere “concerne «i valori dello spirito oggettivati» in testi e, più in generale, in «forme rappresentative», vale a dire «istituzioni, leggi, riti, strutture e forme strumentali che per la loro stessa destinazione debbono rimanere e rimangono in uso o in vigore». L’interpretazione verte in effetti su queste oggettivazioni del pensiero, che, «come vennero in origine impresse o configurate da uno spirito vivente e pensante, così fanno assegnamento sopra uno spirito capace di intenderne il senso, che nel presente le ritrovi, (…) animandole della sua stessa vita»”[48].

Il che è una prospettiva non frequente, ma non del tutto insolita per il giurista. Dover interpretare non un testo, ma ricavare il precetto da una situazione di fatto (non quindi da una norma) è cosa che, per l’appunto ricorre con maggior frequenza che in altri casi nel diritto pubblico. In particolare ne costituiscono un esempio le concezioni del diritto naturale del XVI – XVIII secolo (sopra cennate), con la distinzione tra ciò che, venendo direttamente da Dio, quale creatore della stessa natura (e della legge naturale) non è modificabile; e quello che appartiene all’uomo e al potere umano[49]; onde mentre il secondo può essere espresso in un testo ed avere forma normativa, per il primo ciò è ovviamente escluso: se ne può cogliere il senso solo attraverso la ragione.

Nel duplex principium per cui Leibnitz accostava il diritto alla teologia, cioè la ratio (con la conseguente teologia naturale e la giurisprudenza naturale) e la scriptura, cioè “un libro contenente rivelazioni e comandamenti positivi”[50], è quindi giocoforza servirsi – per lo più – della prima.

D’altra parte la distinzione tra diritto di natura e legge positiva (con la necessità del primo) ritorna in altri pensatori. Per tutti ricordiamo Spinoza[51].

Ciò stante occorre ripartire da quella considerazione di Hauriou, secondo il quale il diritto naturale non è tanto una collezione di precetti di giustizia, quanto un corpo di diritto (corps de droit) costituito insieme di ordine sociale e di giustizia[52]. Anche in questo è ravvisabile la concezione cristiana dell’ordine, naturalmente gerarchico[53]: se questa non trascura la giustizia (quae sint imperia sine justitia nisi magna latrocinia?), la colloca sempre nel quadro di un’esistenza ordinata.

Ma non ordinata (solo) dalla legge positiva: ordinata perché conforme all’ordine sociale qui naturam sequitur, proprio perciò inderogabile (o, in pochi casi, derogabile a proprio danno e per durata limitata)[54].

Per cui è d’uopo applicare, in difetto di scriptura, la ratio a quelle “leggi” dell’ordine sociale che sono costitutive di comunità ordinate e proprio perché tali non sono derogabili “positivamente”, ma anzi determinano esse ciò che può essere disposto dalla legge positiva, compresa quella costituzionale.

Di più: la stessa costituzione positiva (cioè quella statuita) deve interpretarsi in modo conforme a quella, e il senso delle disposizioni (positive) non può derogarvi: ad esempio ritorniamo sulla massima salus rei publicae suprema lex.

Interpretare le norme costituzionali in modo che, per l’appunto, mettano in forse l’unità e l’esistenza politica non costituisce, come prima cennato, un’interpretazione valida né, comunque, solida: perché, come scriveva Jhering “al di sopra del diritto è la vita” per cui, nelle situazioni d’emergenza “la forza sacrificherà il diritto per salvare la vita”[55]. E un concetto assai simile è espresso da Santi Romano con la sua teoria delle necessità. E si potrebbe aggiungere anche da Manzoni che lo fa esprimere da Adelchi morente “Una feroce forza il mondo possiede, e fa nomarsi dritto”.

E la ratio in tal caso non è una scelta obbligata solo dall’assenza di scriptura; lo è anche perché gran parte di quelle “leggi” non sono frutto di decisione (e di volontà) umana, ma di necessità, a meno di non volere – il che (raramente) succede – la distruzione dell’unità politica e/o dell’ordine sociale della comunità[56].

Quindi nell’espressione – presa a mo’ d’esempio e su cui è d’uopo ritornare – salus reipublicae suprema lex la sapienza romana affermava anche l’essenza giuridica di quella massima. Al contrario di quei giudizi (a quella contrapposti) che tendono a escludere dal mondo giuridico massime e regole non riconducibili a “norme” o a “leggi positive”.

A far l’analisi delle quali si potrebbe affermarne la coerenza ai presupposti da cui partono: se si pensa invero che il diritto sia riducibile (solo) a norme statuite (poste in essere) da organi competenti in base a regole prestabilite, massime come quella, non statuite da alcun organo competente, sono fuori del diritto. Ove, di converso, si prenda come fondamento del diritto l’istituzione, è chiaro che quella massima è giuridica, e al massimo grado, perché tende alla salvaguardia dell’istituzione cioè, secondo il notissimo paragone della scacchiera di Santi Romano, del giocatore che muove le pedine (le norme) sulla scacchiera. Per cui queste sono determinate, “derivate” e “secondarie” rispetto a quella che è la principale e primaria “essenza” del diritto.

A costituire l’istituzione e mantenerla (in suo esse perseverare) è il rispetto (e l’attivazione) di massime come quella: mentre hanno un carattere secondario, spesso non costituente alcunché, e talvolta di rilievo decisamente marginale non poche delle norme inserite nei testi costituzionali. All’uopo è istruttivo leggere le sentenze della Corte Costituzionale la quale, come giudice costituzionale, con quotidiana frequenza, per proprio compito, ha la funzione di verificare la conformità alle norme costituzionali (intese generalmente come diritto statuito e scritto) di quelle legislative.

Ne esce fuori una rassegna di decisioni che con l’esistenza, la forma, il tipo dell’unità politica non hanno nulla a che vedere.

Possiamo ricordare, limitando la ricerca, per ragioni di spazio, agli ultimi tre anni, che la Corte si è occupata del “diritto di precedenza dei lavoratori stagionali nelle assunzioni presso la medesima azienda e con la medesima qualifica” (Corte Cost., 04/03/2008, n. 44): ovvero dei requisiti del personale dei gruppi consiliari della Regione Abruzzo: “È incostituzionale l’art. 1, 22º comma l.reg. Abruzzo 8 giugno 2006 n. 16, nella parte in cui, abrogando le parole «in possesso dei requisiti per l’accesso alla categoria D» nell’art. 6, 3º comma, l.reg. Abruzzo 9 maggio 2001 n. 18, prescinde, per l’assegnazione della qualifica di responsabile delle segreterie dei gruppi consiliari e con riguardo ai soggetti esterni all’amministrazione, dal possesso dei suddetti requisiti, richiesti invece per i dipendenti interni” (Corte cost., 21/02/2008, n. 27), del registro regionale (marchigiano) degli amministratori di condominio “Sono incostituzionali gli art. 2, 1º comma, e 3, 1º e 3º comma, l.reg. Marche 9 dicembre 2005 n. 28, nella parte in cui prevedono l’istituzione, presso la struttura competente della giunta regionale, del registro regionale degli amministratori di condominio e di immobili in cui possono iscriversi coloro che siano in possesso di determinati requisiti professionali” (Corte cost., 02/03/2007, n. 57) e del personale in esubero da inserire nei ruoli del S.S.N. (regione Marche): “Sono incostituzionali gli art. 1, 2 e 3 l.reg. Marche 24 febbraio 2004 n. 4, nella parte in cui disciplinano l’inserimento nei ruoli del ssn del personale, già assunto con contratto a tempo indeterminato da unità operative o strutture sanitarie private, che risulti in esubero a seguito dei processi di riconversione o disattivazione o soppressione delle predette unità e strutture” (Corte cost., 10/05/2005, n. 190).

E così via: quanto sopra citato è una minima parte della minutaglia che costituisce il lavoro quotidiano della Corte Costituzionale.

Viene naturale la domanda: cos’ha di costituzionale il registro degli amministratori di condominio o gli esuberi del personale delle cliniche marchigiane (e così via)? È chiaro che la ragione di tanto lavoro è soltanto la presenza nel testo della Costituzione di molte norme che hanno il carattere (e la rigidità) di legge costituzionale, ma “costituiscono” poco o niente.

E il ragionamento si può fare anche partendo dall’altro corno del dilemma: quante sono le sentenze della Corte in cui ci si occupa delle decisioni politiche fondamentali (nel senso di “costituire” le forme e il tipo dell’unità politica)? Praticamente (quasi) nessuna. Più si sale verso il fondamento, il nocciolo duro della forma politica, più gli interventi della Corte Costituzionale si rarefanno: ad avvicinarsi, e nemmeno tanto, all’Empireo, cessano del tutto.

Per cui, come sopra cennato è giuridica nel senso ricordato in primo luogo quella massima – ed altre consimili -, come implicito in quel suprema lex: suprema proprio perché superiore a tutte le altre. E la cui superiorità è comprovata non solo dalla possibilità – anzi dal dovere – di “rompere la costituzione”, o di derogare e sospendere il diritto positivo (anche non costituzionale) ove lo richieda la salvezza dello Stato ma dal fatto che in base a quella suprema lex l’istituzione richiede, nei casi d’urgenza, anche il sacrificio della vita: quel “sacro dovere” che anche nella vigente Costituzione (statuita), l’art. 52 prescrive.

Il fatto che principi come quello siano considerati meta – o pre-giuridici – è condivisibile solo in parte. Vale per concetti e massime del genere quel che si può affermare della sovranità: che è, a un tempo, esterna ed interna al diritto, vi “partecipa”. Se, come scriveva von Seydel “il volere sovrano è sempre un volere sopra lo Stato, non un volere dello Stato”, è pur vero che una volta voluto, diventa volere dello Stato e perciò diritto. Per ragioni analoghe Kant sosteneva che “il sovrano nello Stato ha verso i sudditi soltanto diritti e nessun dovere (coattivo)[57], per cui c’è un rapporto giuridico tra l’uno e gli altri, per cui il primo ha solo diritti e i secondi solo doveri. Il sovrano è così il punto d’Archimede dell’ordinamento giuridico; e la massima salus rei publicae… è la clausola “costitutivo-conservativa” in virtù della quale la protezione dell’esistenza (collettiva) prevale sulla legislazione positiva, anche costituzionale. Coincidendo, secondo Santi Romano il concetto d’istituzione con quello d’ordinamento, questa clausola è così giuridica, perché costitutivo-conservativa dell’esistenza della comunità organizzata, politicamente e giuridicamente, nell’istituzione.

Scriveva von Seydel, quanto alla massima suddetta “Questo limite del volere sovrano però non è giuridico, poiché il diritto comincia soltanto dal sovrano, ma naturale, ossia derivante dalla natura della sovranità stessa. Tosto quindi che la volontà del sovrano oltrepassa questi suoi limiti naturali, diventa egoistica (tirannia, governo di classe) e si mette in contraddizione con gli interessi collettivi dei cittadini, essa distrugge la base dello Stato, e incorre in contraddizione con la sua propria natura[58]. Quindi la massima suddetta è “di diritto naturale” (come affermava – in termini simili – Spinoza); ma è anche un comando giuridico, almeno, nei confronti dei poteri costituiti – tra i quali quelli che hanno il potere d’interpretare la Costituzione.

Per cui non pare possibile ridurre l’interpretazione della costituzione a quella del diritto scritto (legislativo). L’interpretazione del quale, è (fondamentalmente) quella prescritta dall’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale: norma che per l’appunto è pensata per un diritto scritto, statuito (e in larga misura codificato): ma è proprio perciò di applicazione assai difficile quando non si tratta di esegesi di testi, ma di principi, massime, usi, non codificati in un testo e – in larga misura – neppure codificabili.

Ove se ne espunga la parte non-scritta, il risultato è un’interpretazione spesso non solo fallace, ma anche inutile, perché inidonea a comprendere il senso del diritto “vivente”, espresso nell’istituzione statale.

Si può rivolgere a una tesi del genere la critica analoga a quella rivolta alla teoria normativista: che riducendo l’interpretando e interpretabile al normativo “se ne perde per strada, per così dire, qualche pezzo troppo importante per essere trascurato”[59].

E che questi, come scriveva Lassalle, siano dei bei pezzi di costituzione, anzi la maior pars, non appare dubbio: a conferma della terza tesi (sopra citata) di de Maistre.

La contraria tesi, molto frequentata è conseguente all’identificazione tra diritto e norma, e di norma intesa come comando statuito: per cui essendo (quasi) tutto il diritto statuito, si identifica questo con quello, cioè la parte con il tutto. Come scriveva Max Weber il potere (razionale-legale) poggia su certi presupposti, tra cui “che ogni diritto sia nella sia essenza un cosmo di regole astratte, e di norma statuite di proposito, che la giurisdizione costituisca l’applicazione di queste regole al caso particolare”. Se questo è vero, in particolare per un diritto moderno (meglio ancora se codificato) tuttavia non lo è, o non lo è altrettanto, né per il diritto (in genere) né, anche nella tarda modernità, per il diritto costituzionale.

Ciò non toglie che, proprio perciò, la problematica che si apre a non seguire la tesi riduttivistica che vede nella costituzione solo un insieme di norme “rigide” (o “meno flessibili”), è ampia.

Infatti interpretare norme (scritte) è sicuramente più agevole, e supportato da una notevole – spesso bimillenaria – dottrina (e pratica) che ha elaborato regole, topoi, “norme di chiusura” e quant’altro; lo è assai meno “interpretare” qualcosa che non è scritto, non è statuito e non ha quasi sempre forma normativa. In fondo è stato visto con ragione che “una forma è necessaria per l’esistenza di una norma”[60].

E, nella specie, di “forma”, intesa in quel senso, c’è poco o nulla. Il positivismo classico si reggeva sulla concezione di un ordinamento di norme positive statuite da organi competenti, la cui volontà formalmente espressa era riferibile – mediatamente – a quella del sovrano. Tutte cose che mancano – per lo più – nel caso delle massime e dei presupposti essenziali o fondamentali. Per capire i quali bisogna partire da metodi, modi e regole – in gran parte – diversi.

Il che è il tema della seconda parte di questo scritto.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] V. C. Mortati voce Costituzione (dottrine generali): “Se l’essenza della costituzione è da riporre, come si è visto, nei valori coessenziali alla forma di Stato, da essi anzitutto l’interpretazione dovrà attingere l’aspirazione necessaria a determinare l’esatto significato dei principi consacrati nel testo, a graduarli secondo il diverso rilievo da assegnare a ciascuno, ad individuare quelli che, se pure non formulati espressamente, sono tuttavia impliciti perché presupposti da singoli gruppi di norme o ricavabili dal sistema, che appunto deve essere ricostruito muovendo dalla considerazione dei valori predetti. La pretesa di esaurire nella costituzione scritta l’intero sistema si è rivelata sempre più illusoria, e sempre più manifesto è apparso il bisogno di attingere da fonti extratestuali gli elementi necessari a fare abbracciare la totalità di vita sociale unificata dalla costituzione nel senso materiale che si è illustrato.” in Enciclopedia del diritto, vol. XI, p. 181.

[2] In effetti il testo dell’art. 1 della Costituzione vigente, decidendo che la sovranità appartiene al popolo, enuncia (implicitamente) che gli compete anche il potere costituente come, e contrario sensu che questo non spetta ad alcun potere costituito diversamente da come è – o meglio era- ad esempio, nelle monarchie assolute.

[3] Oltre che per l’altra ragione, desumibile da Hobbes, che se ci fosse un giudice in grado di statuire sulla legalità dell’esercizio del potere costituente, a essere “titolare” di questo sarebbe esso e non il “popolo” o la “nazione”.

[4] Diverso, in parte, è il caso della common law e del vincolo al precedente:

[5] Per cui vedi la “classica” esposizione di Carl Schmitt nella Verfassungslehre, trad. di A. Caracciolo, Milano 1984 p. 35 e ss.

[6] Essai sur le principe génerateur des costitutions politiques et des autres institutions humaines, trad. it. a cura di Roberto De Mattei, Milano 1975, p.33.

 

[7] Op. cit. pag. 40 (i corsivi sono nostri).

[8] Op. cit. pag. 52 (i corsivi sono nostri).

[9] Verfassung und verfassungsrecht, trad. it., Milano 1988, p. 150.

[10] Op. loc. cit.

[11] Op. cit. p. 38.

[12] Op. cit., p. 39.

[13] Op. cit., p. 40.

[14] Op. cit., p. 41 e “Di fronte a questa decisione esistenziale tutte le regolamentazioni normative sono secondarie”.

[15] Op. loc. cit..

[16] Op. cit., p. 42-43.

[17] Op. cit., p. 43 e prosegue “Le altre normative, le enumerazioni e le delimitazioni delle competenze nei singoli dettagli, le leggi, per le quali per motivi determinati è scelta la forma della legge costituzionale, sono di fronte a quelle decisioni relative e secondarie; la loro particolarità esteriore è caratterizzata per il fatto che possono essere rimosse o modificate soltanto con il procedimento di modificazione aggravata dell’art. 76”.

[18] V. La garantie jurisdictionnel de la Costitution, trad.it. (dal testo francese) ne La Giustizia Costituzionale, Milano 1981 pp.189 ss. e prosegue  “il limite tra queste disposizioni e le tradizionali disposizioni sul contenuto delle leggi che si rinvengono nelle dichiarazioni dei diritti individuali scompare facilmente e non è quindi impossibile che un tribunale costituzionale, chiamato a decidere sulla costituzionalità di una legge, l’annulli perché è ingiusta, essendo la giustizia un principio costituzionale che esso deve conseguentemente applicare. In tal caso però il potere del tribunale  dovrebbe essere considerato semplicemente intollerabile: La concezione della giustizia  della maggioranza dei giudici di questo tribunale potrebbe contrastare del tutto con quella della maggioranza della popolazione e contrasterebbe evidentemente con quella del parlamento che ha voluto la legge”; per evitare un simile spostamento di potere (dal Parlamento al Giudice costituzionale) “un organo estraneo e che può diventare il rappresentante di forze politiche ben diverse da quelle che si esprimono nel parlamento, la costituzione deve, specie quando crea un tribunale costituzionale, astenersi da questa fraseologia e, se intende porre  principi relativi al contenuto delle leggi, li deve formulare nel modo più preciso possibile”. ( I corsivi sono nostri).

[19] Principi di diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 5.

[20] Op. cit., p. 2.

[21] Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, pp. 338-339.

[22] V. Der drang zur Verfassungsreform, trad. it. di C. Geraci ne La giustizia costituzionale, cit. p. 49; e prosegue: “Se la richiesta di modifica della costituzione cresce a tal punto che non può essere ulteriormente accantonata, è certo un segno che c’è stato uno spostamento di forze che cerca di esprimersi sul piano costituzionale”; le tesi di Lassalle sono esposte nello scritto Über Verfassungswesen, trad. it. di C. Forte in Behemoth n. 20, pp. 5-14.

[23] V. G. De Vergottini, voce Costituzione in Dizionario di politica. Tale principio è in grado “di garantirne l’unità in sede di valutazione interpretativa delle norme esistenti e di completarne le lacune, di permettere di individuare i limiti della continuità e dei mutamenti dello Stato tenendo conto della medesima come parametro di riferimento. Sono dunque i principi costituzionali sostanziali cui si fa cenno che rivestono un ruolo essenziale per la comprensione di una costituzione”.

[24] L’ordinamento giuridico, rist. Firenze 1967, p. 27; e poco prima scrive “È stato detto più volte che è possibile concepire un ordinamento, che non faccia posto alla figura del legislatore, ma solo a quella del giudice. Ed è ripiego, suggerito dalla nostra mentalità moderna, ma non corrispondente alla realtà, il dire che in questo caso il giudice, nel medesimo tempo in cui decide il caso concreto, pone la norma che presiede al suo giudizio. La verità è, invece, che questo può essere determinato dalla c.d. giustizia del singolo caso, dall’equità o da altri elementi che sono qualche cosa di ben diverso dalla norma giuridica vera e propria, che, per sua natura, concerne una serie o classe di azioni ed è quindi astratta e generale. Se così è, il momento giuridico, nell’ipotesi accennata, deve rinvenirsi, non nella norma, che manca, ma nel potere, nel magistrato, che esprime l’obiettiva coscienza sociale, con mezzi diversi da quelli che son propri di ordinamenti più complessi e più evoluti”.

[25] V. “non sembra che si possa sperare di costruire una teoria normativista nella quale la gradazione tra norme si possa dedurre unicamente dai caratteri propri e dalla natura intrinseca di ciascuna delle specie di norme che sono destinate a succedersi” perché “la gradazione delle norme, non proviene dal grado di qualità inerente a ogni specie di norma presa in sé, ma dal grado di potere degli organi o delle autorità da cui la norma è stata emanata, dalla funzione esercitata o dall’atto compiuto. In altri termini, il percorso graduale e successivo che si osserva nella elaborazione del sistema di norme dello Stato moderno non ha la sua causa primaria nella gradazione, naturale o logica, delle norme stesse considerate nel rapporto che collega le une alle altre, ma per gradazione di norme bisogna intendere una gradazione che ha la sua causa effettiva nelle considerazioni organiche alle quali è sottomessa, secondo l’ordine giuridico positivo, la formazione del diritto” ne La teoria gradualistica del diritto, Milano 2003, p. 35.

[26] V. sul punto in particolare Die Diktatur a cura di A. Caracciolo, Roma 2006, pp. 243-303.

[27] “Il diritto non è quanto di più elevato vi sia al mondo, non è fine a se stesso, ma è soltanto un mezzo diretto ad un fine, ed il suo fine ultimo è l’esistenza della società” e “al di sopra del diritto è la vita; e se la situazione concreta è quella da noi ipotizzata – cioè una situazione di emergenza politica riducibile all’alternativa: o il diritto  o la vita – non vi possono essere dubbi sulla decisione da prendere: la forza sacrificherà il diritto per salvare la vita” Der Zweck im Recht, trad. it., p. 148.

[28] Op. cit, p. 186.

[29] Op. loc. cit e prosegue “qui il giudizio del politico, dell’uomo di stato e dello storico deve sostituirsi a quello del giurista, che giudica soltanto alla stregua del diritto positivo. Quest’ultimo criterio, infatti, si rivela adatto alle situazioni normali da cui è desunto, ma non è applicabile a situazioni eccezionali per cui non è stato pensato e da cui non può essere applicato. Se non ci si fanno scrupoli nell’usare il termine ‘diritto’ in questo senso, potremmo qui parlare di un diritto eccezionale della storia, che in linea di principio rende praticamente possibile l’esistenza del diritto e, sporadicamente, il riaffiorare della forza nella sua missione e funzione storica originaria, cioè come fondatrice dell’ordinamento e creatrice del diritto”.

[30] Corso di diritto costituzionale, Padova 1934, p. 284.

[31] V. Verfasungslehre, p. 41 ss.

[32] A tale proposito si potrebbe sostenere, applicando criteri e topoi dell’interpretazione della legge, come il brocardo ubi lex dixit voluit, ubi non dixit noluit, che prescrivendo l’art. 139 che la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale, la Costituzione consente di trasformarla in Stato fascista o in repubblica sovietica, o conferire la sovranità all’ONU o agli USA o all’UE anche attraverso procedimenti di revisione costituzionale. La conclusione non regge anche ad applicare il criterio d’interpretazione “sistematica”. Ma decisivo è che il costituente stesso ha presupposto tacitamente che democrazia, sovranità popolare fossero scelte immodificabili nel quadro costituzionale, non foss’altro perché conseguenti non solo dalla costituzione, ma dal potere costituente.

 

[33] Sul che ci permettiamo di richiamare il nostro piccolo lavoro Spunti su logica della reiezione e ragionamento giudiziario ne Il Consiglio di Stato, n. 6-7 giugno-luglio 1983, p. 855 e ss.

[34] O. von Gierke Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien e prosegue “Non rinunciano naturalmente in alcun modo al principio che lo Stato è fondato sul volere divino e che ogni potere viene da Dio: ma lo sviluppano sempre più in un senso che non offre alcun ostacolo alla costruzione esclusivamente giuridico-razionale dello Stato; e quel principio rimane ancora soltanto a significare che la natura e la ragione naturale, e quindi anche i rapporti, i diritti e i doveri su esse fondati, sono in ultima analisi emanazione dell’essenza divina” trad. it. Torino 1974, p. 70.

[35] Sintetizziamo così quanto scrive Carré de Malberg in La contribution à la théorie générale de l’État, Paris 1929, tomo 2°, p. 151.

[36] La tesi di Sieyès è una (nuova) formulazione della tesi di Spinoza che nello stato di natura vale la regola tantum juris quantum potentiae.

[37] “Il diritto costituzionale è perciò, come si vedrà meglio più avanti, il diritto che segna la stessa esistenza dello Stato, il quale comincia ad avere vita solo quando ha una qualche costituzione; gli dà una forma e, per dir così, una determinata fisionomia” e poco dopo “Uno stato «non costituito» in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del corpo” Principii di Diritto costituzionale generale, pp. 2-3, Milano 1947.

[38] C. Mortati, istituzioni di diritto pubblico, Tomo I, Padova 1975, p. 34.

[39] È chiaro che se invece prevale la scelta per i “valori” o la religione o quant’altro – come i briganti del XV secolo, che preferivano il turbante turco alla tiara papale – la comunità, come istituzione ovvero come esistenza organizzata politicamente, cessa di esistere e così la di essa costituzione. Si può sempre decidere per non avere un’esistenza (politica) e l’istituzione che le da forma.

[40] Raggruppiamo sotto tale definizione, momentaneamente, tutto ciò che è accomunato da essere una decisione costituzionale inespressa, ma necessaria.

[41] Anche nel caso delle costituzioni “naturali” cioè formate storicamente, esiste comunque una realtà effettuale che legittimi e mantenga la costituzione, come il consenso dei governati.

[42] E prosegue: “Da questo stesso principio risulta chiaramente che lo Stato non è affatto il volere sovrano, né possiede il volere sovrano, anzi, è diverso da esso. Il volere sovrano è sopra lo Stato, e la soggezione ad esso dà al territorio e al popolo la qualità di Stato. Essi si chiamano Stato soltanto se sono dominati, analogamente come si chiama proprietà la cosa solo quando ha un padrone”, Principi di una dottrina generale dello Stato, (trad. it.) Torino 1902, p. 1155.

[43] Sul che v. Otto von Gierke Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien “Non sono però i singoli che con la loro volontà stabiliscono la sovranità della collettività sopra i propri membri: essi infatti non possiedono inizialmente alcuno dei diritti sorti con la collettività stessa (per es. il diritto di vita e di morte e il vincolo di coscienza), né, volendo l’associazione, possono impedire che essa divenga sovrana. Ma nemmeno è Dio ad attribuire, con un atto particolare alla collettività (come al Papa), la sovranità, pur essendo, in qualità di «primus auctor», la fonte di ogni potere. Il potere sovrano spetta piuttosto ad essa «ex vi rationis naturalis», e Dio lo concede come «proprietas consequens naturam», «medio dictamine rationis naturalis ostendentis, Deum sufficienter providisse humano generi et consequenter illi dedisse potestatem ad suam conservationem et convenientem gubernationem necessariam». Esattamente come l’uomo, per il fatto solo che è e non appena è, è libero ed è dotato di potere su se stesso e sulle sue membra, così il corpo politico, dal momento che esiste, ha il potere e la sovranità sopra se stesso e di conseguenza sopra i suoi membri”, trad. it, Torino 1974, p. 71.

[44] SANTI ROMANO, Principi di diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 2 ss.

[45] Per un esame delle principali ci permettiamo di rinviare a nostro scritto Note sull’essenza della Costituzione in Behemoth n. 18-19.

[46] G. BURDEAU, Droit constitutionnel et institutions politiques, Paris 1980, p. 68.

[47] V. sul punto C. Mortati in Istituzioni di diritto pubblico, tomo I, Padova 1975, p. 31 in nota “Cfr. ORESTANO, I fatti di normazione nell’esperienza romano-arcaica, Torino 1967, p. 28, che efficacemente definisce «fatti normativi» quelli ai quali, al di fuori di una preventiva posizione di norme regolatrici, valgono, in virtù del loro realizzarsi e stabilirsi, a instaurare o modificare un ordinamento giuridico, nel suo insieme o in singole strutture ponendosi essi stessi fattori determinanti della propria legittimità ed efficacia”.

[48] E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, vol. I, p. 50 ss. citato da V. Marinelli in Dire il diritto, Milano 2002, p. 36.

[49] Ricordiamo S. Roberto Bellarmino in Scritti politici, pp. 233 ss., Bologna 1950 il quale scrive “A questo proposito però son da farsi alcune osservazioni. La prima è questa: il potere politico in generale, cioè non considerato nelle sue forme particolari di monarchia, aristocrazia o democrazia, viene immediatamente soltanto da Dio, poiché è una conseguenza necessaria della natura dell’uomo; perciò viene immediatamente da colui che ha fatto la stessa natura. Inoltre questo potere è di diritto naturale; non dipende infatti dal libero consenso degli uomini: vogliano o non vogliano, gli uomini devono essere governati da qualcuno, a meno che non vogliano che il genere umano vada in rovina; ma ciò è impossibile perché sarebbe contro l’inclinazione della natura… Essendo infatti questo potere di diritto divino, questo diritto non diede il potere a un qualche uomo particolare; lo diede quindi a tutta la moltitudine” e prosegue “lo stesso diritto naturale trasferisce il potere politico della moltitudine a uno o a più individui. La moltitudine infatti non può esercitare essa stessa questo potere, e perciò è obbligata a trasferirlo a uno o ad alcuni pochi individui. Pertanto il potere dei principi, considerato in generale, è esso pure di diritto naturale e divino, e il genere umano, anche se tutti gli uomini in ciò s’accordassero, non potrebbe stabilire il contrario, che cioè non vi fossero principi e capi. La quarta osservazione è questa: le norme particolari di regime politico sono «de jure gentium» e non di diritto naturale, poiché è chiaro che dipende dalla libera volontà della moltitudine stabilire che governi un re o alcuni consoli o altri magistrati; e, se v’è una legittima causa, la moltitudine può mutare un regime monarchico in aristocratico o democratico e viceversa, come sappiamo che è avvenuto a Roma” (i corsivi sono nostri); Suarez scrive “In primis enim requiritur, ut Deus sit causa proxima, sua voluntate conferens talem potestatem. Non enim satis est, ut Deus tanquam prima causa et universalis potestatem tribuat”; perché “nulla est potestas, quae hoc modo non sit a Deo, ut a prima causa, ac proinde immediate in illo genere” per cui “sine ulla prorsus ambiguitate evidentique ratione statui potest quomodo principatus politicus sit immediate a Deo, et nihilominus regibus et senatibus supremis non a Deo immediate, sed ab hominibus commendatus sit. Primo enim suprema potestas civilis per se spectata immediate quidem data est a Deo hominibus in civitatem, seu perfectam communitatem politicam congragatis, non quidem ex peculiari, et quasi positiva institutione, vel donatione omnino distincta a productione tal naturae, sed per naturalem consecutionem ex vi primae creationis eius; ideoque ex vi talis donationis non est haec potestas in una persona, neque in peculiari congrgegatione multarum, sed in toto perfecto populo seu corpore communitatis” v. Defensio fidei catholicae et apostolicae, Lib. III, cap. XI.

[50] Prendiamo l’esposizione che ne fa Schmitt in Politische theologie ora ne Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 62.

[51] “Se, dunque, la potenza per cui le cose naturali esistono è operano è la medesima potenza di Dio, è facile capire che cosa sia il diritto naturale. Infatti, poiché Dio ha diritto a ogni cosa, e poiché il diritto di Dio non è altro che la stessa potenza divina considerata come assolutamente libera, ne segue che ciascuna cosa naturale ha da natura tanto diritto quanta potenza a esistere e a operare: giacché la potenza, per la quale ciascuna cosa naturale esiste e opera, non è altra che la stessa potenza di Dio, la quale è assolutamente libera” in Trattato politico, Torino 1958, p. 160; poco dopo scrive “la natura non si esaurisce nelle leggi della ragione umana, che non hanno riguardo se non alla vera utilità e alla conservazione degli uomini, ma si estende ad infinite altre, che riflettono l’ordine eterno della intera natura, di cui l’uomo è una piccola parte e della cui sola necessità tutti gli individui sono in certo modo determinati a esistere e a operare”; lo stato civile (cioè vivere in società politica) non ripugna alla ragione “lo stato civile è naturalmente istituito al fine di vincere il comune timore e di ovviare alla comune indigenza, e quindi ha appunto di mira ciò che i singoli viventi secondo ragione tenterebbero invano nello stato naturale”; ma lo Stato è soggetto alla legge di natura “poiché le parole legge e contravvenzione riguardano ordinariamente, non soltanto il diritto civile, ma anche le regole comuni di tutte le cose naturali, e in primo luogo della ragione, non possiamo escludere in assoluto che lo Stato sia soggetto alle leggi o che possa ad esse contravvenire. Infatti se lo Stato non fosse soggetto ad alcuna delle leggi o regole, grazie alle quali è quello che è, non sarebbe una realtà naturale ma una chimera” perché “le regole e i motivi di soggezione e di ossequio, che lo Stato deve a propria garanzia conservare, non sono del diritto civile, ma del diritto naturale” (i corsivi sono nostri) op. cit., cap. IV, 4-5.

[52] V. “Il est vrai que le droit naturel est considerée comme plus près de la nature que les droits positifs, naturam sequitur, de là vient son nom; mais quelle est la véritable nature de l’homme et des sociétés, est-ce seulement l’équité dans les relations, n’est-ce point, en même temps, l’ordre dans la structure sociale?op. cit., p. 59.

[53] V. S. Agostino De civitate Dei, lib. XIX, cap. 13: “la pace della città è l’ordinata concordia dei suoi cittadini nel comandare e nell’obbedire; la pace della città celeste è la più perfetta e armoniosa concordia nel gioire di Dio e nel godere vicendevolmente in Dio; la pace di tutte le cose è la tranquillità dell’ordine. E l’ordine è la disposizione degli esseri uguali e disuguali che assegna a ciascuno il posto che gli conviene” (i corsivi sono nostri).

[54] Così se viene meno l’autorità, o se questa è priva dei mezzi per garantire l’ordine sociale, la conseguenza è il venir meno dell’ordine per entrare in una situazione d’anarchia. Il che è non solo contrario alla concezione dell’uomo come zoon politikon, ma è, ancor più, “impossibile” se non come stato di transizione tra due diversi ordinamenti, dato che inevitabilmente, dopo una fase di disgregazione sociale, la naturale tendenza all’ordine ricompone le relazioni e i gruppi umani, anche se in un ordine diverso. L’anarchia, come ideale politico è utopico, dato che da millenni non si vede una società anarchica, se non nelle favole; come situazione sociale è ricorrente, ma transeunte, come parentesi tra due forme di ordine.

[55] Der Zweck im Recht, trad. it., Torino 1972, p. 185 e poco dopo scrive “Abbiamo così individuato il punto in cui il diritto sfocia nella politica e nella storia: qui il giudizio del politico, dell’uomo di stato e dello storico deve sostituirsi a quello del giurista, che giudica soltanto alla stregua del diritto positivo… Se non ci si fanno scrupoli nell’usare il termine ‘diritto’ in questo senso, potremmo qui parlare di un diritto eccezionale della storia, che in linea di principio rende praticamente possibile l’esistenza dei diritto e, sporadicamente, il riaffiorare della gorza nella sua missione e funzione storica originaria, cioè come fondatrice dell’ordinamento e creatrice del diritto”.

[56] Un caso recente è stata la dissoluzione dell’Unione sovietica a seguito dell’implosione del comunismo. Non è in questione – né interessa – la “legalità” della trasformazione dell’URSS in CSI, fondata sull’art. 72 della Costituzione sovietica, riconoscente il diritto di secessione alle repubbliche, anche perché il vero “nucleo” costituzionale dell’URSS era nell’art. 6 della Costituzione per cui il PCUS era “la forza che dirige ed indirizza, la società sovietica, il nucleo del suo sistema politico”; piuttosto il PCUS, come altri partiti comunisti, implose perché non esisteva più la volontà politica di (credere e) sostenere quell’ordine sociale (e relativa unità politica).

[57] E prosegue: “E anche se l’organo del sovrano, il reggitore, agisse contrariamente alle leggi, se per esempio con imposte, reclutamento e simili egli violasse la legge dell’uguaglianza nella divisione degli oneri dello Stato, il suddito può a quest’ingiustizia opporre bensì querela (gravamina), ma nessuna resistenza.

Non può anzi esser contenuto nella costituzione nessun articolo, che renda nello Stato possibile a un potere di opporsi a colui che possiede il comando supremo nel caso che questi trasgredisca le leggi costituzionali: che renda quindi possibile di limitarne il potere” Die Metaphysik der Sitten, trad. it., Bari 1973, p. 149.

[58] Principii di una dottrina generale dello Stato, cit., Torino 1902, p. 1157.

[59] E prosegue “o messo tra parentesi, proprio come una teoria fisica è esposta al rischio di trascurare qualche aspetto della realtà troppo importante per non dover essere spiegato. D’altra parte, chi mi assicura che il mio modello di conoscenza della realtà sia veramente coestensivo alla realtà che voglio spiegare? In altri termini: chi mi assicura che il mio ragionamento spieghi veramente tutto ciò che devo spiegare? La scienza rischia di essere un insieme di proposizioni che, paradossalmente, non fotografa il mondo, ma se stessa: lo scienziato rischia cioè di non vedere altro che il proprio ragionamento, e non la realtà che vuole spiegare. La «verità» significa così soltanto la coerenza ai presupposti di partenza, che peraltro non sono dimostrati, e scompare ogni riferimento alla realtà, per spiegare la quale lo scienziato «puro» ha iniziato a fare scienza. Siamo di fronte a una vera implosione del sistema” v. Ottavio De Bertolis S.I. La metodologia giuridica di Norberto Bobbio in Civiltà cattolica 3687 (2004).

[60] V. V. Gueli  il quale così continua “Tale assioma è così formulato, ad es., dal Regesbelger, (tuttavia in maniera troppo limitata, perché con esclusivo riguardo alle norme legislative): «Una espressione della volontà è indispensabile per l’esistenza della legge e precisamente l’espressione deve consistere nelle parole della legge»; e similmente, da noi, da Alfredo Rocco, (riferendosi però anch’egli alla legge definita come «erklärter Gemeinwille» e dal Carnelutti”, Elementi di una dottrina dello Stato e del diritto, Roma 1959, p. 327.

NEMICO, OSTILITA’ E GUERRA, di Teodoro Klitsche de la Grange

NEMICO, OSTILITA’ E GUERRA

  1. La crisi finanziaria che da qualche mese ha colpito l’ “eurozona” pone – di nuovo – il problema di comprendere se si tratti – come in parte è – di un fatto puramente economico – finanziario (dovuto in larga parte – secondo molti – a difetti di costruzione dell’euro, a cominciare dall’essere una moneta senza Stato) ovvero, in buona misura, politico.

Se si giudica dagli effetti finora prodotti, il carattere politico è innegabile: basti ricordare che, in meno di otto mesi, sono stati sostituiti i governi (d’investitura popolare) di due paesi dell’euro-zona (Italia e Grecia) con governi tecnici; mentre in un terzo (Spagna) il governo è stato battuto (e rimpiazzato) dall’opposizione. Fatto comunque in buona parte causato dalla crisi finanziaria. Non è sufficiente comunque giudicare la natura politica di una causa (situazione, fatto) dagli effetti che comporta: anche una malattia può portare – e la Storia ce lo dimostra – conseguenze politiche di grande rilievo[1]. Ciò non toglie che la malattia non sia una causa politica.

Ma del pari, che la causa sia normalmente qualificata come economica non implica che i soggetti che la producono e gli scopi che perseguono non possano essere politici. Un esempio (tra tanti) è la decisione degli Alleati nel 1941 di imporre l’embargo al Giappone sulle esportazioni di petrolio e materiali ferrosi (e altro). Ciò risultava più efficace dell’intero esercito cinese: infatti costrinse il Giappone ad attaccare le potenze anglosassoni prima della fine dell’anno. Se i generali nipponici avessero indugiato qualche altro mese, i giapponesi avrebbero subito una devastante crisi economica che li avrebbe costretti probabilmente a ritirarsi dalla Cina subito dopo. Il che significa che, anche se in quella situazione non si era fatto uso di violenza, non si può ridurre il tutto alla mera constatazione (economica) che il Giappone mancava di ferro e petrolio e che gli Alleati  – che ne abbondavano – avessero il diritto di non rifornirlo (giuridicamente ovvio). A qualificare quella misura come politica erano i soggetti (le potenze anglosassoni e i loro  satelliti) e lo scopo (ottenere la ritirata del Giappone dalla Cina occupata).

Ciò non toglie che, almeno in Italia, ma per quanto ne so, anche in Europa, quasi nessuno abbia dato attenzione al possibile carattere e scopo politico della crisi, e tanto meno all’esistenza di soggetti interessati a provocarla per raggiungere fini di carattere politico.

Il che, per certi aspetti non sorprende: rientra nella tendenza al rifiuto della politica (non solo dell’attività, ma della politica come costante dell’esistenza umana) che ha connotato (in parte prima piccola, ma crescente) la modernità, in particolare dal XVIII secolo e che negli ultimi decenni è diventata di gran lunga prevalente in Europa (e nell’Occidente).

Vent’anni fa era di moda la tesi – espressa da Fukuyama – che la conclusione della guerra fredda fosse la fine della storia: che il pianeta avesse solo una Superpotenza (gli U.S.A.); che non ci fosse nessun nemico, perchè quello esistente (il comunismo) era collassato e niente faceva presagire che il sistema comunista sarebbe risuscitato (valutazione – quest’ultima –  da confermare anche oggi).

Tutte tali tesi (e le altre similari) si fondavano su una convinzione: che il nemico non ci fosse più e neppure un conflitto (politico) estremo, per cui ogni tipo di lotta (residuata dopo la “fine della storia”) fosse gestibile con mezzi giuridici ed economici: governance, tecnocrazia, amministrazione delle cose al posto del governo degli uomini.

L’occidente, così rallegrato, si inoltrava, senza accorgersene, non tanto verso la fine della storia, quanto, probabilmente (e sicuramente l’Europa) nella propria decadenza costituita – sul piano interno – da una variante (peggiore) di quel “dispotismo mite”, profetizzato da Tocqueville nella parte IV della Democratie en Amérique.

Qualche anno fa “Catholica” organizzava un incontro a Parigi: il libro che ne raccoglie le relazioni ha il titolo – quanto mai significativo – de “La culture du refus de l’ennemi”. Difficilmente un titolo ha reso così efficacemente il senso del convegno[2], né poteva essere altrettanto preciso: perché un certo tipo di cultura non si limita a negare la (possibilità) di guerra (anche nel senso limitato che la si possa sempre evitare); ma si spinge assai più lontano, asserendo di possedere il rimedio che evita l’inimicizia e i conflitti.

  1. Tipico esempio ne è Marx (e i marxisti) che, nella fase compiuta del comunismo (la società senza classi), immagina una società umana senza Stato/i (senza politica), armonica e quindi non necessitante né di un apparato di difesa e di repressione: priva di tutti i presupposti del politico, come individuati da Freund, ovvero delle regolarità costanti della politica (Miglio). Quindi senza lotta per il potere (Tucidide), senza autonomia del politico (Machiavelli), senza sovranità (Bodin), senza classe politica (Mosca e Pareto), senza nemico (Hobbes e C. Schmitt), senza conflitti.

Qualcosa di assai simile all’età dell’oro degli antichi, alla terza età di certe riflessioni teologico-storiche cristiane (per lo più eretiche) o al “Paese dei balocchi” descritto in Pinocchio[3].

Ma, a parte l’illusione (prevedibile) teorie siffatte – o similari – sono connotate da un errore e confusione “fattuale” e concettuale: quella tra guerra, nemico, conflitto. Nel senso che evitare la guerra non significa far cessare l’inimicizia (né l’intenzione ostile e neanche il conflitto); affermare non c’è guerra, quindi non c’è nemico (né conflitto) significa confondere soggetti (nemico), presupposti (conflitto), fini (obiettivo politico) e mezzi (tra i quali c’è la guerra). La guerra è (un’attività) e uno status; come la pace essa è un mezzo della politica. La politica non implica (in ogni situazione) necessariamente e ineluttabilmente la guerra; ma non è pensabile senza nemico. Così il conflitto: questo presuppone solo la pluralità di soggetti – e correlative pretese – a uno stesso oggetto (bene). Dato che molti beni sono limitati, ne consegue che il conflitto esiste indipendentemente dai mezzi usati per risolverlo: la concorrenza o la guerra (o altro, come l’accordo)[4]. Mentre conflitto e nemico sono (relativamente o totalmente) indipendenti dalla volontà (perché esistono) la guerra richiede comunque la volontà di aggredire e di difendersi (e quindi due volontà irriducibilmente ostili)[5].

La guerra, in definitiva presuppone il nemico e il conflitto: ma non ne è la conseguenza necessaria. Ne deriva che l’assenza di guerra non significa che non esistono conflitti e nemici: ma solo che questi non hanno deciso di risolvere i conflitti e raggiungere i loro obiettivi politici col mezzo della guerra.

  1. La speranza della fine del nemico (in una con quella della Storia) fu contraddetta subito dopo il crollo del comunismo, dai conflitti che tale collasso generò (Balcani, Cecenia). Passato qualche anno provvide Bin Laden a confermarne l’illusorietà con l’attacco dell’11 settembre 2001. Tra la conclusione del comunismo e l’emergere del terrorismo di Al Quaeda, era pubblicato uno studio dei colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui destinato a dare un grosso dispiacere alle speranze e alle illusioni del pacifismo “senza se e senza ma”. Sostenevano i colonnelli che “la nuova situazione creatasi dopo il 1989-1991 facesse sì che “da questo momento in poi la guerra non sarà più ciò che è stata tradizionalmente. Il che significa che, se in futuro l’umanità non avrà altra scelta che entrare in conflitto, non potrà più condurlo nei modi consueti… Quando la gente comincia ad entusiasmarsi e a gioire propendendo per la riduzione di forze militari come mezzo per la risoluzione dei conflitti, la guerra è destinata a rinascere in altre forme e su di un altro scenario… In tal senso esistono fondate ragioni per sostenere che l’attacco finanziario di George Soros all’Asia Orientale, l’attacco terroristico di Osama Bin Laden all’ambasciata militare in Sudan… rappresentano una ‘semi-guerra’, una ‘quasi –guerra’ e una ‘sotto-guerra’, vale a dire la forma embrionale di un altro genere di guerra[6]. Il tutto significava assimilare alla guerra delle situazioni in cui l’ostilità non è riconducibile al concetto classico di questa (atto di forza).

L’acuto giudizio dei colonnelli in effetti non fa che confermare sia il famoso discorso sul potere di Tucidide (l’ambasciata degli ateniesi agli abitanti di Melo) sia, ancor più, il giudizio di Karl von Clausewitz e Giovanni Gentile[7] che la guerra è un atto di forza (comunque un mezzo) per costringere un’altra (potenza) a fare la nostra (di potenza) volontà: se a raggiungere questo fine tuttavia non è necessario mobilitare gli eserciti, ma bastano le scalate in borsa o gli attentati terroristici, ciò non toglie né che questi modifichino i rapporti di forza né che costringano l’aggredito a doversi adeguare alla volontà del nemico, se si arrende; se intende difendersi, al modo di combattere dell’aggressore.

In sostanza i due colonnelli, innovando alla (prima) definizione della guerra data da Clausewitz avevano acutamente posto il problema, prevedendo come l’inimicizia poteva ricorrere a forme inconsuete (ma non del tutto) una volta ritenuto inutile, inopportuno o antieconomico il ricorso alle armi.

Questa concezione dei colonnelli era tributaria dell’antico pensiero strategico cinese (Sun Zu) e indiano (Kautilya).

Scriveva Sun Zu: “Ottenere cento vittorie su cento battaglie non è il massimo dell’abilità: vincere il nemico senza bisogno di combattere, quello è il trionfo massimo[8]: per cui la vittoria è realizzare l’obiettivo politico: i mezzi sono secondari. Se lo si raggiunge senza far uso della forza, risparmiando sangue (e denaro) è meglio.

Nell’Arthasastra, Kautilya distingue vari tipi di guerra: quella aperta; quella dissimulata che consiste nell’infondere paura, nel colpire in modo imprevedibile; silenziosa con pratiche clandestine e complotti suscitati da spie[9].

D’altra parte è ripetuto da Kautilya che la scelta tra pace e guerra è funzionale all’interesse di potenza degli Stati, onde se mantenendo la pace si rovina (o decresce) la potenza – anche economica – del nemico, è meglio non fare guerra; l’inverso se la potenza si accresce[10]. Così anche se la guerra non è in atto, l’ostilità è sempre presente.

Pur nella diversità (inevitabile, anche se parziale) Sun Zu e Kautilya danno due insegnamenti, poi ripetuti in forma diversa e sotto vari profili, e tuttora validi: che il nemico (e il conflitto) non si manifestano sempre nella guerra (l’insopprimibilità dell’ostilità e della competizione di e per il potere), onde la guerra (mezzo) è subordinata alla politica (scopo); e che i tipi di “guerra” possono essere diversi, e non sempre richiedere l’impiego della violenza[11].

Per cui appare logico – e in linea con l’antico pensiero strategico orientale – quanto sostenuto da Quiao Liang e Wang Xiangsi che “se si riconosce  che i nuovi principi della guerra non sono più quelli di «usare la forza delle armi per costringere il nemico a sottomettersi ai propri voleri», quanto piuttosto quelli di «usare tutti i mezzi, inclusa la forza delle armi e sistemi di offesa militari e non-militari e letali – non letali per costringere il nemico ad accettare i propri interessi», tutto ciò costituisce un cambiamento: un cambiamento nella guerra e un cambiamento nelle modalità della guerra da ciò provocato”. Il che comporta un concetto più ampio di guerra che “non può che ridurre l’attaccamento dei soldati alla categoria di «operazioni militari diverse dalla guerra» nella quale, in ultima istanza, essi non saranno in grado di inserire il nuovissimo concetto di «operazioni di guerra non militari»”, in particolare il concetto di “«operazioni di guerra non militari», amplia la nostra percezione di ciò che esattamente costituisce uno stato di guerra a tutti i campi dell’attività umana, ben oltre, dunque, i contenuti racchiusi nell’espressione «operazioni militari». Questo ampliamento è il risultato naturale del fatto che gli esseri umani useranno qualsiasi mezzo per conseguire i loro obiettivi”.

  1. Indubbiamente a far maturare il nuovo/vecchio concetto di guerra, è da un lato la novità della tecnologia, dall’altro il progredire delle ideologie pacifiste.

Quanto alla prima ragione, non si può che rimandare a quanto scrivono i due colonnelli. Ma occorre aggiungere alle precedenti una terza ragione: il  tramonto dello jus publicum europeaum e dello stesso razionalismo occidentale, fondati in larga misura sul realismo e la teologia politica cristiana.

Per l’irenismo, tanto accresciuto dalle straordinarie distruzioni delle guerre del “secolo breve”, si è passati dal rifiuto della guerra – di per se una scelta, per lo più opportuna, la quale va valutata sotto tale profilo – alla negazione “a prescindere” della guerra e ancor più del nemico, in se totalmente irreale. Illusione che si può giudicare con le parole di Tucidide (rivolte dagli ambasciatori ateniesi agli abitanti di Melo) “giudicate il futuro più evidente della realtà concreta, e il desiderio vi fa trattare come cosa salda l’inesistente”[12]. Pretendere che il nemico non esista perché non è gradito e turba i sogni di pace fa parte delle stesse (pericolose) illusioni del non capire che azioni ostili possono compiersi (e ottenere il loro scopo politico) pur senza atti di violenza.

Tuttavia il giudizio di Tucidide, che corrisponde a quello di Machiavelli nel XV capitolo del Principe[13], introduce la terza ragione della “soppressione” del nemico: l’abbandono della concezione realistica cristiana e dello jus publicum europeaum.

É inutile dire che per la teologia politica cristiana la guerra è da evitare, ma essendo sempre possibile, data l’insopprimibilità dell’inimicizia tra uomini (e gruppi umani), non si può escludere né condannare sempre il ricorso a questa[14].

Tale concezione è realistica: parte dall’osservazione della realtà, ovvero l’esistenza di una pluralità di soggetti in grado di far guerra e aventi motivi di conflitto, per identificare le condizioni che consentano di evitare le guerre, e, se inevitabili, ridurne le potenzialità distruttive: i tre (poi quattro) requisiti della guerra giusta (auctoritas, justa causa, recta intentio, debitus modus gerendi bellum) limitavano i soggetti, le occasioni, le modalità e i fini della guerra. Ne contenevano gli effetti più devastanti e le ragioni più discutibili, senza né pretendere di aver trovato il rimedio per l’inimicizia e la guerra. Anche perché, a negare il nemico, ed in presenza di  qualcuno che ci fa comunque la guerra (a dispetto delle nostre buone intenzioni) la conclusione è che si tratta di un criminale, come sosteneva Carl Schmitt[15].

Quei principi passavano nel diritto internazionale westphaliano, con la nota “enfatizzazione” dell’auctoritas, cioè del soggetto legittimato alla guerra e così justus hostis, e il deperimento della justa causa (almeno fino all’inizio del secolo scorso).

Resta il fatto che, fino all’inizio del XX secolo la guerra era un mezzo giuridicamente lecito, il nemico era quel soggetto con cui si faceva la guerra, ma (poi) la pace. Come riteneva Raymond Aron “Il diritto internazionale pubblico europeo non aveva mai avuto lo scopo di mettere fuori legge la guerra, né mai si era attenuto a questo principio”[16]. Ma se quel mezzo è stato già condannato in sedi internazionali[17] e quel che più conta, è rifiutato da gran parte della popolazione, resta tuttavia l’esercizio dell’ostilità tramite mezzi non violenti.

  1. Scrive Max Weber che potenza significa la capacità d’imporre la propria volontà in una relazione sociale[18]; Aron, trasponendo tale definizione nel contesto internazionale sostiene che “la potenza o capacità di una collettività di imporre la sua volontà ad un’altra non va confusa con la sua capacità militare”. Freund elenca, esemplificandoli, i mezzi non violenti dell’ostilità, con cui si cerca di piegare la volontà di una comunità[19].

Correntemente per potere s’intende la capacità “d’un soggetto individuale o collettivo, di conseguire in modo intenzionale e non per accidente determinati scopi in una sfera specifica della vita sociale, ovvero di imporre in essa la propria volontà, nonostante la eventuale volontà contraria o la resistenza attiva o passiva di un altro soggetto o gruppo di soggetti”.

Ne consegue che ai fini della lotta per il potere è del tutto indifferente che l’effetto sia conseguito con l’uso della forza o con altro. L’essenziale è il risultato.

Tuttavia di fronte al conseguimento del risultato è peccato d’ingenuità non solo pensare che non sia un atto ostile, ma anche credere che la fondatezza giuridica (ad esempio, l’embargo all’esportazione di beni propri) escluda l’intenzione politica e l’ostilità: tutt’altro, semmai le occulta[20].

  1. Secondo Schmitt “Pensiero politico ed istinto politico si misurano perciò, sul piano teoretico come su quello pratico, in base alla capacità di distinguere amico e nemico. I punti più alti della grande politica sono anche i momenti in cui il nemico viene visto, con concreta chiarezza, come nemico” e prosegue “dovunque nella storia politica, di politica estera come di politica interna, l’incapacità o la non volontà di compiere questa distinzione appare come sintomo della fine della politica”.

Quello che sta succedendo è qualcosa che viene prima dell’incapacità di non distinguere amico e nemico: è la volontà e prima ancora la convinzione di non poterli distinguere: perché si presuppone che il nemico non esista ove la guerra non sia dichiarata, o perché non è tale in quanto ha ragione sul piano giuridico e/o economico.

Entrambe illusioni: quanto alla prima, stigmatizzata da Freund[21], consegue, come scrive, dalla concezione giuridica dell’ostilità[22]. Anche se il tutto è influenzato dal nominalismo giuridico (conseguente alle correnti neo-positiviste) e dalle sue versioni più modeste e “popolari”; per cui non c’è guerra se non la si dichiara (formalmente) tale. Con la consegueza che chi la dichiara è formalmente e apertamente un guerrafondaio; e per evitare tale nomea – così nociva in una società – spettacolo come quella globalizzata – la si fa evitando di dichiararla[23].

Credere poi che il compimento di atti d’ostilità sia giustificato sul piano giuridico ed economico (e quindi non è guerra, in senso lato, ma è attuazione di un diritto, riscossione di un credito) è anch’esso un truffarsi da soli, per almeno due ragioni: la prima perché sottovaluta che sotto le pretese giuridiche (ed economiche) c’è sempre un interesse (e un effetto) di potere. Il “diritto per il diritto” non è tale neppure nelle procedure giudiziarie (che richiedono, in linea generale, un interesse), tantomeno nei conflitti internazionali di guisa che, come scriveva Suarez il sovrano è legittimato a muovere guerra per i diritti della propria comunità politica non per quelli altrui[24].

D’altra parte se tali atti non sono atti di guerra, non si devono applicare neanche le limitazioni del diritto di guerra: le cui conseguenze possono essere devastanti[25].

Schmitt già nello scritto “Inter pacem et bellum nihil medium[26], giudicando cosa s’intendeva per “guerra” e “pace” negli anni ’30 del secolo scorso riteneva che “dimostra che l’ostilità, l’animus hostilis è divenuto il concetto più importante riguardo alla guerra”; ciò considerando che “In tutti i tempi ci sono state guerre «a metà», «parziali», «incompiute», «dosate», «localizzate», «wars sub modo»”[27].

  1. Se si condivide il giudizio di Schmitt che l’incapacità di operare la distinzione tra amico e nemico è sintomo della fine politica, si deve anche concludere che il capolavoro del nemico è quello di far credere che non esista: non c’è sistema più efficace di esercizio dell’ostilità. Sun Zu sostiene che l’abilità strategica consiste nel disorientare l’avversario “L’attacco migliore è quello che non fa capire dove difendersi, La difesa migliore è quella che non fa capire dove attaccare” di guisa che muovendosi “con rapidità senza lasciare traccia, quasi fossi evanescente, meravigliosamente misterioso, impercettibile: sarai padrone del destino del nemico”; ma gli stratagemmi consigliati dallo stratega cinese sono giochi da bambini rispetto al creare l’illusione che non esiste né ostilità né nemico. La clausewitziana “nebbia della guerra” così non copre solo il campo di battaglia, ma, per intero, lo stato conflittuale.

Il rifiuto dell’inimicizia consegue – come sopra scritto – a quello della guerra; quest’ultimo è il prodotto di un approccio (prevalentemente) di carattere giuridico al fenomeno guerra. Freund nel passo sopra citato si riferisce a concezioni giuridiche e non ad atti, e non fa pertanto riferimento alle costituzioni italiana e giapponese, successive alla fine del secondo conflitto mondiale, dov’è prescritto il rifiuto della guerra anche se con espressioni diverse[28].

Bisogna dar atto che malgrado il dettato pacifista, le due norme costituzionali non si sono spinte a negare l’esistenza e la possibilità dell’ostilità e del nemico, né che lo Stato lo possa individuare. Anzi il fatto che sia legittima la guerra difensiva presuppone che il nemico possa esistere e muovere guerra, e che ci si debba difendere.

Diverso appare il rifiuto del nemico in voga nella società contemporanea globalizzata: questo appare non solo come un residuo d’illusioni ideologiche smentite dalla storia (l’ultima e più conseguente delle quali è stata il comunismo), ma anche come derivato della società-spettacolo e della capacità di manipolare le credenze nella società di massa.

Se si prende per guerra (per conflitto) solo quello praticato con mezzi violenti, peraltro tanto spettacolari grazie alla tecnologia, è chiaro che dove non c’è spettacolo (la guerra classica con missili, bombe, corazzate e carri armati)  allora non c’è conflitto. Se poi a questo si aggiunge che la società di massa è drogata dai mezzi di comunicazione, è sufficiente un’attenta campagna di disinformazione – che sarebbe stata approvata da Kautylia e Sun Zu – per convincere che non essendoci violenza in atto, non ci sono né atti di ostilità né nemico. Specie se tale disinformazione si basa su notizie che all’uditorio piace sentire e occulta quelle sgradite: l’aspetto psicologico (nella e) della guerra è sempre stato fondamentale. L’aveva già sostenuto Joseph de Maistre, affermando che una battaglia persa è una battaglia che si è convinti di aver perduto. L’aveva ribadito Giovanni Gentile per il quale la guerra era un modo di superare l’opposizione tra volontà umane, e la soluzione della lotta era che il nemico riconosca “come sua la nostra volontà”, e cessi così di essere “volontà avversaria”[29].

Perché cessi di essere tale i modi possono essere tanti, il più efficace dei quali è non farla nascere cioè non far percepire l’esistenza di inimicizia e atti di ostilità a chi subisce (o subirà) l’aggressione.

Neppure il fatto che il nemico abbia ragione sul piano giuridico, lo assolve dall’ostilità politica e dalla conseguente necessità di difendersi. Solo una concezione decadente e limitata del diritto, ridotto a norme (e alle conseguenti decisioni giudiziarie, magari di Corti internazionali) può legittimare una concezione così lesionista. Se ci si richiama al principio romano che salus rei publicae suprema lex, è chiaro che nessun governante della comunità aggredita “a ragione” (normativa) potrebbe sacrificare l’esistenza della comunità, o anche “solo” la vita di molti cittadini, al rispetto dei trattati o comunque delle norme di diritto internazionale, applicando il contrario principio fiat justitia, pereat mundus. La politica, come sosteneva Max Weber, esige un’etica della responsabilità: degli uomini possono (e talvolta devono) decidere di morire per il rispetto delle leggi, e talvolta tale scelta può avere un significato di conservare il vincolo comunitario[30], ma non procurare morte e sofferenza ai propri concittadini in ossequio alla legalità[31].

D’altra parte la politica genera rendite politiche[32] e quindi ne produce la guerra. Un tempo si chiamavano tributi; nel XX secolo spesso “riparazioni”: ambedue i termini presuppongono un rapporto tra unità politiche. Nel XXI secolo dovremo forse chiamarle interesse differenziale, spread o quant’altro: il nomen conta (e dice) poco. Ciò che rileva è che trattasi di spostamento di risorse dal dominato al dominatore, dal vinto al vincitore. Quello che un tempo i primi pagavano ai secondi diventandone schiavi o prestando corvées; ed oggi, meno scomodamente (ma la società moderna è molto più comoda di quelle antiche, per cui la comodità non è merito del dominatore, ma dell’epoca), contraendo i consumi, modificando modi ed abitudini di vita per pagare debiti ed interessi. E in questa strada verso la servitù (e la povertà) ci s’inoltra tranquilli e contenti, per aver perso la guerra senza neanche accorgersene.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Tra le tante ricordiamo che, a giudizio di molti storici, l’unità d’Italia fu propiziata dalla morte di Ferdinando II di Borbone – Napoli, morto nel 1859 per un’infezione mal curata; l’opinione dei quali è che se Garibaldi avesse dovuto combattere col padre (Ferdinando II) invece che col figlio (Francesco II) l’esito sarebbe stato probabilmente diverso. Ovvero che le imprese dei conquistadores in America siano state assai favorite dall’epidemie di vaiolo e tubercolosi nelle popolazioni amerinde.

[2] Come scritto da G. Dumont nell’Avant-propos “…La première, qui est l’objet du prèsent ouvrage, est le modérantisme, considéré comme recherche du compromis, plus encore que du consensus, c’est-à-dire comme refus a priori de la possibilité même de toute situation conflictuelle”. I lavori sono stati di recente pubblicati in volume dal titolo “La guerre civile perpetuelle” (ed. Artège – Perpignan 2012); sulla guerra economica v. gli interventi di De Lauzun, Bonnet e Mescheriakoff.

[3] E del protagonista della favola di Collodi, tale illusione condivide anche il “naso lungo”:  d’essere una falsa profezia, cioè una menzogna, giacché della società comunista, nel socialismo reale, non s’è visto che il contrario: guerre, campi di concentramento, dittatura, governi totalitari più che polizieschi.

[4] É interessante ricordare, a tal riguardo, le distinzioni che fa Carnelutti in Teoria generale del diritto, Roma 1946, p. 15 e ss..

[5] Freund definisce il conflitto così: “Le conflit consiste en un affrontement ou heurt intentionnel entre deux êtres ou groupes de même espèce qui manifestent les uns à l’égard des autres une intention hostile, en général à propos d’un droit, et qui pour mantenir, affirmer ou rétablir le droit essaient de briser la résistance de l’autre, éventuellement par le recours à la violence, laquelle peut le cas échéant tendre à l’anéantissement physique de l’autreSociologie du conflit, Paris 1983, p. 65.

[6] E proseguono “Comunque si scelga di definirla, questa nuova realtà non può renderci più ottimisti che in passato. Ciò perché la riduzione delle funzioni della guerra in senso stretto non implica affatto che quella guerra abbia cessato di esistere. Anche nella cosiddetta era postmoderna e post-industriale la guerra non sarà mai eliminata del tutto. É solo tornata a invadere la società in modi più complessi, più estesi, più nascosti e sottili… La guerra che ha subito i cambiamenti della moderna tecnologia e del sistema di mercato verrà condotta in forme ancor più atipiche. In altre parole, mentre si assiste a una relativa riduzione della violenza militare, allo stesso tempo si constata una aumento della violenza politica, economica e tecnologica. Tuttavia, indipendentemente dalle forme assunte dalla violenza, la guerra è guerra, e un cambiamento nella sua veste esteriore non le impedisce di mantenere i principi della guerra in sé” v. Guerra senza limiti, Gorizia 2001, p. 39; si può dire, mutuando una frase di Clausewitz, che la guerra ha una grammatica, ma non una logica, cambia la grammatica, ma non la logica.

[7] Il concetto di Gentile è più sfumato, distinguendo tra diverse forme di guerra: v. appresso al punto 7.

[8] La stessa tesi, sotto diversi profili – riecheggia in altri passi di Sun Zu, con “agisci soltanto nell’interesse dello Stato. Se non sei più che sicuro di riuscire, non impiegare uomini. Se non sei in pericolo, non combattere”; o sul calcolo (costo) delle risorse necessarie alle spedizioni militari “Ricorda: quando si mobilita un esercito di centomila uomini per impegnarlo in una campagna militare a mille li dallo Stato, le spese che ne derivano per il popolo, costituite dagli esborsi dell’Erario, ammontano a mille pezzi d’oro al giorno. Possono essere necessari anni di guerra per un giorno di vittoria. Ne nascerà un grande turbamento, sia interno che esterno; il popolo sarà sfibrato dalle imposte, e i bilanci di settecentomila famiglie andranno in dissesto” v. L’arte della guerra, Edizioni Mediterranee, Roma 2005, pp. 49, 143, 145.

[9] v. Kautilya, Arthasastra, trad. fr. Paris 1998, p. 40.

[10] L’esame nell’Arthasastra di cause, presupposti, condizioni della guerra e della pace è assai più articolato, e vi rimandiamo; lo consideriamo qui solo per l’aspetto “economico” che è quanto interessa ai fini dello scritto.

[11] Ad esempio basta appoggiare, anche con mezzi economico-finanziari, uno dei belligeranti. É la linea, tra tanti, seguita dal Cardinal Richelieu nella guerra dei Trent’anni, aiutando i protestanti fino alla (prima) battaglia di Nordlingen (poi si trasformò in guerra aperta agli Asburgo); o di F.D. Roosevelt nell’appoggio finanziario ed economico alla Gran Bretagna, alla Cina (e all’Unione Sovietica), fino a Peral Harbour (dopo di che fu guerra).

[12] La guerra del Peloponneso, V, 113. G. Miglio riconduce il concetto di “pace” intesa come anti-politica a “una tendenza culturale squisitamente borghese”. Ovviamente la pace come situazione permanente dell’umanità non è mai esistita e non può esistere, a meno che non venga meno la costante dell’obbligazione politica (e l’esigenza umana che la fonda). In questo senso intesa, la pace è riconducibile a quelle “anti-realtà” ideologiche che “si contrappongono alla struttura dell’obbligazione politica. Sono valori utopici, la cui permanenza è legata proprio al fatto che contraddicono parti di quella struttura costante; pretendono di contraddire alcune regolarità fondamentali dell’obbligazione politica. La pace nega la realtà indistruttibile della conflittualità e della guerra, sulla quale è basata la sintesi politica; l’eguaglianza nega la struttura articolata delle istituzioni politiche; la libertà nega la stessa struttura delle procedure convenute delle convenzioni pattuite e delle istituzioni politiche”, v. G. Miglio Lezioni di politica, vol. II°, Bologna 2011, p. 419.

[13] “E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere. Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa, per quello che si dovrebbe fare, impara più presto la ruina che la perseverazione sua”.

[14] Evitiamo di ricordare i principali teologi che se ne sono occupati. Rinviamo per questo a Roberto De Mattei, Guerra Santa. Guerra giusta, Casale Monferrato 2002.

[15] La necessità di distinguere nemico e criminale è già nel Digesto: “Hostes’ hi sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus: ceteri ‘latrones’ aut ‘praedones’ sunt”, Nemici sono coloro che ci hanno o cui noi abbiamo dichiarato pubblicamente guerra; gli altri sono briganti o pirati (v. D. 118, 50, 16).

[16] Paix et guerre entre les nations, trad. it. Milano 1983, p. 143.

[17] v. C. Schmitt Der Nomos der Erde, trad it. Milano 1991, pp. 335 ss. (sul mutamento di significato della guerra tra le due guerre mondiali).

[18] Wirtschaft und Gesellshaft, vol. I, trad. it. Milano 1980, p. 51.

[19]De tout temps on a essayé de menacer l’existence politique d’une collectivité par d’autres moyens que la guerre: affamer la population, soudoyer un parti politique et favoriser sa prise du pouvoir afin d’opérer ensuite, avec son accord, le rattachement de ce pays à une autre collectivité… mettre l’embargo sur des produits de première nécessité, faire un blocus, etc. Que sont les moyens dits pacifiques comme l’encerclement diplomatique ou les sanctions que l’on prend contre un pays récalcitrant, sinon des mesures d’hostilité destinées à menacer l’existence de ce dernier ? Bref, il existe toutes sortes d’agressions. A côté de la conquête militaire, il y a les moyens psychologiques de la propagande, de la mise en condition, de la subversion, les aggressions économiques, sociales et thecniques ou encore les armes biologiques. Les ressources de l’inimitié sont donc extrêmement variables”, v. Freund L’essence du politique, Paris 1965, p. 507.

[20] Al riguardo è opportuno ricordare in questo caso il rapporto che Hauriou vedeva tra teologia e diritto: l’una il nocciolo, l’altro l’involucro. O il giudizio di Freund che l’obbligazione giuridica è eteronoma: suppone una volontà diversa da quella del giurista.

[21] Op. cit. p. 507.

[22] “… qui a empêché la plupart des auteurs ayant écrit sur la politique de voir dans la relation ami-ennemi un présupposé du politique, en quoi ils se sont trompés et sur la nature de la politique et sur celle de la guerre” Freund Op. loc. cit.

[23] Per i giuristi più attenti al pensiero realista, la guerra è un fatto: dichiararla è un obbligo giuridico. Farla senza dichiarazione non è un merito: è semplicemente la violazione di una regola di diritto internazionale.

[24] De charitate, disp. 13 De Bello, sectio IV. E’ chiaro che, senza la limitazione dell’interesse proprio (anche quindi nel rinunciare all’attuazione d’interessi propri) le cause di guerra si moltiplicherebbero geometricamente.

[25] Ad esempio l’embargo su prodotti alimentari. Se ciò provoca carestie (ed epidemie) è soprattutto a carico della popolazione civile, e della fazione più debole della stessa. Così si viola la limitazione a non coinvolgere nella guerra gli innocentes: se si può credere che il progresso tecnologico abbia prodotto delle bombe “intelligenti” tali da ridurre al minimo i c.d. “danni collaterali”, non ci risulta che esistano delle carestie “intelligenti”. Sull’embargo dell’IRAQ è interessante leggere l’appello consegnato da 54 vescovi cattolici al Presidente Clinton nel gennaio del 1998; i quali giudicavano “Questa campagna di bombardamenti, assieme all’embargo totale in vigore dall’agosto 1990, era, ed è, un attacco contro la popolazione civile dell’Iraq. Una tale guerra contro la popolazione è stata condannata in maniera inequivocabile dal corpus magisteriale più autoritativo della Chiesa cattolica, il Concilio Vaticano II (1962-1965). Agenzie indipendenti continuano a documentare il devastante impatto delle sanzioni sulla popolazione civile … qualunque sia l’intento di queste sanzioni, siamo costretti da questa valutazione a giudicarle una violazione dell’insegnamento morale, segnatamente come è formulato nella tradizione cattolica”.

[26] in “Schriften der Akademie für Deutsches RechtGruppe Völkerrecht, n. 7, Berlin, 1939, trad. it. in Lo Stato X (1939), pp. 541-548.

[27] e prosegue “l’espressione usata dalla relazione Lytton sull’avanzata dei giapponesi «war disguised» non presenterebbe in sé alcunché di nuovo. Il nuovo era lo stato intermedio fra pace e guerra, elaborato giuridicamente e reso istituzione dalla Lega delle Nazioni e dal patto Kellogg”. D’altra parte quando Schmitt, sottolineando l’incongruenza dei concetti di guerra e pace applicati dalla Lega delle nazioni (determinati a contrario per cui non era guerra l’aggressione giapponese alla Cina ma lo era quella italiana all’Abissinia) rispetto a quello di vera pace ricorda da vicino la concezione della pace come “tranquillità dell’ordine” di S. Agostino.

[28] L’art. 9 della Costituzione giapponese prescrive “Aspirando sinceramente ad una pace internazionale fondata sulla giustizia e sull’ordine, il popolo giapponese rinunzia per sempre alla guerra, quale diritto sovrano della Nazione, ed alla minaccia o all’uso della forza. quale mezzo per risolvere le controversie internazionali.

Per conseguire l’obiettivo proclamato nel comma precedente, non saranno mantenute forze di terra, del mare e dell’aria, e nemmeno altri mezzi bellici. Il diritto di belligeranza dello Stato non sarà riconosciuto”; l’art. 11 di quella italiana dispone che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Le due espressioni normative non vanno prese troppo alla lettera: né la rinuncia della guerra ha impedito al Giappone di riarmarsi, né il ripudio italiano della stessa era totale (perché era ammessa quella di difesa) né del tutto efficace, perché non ha impedito di mandare corpi di spedizione all’estero per “pacificare” sotto comando straniero popolazioni riluttanti.

[29] In effetti il concetto di guerra di Gentile è anch’esso più esteso di quello usuale di guerra come atto di forza “Tra i modi di superare l’opposizione è la guerra: della quale il filosofo non può ignorare che ci sono mille forme, e si vengono moltiplicando col moltiplicarsi dei modi in cui si esplica l’espressione del pensiero umano e la volontà si sforza di farsi valere. C’è la guerra a punte di spillo, e c’è la guerra a colpi di cannone. Le punte di spillo sono parole: parole però che tendono a scopi sostanzialmente affini a quelli perseguiti dal cannone: l’annientamento dell’avversario. Ma la guerra propriamente detta è quella che gli Stati combattono con tutte le armi più micidiali per aver ragione l’uno dell’altro, quando l’uno sia d’impedimento all’altro nel raggiungimento di fini essenziali alla sua esistenza”  (i corsivi sono nostri) Genesi e struttura della Società, rist. Firenze 1983, p. 104.

[30] Come per Socrate nel “Critone”, nel noto passo della prosopopea delle Leggi (le quali però non sono le “norme” dei neo-positivisti).

[31] Cosa che è assai chiara nella concezione dei giuristi istituzionisti. Per Maurice Hauriou l’istituzione – per la modernità lo Stato – ha la funzione principale di “Protéger la société individualiste par son gouvernement, lui assurer la paix et l’ordre au dedans et au dehors par sa force armée, par sa diplomatie, par sa police, par sa législation, par ses tribunaux”, Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 49. La funzione di protezione è l’obbligo principale dell’istituzione nei confronti della comunità (e così dei governanti verso i governati). Per Santi Romano la necessità è fonte di diritto superiore alla legge. Se la necessità (il cui concetto nel giurista siciliano non è molto distante dal Ausnahmezustand di Carl Schmitt) impone di violare la legge, la “violazione” della norma è legittima, in quanto salvaguarda l’ordinamento. Sia in Hauriou che in Romano e Carl Schmitt è evidente la lezione di Hobbes, per cui il protego ergo obligo è la sostanza dell’obbligazione politica (v. Leviathan, Esame critico e conclusione, rist. Bari 1974, in particolare p. 661). Pretendere di obbligare senza proteggere, o viceversa di essere protetti senza essere obbligati è un inganno e un’assurdità.

[32] Sul punto v. Gianfranco Miglio, Lezioni di scienza della politica, Bologna 2011, pp. 320 ss.

INTRODUZIONE ALLA “POLITICA COME DESTINO”_2A PARTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

http://italiaeilmondo.com/2018/07/02/introduzione-alla-politica-come-destino_1a-parte-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/

Qui sotto la seconda parte del saggio di TKdlG. Continuiamo per tanto con la pubblicazione di testi alquanto interessanti riguardanti l’approccio al “politico” del pensiero liberale “forte” in contrapposizione e critica al pensiero liberale “debole” ancora nettamente predominante, se pure in crisi nella sua capacità persuasiva. Il discrimine tra le due varianti riguarda appunto l’atteggiamento verso e l’analisi della funzione del politico, inteso nella sua essenza e nella sua relazione con i diversi ambiti dell’agire umano. Il peso ancora minoritario della componente realista di questa corrente di pensiero è evidenziato dal misconoscimento dell’importanza, in particolare in Italia, di pensatori come Julien Freund e dalla demonizzazione e travisamento di altri come Carl Schmitt. Essa, la sua componente “realista” appunto, al contrario rientra a pieno titolo nell’alveo del dibattito sul conflitto strategico tra centri decisionali ripreso ed elaborato ultimamente in Italia da Gianfranco La  Grassa. E’ il nuovo punto di incontro e di confronto decisivo di varie correnti del pensiero politico cresciuto ed affermatosi nel ‘800 e nel ‘900 e ormai giunto ad una drammatica crisi delle proprie chiavi di interpretazione. Teodoro Klitsche de la Grange continua ad offrire da par suo il proprio contributo e ad alimentare il dibattito intrapreso pure da questa redazione, in particolare da Massimo Morigi e Luigi Longo. Buona lettura_Germinario Giuseppe

Sotto un altro profilo la concezione di Schmitt, corroborata dalle regolamentazioni normative che cita[1], è in linea con il “fattuale”. La regolamentazione/previsione dei poteri eccezionali è aderente alla realtà e alla necessità: se le costituzioni possono scegliere, disporre e regolare o meno i poteri eccezionali (cioè abolirli o non istituirli) non possono abolire le situazioni eccezionali. Solo l’Onnipotente può evitare guerre, calamità naturali, crisi economiche. Così un liberalismo realistico non può non prescrivere la normativa necessaria in siffatte emergenze; ed in effetti in quasi tutte le costituzioni lo dispone. Dove non è prescritta vale la regola di Jhering, e più ancora di Santi Romano: che “la necessità fa legge” ossia che è sicuro che nella situazione d’emergenza la costituzione sarà violata. E, se non violata, probabilmente sarà distrutta l’istituzione politica. Cosa che il liberalismo “ideale” – o almeno parte di esso – non considera, contrariamente a Schmitt, la cui critica è quindi confortata dalla storia.

  1. Sempre il liberalismo esangue (e post-moderno, ma non solo) ha, se non abolito, messo tra parentesi il nemico (e la guerra); senza considerare sia la possibilità concreta che l’ostilità degeneri in guerra, sia soprattutto che gli interessi contrapposti, non possano essere conciliati con procedure giuridiche (trattati, mediazioni, Tribunali internazionali). Già da prima Constant e Spencer ritenevano le società orientate ad attività economiche tendenzialmente pacifiche; e Schmitt critica Constant perché considerava le società orientata al commercio (e al benessere economico) meno guerrafondaie delle comunità tradizionali.

Il tempo si è incaricato se non di contraddire, almeno di ridimensionare questa concezione. La diffusione nel periodo dell’imperialismo (classico) e cioè nel XIX secolo (ed oltre) di guerre dettate da motivi economici, d’altra parte tutt’altro che sconosciute prima (e dopo), ne è la prova[2].

Nella successiva “fase” tardo-moderna (e post-moderna) si è creduto di trasferire dall’economico e addossare al diritto il fardello di poter eliminare e/o ridurre (e decidere) i conflitti non solo all’interno – che è più naturale – ma anche all’esterno della sintesi politica. Ma se all’interno c’è comunque il soccorso della sintesi politica “totale e decisiva” col monopolio della violenza legittima e della decisione in ultima istanza, cioè sovrana e (spesso apparentemente) “neutra”, all’esterno mancano l’uno e l’altra.

Il che ha condotto a derogare, nel corso del XX secolo al principio internazionalistico che “par in parem non habet jurisdictionem”, attivando istituzioni e Tribunali internazionali, sia per la soluzione di controversie con (e tra) Stati e tra privati e Stati, sia per giudicare, specialmente dopo le guerre, i vinti da parte dei vincitori[3]. Il tutto in nome di un “diritto” universale che, al di là delle buone intenzioni, ha perso di vista come il diritto abbia anche, necessariamente, un momento (e apparati) d’applicazione. La fase successiva è stata di promuovere guerre – non denominate tali – in nome dei “diritti umani” che per lo più, al di là delle buone intenzioni – sempre presenti – hanno dimostrato che è solo la proporzione delle forze a determinare se, in quei Tribunali si è giudicati (e prima ancora, se il “reo” è debellabile senza (o con pochi rischi); onde, successivamente, i capi dell’unità politica “pacificata”, sono giudicati dalle apposite Corti (internazionali o meno). Perché un’operazione di peacekeeping contro una potenza, anche media, ancorché notoriamente vi si pratichi la violazione dei diritti umani, non si è finora vista. Spedizioni punitive del genere (e successivi giudizi dinanzi a Corti internazionali) sono state promosse in conflitti (prevalentemente) etnici, relativamente a entità statali minori e gruppi politici non consolidati, privi di strumenti militari decisivi, ed hanno visto sfilare come imputati generali e politici balcanici o dell’Africa nera.

Nessuno dei quali aveva il potere d’opporsi realmente all’operazione benintenzionata come avrebbero potuto fare tanti altri, perciò al riparo da interventi umanitari. Il che conferma il detto di Hegel che non c’è Pretore tra gli Stati[4]; perché fondandosi ciò su volontà particolari sovrane, avrebbe carattere “accidentale”. Più che altro mentre a fondamento della giustizia statale c’è un istituzione, di per sé generale, superiore, decisiva e durevole, a base di quella internazionale vi sono soltanto uffici (chiamarli organi è forse eccessivo), la cui esistenza è frutto di accordi e trattati particolari e pertanto carente (del carattere) di “istituzionalizzazione”, politica in specie.

Anche in tal caso la critica di Schmitt coglie nel segno: non appare realistico né confermato dalla storia che possano eliminarsi o ridursi drasticamente i conflitti e quindi l’inimicizia politica che ne deriva, né per l’orientamento sociale all’attività ed al benessere economico, né per decisione dei Tribunali[5].

Come la costituzione è l’assetto e l’organizzazione della comunità politica, in base all’insopprimibile (Freund) presupposto del politico  del comando/obbedienza; così non è possibile eliminare dal mondo la lotta e il nemico, altro presupposto del politico.

A base di tali illusioni c’è la credenza che sia possibile trovare, tra esseri razionali, un punto d’incontro, malgrado diverse visioni del mondo. Max Weber assicurava che si arriva comunque a valori non negoziabili e non vi è modo di conciliarli[6]. Un acuto studioso argentino come Bandieri, ha qualificato una delle correnti riconducibili a un (vago) liberalismo esangue, e cioè il c.d. “neocostituzionalismo”, come positivismo di valori, che distingue da quello di Kelsen (ed epigoni) che è positivismo di norme.

Nei casi estremi (quelli che più contano), tra comunità riconoscentesi in “tavole di valori” inconciliabili una decisione giuridificata o meglio (e soprattutto) giurisdizionalizzata, è pertanto impossibile.

Valitutti sostiene che “secondo Schmitt, l’unità politica è sempre unità decisiva, sovrana e totale. Egli scrive, e noi lo abbiamo già riferito, che è totale perché l’uomo viene afferrato tutto alle radici stesse del suo essere dalla partecipazione politica alla quale egli si da. Aggiunge incisivamente che la politica è destino… Il destino è il fatum in senso greco-latino, cioè una necessità superiore e ineluttabile. Per Schmitt il totalitarismo politico è il destino in questo significato”.

Conseguenza di ciò è che “il nostro è un tempo nel quale la distinzione schmittiana tra amicus e hostis, come distinzione totale e totalizzante, fornisce il criterio interpretativo di porzioni e manifestazioni cospicue della nostra realtà politica e sociale”[7]. Secondo il liberale italiano questo iperpoliticismo è viziato: “Il vizio, se così possiamo chiamarlo, attraverso il quale passa nella realtà effettuale il totalitarismo politico, è quello stesso attraverso il quale passa l’unilateralità dell’apoliticismo, cioè la reductio ad unum della multiforme vita spirituale dell’uomo”. L’apoliticismo è frutto non tanto del primato del Bourgeois sul citoyen ma dell’essere in corso “una grande rivoluzione utilitaristico-edonistica, che ha le sue armi nella scienza e nella tecnica e che è liberatrice di ingenti forze già compresse, ma che intanto produce uno squilibrio della vita spirituale”[8]. Nella vita spirituale del (tardo) XX secolo (ma anche oggi) è sovrana la praxis[9]. Così si crea uno squilibrio, riduttivo della comune umanità[10].

Il tutto presuppone, scrive Valitutti, la priorità della figura dell’hostis anche su quella dell’amicus[11].

  1. A considerare la critica di Valitutti a Schmitt, ancorché le censure del primo al secondo siano centrate, occorre valutarle nel contesto del pensiero di Schmitt, oggigiorno maggiormente noto al lettore italiano per la traduzione quasi integrale dell’opera del giurista di Pletteberg e per i contributi che ha suscitato.

Valitutti rimprovera a Schmitt l’ “iperpoliticismo” e, ad esso strettamente collegata, una concezione per così dire “settoriale” dell’uomo. Tuttavia l’intero pensiero di Schmitt è orientato allo stato d’eccezione. Come scrive nella Politische theologie nella situazione d’emergenza “L’esistenza dello Stato dimostra qui un’indubbia superiorità sulla validità della norma giuridica”[12]. Quindi l’eccezione, e la guerra, che dello stato d’eccezione è l’aspetto più rilevante, non nega la normalità, ma ne ridimensiona l’importanza e la stessa capacità di comprendere interamente il diritto, pubblico in particolare. Il diritto è norma ed eccezione: è ordinamento della vita della comunità e questa è fatta sia di situazioni normali che di eccezionali.

La critica al costituzionalismo liberale esangue consiste così proprio nel fatto che non considera l’unità e la completezza dell’ordinamento e che questa ricomprende sia norme che ordinamento, sia comando che obbedienza, legittimità oltre che legalità, forza e norma, principi di forma politica e principi dello Stato borghese. E dimentica che in tante occasioni, come nella seconda guerra mondiale, l’esistenza politica delle democrazie liberali è stata difesa anche con bombardamenti indiscriminati (atomici e non), non proprio da considerare mezzi umanitari. Alla fine le teorie da Schmitt criticate sono più che errate, parziali: coperte strette che non coprono e non spiegano l’intero e tantomeno come, proprio nello stato d’eccezione, la parte “politica” prevalga su quella “normativa”. Così avviene anche per gli altri aspetti.

Come l’antropologia di Schmitt: se è vero, come scrive Valitutti, che Schmitt non considera l’uomo “tutto intero” ma enfatizzandone l’aspetto politico, è pure vero che, nel caso di guerra il cittadino (il componente della comunità) ha il dovere di difendere la comunità e così il rischio di morire. Cosa che generalmente non succede nel discutere una teoria scientifica o filosofica.

Quindi è nell’emergenza (e in vista di quella) che lo “squilibrio”  notato da Valitutti, si realizza a causa del montare di quello che Clausewitz chiamava il “sentimento politico”, elemento fondamentale – ancorché non esclusivo – del triedro della guerra[13].

Anche in questo caso il prevalere della politica è ridimensionato proprio dallo (e in vista) dello stato d’eccezione, d’altronde, come scrive Agamben, istituto tipico degli ordinamenti costituzionali moderni.

Piuttosto quanto sostiene Valitutti è spiegabile con il periodo in cui è scritto: in pieno sessantottismo e post-sessantottismo dove  si consumavano le ultime battute del comunismo (prossimo all’implosione), con slogans che ne enfatizzavano il potenziale liberatorio e di conformazione di una nuova società umana, per realizzare la quale nessuno sforzo (e mezzo) doveva essere risparmiato (terrorismo compreso). In quel contesto il personale (era) politico: espressione che coniuga iperpoliticismo con un sotteso edonismo (cioè con la maior pars dell’a-politicismo).

Valitutti fa carico a Schmitt di sottovalutare l’attività spirituale e teorica dell’uomo. Anche qui pare piuttosto che Schmitt segua quanto scrive de Maistre “L’uomo, per il fatto di essere contemporaneamente morale e corrotto, giusto nell’intelligenza e perverso nella volontà, deve necessariamente essere governato”[14]. E, in connessione con la sua antropologia, la perversità della volontà umana, è indipendente dalla (razionalità) e giustizia della sua intelligenza (e, spesso su quest’ultima prevalente).

Va da se che in tale contesto realistico è una nobile quanto illusoria aspirazione pensare che una decisione si possa raggiungere attraverso l’accordo tra uomini razionali, ispirati da imperativi categorici[15].

Quando poi Valitutti stigmatizza come “fantoccio polemico” il liberalismo criticato da Schmitt, la censura è largamente condivisibile. A un liberale italiano, peraltro di formazione  idealistica come Valitutti, non possono che apparire (almeno) parziali e riduttivi gli appunti, pur spesso centrati, di Schmitt al “liberalismo”. Per un liberale italiano il liberalismo è soprattutto “religione della libertà” e, scriveva Croce, come tutte le religioni, crea guerre di religione. Così furono in Italia le guerre civili del 1799 e del 1860 (senza aggiungere quella del 1806) in particolare nel Mezzogiorno. Lo Stato nazionale non fu costruito da congressi, accordi, trattati, sentenze ma da tre guerre interstatali e da una guerra civile (il c.d. brigantaggio). Altro che agreements tra esseri razionali. E di ciò è consapevole ogni liberale che abbia senso storico-politico. Diceva V.E. Orlando che “nulla per noi è più intollerabile della contrapposizione; Libertà e Patria”.

Lo Stato nazionale fu costituito – diversamente che in altri paesi europei – non dalle monarchie assolute, ma dalla collaborazione tra monarchia sabauda e movimento nazionale, di cui i liberali erano  la maior pars e cui era evidente che lo Stato era “nel fatto sorto da un procedimento rivoluzionario”[16].

Il principio politico (la monarchia mista con elementi di democrazia) era coniugato ai principi del Bürgerliche Rechtstaat in uno Stato “rappresentativo”. Il che vaccinava (per lo più) i liberali italiani da certe concezioni riduttive del liberalismo, come quelle criticate dal giurista renano. Lo stesso termine con cui giuristi e scienziati politici del periodo liberale dello Stato nazionale lo qualificavano prevalentemente come rappresentativo[17] è indice sia della consapevolezza del processo di costruzione nazionale (e radicamento) che dell’unione dei principi di forma politica con quelli dello Stato borghese.

C’è un altro aspetto, meno “esclusivo”, ma comunque importante, nel pensiero liberale italiano[18]: è la concezione realistica dell’uomo, l’antropologia (moderatamente) negativa. Questa, tuttavia, è comune a ogni pensiero liberale “forte”.

Già gli autori del Federalista fondavano su quella sia la necessità dello Stato sia quella del costituzionalismo (liberale)[19]. La stessa antropologia realistica è presupposta nelle concezioni di Croce, di Fortunato, Einaudi, Puviani e tanti altri. Soprattutto nel pensiero di Mosca e Pareto l’uomo non è considerato  (solo) essere razionale e soprattutto capace di seguire una condotta  razionale, ma anche dotato di volontà, istinti, pregiudizi in grado di determinare le azioni assai più della razionalità.

Proprio Pareto con la sua teoria dei  residui  (non razionali, corrispondenti ad interessi e istinti  ) e delle derivazioni (apparentemente razionali) ne ha fatto una trattazione analitica “preceduta” dall’ancora più rilevante tra azioni logiche  e azione non logiche: le une e le altre soprattutto in relazione allo                      iato tra scopo perseguito e risultato conseguito.

Anche Mosca giudicava che la grande maggioranza degli esseri umani non agisce in base a convinzioni razionali (scientifiche) ma a illusioni diffuse[20].

Ciò non era carattere “proprio” ed esclusivo del pensiero italiano: ma è, in questo, almeno nel periodo suddetto, particolarmente sviluppato (ed autorevole).

  1. In particolare il fantoccio polemico, che Valitutti critica in Schmitt è ciò che il giurista tedesco vede nei pensatori dallo stesso criticati, ma che non è né il liberalismo storico “classico” – in particolare italiano – né quello che emerge da un’analisi fattuale ma anche giuridico-normativa, sia dei comportamenti che degli ordinamenti dello Stato borghese. È piuttosto quel che risulta da condivisibili aspirazioni che hanno il limite di non considerare o di sottovalutare le costanti ossia, le regolarità della politica (Miglio), con la conseguenza di non spiegare la conformazione dello stesso Stato democratico (o borghese a seguire Schmitt).

In questo senso l’analisi di Valitutti fatta all’inizio della “rinascita” in Italia dell’interesse per il pensiero del giurista renano[21] e in tempi in cui era demonizzato (e misconosciuto) molto più di oggi, è espressione di un coraggio intellettuale e di una pregevole indipendenza e chiarezza di giudizio.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] V. Verfassungslehere, trad. it. cit. p. 154 ss, v. anche pp. 46,56, 236.

[2] D’altra parte Schmitt ha avanzato anche la spiegazione, assai interessante, che ciò dipendeva dalla centralità nello spirito europeo del XIX secolo dell’economia e del conseguente criterio del raggruppamento (principale) di amicus/hostis. Per cui il raggruppamento decisivo è quello borghese/proletario, come evidente in particolare nei bolscevichi e nel concetto di guerra civile mondiale. V. ne Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 167 ss.

[3] Anche se la normativa internazionale più recente ha evitato (almeno) che nel ruolo dei giudici vi fossero i vincitori e in quella dei giudicati, i vinti, precostituendo dei giudici non coinvolti.

[4] Hegel spiegava che la rappresentazione kantiana di una pace perpetua, presuppone la concordia tra gli Stati. Considera che questa si baserebbe su fondamentali morali, religiosi ed altri; ma avrebbe “pur sempre per base delle volontà sovrane particolari”, e perciò rimarrebbe affetta da accidentalità. Grundlinien des Philosophie des Recht, trad. it. di V. Cicero, Milano 1995, §333 p. 555

[5] Anzi è l’esistenza e lo svilupparsi del conflitto che rende necessario (per arrivare ad una soluzione dello stesso) ad “internazionalizzare” il diritto derogando a quello normale “interno”, come scriveva Santi Romano, nel caso delle guerre civili (amnistie, scambi di prigionieri, accordi), v. Corso di diritto internazionale, Padova, p. 73. Il processo di cui scrive il giurista è proprio l’inverso di quello criticato e la cui ratio è di applicare per risolverlo istituti di diritto interno. Infatti come nota Santi Romano “Così, in caso d’insurrezione o di guerra civile, le norme di diritto internazionale, specialmente attinenti alla guerra e alla neutralità, vengono spesso riferite agli insorti … Ciò può accadere per diverse ragioni, che però si riducono ad una sola: l’impotenza dello Stato nel quale scoppia l’insurrezione a dominare col suo ordinamento gli autori di essa, per cui lo stesso Stato sente il bisogno, per mitigare la lotta, di condurla secondo le norme internazionali, purchè anche gli insorti adottino uguale comportamento” (il corsivo è mio).

[6] “Tra i valori, cioè, si tratta in ultima analisi, ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra «dio» e il «demonio». Tra di loro non è possibile nessuna relativizzazione e nessun compromesso. V. ora trad. it.. di P. Rossi ne Il metodo delle scienze storico-sociali, Milano 1980, p. 332. Tuttavia prosegue: “Beninteso, non è possibile secondo il loro senso. Poiché, come ognuno ha provato nella vita, ve ne sono sempre di fatto, e quindi secondo l’apparenza esterna, ad ogni passo”. Il che significa che il compromesso è spesso praticabile ma non sempre e non in tutti i casi.

[7] Ed aggiunge “Oggi si sta moltiplicando il purus politicus, l’uomo per cui non esiste che la politica. Poiché la politica è lotta, il purus politicus è un uomo lottante … non poche antitesi si trasformano e si esasperano in antitesi politiche nel senso chiarito da Schmitt, cioè in antitesi tra amici e hostes.

[8] E prosegue “perciò si arrugginiscono, quando non si atrofizzano, quelle altre attitudini che permettono all’uomo di abbracciare tutta la realtà e di nutrirsene, e in particolare le attitudini conoscitive”

[9] “La scienza e la tecnica sono baconianamente ricercate e utilizzate per il cangiamento e il miglioramento delle condizioni di vita. La praxis è sovrana e assorbente e distoglie dalla teoria. È l’impeto della vitalità che ostruisce ad un tempo quelle che il filosofo ha chiamato le fonti della cratività morale e le vie della ricerca della verità”.

[10] Scrive Valitutti che ciò comincia da Marx e dalla celebre 11ª postilla a Feuerbach, per cui compete ai filosofi (futuri) cambiare il mondo più che interpretarlo “Oggi si tende a possedere la realtà solo praticamente e perciò solo utilitaristicamente”. La ragione è “neutralizzata; perde il rapporto con il contenuto oggettivo perché è usato per soli fini utilitari, e non per conoscere la verità”. Da un lato c’è l’apoliticismo la cui conseguenza è che “scarseggiano i fattori unificanti e aumentano quelli dirompenti. Gli uomini si accomunano e concentrano nel godimento del benessere che è intrinsecamente isolante”. E l’altra faccia di questo Giano è il “raggrupparsi politico, in cui il cemento è l’ostilità contro l’hostis, cioè contro il raggruppamento nemico. Tra apoliticismo e panpoliticismo c’è passaggio pur se il secondo si manifesta talvolta con il volto tragico del vendicatore che vuole colpire la tirannia dell’edonismo”

[11] “Concezione che ritiene erronea e “cattiva”; ma cattive teorie possono originare cattive coscienze: “come la cattiva coscienza si insinua nella cattiva teoria e le fornisce impulsi e stimoli, così la cattiva teoria fornisce un sostegno alla cattiva coscienza”.

[12] V. trad. it. di P. Schiera ne “Le categorie del politico” Bologna 1972 p. 39, e aggiunge “Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue nella norma giuridica e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto. Per la dottrina dello Stato di diritto di Locke e per il razionalistico XVIII secolo, lo stato d’eccezione era qualcosa di incommensurabile. La diffusa consapevolezza del significato del caso d’eccezione che domina il diritto naturale del XVII secolo, va presto perduta nel corso del secolo seguente, allorché viene instaurato un ordine relativamente durevole … Solo una filosofia della vita concreta non può ritrarsi davanti  all’eccezione e al caso estremo, anzi deve interessarsi ad esso al più alto grado. Per essa l’eccezione può essere più importante della regola, e non in base ad una ironia romantica per il paradosso, ma con tutta la serietà di un punto di vista che va più a fondo delle palesi generalizzazioni di ciò che comunemente si ripete. L’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola: la regola stessa vive solo dell’eccezione. Nell’eccezione, la forza della vita reale rompe la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione” e conclude il passo “Abitualmente non ci si accorge della difficoltà poiché si pensa al generale non con passione ma con tranquilla superficialità. L’eccezione al contrario pensa il generale con energica passionalità”

[13] Si noti che il generale prussiano il quale distingue, tra l’altro, guerra assoluta e guerra “normale”, anche nella concezione generale del fenomeno bellico ritiene che “la guerra si presenta inoltre nel suo aspetto generale, sotto il rapporto delle tendenze che regnano in essa, come uno strano triedro composto:

  1. della violenza originale del suo elemento, l’odio e l’inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto;
  2. il giuoco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell’anima;
  3. della sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione.

La prima di queste tre facce corrisponde più specialmente al popolo, la seconda al condottiero ed al suo esercito, la terza al governo” Vom Kriege trad. it. Milano 1970, vol. I, p. 40. Quindi anche nella guerra sono presenti elementi razionali, che contribuiscono a ridimensionarla ed umanizzarla.

[14] V. Du Pape, trad. it. Milano 1995, p. 155.

[15] Che è poi uno dei presupposti di un liberalismo esangue, ispirato al pensiero di Kant (ma sottovalutando il “legno storto”). Ma che tale condivisibile aspirazione possa costituire una base – sempre e ovunque valida – non è credibile, per cui si trasforma in una sicura illusione, che seleziona della natura umana il connotato più gestibile: la ragione. E, al tempo, sminuisce quello che lo è meno, la volontà (istinti, interessi, pregiudizi e così via).

[16] V. V.E. Orlando Principii di diritto costituzionale p. 51.

[17] Ricordiamo tra gli altri: G. Mosca, Appunti di diritto costituzionale, Milano 1912 (il quale scrive anche di governo rappresentativo, di regime rappresentativo).

[18] D’altra parte condiviso anche con gran parte dai pensatori liberali non italiani.

[19] “Ma cos’è il governo se non la poderosa analisi dell’umana natura? Se gli uomini fossero angeli non occorrerebbe alcun governo. Se fossero gli angeli a governare gli uomini, ogni controllo esterno o interno sul governo diverrebbe superfluo.

Ma nell’organizzare un governo di uomini che dovranno reggere altri uomini, qui sorge la grande difficoltà: prima si dovrà mettere il governo in grado di controllare i propri governanti, e quindi abituarsi ad autocontrollarsi”. V. Il federalista, trad. it. di Bianca M. Tedeschini Lalli, Bologna 1980, p. 396. (Il corsivo è mio).

[20] “La scienza e tutti quei brani di verità… sono sempre stati l’opera di un numero molto scarso d’individui… Le masse finora non hanno mai vissuto della scienza e per la scienza, ma di grandi illusioni collettive, che trovano la loro base non nel raziocinio, ma nel sentimento umano” v. Partiti e sindacati nella crisi del regime parlamentare, Bari 1949, p. 85 (il corsivo è mio).. D’altra parte considerazioni simili si trovano in altre opere di Mosca.

[21] Che ha preceduto la “rinascita” dell’interesse in altri paesi. Günther Maschke, in un  saggio dedicato all’impatto del pensiero di Schmitt (scritto poco dopo la morte del giurista) giudicava che l’Italia di quella rinascita costituiva la parte più cospicua, v. trad. francese (col titolo Carl Schmitt «Fossoyeur de la République» «Kronjurist» ou «Dernier classique»? in Nouvelle École n. 44, 1987, p. 53 ss.

SCHEDA DEL LIBRO OGGETTO DI CRITICA

SCHEDA de “LA POLITICA COME DESTINO”

Originariamente pubblicato nella rivista “Nuovi studi politici” nel 1976 e quindi in un volume contenente anche uno scritto di Karl Lowith nel 1978, La politica come destino di Salvatore Valitutti torna oggi nuovamente nelle librerie italiane per i tipi della Liberilibri.

Valitutti, pur da liberale e con atteggiamento critico, accanto alle ragioni di dissenso riuscì ad intuire l’incisività e la validità di alcune intuizioni di Carl Schmitt.

Pubblichiamo pertanto per la gentile concessione della Società Liberilibri e dell’autore, il saggio introduttivo di Teodoro Klitsche de la Grange al libro di Salvatore Valitutti.

INTRODUZIONE ALLA “POLITICA COME  DESTINO”_1A PARTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

Continuiamo con la pubblicazione di testi alquanto interessanti riguardanti l’approccio al “politico” del pensiero liberale “forte” in contrapposizione e critica al pensiero liberale “debole” ancora nettamente predominante, se pure in crisi nella sua capacità persuasiva. Il discrimine tra le due varianti riguarda appunto l’atteggiamento verso e l’analisi della funzione del politico, inteso nella sua essenza e nella sua relazione con i diversi ambiti dell’agire umano. Il peso ancora minoritario della componente realista di questa corrente di pensiero è evidenziato dal misconoscimento dell’importanza, in particolare in Italia, di pensatori come Julien Freund e dalla demonizzazione e travisamento di altri come Carl Schmitt. Essa, la sua componente “realista” appunto, al contrario rientra a pieno titolo nell’alveo del dibattito sul conflitto strategico tra centri decisionali ripreso ed elaborato ultimamente in Italia da Gianfranco La  Grassa. E’ il nuovo punto di incontro e di confronto decisivo di varie correnti del pensiero politico cresciuto ed affermatosi nel ‘800 e nel ‘900 e ormai giunto ad una drammatica crisi delle proprie chiavi di interpretazione. Teodoro Klitsche de la Grange continua ad offrire da par suo il proprio contributo e ad alimentare il dibattito intrapreso pure da questa redazione, in particolare da Massimo Morigi e Luigi Longo. Buona lettura_Germinario Giuseppe

INTRODUZIONE ALLA “POLITICA COME  DESTINO”

  1. Quando un liberale italiano come Salvatore Valitutti si confronta con il pensiero di Carl Schmitt è inevitabile che accanto a ragioni di dissenso ve ne siano di apprezzamento, spesso critico, e non demonizzazione aprioristica.

E’ quanto capita in questo saggio, pubblicato prima su “Nuovi studi politici” nel 1976 e poi in libro insieme a un saggio di Karl Lövith su Schmitt (del 1935).

I punti principali della critica di Valitutti a Carl Schmitt, da un punto di vista liberale, sono tre.

Il primo è che la distinzione propria del “politico”, ovvero quella tra Amicus ed Hostis, la quale è come quelle di “buono e cattivo nel settore morale, di bello e brutto nell’estetico e di utile e dannoso nell’economico”, indipendente dalle altre e ad esse irriducibile. Cioè, come avrebbe sostenuto Freund, la politica è un’ “essenza”  (come l’etica, l’economia, l’estetica).

“La distinzione tra amicus ed hostis, di amico e nemico, (è) la estrema intensità di un legame o di una separazione…Amicus  è un gruppo di individui tenuto stretto e compatto dalla reciproca solidarietà determinata dal bisogno di difendersi, per sopravvivere, dall’Hostis. L’hostis  è hostis in quanto si contrappone al gruppo che gli è ostile, ma in se stesso è amicus.  La politica è perciò ostilità che divide e contrappone due gruppi ciascuno dei quali è amicus in se stesso, e cioè reso compatto contrapponendosi all’altro”, scrive Valitutti. I due gruppi hanno un senso dato dall’ostilità, che implica la possibilità di lotta armata. Da qui il rapporto necessario tra politica e guerra per cui se “Clausevitz scrisse che la guerra non è altro che una continuazione delle relazioni politiche con l’intervento di altri mezzi. Schmitt rovesciando la formula avrebbe potuto dire che la pace è la continuazione della guerra con l’intervento di altri mezzi”.

Schmitt, continua Valitutti, sente il bisogno di difendersi dell’accusa di una visione “guerrafondaia”. Lo fa realisticamente, spiegando che ciò consegue dall’ostilità (naturale in un pluriverso) “perché questa è la negazione essenziale di un altro essere”, affermazione che ricorda da vicino quella di Hegel sul nemico come differenza etica (in Schmitt esistenziale)[1]. Centrale, nel pensiero di Schmitt è, secondo Valitutti, il concetto di unità politica “soggetto della politica è il gruppo ma solo alla condizione che il gruppo realizzi una perfetta unità politica. L’essenza dell’unità politica consiste nell’esclusione del contrasto politico all’interno dell’unità stessa”. Ne consegue che “la teoria politica di Schmitt è una teoria monistica perché si basa sulla compattezza dell’unità politica”: una teoria pluralista diviene facilmente strumento di dissoluzione. Tuttavia se all’interno la concezione di Schmitt è monistica, all’esterno è pluralista[2].

Il secondo punto è il pessimismo antropologico.

Si fonda sulla concezione pessimistica dell’uomo, che è la medesima su cui si fonda la scriminante etica (buono, cattivo) e la possibilità di scegliere, cioè la libertà. Ma, scrive Valitutti “Schmitt nell’individuare nella malvagità dell’uomo la molla che fa scattare la politica come distinzione fra amico e nemico, non si avvede che giunge a mettere in crisi proprio   quella autonomia della politica, intesa come indipendenza dalle altre distinzioni esistenti, operanti nella vita umana…giungendo, come giunge, al presupposto  della malvagità umana   come condizione da cui scaturirebbe la necessità della politica, intesa come distinzione fra amico e nemico , egli riconduce la politica stessa proprio ad uno dei termini della coppia degli opposti che è la coppia della vita morale”.

Da ciò consegue la centralità dell’unità politica per comprenderne l’anti-liberalismo di Schmitt[3]. Questo è la “bestia nera” di Schmitt, secondo il quale ha dominato il secolo XIX. Il liberalismo combattuto da Schmitt è tuttavia un fantoccio polemico: “In questo fantoccio figurano lineamenti che appartengono al liberalismo storico ma che sono scissi da altri lineamenti essenziali dello stesso corpus di dottrine e di esperienze e che perciò appaiono deformati”[4]. Schmitt riconosce tuttavia che il liberalismo, come realtà storica, non è sfuggito né all’identificazione/designazione del nemico, né all’abolizione della guerra (perché impossibile)[5]. E Valitutti rileva che “Nella sua polemica contro il liberalismo Schmitt, credendo di incolparlo in realtà gli rende omaggio e comunque è nel vero anche quando sottolinea il rispetto del valore dell’autonomia delle varie forme dell’attività umana come un carattere distintivo del liberalismo” (il corsivo è mio)[6]. Peraltro Schmitt, partendo dal postulato dell’unità politica ha come obiettivo della di esso critica soprattutto il liberalismo sociale e associativo, che garantisce la società come “pluralità di legami sociali”. Ma così configura uno Stato che realizza continuamente “la sua unità come sintesi dialettica di differenti e congiunti centri di iniziativa. L’unità politica, secondo Schmitt, la quale ha la sua più perfetta espressione nello Stato, è viceversa un’unità monistica, immediata e immota”[7].

La distinzione amicus/hostis relativizza tutte le altre in quanto giunge a definire la distinzione politica come quella totale e totalizzante; “per cui Schmitt praticamente vanifica tutte le altre distinzioni. È l’unità politica che decide quello che è buono, bello e utile, e, in contrapposizione, quello che è cattivo, brutto e dannoso”. Il vizio di tale concezione è evidente: nel momento in cui la distinzione politica prevale sulle altre questa è non solo indipendente da quelle, ma superiore[8].

Nota poi Valitutti che tra le tante opposizioni il giurista di Plettemberg non ricorda mai quella di vero/falso[9]

Ovviamente, scrive Valitutti, in questa concezione la “volontà politica è regina assoluta”; onde è legittimo chiedersi “se egli si sia installato con tanta sicurezza e facilità nella sua teoria proprio in quanto è partito dalla preliminare negazione della realtà e del valore del pensiero teoretico”.

Valitutti prende in esame il saggio di Löwith su Schmitt pubblicato insieme al suo nel libro (da cui è tratto il saggio di Valitutti), scrivendo che Löwith attribuisce a Schmitt di credere “solo al valore della decisione per la decisione, cioè alla decisione come fine a se stessa”. Secondo Valitutti è più importante collocare storicamente la teoria di Schmitt tra “quegli atteggiamenti volontaristici e attivistici posti in essere nell’età post-hegeliana in contrapposizione alla tradizione del primato del pensiero teoretico, alcuni dei quali hanno rasentato o investito la stessa ragione deteriorandola o distruggendola”.

  1. Il saggio di Valitutti appare condizionato (v. la nota bibliografica pubblicata nello stesso volume e redatta dall’autore) dal riferirsi, praticamente nella totalità delle opere di Schmitt che cita, a quelle tradotte in italiano fin verso la metà degli anni ’70 del secolo scorso, ed ai saggi su Schmitt pubblicati in Italia nello stesso periodo. Questo fa si che le note critiche dell’autore a Schmitt non tengono conto né delle opere tradotte successivamente (la stragrande maggioranza di quanto scritto dal giurista di Plettemberg) né dei successivi interventi intorno al pensiero del medesimo. Il che non significa che Valitutti abbia travisato la teoria del pensatore renano; ma che la conoscenza di queste ne avrebbe permesso di “centrare meglio” contenuto, obiettivi e senso.

In primo luogo: è vero che il liberalismo considerato da Schmitt è un “fantoccio polemico”; ma lo è per due ragioni.

La prima, ancora diffusa, nelle sue declinazioni “post-moderne”, nell’Italia degli anni a cavallo dei due secoli, e anche attualmente (che è quella prevalente, anche nell’ambiente politico e culturale non italiano) secondo la quale, sintetizzandola al massimo, il liberalismo è quell’ideologia che: a) tutela i diritti fondamentali b) prescrive la distinzione dei poteri (alla Montesquieu) c) discute ogni proposta e soluzione nelle assemblee rappresentative e (soprattutto) nell’opinione pubblica d) tutela i diritti (prevalentemente) attraverso il potere giudiziario e) ritiene la decisione dei conflitti più opportuna se disposta da organi giudiziari.

Non tutti questi aspetti godono di un consenso unanime da parte dei (spesso sedicenti) liberali, ma buona parte si.

Ciò che rende particolarmente ficcante la critica di Schmitt a tale/i concezione/i è che da un lato vi manca un qualcosa che costituisca l’unità politica; dall’altro che il liberalismo è, a intenderlo in senso ideale, non un modo di costituire il potere, ma quello di limitarlo. Onde aspettarsi di costituire una sintesi politica senza un principio politico costitutivo è vano. Come scrive Schmitt citando Mazzini “sulla libertà non si costituisce nulla”.

Ne consegue, come scrive Schmitt nella Verfassungslehre[10], che “I principi della libertà borghese possono ben modificare e temperare uno Stato, ma da soli non fondano una forma politica… Da ciò segue che in ogni costituzione con l’elemento dello Stato di diritto è connesso e misto un secondo elemento di principi politico-formali[11].

Il liberalismo può modificare qualsiasi forma di Stato, facendolo diventare una monarchia o una democrazia liberale, ma non può eliminare il principio di forma politica su cui necessariamente lo Stato si basa. La costituzione dello Stato liberale è così necessariamente mista “nel senso che l’elemento in se autonomo e concluso dello Stato di diritto si unisce con elementi politico-formali”.

L’errore di credere che possa esistere una costituzione liberale “pura” senza politica, né soprattutto elementi di forma politica era già espresso nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: “Toute société dans laquelle la garantie des droits n’est pas assurée, ni la séparation des pouvoirs déterminée, n’a point de constitution”. Fu stigmatizzato già da de Bonald, che lo riprendeva dalle (entusiastiche) parole di adesione di M.me De Staël.

Scriveva de Bonald che chiedersi se uno Stato esistente ed esistente da secoli come la Francia, non avesse una Costituzione, è come domandare ad un arzillo ottuagenario se è costituito per vivere. Ciò perché, come avrebbero affermato circa un secolo dopo altri eminenti giuristi come Santi Romano, uno Stato esistente non ha, ma è una costituzione[12]. E lo stesso faceva Schmitt nel distinguere il concetto assoluto di costituzione come “concreto modo di esistere che è dato spontaneamente con ogni unità politica esistente[13] e la cui forma “indica qualcosa di conforme all’essere uno status e non qualcosa di conforme ad un principio giuridico o di normativamente dovuto”[14]. Tuttavia “per motivi politici è spesso indicata come «vera» o «pura» costituzione solo ciò che corrisponde ad un determinato ideale di costituzione”[15]. Ma ritiene il giurista di Plettemberg “Una costituzione che non contenesse altro che queste garanzie dello Stato borghese di diritto, sarebbe impensabile; giacché lo Stato stesso, l’unità politica, ossia ciò che è da controllare, deve pur esistere ovvero al tempo stesso essere organizzato”[16].

I due elementi, quello politico e quello dei principi dello Stato di diritto, sono sempre congiunti e presenti[17].

Dove si constata la “prevalenza” dell’elemento politico su quello dello Stato borghese di diritto è nella disciplina dello Stato di eccezione con la sospensione, deroga, rottura della normativa costituzionale[18] … “In questi casi si mostra assai chiaramente che il moderno Stato costituzionale nella sua struttura è composto di due diversi elementi: di una serie di intralci al potere statale propri dello Stato borghese di diritto e di un sistema – sia esso monarchico o democratico – di attività politica”[19].

Nelle emergenze l’elemento politico (il potere costituito) sospende la normativa del bürgerliche rechtstaat, così come Jhering sosteneva che, nelle crisi gravi la forza “sacrificherà il diritto per salvare la vita”[20].

Ciò che distingue la disciplina dello “stato d’eccezione” dello Stato borghese da quello di altre sintesi politiche è l’accurata distinzione tra situazione normale  ed eccezionale, che in altri regimi è assente o sfumata. Laddove la sovranità è attribuita al vertice politico (al principe) vale il principio ulpianeo quod principi placuit legis habet vigorem applicabile ad ogni situazione contingente (quindi anche dell’emergenza); nello Stato liberal-democratico (o borghese secondo la terminologia preferita da Schmitt) i presupposti, (in parte) la normativa relativa all’eccezione, e le sanzioni per l’inosservanza sono regolate dalla Costituzione. Una norma, regolarmente votata dal Parlamento in uno Stato liberale democratico a forma di governo parlamentare che violasse la Costituzione, sarebbe annullata dal Giudice costituzionale (generalmente) istituito in tali forme di Stato. In una monarchia assoluta o in una dittatura sovrana, no. Come sostenuto da Agamben al riguardo “In ogni caso è importante non dimenticare che lo stato di eccezione moderno è una creazione della tradizione democratico-rivoluzionaria e non di quella assolutista”[21].

[1] Per una esposizione più articolata e diffusa v. Hegel Sistem der sittlichkeit ora in “ Il dominio della politica” trad. it. di  N.Merker, Roma 1980 p. 174 ss.

[2] “Il monismo all’interno presuppone il pluralismo all’esterno. Il mondo politico – afferma Schmitt – è un pluriversum, non un universum, L’unità politica presuppone la reale possibilità  del nemico, e quindi almeno un’altra unità politica coesistente. Il mondo politico è perciò il coesistere e il competere di differenti e contrapposte unità politiche”.

Sviluppando poi il primo aspetto, Valitutti rileva “Il carattere mistico dell’unità politica nel pensiero di Schmitt è comprovato dall’assoluta negazione del suo carattere associativo”; non c’è alcuna società, ma solo comunità politica. Anche quando alla nascita un’unità politica ha carattere associativo (come nella federazione), diviene subito esclusiva e totalizzante.

 

[3] “La prima e più consistente ragione del tenace e veemente antiliberalismo di Schmitt è da ricercare e da ravvisare nel posto che occupa nel suo pensiero il concetto di unità politica. Quanto meno è in questo concetto che si annodano e si saldano tutti i motivi del suo antiliberalismo”

[4] Sostiene Valitutti che i suoi padri (secondo Schmitt) sono soprattutto Spencer e Constant “Per Schmitt il liberalismo è puro individualismo, in quanto avrebbe solo e sempre presente come principio e fine del suo processo logico l’individuo”. Il fatto che, secondo il giurista di Plettenberg il liberalismo si muove tra le polarità dell’etica e dell’economia “non gli fa sorgere il dubbio che un pensiero politico che affonda sia pure in parte le sue radici nel concetto del primato dell’etica non possa rimanere relegato nel mero individualismo”

[5] Il problema consiste che, nella sua dimensione/aspirazione ideale “il liberalismo concepisce la realtà come gara e lotta, gara che sul piano spirituale si svolge come discussione, cioè come lotta tra idee, e sul piano economico come concorrenza, lotta e concorrenza eterne che non debbano mai diventare sanguinose, cioè degenerare in ostilità”.

[6] Aggiunge che Schmitt “individua esattamente quello che è il maggiore sforzo logico in cui si travaglia quella concezione della realtà a cui si ricollega il liberalismo politico nel secolo XIX, cioè lo sforzo inteso a distinguere le varie forme dell’attività spirituale e della vita umana per fondarne e salvaguardarne l’autonomia e insieme la connessione

[7] Per cui Schmitt concepisce l’unità politica come “decisiva, sovrana e totale”.

Questa unità, che storicamente, nella modernità si costituisce in Stato, considera tutto, potenzialmente, come politico “il decidere se una faccenda o un genere di cose sia apolitico è una decisione specificatamente politica, Perciò non c’è nulla che per virtù propria sia distinto dalla politica. Anche il non politico è una qualificazione attribuibile dalla decisione politica”.

[8] Tuttavia a leggere Der hüter der Verfassung, trad it. di A. Caracciolo Il Custode della costituzione, Milano 1981 p. 115 ss, si ridimensiona tale giudizio di Valitutti. Scrive Schmitt quanto alla situazione costituzionale del XIX secolo e la diversa nella Repubblica di Weimar che in quella la sua struttura “fondamentale è stata riassunta dalla grande  dottrina tedesca dello Stato di questo periodo in una formula chiara ed utile: la distinzione fra Stato e società” onde “ Esso era abbastanza forte per confrontarsi autonomamente con le restanti forme sociali e quindi per determinare da sé il raggruppamento, cosicchè tutte le numerose differenze all’interno della società … erano relativizzate e non impedivano la comune considerazione in seno alla «società». Ma per altro verso esso si manteneva in una posizione di ampia neutralità e di non-intervento nei confronti della religione e dell’economia e “ripettava in notevole misura l’autonomia di questi ambiti di vita e di interessi; cioè, esso non era assoluto e non così forte nel senso che avrebbe reso privo di importanza tutto il non-statuale” mentre con Weimar “adesso lo Stato diventa l’ «auto-organizzazione della società». Perciò cade, come menzionato, la distinzione finora sempre presupposta di Stato e società” e così “la società che si organizza da sé in Stato passa dallo Stato neutrale del liberale secolo XIX ad uno Stato potenzialmente totale. La potente svolta può essere interpretata come parte di uno sviluppo dialettico, che si svolge in tre stadi: dallo Stato assoluto del XVII e XVIII secolo attraverso lo Stato neutrale del liberale secolo XIX allo Stato totale dell’identità di Stato e società”.

[9] “Se Schmitt avesse salvaguardata la coppia di vero e falso avrebbe dovuto ammettere la distinzione tra la teoria e pratica e proprio questa distinzione gli avrebbe creato non superabili difficoltà nella teorizzazione della totalità politica. Egli è potuto giungere al suo mostruoso concetto della totalità politica sul presupposto della negazione dell’attività teoretica come attività distinta e autonoma dello spirito umano”.

[10] V. trad. it. dr. A. Caracciolo La dottrina della Costituzione, Giuffrè Editore, Milano 1984.

[11] Op. ult. cit., p. 265 (il corsivo è mio).

[12] Nel criticare l’opinione che Stati costituzionali siano solo quelli rappresentativi (cioè a “regime libero”) scrive “Ogni Stato è per definizione, come si vedrà meglio in seguito, un ordinamento giuridico, e non si può immaginare, quindi, in nessuna sua forma fuori del diritto… Uno Stato «non costituito» in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del suo corpo” Principi di diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 3.

[13] Op. ult. cit., p. 16.

[14] Op. ult. cit., p. 17 e prosegue “Anche qui sarebbe più esatto dire che lo Stato è una costituzione; è una monarchia, un’aristocrazia, una democrazia, una repubblica dei Soviet, e non ha soltanto una costituzione monarchica, ecc. La costituzione è qui la «forma delle forme», forma formarum”.

[15] Op. ult. cit., p. 58 e poche pagine dopo scrive “Nello sviluppo storico della costituzione moderna si è affermato un particolare concetto ideale con tale successo che dal XVIII sec. Sono indicate come costituzioni solo quelle costituzioni che corrispondono alle richieste della libertà borghese e contengono determinate garanzie di questa libertà” p. 60, per cui la Costituzione è un “sistema di garanzia della libertà borghese” onde come “costituzioni liberali, che meritino il nome di «costituzione», sono considerate solo quelle costituzioni che contengono alcune garanzie della libertà borghese” (p. 61).

[16] Op. ult. cit., p. 64 e aggiunge “Le costituzioni degli attuali Stati borghesi sono perciò composte sempre di due elementi: da un lato i principi dello Stato di diritto posti a difesa della libertà borghese contro lo Stato, dall’altro l’elemento politico, dal quale si deve dedurre la vera forma di Stato (monarchia, aristocrazia, democrazia o «status mixtus»). Nel collegamento di questi due elementi si trova la caratteristica delle odierne costituzioni dello Stato borghese di diritto”.

[17] È da considerare nei rapporti tra democrazia e liberalismo il giudizio di M. Alessio che “Schmitt insomma distingue troppo rigidamente democrazia e liberalismo, senza pensare che quest’ultimo può attecchire solo su di un terreno già preparato politicamente. Il liberalismo contemporaneo è una derivazione della democrazia moderna, ed è dunque su di essa che bisognerebbe puntare dapprima l’attenzione”. Democrazia e liberalismo (lo status mixtus) sono uniti nella modernità in concreto da un ethos comune, v. Carl Schmitt Democrazia e liberalismo, Milano 2001, p. 8 (introduzione di M. Alessio).

[18] La costituzione in senso proprio, scrive Schmitt “cioè le decisioni politiche fondamentali sulla forma di esistenza di un popolo, ovviamente non può essere temporaneamente abrogata, ma – proprio nell’interesse del mantenimento di queste decisioni… possono esserlo la normative legislative costituzionali generali emanate per la sua attuazione. In particolare, ci sono le normative tipiche dello Stato di diritto poste a protezione della libertà borghese, che sono soggette ad una sospensione temporanea…Nei turbamenti della sicurezza e dell’ordine pubblico, in tempi di pericolo come una guerra e durante una rivolta, sono sospese le limitazioni legislative costituzionali. Op. cit., p. 154.

[19] Op. loc. cit..

[20] R. Von Jhering Der Zweck im Recht trad it. Di M. G. Losano, Torino 1972 p. 184 ss.. È interessante ricordare per sommi capi, la concezione di Jhering “Il diritto non è quanto di più elevato vi sia al mondo, non è fine a se stesso, ma è soltanto un mezzo diretto ad un fine, ed il suo fine ultimo è l’esistenza della società. Se si riscontra che, nella situazione giuridica attuale, la società non è in grado di esistere, se il diritto non è in grado di venirle in aiuto, interviene la forza a compiere ciò che è necessario: nella vita dei popoli e degli stati prende così forma lo stato di emergenza. Nello stato di emergenza, il diritto vien meno tanto nella vita dell’individuo quanto anche nella vita dei popoli e degli stati” e poiché “al di sopra del diritto è la vita; e se ls asituazione concreta è quella da noi ipotizzata – cioè una situazione di emergenza politica riducibile all’alternativa; o il diritto o la vita – non vi possono essere dubbi sulla decisione da prendere: la forza sacrificherà il diritto per salvare la vita” e prosegue “ Abbiamo così individuato il punto in cui il diritto sfocia nella politica e nella storia: qui il giudizio del politico, dell’uomo di stato e dello storico deve sostituirsi a quello del giurista, che giudica soltanto alla stregua del diritto positivo” … “Se non ci si fanno scrupoli nell’usare il termie “diritto” in questo senso, potremmo qui parlare di un diritto eccezionale della storia, che in linea di principio rende praticamente possibile l’esistenza del diritto e, sporadicamente, il raffiorare della forza della sua missione e funzione storica originaria, cioè come fondatrice dell’ordinamento e creatrice del diritto” op. cit. p. 185 ss.

[21] G. Agamben, Stato d’eccezione Torino 2003, p. 14; e l’affermazione è ripetuta “Lo stato di eccezione si presenta anzi in questa prospettiva come una soglia di indeterminazione fra democrazia e assolutismo” idem p. 11.

SCHEDA DEL LIBRO OGGETTO DI CRITICA

SCHEDA de “LA POLITICA COME DESTINO”

Originariamente pubblicato nella rivista “Nuovi studi politici” nel 1976 e quindi in un volume contenente anche uno scritto di Karl Lowith nel 1978, La politica come destino di Salvatore Valitutti torna oggi nuovamente nelle librerie italiane per i tipi della Liberilibri.

Valitutti, pur da liberale e con atteggiamento critico, accanto alle ragioni di dissenso riuscì ad intuire l’incisività e la validità di alcune intuizioni di Carl Schmitt.

Pubblichiamo pertanto per la gentile concessione della Società Liberilibri e dell’autore, il saggio introduttivo di Teodoro Klitsche de la Grange al libro di Salvatore Valitutti.

MACHIAVELLI, di Teodoro Klitsche de la Grange

MACHIAVELLI

Non è stata dedicata soverchia attenzione alla ricorrenza del 500° anniversario del “Principe”. A dispetto del fatto che – a quanto sembra – sia l’opera italiana più tradotta al mondo e che da quando fu scritta, nessuno, che si sia occupato di politica (filosofia, scienza della politica, storia), abbia potuto fare a meno di confrontarvisi, si assiste a un anniversario celebrato con poca pompa e qualche nascosto imbarazzo.

Scrive Di Lello che “non si tratta di un dettaglio, ma di un sintomo (certo uno dei tantissimi, pur sempre un sintomo) di caduta culturale ed ideale”[1].

Che il pensiero di Machiavelli dia fastidio, e lo dia all’establishement culturale e politico italiano, in particolare  di sinistra, è evidente. Tutta la melassa delle buone intenzioni e dei buoni sentimenti, sintetizzata nel “buonismo” è proprio l’antitesi delle concezioni di Machiavelli. A servirsi di quelle di un suo epigono moderno, come Pareto, l’unica cosa che certe zuccherose e commoventi prediche attestano è lo stato di decadenza delle élites che le tengono e del popolo che le sta ad ascoltare. Il Segretario fiorentino ha, nei confronti di quelle, la funzione attribuitagli da Foscolo, in sintesi: mostrare che il re è nudo. Dietro buoni propositi e discorsi edificanti c’è la ricerca e soprattutto la conservazione di un potere, ormai senescente e anche (e soprattutto) perciò buonista. Realismo politico significa demistificare il nucleo essenziale dell’apparato egemonico costruito dal secondo dopoguerra in poi e specialmente negli ultimi vent’anni. Il pensiero di Machiavelli è infatti quanto di più politicamente scorretto si possa immaginare. A cominciare dal nucleo: “perché ogni uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene ruini intra tanti che non sono buoni”; da qui, dalla concezione “problematica” della natura umana, l’esigenza del realismo in politica e la ricerca della “verità effettuale della cosa” (cioè dell’approccio concreto). Le conseguenze del quale non si riflettono solo sulla politica (prassi e teoria) ma anche sul pensiero giuridico-istituzionale. Come esiste una condotta ispirata al Segretario fiorentino, c’è una concezione dello Stato e della costituzione fondata sui medesimi presupposti: pessimismo  antropologico (almeno relativo), realismo politico, ricerca della “verità effettuale delle cose”[2]. E del pari, Machiavelli si occupa più volte  – anche se spesso implicitamente – del rapporto tra politico e diritto.

2.0 Contrariamente a quanto ritenuto da molti nostri contemporanei, nel segretario  fiorentino la politica è decisiva e il diritto segue; il rapporto è acutamente inquadrato da Machiavelli nel primato della politica (e del politico).

Nel XVIII capitolo del principe scrive “sono dua generazione di combattere: l’uno con le leggi, l’altro, con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie”. Tale espressione è stata in genere connessa allo specifico argomento lì trattato (quomodo fides a principibus sit servanda), in particolare sul rapporto tra astuzia (golpe) e forza (lione). Tuttavia l’espressione può essere interpretata anche in un altro senso; che è quello chiarito da Machiavelli subito dopo: che il Principe, soprattutto il Principe  nuovo è “spesso necessitato, per mantenere lo Stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alle comunità, contro alla religione”. Enumera cose che per un uomo del suo, e anche del nostro tempo, sono più care e sacre del diritto, onde si può immaginare se il Principe non possa anzi debba operare contro questo. Anche se nel pensiero nostro contemporaneo è il diritto a non poter essere mai violato (con le conseguenze più bizzarre e, peggio ancora, dannose). Perché, prosegue Machiavelli “nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati”. In diverse parole qui come in altri passi del Principe e dei Discorsi , Machiavelli (fonda e) rivendica l’autonomia del politico, che non deriva da altra “essenza”, come scrive Freund. Non c’è giudice del principe, e l’unico criterio di giudizio è se ha attinto il fine di conservare lo Stato: il che significa non solo il (di esso) potere, ma anche l’esistenza (e la “buona” esistenza) dei sudditi[3].

Il rapporto tra politico e diritto  (legge, ordine, organizzazione istituzionale) è confermato dal XXXIV capitolo del I° libro dei Discorsi, dove Machiavelli tesse l’elogio della dittatura romana: nei frangenti eccezionali, il dittatore conserva lo Stato infrangendo il diritto e gli ordini (cioè l’ordinamento costituzionale – o, meglio, parte di esso) “perché senza uno simile ordine le cittadi con difficultà  usciranno degli accidenti istraordinari. Perché gli ordini consueti nelle repubbliche hanno il moto tardo non potendo alcuno consiglio né alcuno magistrato per se stesso operare ogni cosa, ma avendo in molte cose bisogno l’uno dell’altro … E perciò le repubbliche debbano intra loro ordini avere uno simile modo” e subito dopo “Perché quando in una repubblica manca uno simile modo, è necessario o servando gli ordini rovinare, o per non rovinare rompergli” E’ l’ordinamento stesso che deve prevedere organi straordinari, dotati anche della facoltà di sospendere, derogare, modificare il diritto vigente: “Talchè mai fia perfetta una repubblica se con le leggi sue non ha provisto a tutto, e ad ogni accidente posto il rimedio e dato il modo a governarlo”.

La Costituzione italiana è bellissima (come dice un noto attore) e quel che è peggio, è considerata così perfetta da non poter essere cambiata, onde è chiaro che il pensiero di Machiavelli è in contrasto con tali affermazioni, perché la stessa non prevede né competenza né misure per lo stato d’eccezione ed è quindi, date le affermazioni del Segretario fiorentino, imperfetta, e da cambiare (di corsa).

Più in generale nella concezione di un certo costituzionalismo contemporaneo (e più in generale di teoria generale del diritto) s’inverte il rapporto tra diritto e politica. In Machiavelli la politica è autonoma, mentre il diritto è eteronomo, perché al di esso fondamento v’è la decisione politica. E’ il sovrano che decide se conservare, modificare, sospendere il diritto. E’ il pouvoir , a servirsi dei concetti (e dei termini) di Hauriou, a garantire l’ordre (anche) attraverso il droit. L’altro “punto” di eteronomia del diritto, ovvero rispetto alla morale, è talvolta anch’esso completamente omesso, talvolta travisato (o depotenziato).

Tanto per farne un esempio (tra tanti) particolarmente rilevante della lontananza tra il pensiero di Machiavelli e quello di taluni nostri contemporanei: anche chi ammette un certo “tasso” di morale nel diritto v’include quasi esclusivamente ciò che rileva per lo stato sociale contemporaneo, ovvero in particolare, la distribuzione del reddito a favore delle classi e dei cittadini più disagiati.

Non capita invece di leggere della connessione esistente tra diritti e doveri nelle costituzioni e negli Stati, anche contemporanei, né tra alcuni specifici doveri. Per essere chiari: il diritto di esercitare funzioni pubbliche (art. 51 Cost. italiana vigente) cioè di partecipare a decidere il destino della comunità è strettamente correlato e quello di pagare le imposte (art. 53), ma ancor più a quello di difendere la Patria (art. 52). Anche per un lettore distratto di Machiavelli, è chiara l’importanza che questi da all’ “arme proprie” (v. per il solo Principe, i capp. XII-XIV)[4]. Ammoniva che “chi dice impero, regno, principato, repubblica, chi dice uomini che comandano, cominciandosi dal primo grado e discendendo infine al padrone d’un brigantino, dice giustizia e armi”[5]; senza queste è impossibile preservare la libertà, e ovviamente, l’esistenza politica. Per cui il rapporto tra morale (meglio sittlichkeit nel senso di Hegel) e diritto è essenzialmente (anche se non esclusivamente) quello segnato dall’adempimento dei doveri legati alle funzioni pubbliche esercitate o rivestite. Anche la concezione machiavelliana  della virtù si muove nello stesso solco: al Principe è necessaria virtù per sapere fronteggiare gli eventi, come per poterne approfittare.

Quindi di “morale” si può parlare prendendo atto che si tratta di una morale che ha poco a che fare con quella che per ciò s’intende; il contributo di quest’ultima al diritto c’è, ma accanto a quello dell’ “altra” morale (quella, per così dire, “pubblica” e non “privata”).

3.0 Scrive Machiavelli nel Proemio dei Discorsi che, contrariamente a quanto accade per il diritto (le “leggi civili”), per la medicina, per le arti “nell’ordinare le republiche, nel mantenere li stati, nel governare e’ regni, nello ordinare la milizia ed amministrare la guerra,  nel iudicare e’ sudditi, nello accrescere l’imperio, non si trova principe nè republica  che agli esempi degli antiqui ricorra”; e continua scrivendo che, a suo giudizio ciò dipende dalla mancanza di comprensione (“non avere vera cognizione delle storie per non trarne leggendole quel senso … che le hanno in se”). E si meraviglia perché “infiniti che le leggono, pigliono piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono, senza pensare altrimenti di imitarle, iudicando la imitazione non solo difficile ma impossibile; come se il cielo, il sole, li elementi, li uomini, fussino variati di moto, di ordine e di potenza da quello che gli erano antiquamente”. In altri termini Machiavelli sostiene che, essendo la natura umana sempre la stessa, e di conseguenza, si direbbe oggi, le regolarità del politico, i problemi da risolvere sono sempre i medesimi e quindi assai simili i rimedi. “Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile, e come ne è piena di esempi ogni istoria, è necessario a chi dispone una repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro qualunque volta ne abbiano libera occasione”.[6] Per cui, chi ordinasse uno Stato presupponendo i cittadini tutti virtuosi, i popoli (e i governi) vicini tutti benevoli, realizzerebbe un pessimo prodotto (peraltro di durata breve).

Ma cos’è oggi quella “immaginazione della cosa” che il Segretario fiorentino addita come la via maestra per ordinare male gli Stati?

L’immaginazione è feconda d’illusioni, e delle più varie; proviamo a ricordarne alcune, le principali.

La prima è quella, direttamente opposta alla concezione delle “regolarità” sopra ricordate (e che Aron chiamava “principio di perennità”) e cioè che si può trovare la formula per cambiare la natura umana o quanto meno correggerla ed eliminare o ridurre l’incidenza di alcune “regolarità”. Ne abbiamo avuto un esempio nel secolo scorso col comunismo, il cui nucleo consisteva nel credere che mutando i rapporti di produzione sarebbe mutata anche la natura umana. Un tipo di sostituzione del politico con l’economico. Abbiamo visto com’è finito. Ma l’aspirazione a sostituire la politica (e il politico) con altro, che s’intravede già in un noto passo biblico del deutero – Isaia, continua – anche se meno rumorosamente, in altre forme, provando con altri tipi di attività umane. Soprattutto col diritto: sono già manifeste aspirazioni di ciò nel testo (ma soprattutto nelle carenze del testo) costituzionale (ad esempio la mancata previsione e disciplina dello stato d’eccezione); ma che comunque sono poca cosa rispetto a quanto circola a livello di opinione pubblica, e in non poche concezioni degli “addetti ai lavori”. Ad esempio tra gli idola tribus il più frequentato è quello che fare politica equivale a legiferare; e che i problemi si risolvono con le leggi. Dimenticando che buona parte dell’attività dello Stato è politica “pura” non riconducibile a norme (e ancor più a un contenuto normativo applicabile). E’ una legge (in senso formale) una dichiarazione di guerra? o l’approvazione di un trattato? O l’applicazione del diritto, che è distinta dalla legiferazione, ma che incide in modo decisivo sul diritto effettivamente osservato?

Una tale aspirazione ha portato, inversamente, a promulgare delle leggi essenzialmente per il loro carattere (e il relativo benefico ritorno) propagandistico; ben sapendo che sarebbero state poco o punto applicate. Anche la dottrina costituzionalista ha risentito di tale illusione che Freund chiama dell’ “imperialismo giuridico”: discute quasi sempre di “norme” e di “principi” (con variazioni sui valori) e assai poco di “organizzazione”, di “poteri” e di “principi (di forma politica)”; sembra peraltro si sia dimenticato che, nella costituzione la cosa più importante è chi la possa abolire, abrogare, sospendere. Cioè il potere costituente. Poco frequentata è anche la sovranità da quando (nella Germania di Weimar) ha cominciato a diffondersi l’idea della costituzione senza Sovrano (che a Machiavelli sarebbe sembrata una boutade).

L’altra fallacia ricorrente e quella della Costituzione per sempre, come le tavole mosaiche (scriveva Miglio con ironia). Nel duplice senso della perennità e dell’immodificabilità. Che è proprio l’inverso della storicità degli ordinamenti (e delle costituzioni) e della necessità di conformarsi alle situazioni concrete. E che oltre che col pensiero di Machiavelli è proprio all’opposto del dato storico. Machiavelli lo ripete spesso, non solo nel passo (sopra citato) dei Discorsi sulla dittatura romana; ed è poi conseguenza logica del principio di corruzione – e dei “cicli politici” – di ogni regime[7]. La corruzione fa si che “se un ordinatore di repubblica ordina in una città uno di quelli tre stati, ve lo ordina per poco tempo, perché nessuno rimedio può farvi a fare che non sdruccioli nel suo contrario”. Per cui dalla monarchia si passa all’aristocrazia e poi alla democrazia: ogni passaggio è preceduto dalla conversione dello Stato nella forma degenere (da monarchia a tirannide e così via)[8]. “E questo è il cerchio nel quale girando tutte le repubbliche si sono governate e si governano: ma rade volte ritornano ne’ governi medesimi, perché quasi nessuna republica può essere di tanta vita che possa passare molte volte per queste mutazioni e rimanere in piede”: perché per lo più viene assoggettata.

Tutte tali forme di governo sono di breve durata: “sarebbe atta una republica a rigirarsi infinito tempo in questi governi. Dico adunque che tutti i detti modi sono pestiferi, per la brevità della vita che è ne’ tre buoni e per la malignità che è ne’ tre rei”. A Roma il tutto fu risolto “sendo in una medesima città il Principato, gli Ottimati e il governo Popolare”. D’altra parte, scrive Machiavelli, “sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde, conviene che le salghino o che le scendino, e a molte cose che la ragione non t’induce, t’induce la necessità; talmente che avendo ordinata una republica atta a mantenersi non ampliando, e la necessità la conducesse ad ampliare, si verrebbe a tor via i fondamenti suoi ed a farla rovinare più tosto”. È la (necessità dell’) esistenza politica (cioè le situazioni concrete) a determinare l’ordinamento costituzionale e non viceversa.

Quindi l’aspirazione – pretesa a costruire un “ordine” valido per sempre è contraria alla concezione di Machiavelli. Il segretario fiorentino, contrariamente a quanto spesso oggi opinato, dava della Costituzione un giudizio storico-oggettivo, mentre oggigiorno prevale uno ideologico-soggettivo. Ossia, secondo il pensatore fiorentino, una costituzione è valida quando consente la durevole conservazione e l’accrescimento dello Stato, e non se è conforme a impostazioni ideologiche e conseguenti norme e/o principi (ancor più se è “bella” o, più spesso, “buona”). La costituzione romana, il “compromesso” costituzionale dei tre principi (monarchico, aristocratico e democratico) è ammirato dal fiorentino perché ha consentito a Roma di espandersi e dominare il mondo mediterraneo per diversi secoli, e ancor più se si considera la successiva costituzione imperiale. Valori, principi, norme-manifesto, disposizioni programmatiche e altro sono estranei al pensiero di Machiavelli (o secondari); d’altra parte non si capisce a che titolo un ordinamento costituzionale costruito con tante buone intenzioni ma durato qualche decennio e magari finito in catastrofe, possa essere apprezzato perché “bello”.

Altro carattere decisivo della costituzione (dell’ordinamento) secondo Machiavelli è che occorre ordinare la comunità, di guisa da coinvolgere e così “integrare”, in particolare nelle repubbliche, quanti più cittadini possibile. Parimenti l’elogio che fa dei tribuni della plebe è perché gli stessi costituiscono una magistratura di mediazione (e quindi d’integrazione) tra patriziato e plebe[9].

Nel “Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze a instanza di Papa Leone” delinea una nuova costituzione per Firenze, che assicuri il potere al Papa Medici. Riteneva che “La cagione perché Firenze ha sempre variato spesso nei suoi governi è stata perché in quella non è stato mai né republica né principato che abbi avute le debite qualità sue; perché non si può chiamar quel principato stabile, dove le cose si fanno secondo che  vuole uno e si deliberano con il consenso di molti: né si può credere quella republica esser per durare, dove non si satisfà a quelli umori a’ quali non si satisfacendo le republiche rovinano” e delinea un nuovo assetto costituzionale che, conservando l’essenza del potere a casa Medici, distribuisse poteri, cariche e competenze dando un ruolo nel governo della città “a tre diverse qualità di uomini che sono in tutte le città; cioè i primi, i mezzani e gli ultimi”; ordinandoli in tre collegi, con differenti poteri e competenze perché “senza satisfare all’universale, non si fece mai alcuna republica stabile”, il tutto mantenendo ai Medici “tanta autorità… quanto ha tutto il popolo di Firenze”.

Distribuendo potere e competenze, il Segretario fiorentino delinea un modello costituzionale fondato sull’integrazione di forze reali, rendendone partecipi gli uomini più in vista delle relative “classi” sociali. Machiavelli integra col (e nel) potere e non (o preferibilmente che) con le norme.

Il che fa del Segretario fiorentino anche uno dei “precursori” del concetto di costituzione materiale[10]; ma è parimenti vero che Machiavelli comprenda lo Stato come realtà vitale e la costituzione “come un ordine vitale, che cerca di realizzare un’immagine determinata di una realtà e di una totalità di vita politiche”[11]. A servirsi della terminologia e dei concetti di Smend la concezione di Machiavelli è, come quella del giurista tedesco, basata sullo Stato come unione di volontà e questa si realizza attraverso l’integrazione “Lo Stato esiste solo perché e in quanto si integra continuamente, si costruisce nei e a partire dai singoli – e in questo processo continuo consiste la sua essenza di realtà sociale spirituale”[12] e come scrive Smend “L’effetto di integrazione esercitato dagli organi può derivare dalla loro esistenza, dal loro processo di formazione e dal loro funzionamento” e prosegue “L’effetto di integrazione degli organi deriva dalla loro esistenza – cioè in prima istanza dall’esistenza di organi politici in senso stretto”[13].

Peraltro diversamente da molti costituzionalisti contemporanei i quali pensano che la costituzione sia il testo scritto e solo quello, il pensiero di Machiavelli presuppone quello che sarà secoli dopo enunciato apertis verbis da De Maistre, che nella costituzione “ciò che è più fondamentale ed essenzialmente costituzionale non potrebbe (ne saurait) esserci scritto”[14]. In particolare il precetto fondamentale salus rei publicae suprema lex (con la conseguente necessità e legittimazione delle “rotture” della legalità anche costituzionale) non è scritto in nessuna delle costituzioni: ciò non toglie che, almeno finché una sintesi politica voglia esistere, lo si debba osservare. Santi Romano perciò riteneva la necessità fonte di diritto, superiore alla legge[15]: anche in questo si manifesta la “discendenza” da Machiavelli, che proprio dalla necessità, legittima “rotture” e deroghe al diritto, alla costituzione, alla religione. A proposito della quale, è noto, oltre alla concezione di questa come strumento della politica, ma soprattutto come la consideri il fondamento della città ben ordinata: “dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini o che sia sostenuto dal timore d’uno principe che sopperisca ai di ferri della religione nel disinteresse rispetto al rapporto tra religione (teologia) e politica, è emerso anche qualche curioso tentativo che vorrebbe fondarne un surrogato prescindendo da “sacro” e da “Dio”, e sostituendoli con un misto di morale privata e imperativi categorici. Una concezione strabica verso il privato e, proprio perciò inadatta a fondare (e mantenere) una società pubblica[16].

  1. Quanto sopra ricordato è solo parte di ciò che di costituzionalistico si può ricavare dagli scritti di Machiavelli.

Le idee generali che li caratterizzano sono quelle del realismo (giuridico) il quale individua nella realtà – e nelle leggi, anche sociali – un dato non modificabile dell’uomo; e nell’esistenza della comunità e dell’istituzione  lo scopo (finale), che relativizza norme, principi, valori, interessi particolari. Secondariamente della coerenza e congruità (anche interna) dell’istituzione: non si può costituire una forma politica durevole che non abbia coerenza e congruità sia nella forma che rispetto alla “materia” cioè alla situazione concreta, sociologica e geopolitica in primo luogo (senza qui considerare altro).

Il che è connesso al carattere “tecnico” del pensiero di Machiavelli. Carl Schmitt scrive al riguardo che il “nocciolo vero” del pensiero di Machiavelli è di essere “dominato da un interesse prevalentemente tecnico”; tale aspetto non è limitato ad attività e risultati più strettamente politici (guerre, alleanze, trattati), ma anche all’ordinamento del potere[17]. Questa “tecnicità” fa si che passino in secondo piano sia “principi” che valori e norme[18]. È la situazione concreta a determinare quale sia la forma di governo più adatta[19] a una sintesi politica in un determinato momento storico. D’altra parte il criterio di validità di una forma politica è dato – come sopra scritto – della durata e dai risultati e non dalla corrispondenza a  norme, valori e principi. Anche questa concezione condivisa nei secoli successivi da tanti[20].

D’altra parte la razionalità del pensiero del Segretario fiorentino, e l’illusorietà di quello di taluni contemporanei è provato da una constatazione: che una costituzione “bellissima” colma di enunciazioni accattivanti di principi e valori condivisi ma inadatta all’azione e all’esistenza politica non serve neppure a conservare quei principi e quei valori che vi sono proclamati (e spesso branditi contro gli avversari politici). Più prima che poi guerre, rivoluzioni, o quelle forme di ostilità “parabelliche” (come gli attacchi della finanza internazionale) costringeranno a eliminarla o riformarla (o a perdere la sintesi politica). Ma se la costituzione è congrua, anche la protezione di quelli è (meglio) assicurata. Bonald sosteneva che la costituzione è il modo di esistenza di un popolo, a conservare il quale (e con esso i relativi rapporti, valori, leggi fondamentali) serve.

L’esistente prevale sul normativo (senza il primo viene meno il secondo: ma non è vero l’inverso): è questa la lezione che Machiavelli (e il realismo) ci da ancora oggi. A non capirlo o a volerlo non capire, anche nell’organizzare le istituzioni si trova “più presto la  ruina che la perservazione sua”.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Area, maggio 2013

[2] A chiarimento del carattere “problematico” e  “pessimistico relativo” della natura umana, l’uso di queste espressioni è finalizzato a distinguere le concezioni pessimistiche spesso identificate in due pensatori come S. Agostino e S. Tommaso. Più pessimista il primo, meno il secondo, come noto (e dibattuto). L’ascrizione di Machiavelli al pessimismo antropologico “relativo” (o moderato o “tomista”) è, a mio avviso, determinata sia dal richiamo costante (e pieno) al libero arbitrio, (alla virtù che contiene la fortuna) e alla necessaria prudenza che ne consegue che alla non adesione all’autoritarismo conseguente logicamente dal pessimismo agostiniano; così ben testimoniato da Lutero e da Calvino (ma anche da Bossuet) con la dottrina cioè del “diritto divino soprannaturale”, per cui al cristiano non è consentito opporsi (resistere) all’autorità costituita.

[3] Si può desumere anche un altro senso di quella frase, che considera legge, forza e modi di combattere: che ambedue sono finalizzati a creare l’ordine, a creare, mantenere, aumentare il potere (comando/obbedienza) ma il tutto esula dai limiti di questo scritto.

[4] Ma ne tratta anche nel Principe in altri capitoli, nonché in tante opere anche “occasionali”, come i discorsi per l’ordinamento della milizia  fiorentina.

[5] V. Discorso dell’ordinare lo Stato di Firenze alle armi.

[6] Discorsi I, III (i corsivi sono nostri).

[7] v. R. Aron, trad. it. in Machiavellie le tirannie moderne, Roma 1998, p. 104.

[8] v. Discorsi, 1, II.

[9] v. Discorsi 1, III.

[10] Il quale, come noto si deve – nell’epoca moderna – a Lassalle “Gli effettivi rapporti di potere che sussistono in ogni società sono quella forza effettivamente in vigore che determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società, cosicché queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come sono” v. trad. it. di C. Forte in Behemoth n. 20 p. 6 (da qui l’esigenza di coordinare, organizzare detti rapporti) e a Costantino Mortati che ne coniò il termine “Rimanendo nell’ordine di idee per ultimo esposte di una raffigurazione della costituzione che colleghi strettamente in sé la società e lo stato, è da ribadire quanto si è detto sull’esigenza che la prima sia intesa come entità già in sé dotata di una propria struttura, in quanto ordinata secondo un particolare assetto in cui confluiscano, accanto ad un sistema di rapporti economici, fattori vari di rafforzamento, di indole culturale, religioso ecc., che trova espressione in una particolare visione politica, cioè in un certo modo d’intendere e di avvertire il bene comune e risulti sostenuta da un insieme di forze collettive che siano portatrici della visione stessa e riescano a farla prevalere dando vita a rapporti di sopra e sotto-ordinazione, cioè ad un vero assetto fondamentale” v. Istituzioni di diritto pubblico, Padova 1975 Vol. I° p. 30.

[11] v. Rudolf Smend ora in Costituzione e diritto costituzionale (raccolta di scritti) trad. it. Milano 1988, p. 287.

[12] Op. cit., p. 76.

[13] Op. cit., p. 162.

[14] Des Constitutions politiques, I.

[15] V. “ Talvolta le leggi scritte accordano, in casi di necessità, al potere esecutivo la facoltà di emanare decreti o ordinanze … Ma anche quando tali leggi scritte mancano, o sono inadeguate alla situazione che si è formata, e persino quando espressamente vietano che si faccia uso di poteri eccezionali e straordinari questi potranno essere assunti ed esercitati in forza della necessità. Come la consuetudine, anzi a maggior ragione, data la sua maggiore energia la necessità è fonte autonoma del diritto, superiore alla legge. Essa può implicare la materiale e assoluta impossibilità di applicare, in certe condizioni, le leggi vigenti e, in questo senso, può dirsi che «necessitas non hablet legem». Può anche implicare l’imprescindibile esigenza di agire secondo nuove norme da essa determinate e, in questo senso, come dice un altro comune aforisma, la necessità fa legge. In ogni caso, «salus rei publicae suprema lex» v. Diritto costituzionale generale, Milano 1947 p. 92 (il corsivo non virgolettato è nostro).

[16] Discorsi I, 11.

[17]L’organizzazione politica del potere e la tecnica per conservarlo ed estenderlo differiscono a seconda delle forme statuali, rimangono però sempre qualcosa che può essere prodotto con tecniche pratiche, così come l’artista produce, secondo la concezione razionalistica, l’opera d’arte. Con il variare delle condizioni concrete – posizione geografica, carattere del popolo, concezioni religiose, struttura dei gruppi sociali dominanti, tradizioni – varia anche il metodo e si costruiscono strutture diverse” in “Die Diktatur” trad. it. di A. Caracciolo, Roma 2006, p. 29 (il corsivo è nostro).

[18] “Il Principe dal canto suo non pretende fornire giustificazioni morali o giuridiche, ma semplicemente suggerire la tecnica razionale dell’assolutismo politico” op. cit., p. 30.

[19] “Supponiamo per esempio di avere degli uomini dotati della virtù, che è il principio indispensabile per la costruzione di un ordinamento sociale repubblicano: in questo caso la monarchia non sarebbe neppure tollerata. Il tipo di energia politica che si esterna nella virtù è incompatibile con forme di governo assolutistiche, ma ammette unicamente un regime repubblicano. Il materiale umano con il quale ha da fare i conti il procedimento tecnico dev’essere dunque  diverso a seconda che ci si prefigga di stabilire un principato assoluto o una repubblica; diversamente non si conseguirebbe il risultato voluto” op. cit. p. 30.

[20] Tra cui citiamo Louis de Bonald il quale scrisse, in polemica con un libro di M.me de Staël che “La costituzione di un popolo è il modo della sua esistenza; e chiedersi se un popolo con quattordici secoli di storia, un popolo che esiste, ha una costituzione, è come interrogarsi, quando esiste, se ha il necessario per esistere; è come chiedere ad un arzillo ottuagenario se è costituito per vivere… La nazione era costituita, e così ben costituita, che essa non ha mai chiesto a nessuna nazione vicina la protezione della sua costituzione… proprio perché la Francia aveva una costituzione ed una costituzione solida, si è ingrandita un re dopo l’altro, anche quando questi erano dei deboli, sempre invidiata mai scalfita; spesso turbata mai piegata; uscendo vittoriosa dai rovesci più imprevedibili con i mezzi più insospettati, e non potendo perdersi che per una mancanza di fiducia nella propria fortuna” ed aggiunge “Una costituzione completa e ben congegnata non è quella che si arresta davanti ad ogni difficoltà, che le passioni umane e la varietà degli eventi possono far nascere, ma quella che prevede il mezzo di risolverli quando questi si presentano: come il fisico robusto non è quello che impedisce e previene le malattie, ma quello che da la forza di resistervi, e di ripararne prontamente i danni” v. Louis de Bonald Observation ur l’ouvrage de M.me la Baronne de Stael, trad. it. di Teodoro Katte Klitsche de la Grange, La Costituzione come esistenza, Roma 1985, pp. 35-36.

LA DECADENZA ITALIANA, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA DECADENZA ITALIANA(*)

  1. La decadenza non è tra i temi più frequentati dalle elites politiche e culturali italiane. In un contesto culturale propenso a credere che l’economia sia il destino e che fatti e processi storici siano da valutare preferibilmente sotto l’aspetto numerico-quantitativo, dovrebbe suscitare stupore che il dato della decrescita del PIL italiano (del sette per cento dal 2008 ad oggi) non abbia suscitato quasi nessuna discussione; questo in un paese che ama parlare diffusamente e pubblicamente anche di fatti minimi e irrilevanti.

L’unica spiegazione che si può dare – oltre a quella che parlarne porterebbe alla ricerca dei responsabili (se ve ne sono), prospettiva pericolosa per chi esercita il potere – è che la decadenza è, per sua natura, opposta all’idea di progresso, e in particolare a quell’idea di progresso nota e assai coltivata negli ultimi due secoli (anche se in modi diversi), per cui il progresso è “legge” della storia, (e ancor più una forma di legittimazione per chi se ne proclama fautore); e l’umanità in ogni epoca si trova progredita rispetto all’epoca antecedente, e questo processo non avrà mai termine. Solo che i fatti cui far riferimento sono diversi e decisivo, per capire l’andamento, è la collocazione temporale di riferimento. Se si paragona la situazione dell’uomo moderno con quella dell’uomo del neolitico, il progresso è chiaro: in 8-10 millenni è enormemente aumentato il benessere, la durata della vita, le chances di vita. Ma se il periodo di riferimento è diverso, ad esempio tra gli ultimi secoli dell’Impero romano  d’occidente e l’epoca carolingia(circa cinque o sei secoli) parlare di progresso tra l’una e l’altra epoca appare bizzarro. Un servo della gleba carolingio avrebbe considerato con invidia l’antenato, colono di un latifondista: malgrado le vessazioni e le fiscalità della burocrazia del dominato, godeva di edifici pubblici e privati meglio costruiti; di ponti e strade mantenuti, poteva viaggiare anche per mare senza temere pirati e saraceni, e aveva una durata della vita di circa quindici anni più lunga (che è l’indice principale di benessere). Parlargli quindi di progresso – nel senso suddetto – sarebbe sembrata una boutade di cattivo gusto.

La diversità tra il punto d’osservazione e l’osservato ha prodotto pertanto una serie di concezioni dell’ “andamento” della storia, che possono così sintetizzarsi.

L’umanità è in progresso: è quella prima sintetizzata. Nello spazio cartesiano se l’ascissa indica il tempo e l’ordinata la “felicità”, è rappresentata da una retta che cresce verso l’alto.

L’umanità regredisce: è la tesi del pensiero più antico per cui l’umanità ha conosciuto all’inizio della storia l’era più felice (l’età dell’oro, il paradiso terrestre, e così via) ed è andata peggiorando: è, una retta che procede verso il basso.

La storia (le vicende umane) si ripete, in cicli più o meno uguali: concezione cara a gran parte del pensiero antico, meno del moderno: nello spazio cartesiano è una sinusoide con andamento medio  – grossolanamente – parallelo all’asse delle ordinate.

  1. Tale ultima ipotesi (in varie versioni) è stata la più frequentata e condivisa: dagli stoici a Nietzsche passando per Vico. Ha dalla sua un argomento forte: quello della costanza (la regolarità) della natura umana, al di là delle varie vicende storiche. Nella sua applicazione “politica”, cioè prendendo in esame le vicende politico-istituzionali, inizia con Polibio di Megalopoli, il quale tuttavia ricorda di non essere il primo: “Forse con maggiore diligenza da Platone e da alcuni altri filosofi fu trattata la teoria della naturale trasformazione delle varie forme di governo”[1]. Secondo lo storico greco ogni forma politica conosce fasi di progresso e di decadenza, al termine della quale si trasforma in altra. E passando all’esposizione della successione delle forme di governo scrive che prima è la monarchia; ma quando al primo re (“intronizzato” da una crisi – à la Girard) succedono altri, con i privilegi dei re, ma senza le sue qualità e la necessità che lo aveva favorito, “a causa dei soprusi si accesero odio ed ostilità: il regno si mutò in tirannide. Cominciò la rovina di quella forma di governo, si tramarono insidie contro i re”. Coloro che guidano la rivolta costituiscono l’elite del nuovo regime; ovvero l’aristocrazia[2]; ma succedendo loro i figli “ fanno sorgere di nuovo nel popolo uno stato d’animo simile a quello di cui abbiamo prima parlato, e perciò tocca anche a loro una caduta finale simile a quella toccata ai tiranni”. Quindi, altro rivolgimento e istituzione di un regime democratico; al quale, una volta degenerato, succede un nuovo regime monarchico. E il cerchio si chiude.

Machiavelli, nei Discorsi (Lib. I, cap. 2) riprende la concezione di Polibio delle tre forme di governo che degenerano e succedono l’una all’altra “Alcuni altri e, secondo la opinione di molti, più savi, hanno opinione che siano di sei ragioni governi: delle quali tre ne siano pessimi; tre altri siano buoni in loro medesimi, ma sì facili a corrompersi che vengono ancora essi a essere perniciosi” e data la facilità delle forme “buone” a convertirsi nelle “perniziose” “se uno ordinatore di republica  ordina in una città uno di quelli tre stati, ve lo ordina per poco tempo, perché nessuno rimedio può farvi a fare che non sdruccioli nel suo contrario”. E succedendo le forme di governo l’una all’altra Machiavelli conferma che “E questo è il cerchio nel quale girando tutte le republiche si sono governate e si governano: ma rade volte ritornano né governi medesimi, perché quasi nessuna republica  può essere di tanta vita che possa passare molte volte per queste mutazioni e rimanere in piede[3]”.

Tale concezione dell’avvicendamento ciclico delle forme di governo, e della loro decadenza, ritorna, tra gli altri, in Mosca e Pareto. Il primo scrive che questa s’accompagna alla “mancanza di energia nelle classi superiori, che divengono deficienti di caratteri arditi e pugnaci e ricche di individui molli e passivi… quando la classe dirigente è degenerata nel modo che abbiamo accennato, perde l’attitudine a provvedere ai casi suoi ed a quelli della società, che ha la disgrazia di essere da essa guidata”[4].

Il secondo vi ritorna più volte, enumerando (come fa anche Mosca) i sintomi della decadenza: attenuazione della mobilità sociale (“cristallizzazione”) soprattutto chiusura della classe dirigente; uso da parte di questa dell’astuzia più che della forza; la classe governante tende a diventare “un ceto d’impiegati, colla ristrettezza di mente che è propria di tal gente”[5], aumentano, nella classe dirigente, i residui della classe II e scemano quelli della classe I. Quando, nell’impero romano d’Occidente, i barbari lo fanno cadere, invertono le tendenze ricordate[6]. E comincia un nuovo ciclo (o nuova era).

Per Pareto, com’è noto, la regola dei fenomeni sociali è l’andamento ritmico-ondulatorio, per cui ad un periodo ascendente  segue immancabilmente uno discendente, e inversamente[7]. Le “onde” cambiano secondo la durata del fenomeno, e vi sono “vari generi di queste oscillazioni, secondo il tempo in cui si compiono. Questo tempo può essere brevissimo, breve, lungo, lunghissimo”[8]. Scrive Pareto: “Si può dire che in ogni tempo gli uomini hanno avuto qualche idea della forma ritmica, periodica, oscillatoria, ondulata, dei fenomeni  naturali compresi i fenomeni sociali”[9]; nota peraltro che mentre nel passato  prevaleva la convinzione del carattere ciclico, ora prevale quella favorevole all’idea di progresso della società, di un benessere crescente[10].

Tuttavia, rispetto al pensiero classico, in quello degli “elitisti” italiani a decadere non sono (tanto) le forme politiche, quanto le classi dirigenti. Ad essere più precisi è la decadenza di queste a determinare – per lo più – la sorte delle prime: l’insistenza con cui Mosca e Pareto sottolineano l’importanza delle qualità intellettuali e di carattere (in specie il coraggio) delle elite  sia nella fase ascendente che nella discendente, lo dimostra.

Il che non comporta – anche se spesso accade – che una classe dirigente coincida con una determinata organizzazione del potere, né che le due vicende siano sempre sovrapponibili[11].

Peraltro a decadere può essere anche la società civile, e a determinare così quella dell’istituzione politica, almeno a co-determinarla. Tra le cause della decadenza (e poi del crollo) dell’Impero romano d’occidente gli storici hanno indicato più fattori che con le degenerazioni istituzionali e con quelli “politici” avevano poco a che fare: a partire da mutamenti del sentire religioso-spirituale, ovvero il trionfo del cristianesimo sul paganesimo, la caduta del “senso civico” e dei valori tradizionali;  per arrivare a fattori di carattere “materiale” come il calo demografico e la decadenza economica.

  1. Il carattere ciclico non è limitato, ovviamente, ai regimi o alle “forme” politiche. Accanto a questo c’è altro. Quello del chi decade è un altro problema. Essendo ogni comunità umana un aggregato di esseri viventi, e quindi mortali, le sintesi sociali da questi costruite sono soggette allo stesso ciclo: infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia.

Spengler e Toynbec considerano specificamente  l’aspetto della decadenza delle civiltà anche in funzione (di filosofia della storia) anti-eurocentrica. Per cui è la civiltà occidentale (o faustiana o anche del cristianesimo occidentale) oggi a decadere. Della quale è parte, e non poca, l’Italia.

Altri, tra cui occorre ricordare Ernst Nolte, (ma l’elenco di quanti sostengono tale constatazione è assai esteso), ritengono che ad essere nella fase discendente  è l’Europa, detronizzata dalle due guerre mondiali – e successive guerre coloniali – dalla funzione di “guida” del mondo[12].

Anche al processo di decadenza europeo non è estranea – per motivi sia storici che geografici – l’Italia.

Però a decadere può essere anche – e principalmente –  a seguire i pensatori sopra citati – tra i tanti – anche una comunità e, più precisamente, la sua forma politica e classe dirigente.

E qua, di converso, l’Italia si trova da sola – almeno nel contesto sia geografico che di civiltà. É a tale specifica “classe” di decadenza che occorre dedicarsi.

  1. In Italia non piace parlare di decadenza sia perché falsifica – o almeno relativizza – l’idea di progresso, sia perché sminuisce il consenso alle elites al governo.

Queste, come tutte le classi dirigenti, necessitano di “miti” (derivazioni, idee – forza, tavole di valori e così via), atte a legittimarle. Le quali come tutte le cose ed opere umane (comprese le istituzioni) hanno una nascita ed una morte. Al contrario ciò che si vuole di durata eterna – o almeno lunghissima, con termine in saecula saeculorum, – non ha nascita né morte (o, quanto meno, sono ignote ambedue o una delle due)[13].

Parlare di decadenza, di idee e realizzazioni obsolete o anche solo rapportate ad una determinata situazione storica e non aventi validità al di fuori di quella, ormai esaurita – e ancor più se la si pretende eterne ed universali – ha lo stesso senso (e gradimento) di un coro che faccia le prove del requiem per il proprio direttore.

Ciò non toglie che la decadenza vi sia; ed alcuni dati ce la confermano, e servono a chiarirne – per somme linee – la natura. Occorre ricordare che nel 1945 si apriva un nuovo ciclo, dopo una guerra persa e l’occupazione militare, con l’intronizzazione, da parte dei vincitori, di una nuova classe politica, che provvedeva, come da dichiarazione di Yalta, a dare all’Italia una nuova costituzione (peraltro la volontà costituente era anche nella volontà del popolo italiano – v. nota 15, a1); per circa trent’anni durava la fase ascendente; seguita – dopo qualche anno – da quella discendente.

Questa – anche se non esclusivamente – è prevalentemente  decadimento di istituzioni e attività pubbliche (e del relativo personale dirigente). Un dato tra i tanti disponibili, lo sintetizza il PIL italiano è, secondo i dati – il 6° nel mondo – il reddito pro-capite il 14°; mentre il Primo presidente della Corte di Cassazione (quindi non Berlusconi o Dell’Utri) anni fa disse che il funzionamento della giustizia civile italiana la collocava al 156° posto tra gli Stati (che sono, sul pianeta, 181)[14].

Ciò stante è evidente che la decadenza – o meglio questo fattore principale della decadenza italiana ossia del “pubblico” – s’iscrive precisamente nel modello “classico” del ciclo delle istituzioni e dei regimi politici pensato più in relazione a questo che alla comunità cui davano forma. Comunità che continuavano ad esistere (in suo esse perseverare), anche cambiando regime, istituzioni ed elites dirigente, il ciclo delle quali non coincide con quello dell’esistenza comunitaria.

La decadenza delle istituzioni è quindi il fattore principale – anche se non esclusivo – della decadenza italiana, che appare chiaro dal precedente peggioramento delle attività e funzioni pubbliche rispetto a quello delle private (in primis i sette punti di PIL persi negli ultimi cinque anni): gli indici di decadenza pubblica erano già preoccupanti quando quelli non pubblici andavano discretamente: la fase discendente degli apparati istituzionali ha preceduto – di almeno vent’anni – quella delle attività private. Il che non vuol dire che quella è necessariamente ed esclusivamente causa di questa; ma che lo è  in misura rilevante.

E che da almeno trent’anni s’intravedessero dei robusti indici “politologici” di decadenza, a partire da quello della divaricazione tra governati e governanti e di calo del consenso di questi è un dato evidente[15]. Dall’inizio poi degli anni ’90 ancora di più, perché il crollo del comunismo e la “fine” dell’ordine di Yalta hanno concluso il periodo storico in cui le élites attualmente dirigenti hanno conseguito e mantenuto il potere.

Il tutto con evidenti e vistosi effetti sulla legittimazione e sulla reale capacità d’integrazione dell’ordinamento (v. nota precedente). Nella dottrina politica più antica la crisi (cioè il passaggio da un regime ad un altro e da una fase discendente  ad una ascendente)[16], era denotata dalla circostanza eccezionale (nel senso schmittiano o anche à la Girard) e dalla consunzione della vecchia classe dirigente (v. per tutti Polibio e Machiavelli). A partire dalla rivoluzione francese l’accento è stato posto sulla legittimità (e sul venir meno di questa). In realtà i due criteri non si elidono, né sono in opposizione; anzi la categoria (moderna) della legittimità può includere la consunzione, attribuita prevalentemente dai più antichi all’aumento del “divario” tra merito e consenso (ambedue decrescenti) della classe dirigente, col conseguente venir meno della “riverenzia” (scrive Machiavelli) dei governati.

D’ altra parte anche il diritto mostra i segni di decadenza. L’applicazione del quale è lenta, spesso occasionale e ormai assoggettata a crescenti difficoltà ed impedimenti  dissuasivi. A leggere le pagine di Jhering nel  “Kampf’ un’s recht” su come fosse frustrata l’attuazione del diritto sia nel tardo diritto romano e in quello – a lui contemporaneo – dell’età bismarckiana, si ricava l’impressione di quanto la situazione odierna sia ulteriormente peggiorata (e per scopi ancor meno encomiabili)[17] .

Non risulta esservi una trattazione esauriente su come si manifesti la decadenza di un ordinamento giuridico. La difficoltà principale è nel delimitarla da quella politica, da cui manifesta una larga dipendenza. Tuttavia presupposto fondamentale del “giuridico” è la distinzione tra ciò che è permesso e ciò che è vietato (diritto-torto)[18]; distinzione che, per essere tale, dev’essere, almeno in (larga) misura, osservata. Ma se, di converso, sviluppando quanto scriveva Tocqueville sulla legislazione dell’ancien régime (decadente, proprio perché pre-rivoluzionaria) la distinzione è tale in astratto e nei testi giuridici, ma non è osservata concretamente (e cioè come scriveva il pensatore normanno, connotata da norme rigide e da pratiche fiacche) o lo è poco, quel sistema giuridico appare decadente, (come, appunto, l’ancien régime). Che questo sia il caso dell’Italia lo dimostrano tanti indici[19]. Non è il numero delle regole o l’asprezza delle sanzioni a connotare un diritto concretamente vigente, ma che il comando del legislatore (la legge) sia tendenzialmente confortato dall’obbedienza dei cittadini (e dei collaboratori del potere) e quindi applicato realmente. Ove ciò non avvenga – o capiti poco –  significa che si è aperto uno iato tra chi ha il diritto di comandare e chi ha il dovere di obbedire. Fatto essenzialmente politico, ma che si riflette sull’ordinamento giuridico, caratterizzandone la decadenza. Come scriveva Max Weber la potenza è la possibilità di far valere con successo i comandi; il calare – o il venir meno – di questa è il (principale) sintomo della decadenza (e poi del crollo) di un regime e del suo sistema giuridico.

5.Una particolare – anche se succinta- attenzione è da dedicare a quelle teorie italiane apparentemente vicine all’idea di progresso, specificamente rivolte a considerare l’assetto costituzionale del 1948 come il migliore possibile.

Scriviamo apparentemente vicine perché, intrinseca alle varie concezioni del progresso umano è che la società è sempre perfettibile e migliorabile, e non c’è quindi un compimento, un punto finale dello stesso (progresso). In altre parole è loro connaturale l’idea del cambiamento; e in questo, nella concezione dinamica dell’ordine sociale, non si differenziano da altre, anche opposte, teorie.. Mentre a quelle italiane è connaturale una staticità socio-politica per cui l’ordine è quello e non dev’essere cambiato (il che presuppone che sia possibile non cambiarlo). Più che a teorie del progresso somigliano a quelle sulla “fine della storia”, connotate da un evidente utopismo (più manifesto lì, meno in queste).

Ma chi sostiene ciò non si accorge che c’è altrettanta possibilità di  fermare il cambiamento (talvolta lo si può rallentare) che di violare qualsiasi altra legge o  “regolarità” (anche solo) dell’agire sociale (v. su questo ciò che ne pensava Pareto, in nota 10). A proposito di Pareto, probabilmente avrebbe ricondotto tali concezioni a derivazioni (prevalentemente) della classe III, in particolare a quelle argomentate su entità giuridiche o metafisiche.

Altra cosa che lascia stupiti è come manchi a queste teorie alcun confronto con i dati storici e con le concezioni contrarie, condivise dalla melior pars del pensiero occidentale.

Non è dato che si ricordi una società in ordine statico, cioè rimasta, almeno per qualche secolo sostanzialmente immutata: e in effetti lo stesso Impero romano d’occidente, che ebbe la (ragguardevole) durata di circa cinque secoli, passò attraverso tanti cambiamenti politici; in particolare è distinzione universale quella (considerata principale) tra “principato” e “dominato”[20].

Del pari non è affatto considerato che una simile concezione è in contrasto con quelle di pensatori citati (da Platone a Pareto) e sarebbe il caso di confrontarvisi e di capire perché quanto ritenuto da quelli irreale, diventa possibile, oltre che preferibile. E se non vi siano, nell’ordine comunitario, parti tendenzialmente più stabili ed altre più soggette alle inondazioni, scriverebbe Machiavelli, della fortuna[21].  Le quali fanno in genere parte dell’ordinamento  del potere ossia della forma di governo.

 

  1. Diversamente dalle crisi di civiltà descritte da Spengler e Toynbee, l’alternarsi di fasi ascendenti e discendenti dei cicli politici non comporta distruzioni (o rinnovamenti) epocali: non è la caduta dell’impero romano d’occidente o delle civiltà precolombiane, ma solo il rinnovarsi dell’ordine politico. Indubbiamente una crisi, ma in un certo senso “normale” (perché rientrante nell’ordine naturale delle opere e vicende umane). Il pensiero “orientato all’eccezione” moderno, quello giuridico in particolare (da Schmitt ad Hauriou, da Jhering a Santi Romano)[22] non vi vede alcuna “novità”: è la normalità del movimento della storia che comporta il cambiamento (anche) delle istituzioni. Nel pensiero politico realista, soprattutto in Mosca e Pareto, la sostituzione di èlite e regimi consunti, fiacchi e decadenti con elite nuove e vigorose, per lo più produce benefici, anche sociali, rilevanti.

Il cambiamento quindi non è demonizzato; da un canto è considerato come un dato, dall’altro per lo più positivo, almeno nel lungo periodo. E sicuramente appare frutto di visione miope pensare che una situazione, un equilibrio o un regime politico possa essere “cristallizzato” non solo in eterno, ma anche nel breve-medio periodo. Le istituzioni (e le comunità) umane, scriveva Hauriou, sono sempre in movimento e l’ordine che presentano è quello di “un esercito che marcia”; e non, si può aggiungere, quello di un organigramma o di un trattato di geometria. Dietro e dopo la decadenza di un’istituzione si vede un nuovo ordine che è generato; e siccome l’accadere dell’una e dell’altro è regolarità storica, occorre tenerne debito conto.

E per farlo e per non sprecare le occasioni che un rinnovamento dell’ordine politico – in primis quale nuova fase ascendente – offre, vi sono cose da  evitare.

In primo luogo negare che esista la decadenza o sottovalutarla o anche – come capita – attivare la disinformazione nella forma preferita di non discuterne. È proprio quello che si pratica oggi in Italia dove si tenta di esorcizzare la decadenza con formule magiche tratte dall’armamentario verbale del progresso “senza se e senza ma”. Delle quali la storia non si preoccupa, come i terremoti degli autodafè.

La seconda cosa da non praticare è tentare di tirare la storia – sempre lei – per la giacchetta. Come? Paretianamente facendo leva sulle derivazioni e sul  tentativo di ri-legittimazione di classi dirigenti e di regimi esausti.

L’argomento all’uopo più impiegato è esaltare la bontà/bellezza/santità delle (asserite) idee delle elite discendenti. Occorrendo contrapponendole alla cattiveria/bruttezza/peccaminosità di quelle dei loro avversari. Ma il limite dell’ (adusata) operazione è che, specie in tempi di crisi e ancor più se le fasi discendenti si prolungano, i governati sono più attenti ai risultati che alle intenzioni dei governanti, alle (di essi) opere più che alle idee. Per cui, certi discorsi si svelano in breve per quel che sono: espedienti per occultare pratiche (e risultati) di segno contrario. Qualche volta (ma è cosa assai rara) prediche di profeti disarmati[23].

Il presupposto su cui si basa quest’armamentario di giustificazioni è che sia possibile cristallizzare una comunità umana, fermare o anche rallentare per lungo tempo il movimento della storia e delle istituzioni. Come prima cennato, all’inverso, Hauriou vede l’ordine sociale come movimento lento e uniforme, che richiede necessariamente adattamenti e innovazioni[24].

E questa consapevolezza appartiene al giurista francese come a tanti altri, tra cui quelli sopra citati, ai quali c’è da aggiungere (tra i molti) Smend e la sua teoria dell’integrazione che Schmitt riteneva uno dei significati del concetto (assoluto) di costituzione e cioè “il principio del divenire dinamico dell’unità politica”.

Che un ordine sociale possa “cristallizzarsi” è contrario non solo a quella dottrina del diritto ma a gran parte del pensiero filosofico, a cominciare dal panta rei di Eraclito.[25] Oltre che, ciò che più conta, ad un’osservazione, anche non particolarmente profonda, dei mutamenti storici.

In definitiva la concezione criticata trascura che nei fatti sociali vi sono – come in tutti i fatti – sia regolarità (che non si possono cambiare) che variabili (che è nella possibilità della comunità umana innovare): cosa ben nota anche nel pensiero teologico-politico[26]; e ancor più in quello filosofico, politico e giuridico.

  1. Prima di concludere occorre fare due postille. La prima: è da rifiutare la concezione economicista – e quindi, anche marxiana – che le “cause” delle decadenze (e anche delle ascendenze) siano economiche. Indubbiamente l’economia ha la sua parte, ma concorrente, non determinante o almeno (quasi mai) determinante.

Piuttosto è preferibile la tesi weberiana (e non solo) che sia la cultura e in particolare la religione a muovere le file: sia delle fasi di decadenza che di ascendenza.

In tal senso, ancora una volta in questa giornata, è il caso di ricordare cosa ne pensava Hauriou.

Secondo il quale esistono nelle istituzioni fattori di decadenza e dell’inverso, di fondazione: “come fattori di crisi il denaro e lo spirito critico; come fattori di trasformazione (cioè di crisi, ma anche di rifondazione comunitaria e istituzionale) la migrazione dei popoli e il rinnovamento religioso”. Alcune di tali spiegazioni sono note: è almeno dal pensiero antico che è stata rilevata (e da sempre ripetuta) la capacità del denaro e dello spirito economicista di corrodere le istituzioni. Ma è meno ripetuto quanto avverti il giurista francese: che alla fine lo spirito economicista finisce per distruggere perfino le proprie creature (come la speculazione finanziaria fa con l’economia reale – è cronaca di questi anni).

Lo spirito critico (oggi si direbbe relativismo): anche qui, come nelle notazioni sul carattere fondante (le istituzioni) tipico della religione, Hauriou anticipa considerazioni  che avrebbe fatto (anche) Arnold Gehlen. Ma soprattutto demistifica  anticipatamente, e a ben vedere, in una linea di pensiero che va da Vico ai pensatori controrivoluzionari come Maistre e Bonald, l’idea che lo spirito critico possa legittimare autorità e istituzioni. Non foss’altro perché, come scriveva Vico, queste esistono per dare certezze e non verità.

Come fattori di rigenerazione indicava la migrazione dei popoli e il rinnovamento dello spirito religioso.

Argomento su cui ritornò più volte[27]: considerava la teologia il fond di ogni assetto politico che nei governements de fait (quelli generati dalle crisi) tiene unita le comunità anche nel dissolversi delle istituzioni e da modo di ricostruirne delle nuove.

La crisi attuale è connotata proprio dal “disordine” economico-finanziario, che ha, come scriveva il giurista francese un secolo fa, inceppato la stessa macchina capitalista (cioè, in un certo senso, se stesso)[28]; e dallo spirito critico (prevalentemente chiamato “relativismo”)[29], che corrode i “fattori di coesione”, cioè quelli – principale quello religioso – unificanti. Anche in questo non è difficile notare la stretta affinità tra il giudizio del giurista francese e la situazione concreta, anche se spesso – incoerentemente – contorta nelle contraddizioni del di chi vorrebbe giustificarla. Basti ricordare la bizzarria di una “Costituzione” europea (che non è costituzione), ma era spacciata come tale, che è stata privata del riferimento alle “radici giudaico-cristiane” rifiutandone così esplicitamente i caratteri unificanti (oltre che dimenticando più di un millennio di storia): in vista di un qualcosa (un “melting pot” tra culture) e che non si sa come e se avverrà e soprattutto se potrà unificare veramente popoli diversi.

Teodoro Klitsche de la Grange

(relazione tenuta il 21/02/2014 al convegno del Movimento “Per una Nuova

oggettività” su la “Decadenza”, all’ “Universale” in Roma)

(*) Questo lavoro è la rielaborazione di una relazione ad un Convegno già pubblicata su “Politicamente”, “Civium Libertas” e, in forma ridotta, sul “Borghese”.

[1] E, in effetti, Platone scrive “E’ difficile scuotere uno stato così conformato; ma poiché ogni cosa che nasce è soggetta  a corruzione, nemmeno una simile conformazione resisterà per sempre e finirà col dissolversi. E la dissoluzione consiste in questo: non solamente per le piante radicate al terreno, ma anche negli animali che vivono sulla terra si producono fertilità e sterilità, d’anima e di corpi, quando per i singoli esseri periodiche rivoluzioni congiungono e concludono i rispettivi moti ciclici” La Repubblica, lib. VIII 545.

[2] “A quelli che lo hanno liberato dai monarchi, infatti, quasi a dimostrare la sua gratitudine, esso concede il potere e affida se stesso. Costoro da principio, soddisfatti dell’incarico avuto, nulla stimano più importante dell’utilità pubblica e curano con grande zelo e attenzione gli interessi privati e quelli dello Stato” v. Polibio Le storie, libro VI, cap. VIII.

[3] E di seguito scrive “Ma bene interviene che per travagliare una  republica, mancandole sempre consiglio e forze diventa suddita d’uno stato propinquo che sia meglio ordinato di lei; ma posto che questo non fusse, sarebbe atta una republica a rigirarsi infinito tempo in questi governi. Dico adunque che tutti i detti modi sono pestiferi, per la brevità della vita che è ne’ tre buoni e per malignità che è ne’ tre rei” (i corsivi sono nostri) op. loc. cit.

[4] v. La classe politica, Bari 1965, p.  120. V. anche Elementi di scienza politica, Torino 1923, pp. 68 ss., 86 ss.

[5] v. Pareto, Trattato di sociologia generale, § 2549, Milano1981, vol. V.

[6] “Allora i Barbari rompono la cristallizzazione della società, ed è questo il principale beneficio che ad essa fanno… in grazia della loro ignoranza, spezzano la macchina dell’ordinamento dell’Impero, che pure avrebbero voluto conservare, ma che sono incapaci di maneggiare. Così depongono il seme che fruttificherà una nuova civiltà”. Col tempo “appaiono qua e là dei punti, ove, in stato di interdipendenza, crescono i residui della classe I e l’attività commerciale” op. cit., § 2551.

[7] Op. cit., § 2330.

[8] Op. cit., § 2338.

[9] E prosegue “Negli individui si nota una successione ininterrotta, col subentrare di nuove persone al posto di quelle fatte sparire dalla morte, col succedersi indefinito dell’età, infanzia, virilità, vecchiaia. Il concetto di una successione simile per le famiglie, le città, i popoli, le nazioni, l’umanità intera, nasce spontaneo” anche se rifiuta considerazioni metafisiche e pseudo-sperimentali cui ritiene preferibile “Uno studio un po’ diffuso di queste teorie non sarebbe di alcuna utilità pratica per la conoscenza dei fenomeni che dovrebbero essere rappresentati dalle teorie. Il tempo necessario per questo lavoro può essere più utilmente consacrato allo studio obiettivo dei fenomeni o, se si ama meglio, delle testimonianze dirette che vi si riferiscono, come pure alla ricerca degli indici misurabili dei fenomeni e alla classificazione delle oscillazioni per ordine d’intensità”  op. cit., § 2330.

[10] “Le oscillazioni che non si possono negare, sono supposte anormali, accessorie, accidentali; ciascuna ha una causa che si potrebbe e si dovrebbe togliere, col che sparirebbe anche l’oscillazione” e la qualifica come “derivazioni” (§2334); nel successivo nota che “Si possono disgiungere le oscillazioni, mantenere le favorevoli, levar via le sfavorevoli, rimuovendone la causa. Quasi tutti gli storici ammettono, almeno implicitamente, questo teorema, e si danno un gran da fare per insegnarci come avrebbero dovuto operare i popoli per rimanere sempre nei periodi favorevoli e non trapassar mai negli sfavorevoli. Anche non pochi economisti sanno e benignamente  insegnano come si potrebbero scansare le crisi; col qual nome indicano esclusivamente il periodo discendente delle oscillazioni”; ma sono considerazioni a fondamento non scientifico; “I profeti israeliti trovavano la causa dei periodi discendenti della prosperità di Israele nell’ira di Dio; i Romani erano persuasi che ogni male sofferto dalla città loro aveva per causa una qualche trasgressione al culto degli dei” (§2337) ma “se si vuole proprio fare uso del termine ingannevole di causa, si può dire che il periodo discendente è causa del periodo ascendente che ad esso fa seguito, e viceversa; ma ciò deve intendersi solo nel senso che il periodo ascendente è indissolubilmente congiunto al periodo  discendente che lo precede, e viceversa; dunque in generale: che i diversi periodi sono solo manifestazioni di un unico stato di cose e che l’osservazione ce li mostra succedentisi l’uno all’altro, per modo che il seguire tale successione è un’uniformità sperimentale” (§ 2338).

[11] Anche guerre civili – come quelle che tormentarono in varie epoche l’Impero romano e le monarchie feudali europee – e che, servendosi dei concetti e del lessico degli elitisti, sono per lo più, riconducibile a lotte tra fazioni della stessa “classe politica” –  non vertevano su come si dovesse organizzare il potere ma su chi doveva esercitarlo. Onde la vittoria di una frazione significava solo una radicale modificazione dell’organigramma e non dell’organizzazione (né della “formula politica”). Viceversa a Filippi si posero le basi di una durevole “trasformazione costituzionale”: quella di Roma da repubblica ad Impero, nell’aria già da decenni.

Anche se più raramente, capita che una classe dirigente abbia la capacità di cambiare l’ordinamento, pur senza mutare – o senza cambiare in toto – il personale politico. Il caso recente del crollo del comunismo lo conferma: gran parte delle classi dirigenti post-comuniste sono formate da personale – di primo e più spesso di secondo piano – delle vecchie. La dissoluzione in circa venti nuovi Stati dell’URSS e della Iugoslavia  – cioè il cambiamento costituzionale più radicale,  la nascita di nuovi Stati dai due dissolti  – è stato voluto, e gestito, prevalentemente da componenti della rispettiva “nomenklatura”.

 

[12] Una sintesi breve ma intensa di tale tesi può leggersi in Ernst Nolte I diversi volti dell’Europa, conferenza tenuta in Salerno il 17 ottobre 2005.

[13] In fondo vale per il “tipo ideale” del mito quanto sosteneva Antigone nel famoso dialogo con Creonte, per la legge voluta dagli Dei “Non ho pensato che i tuoi decreti avessero il potere di far sì che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte dagli dei, leggi immutabili che non sono di ieri né di oggi, ma esistono da sempre, e nessuno sa da quando”.

[14] Ancor peggiore la situazione è a leggere i dati diffusi dalla stampa (un po’ meno dalla televisione) sui records negativi di quasi tutte le amministrazioni italiane, dal livello di corruzione (anche se è dubbio come lo si possa quantificare) ai ritardi dei pagamenti delle PP.AA. – sui quali è in corso una pluriennale polemica.

 

[15] Qualcuno – tra cui chi scrive – ne ha indicati alcuni che ricordiamo:

  1. a) in primo luogo quelli “quantitativi”;

a1) Il 18/04/1948 il complesso dei partiti che aveva votato la costituzione conseguì oltre l’80% dei suffragi del corpo elettorale italiano; alle ultime elezioni – dopo che gran parte di quei partiti erano scomparsi e spezzoni delle vecchie classi dirigenti di quelli sopravvivono in altre formazioni – i partiti che si dichiarano favorevoli al mantenimento della costituzione rappresentano poco più del 20% del corpo elettorale;

a2) i votanti alle elezioni politiche, che fino agli anni ’80 erano circa il 90% del corpo elettorale, sono poco più del 70%; ancor più significativo è il calo dei votanti alle elezioni amministrative;

a3) mentre fino a metà degli anni ’80 nei referendum abrogativi il “SI” vinceva (cioè vinceva l’assenso popolare al Parlamento che aveva elaborato o mantenuto le leggi sottoposte alla consultazione), dopo ha vinto quasi sempre il “NO” (il cui senso politico è l’inverso). In alcuni referendum (quelli sul finanziamento pubblico ai partiti) nei due periodi considerati il risultato si è invertito.

  1. b) Quelli “qualitativi”:

b1) L’ordine di Yalta è venuto meno col crollo del comunismo;

b2) una campagna giudiziario-mediatica (“mani pulite”) è riuscita a demolire gran parte del sistema partitico della Repubblica “nata dalla Resistenza”. Questo dopo il decisivo evento sub b1);

b3) lo spazio politico dei partiti variamente “antagonisti” è cresciuto dal 10/15% fino agli anni ’80 al 35% delle ultime elezioni;

b4) altra circostanza significativa: è cresciuto il ruolo pubblico del personale non-politico (burocratico e tecnocratico). Nel 2000 il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio dei Ministtri (cioè i vertici dell’ordinamento costituzionale) avevano fatto “carriera” prevalentemente od esclusivamente fuori dalle assemblee elettive. Nel 2011 era varato un governo composto tutto da personale non politico. Ciò ha portato a parlare diffusamente di “antipolitica”, ma dato che alla politica non c’è alternativa (e si sa da quando Aristotele definì l’uomo zoon politikon), meglio sarebbe inquadrare il fenomeno quale segno, profondo anche se confuso, della transizione tra diverse elites e regimi, nel solco della tradizione “ciclica” e “ritmica”.

[16] Crisi è sempre il cambio di regime: le fasi ascendente e discendente non caratterizzano tutti i cambiamenti di regime.

[17] Scrive Jhering distinguendo tra il diritto romano e quello a lui contemporaneo che questo non teneva conto della riparazione del torto, quanto dell’interesse materiale da tutelare Non rimane che il puro e nudo interesse materiale, come oggetto unico del processo. Che la bilancia di Temi nel diritto privato stesso come nel  punitivo debba pesare non il solo interesse pecuniario, ma anche il torto, è pensiero così lontano dalle nostre odierne rappresentazioni giuristiche, che, mentre oso esprimerlo, devo aspettare a sentirmi opporre che in ciò appunto consiste la differenza tra il diritto punitivo ed il privato…..Bisognerebbe prima potermi dimostrare che v’è una sfera del Diritto, nella quale l’idea della giustizia  non debba attuarsi in tutta la pienezza e realtà sua. Il fatto è invece che l’idea di giustizia  è inseparabile dalla esplicazione del concetto della colpabilità  “Kampf un’s recht, trad. it. 1935 Bari,  pp. 115-116. La conclusione che se ne trae è che i sudditi del Reich godevano di una tutela giuridica comunque attenta all’interesse materiale; mentre i cittadini della Repubblica italiana trovano crescenti (e volute) difficoltà a far tutelare anche questo.

[18] Ed è un presupposto indefettibile: una società dove tutto fosse permesso, non vi sarebbe perciò un diritto; e dove tutto fosse vietato, s’estinguerebbe la vita sociale.

[19] A cominciare dal fatto che quasi il 90% delle notitiae criminis sono archiviate su richiesta dei P.M..

[20] Ovviamente i cambiamenti costituzionali non sono limitati a quello, ma riguardarono tanti  altri elementi importanti della forma di governo, dalla regola di successione (adozione? proclamazione da parte delle Legioni? elezione del Senato?) e dell’unità del potere supremo (tetrarchia, associazione di parenti al potere imperiale), fino alla “reggenza” e al governo “occulto”, ma tollerato.

[21] Principe XXV.

[22] Spesso la crisi non comporta (neanche) il cambiamento di regime, come nella dittatura commissaria di Schmitt.

[23] Cosa non frequente, perché non appare in generale che le classi dirigenti decadenti esprimano dei Savonarola o dei S. Giovanni (Battista); tanto meno le elites italiane con le loro carriere, pensioni d’oro, e così via. Acutamente Pareto notava che, in fase discendente queste si servono dell’astuzia più che della forza. E dell’astuzia fanno parte i “paternostri”.

[24] “Senza dubbio, il movimento lento ed uniforme di questa organizzazione (ordonnen cement) di quadri non procede neanche essa senza modificazioni nei quadri” (è il corrispondente della “mobilità” interna dell’elites di governo in Pareto – n.d.r.) … “nell’insieme, l’ordine sociale, nel suo movimento ordinato, con il suo sistema di istituzioni e il suo governo, procede nelle regioni ignote del tempo nelle stese condizioni di un esercito in marcia in un territorio nemico. Gli Stati sono delle armate civili in movimento che, come l’agmen, sono tenute a conservare con cura  il proprio ordine … Non abbiamo da tempo l’illusione (che stabilità sia immobilità – n.d.r.) … siamo più realisti, sappiamo che nulla è immobile, che tutto si trasforma. V. Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 74-76.

[25] Interpretando il quale Spengler scriveva sul Panta Rei “L’idea fondamentale su cui Eraclito basò la sua intuizione del mondo è già interamente contenuta nel famoso panta rei. Il mero concetto dello scorrere (del mutamento) è però troppo indeterminato per far riconoscere le più fini e profonde sfumature di tale idea, il cui valore non sta nell’affermare – cosa di cui nessuno dubita – la semplice diversità degli stati successivi del mondo visibile e tangibile” piuttosto il cosmo è in continuo movimento e “il fondo dell’apparire è piuttosto da pensare come puro agire; se si vuole, come somma di tensioni” (v. Oswald Spengler, Eraclito, ed. Settimo Sigillo, Roma s.d.). In definitiva il cambiamento è la normalità (almeno) della vita e dei processi vitali.

[26] In sintesi, essendo un tema che chi scrive ha affrontato più volte, la nota espressione di S. Paolo “Non est enim potestas…nisi a Deo”, è stata interpretata da una parte dei teologi cristiani nel senso che se l’ordine politico è necessario per volontà divina, le forme di esso e dei regimi politici sono “per populum” ossia rimessi alla volontà e (decisione) della comunità.

[27] Dalla Science sociale traditionnel al Précis del droit constitutionnel..

[28] Scriveva Hauriou: “Cosa ancora più sconcertante è che il denaro sta provocando la dissoluzione anche dell’organizzazione capitalista, ovvero dopo aver distrutto il feudalesimo e fondato un mondo nuovo il  denaro, continuando nell’azione distruttiva  manda in rovina perino la propria opera. Ciò è causato dal fatto che la moneta che era soltanto un segno di ricchezza diventa fine a se stessa. Si è creata dunque un classe importante di speculatori e di aggiotatori la cui sola occupazione è quella di fare alzare e abbassare il valore del denaro. Speculando sugli alti e bassi producono pesanti alterazioni sul commercio e l’industria volatilizzandone le riserve” ne La Science sociale traditionnelle, trad. it. di Federica Katte Klitsche de la Grange in Rinascita 22/11/2012.

[29] E Hauriou sosteneva che: “L’azione dissolvente dello spirito critico è simile a quella del denaro solo che essa viene esercitata sui fattori di coesione. Alla fine del Medio Evo lo spirito critico  ha affievolito l’influenza della religione privandola in parte della sua virtù istituente[29]. Dal momento in cui l’epoca rinascimentale si organizza su base razionale, in virtù dell’amministrazione e della legislazione dello Stato, esso stesso diviene principio di conservazione e di salvezza, a maggior ragione perché convive pacificamente con la società religiosa. Nondimeno verso la fine del rinascimento si inorgoglisce sempre di più fino a promuovere guerra nei confronti della religione; infine neutralizza completamente la propria influenza volgendo verso se stesso l’arma dell’analisi filosofica degradata a livelli di scetticismo pratico e dilettantismo. Contemporaneamente critica i fondamenti dello Stato di cui lo stesso è fondatore, li perturba a piacimento dei sistemi stessi, sia individualisti , sia collettivisti e infine lo fa traviare.” op. loc. cit.

LE RAGIONI DI CREONTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

LE RAGIONI DI CREONTE

Nell’“Antigone” di Sofocle i due personaggi principali, Antigone e Creonte, sono diffusamente considerati rappresentativi dei poli estremi di una pluralità di opposizioni: per lo più tra diritto naturale e diritto positivo o tra legge divina e umana. Ma non è mancato chi, come Hegel, vi ha visto l’opposizione tra una concezione (principio)  maschile e femminile, per cui l’uomo (e cioè Creonte) “ha la propria vita sostanziale e reale nello Stato, nella Scienza, e simili, e inoltre nella lotta e nel travaglio con il mondo esterno e con se stesso”[1], mentre la “pietas, in una delle più sublimi esposizioni che la concernono – nell’Antigone sofoclea – viene dichiarata soprattutto come la legge della femmina, vale a dire: come la legge della sostanzialità sentimentale soggettiva, dell’interiorità che non consegue ancora la propria realizzazione perfetta, come la legge degli dèi antichi, del regno sotterraneo, come legge eterna di cui nessuno sa dire quando apparve e che è presente nell’opposizione contro la legge manifesta, la legge dello Stato”[2]. Per cui da un lato si può intravedere, in queste osservazioni di Hegel, una contrapposizione più che tra norme (leggi) quella tra istituzioni (famiglia e Stato); da un altro, e più chiaramente, quella tra un diritto “tradizionale” e consuetudinario  e un altro “statuito” e razionale”.

Molte altre opposizioni sono rintracciabili, perché chiaramente esposte, nei due personaggi della tragedia. In particolare Creonte si identifica con la polis e fa della categoria amico/nemico (della polis) il criterio distintivo per la legittimazione del decreto proibente la sepoltura di Polinice, derogatorio-modificativo della legge divina (e consuetudinaria) di seppellire i morti. Da ciò derivano (almeno) sia l’opposizione tra politico e giuridico (intesi nel senso di Freund) e la prevalenza e decisività del politico, che solo garantisce la salvezza di tutti; e alla cui necessità (altra opposizione), deve cedere ogni legame di affetti, anche tra consanguinei, come ogni rapporto amicale. Dice Creonte nell’entrare in scena “non tengo in alcun conto chi stima più importante della propria patria una persona cara. Io infatti – e lo sappia Zeus che sempre vede tutto – non saprei tacere quando vedessi muovere contro i cittadini la sciagura invece che la salvezza; e non farei mai amico un nemico della patria; poichè so che essa è la nostra salvezza, e che ci procuriamo gli amici solo quando ne teniamo dritto il corso. Con tali principi io farò grande la nostra città”[3]. Il diritto promulgato dal governante deve essere così “razionale rispetto allo scopo” che è, nel caso, quello, essenziale alla polis, di salvaguardarla, anche onorando i buoni cittadini e non gli altri, i nemici.

Il che costituisce un’altra essenziale differenza rispetto alla legge divina, osservata da Antigone, cui si deve obbedienza, non per la di essa opportunità ma per l’autorità che l’ha istituita e la consuetudine di rispettarla[4]. La concezione di Creonte infatti rivendica ancor più il carattere di creazione umana della legge, frutto della volontà e  dell’ingegno dell’uomo, che può non tener conto e così violare la legge divina, in quanto tale immutabile, cui si appella Antigone. Questo appare sottolineato dal coro nel primo stasimo, che è un canto  sull’eccellenza dell’ingegno umano e sulla sua capacità di superare le difficoltà della natura; tuttavia il coro ricorda la facoltà (e il limite) umano di poter scegliere tra bene e male e che l’uomo “Possedendo, di là da ogni speranza, l’inventiva dell’arte, che è saggezza, talora muove verso il male, talora verso il bene. Se le leggi della terra v’inserisce e la giustizia giurata sugli dèi, eleva la sua patria; ma senza patria è colui che per temerità si congiunge al male: non abiti il mio focolare né pensi come me chi agisce così”[5]. L’esortazione ad inserire “le leggi della terra” ha il chiaro significato  di dover armonizzare il diritto (e il comando) umano con la legge divina (e naturale) perché riesca l’opera di edificazione – e conservazione – della polis.

Quasi tutte tali opposizioni indicano in Creonte l’archetipo di una politica e un diritto “moderno” (rispetto a quelli di Antigone): la prima perché prevalente su ogni vincolo normativo (summa in cives ac legibusque soluta potestas); il secondo perché razionale, volontario, statuito, opportuno e derogabile in rapporto alle necessità. Tuttavia tale concordanza, non ha, per così dire, giovato granché all’immagine di Creonte, per lo più assimilato a quella del tiranno. Eppure il re di Tebe non è tiranno nel senso in cui, spesso, si connota tale termine: in effetti le decisioni e gli obiettivi di Creonte non sono deviati dall’interesse personale, ma ispirati a quello della patria (al bonum commune). Già nell’“Edipo a Colono” quando compie l’atto odioso di rapire Antigone per costringere Edipo a tornare a Tebe, lo fa perché l’oracolo ha garantito la salvezza a chi dei contendenti per il trono di Tebe, avrà presso di se il vecchio re. E analoga è la posizione di Creonte nell’Antigone: dove, in buona sostanza, pone la salvezza della patria – e la “punizione” – per i traditori – al di sopra della legge divina. Non c’è, in Creonte, conflitto tra interesse del governante e quello della comunità (o dei governati), con cui si connotano molti tipi di tirannide: ma tra diritto divino e istituzione politica. La “condanna” di Polinice e la deroga al diritto tradizionale è necessaria, a giudizio di Creonte, per il bene della polis ed opportunità politica.

Sotto un altro – e vicino – aspetto il problema di Creonte è del trattamento (delle regole) da applicare al nemico, differenti da quelle da osservare per gli amici (in senso politico). E’ il problema dell’amico/nemico, che genera la diversità e la distinzione tra diritto interno ed esterno, tuttora perdurante nel diritto pubblico, e presupposto della norma delle leggi delle XII tavole adversus hostem aeterna auctoritas. Così è l’appartenenza (e il confine) della comunità politica a determinare la legge applicabile. Nel caso avendo Polinice, pur essendo amico (quale appartenente alla polis), agito da nemico il conflitto tra i due sistemi è particolarmente acuto, perché diventa anche possibile causa di dissoluzione dell’unità politica[6]. Così Creonte motiva il suo editto, concedendo che Eteocle: “che è morto combattendo a difesa di questa città, facendo gran prova di valore con la lancia, riceva sepoltura e abbia tutte le offerte lustrali, che scendono sotterra agli eroi defunti. Ma il fratello suo, Polinice dico, dall’esilio tornò volendo distruggere completamente col fuoco la terra patria e gli dèi della stirpe, volendo saziarsi del sangue dei suoi e gli altri trarre in schiavitù: e per quanto lo riguarda è stato ordinato alla città che nessuno lo onori di tomba e di compianto, ma sia lasciato insepolto cadavere, pasto ad uccelli e cani, vergogna a vedersi”[7]. D’altra parte nel dialogo del secondo episodio tra Creonte ed Antigone, mentre questa insiste sulla qualità di fratello di Polinice, quello ribatte che “ma il nemico non è mai caro, neppure quando sia morto”[8]. L’esser nemico prevale sia sulla philia che sull’adelphia[9] . Connesso al problema della distinzione tra diritto interno ed esterno, tra legge applicabile al nemico o all’amico, è che Creonte, assolutizza sia il nemico  che il comando e la funzione dell’autorità. Al nemico compete non un trattamento cavalleresco, ma addirittura una condanna “nell’aldilà”, onde, prevale sul diritto tradizionale e “divino” il decreto della polis e di chi la rappresenta.

Nello stesso tempo il nemico è, nelle parole di Creonte solo un nemico pubblico e non privato, hostis e non inimicus. Mentre nella Repubblica la definizione della giustizia che da Polemarco (e Socrate respinge) è d’essere “l’arte di recare vantaggio agli amici e danno ai nemici”, ma nel contesto della discussione il senso di tale distinzione non è politico, cioè riferito al pubblico, ma ai rapporti sia pubblici che privati[10], nelle parole di Creonte il nemico vero, cui riserva il trattamento peggiore, è quello della polis. Si può dire che l’inimicizia è così assoluta tanto da proseguire dopo la vittoria e la stessa morte del nemico.

Nello stesso tempo Creonte assolutizza il comando, come è chiaro fin dal “manifesto” di governo che espone nella propria entrata in scena.

E ciò non solo e non tanto per il tratto “decisionista” e tutto indirizzato alla salvezza della polis quale primo dovere del governante (e dei cittadini), per cui ritiene, a quel fine, modificabile e derogabile anche la legge tradizionale (e divina); ma ancor più per come enfatizza il comando rispetto al consenso.

Fin dalle prime battute appare che il popolo (rappresentato dal coro e dal corifeo) poco o punto condivide la decisione del monarca, senza con ciò scuoterlo dalle sue certezze. Ma è del tutto evidente nel confronto tra Creonte e il figlio Emone. Emone sostiene che il padre, cui presta ossequio e devozione filiale fin dalle prime battute, deve tener conto dell’opinione popolare, che critica l’operato di Creonte e “piange questa fanciulla dicendo che è la più immeritevole tra tutte le donne di morire così indegnamente per atti gloriosissimi”[11], per cui prega il padre “non portare in te soltanto questa idea, che è giusto quello, che dici tu, e nient’altro”[12]. Alla replica di Creonte, che Antigone è ribelle, Emone insiste. In una serie rapida di battute c’è l’espressione della sua posizione: “Non così dice concordemente il popolo, qui in Tebe…. Non vedi che hai parlato in modo infantile?…. Non esiste la città che è di un solo uomo…. Certo, tu regneresti bene da solo su una terra deserta”[13]. Ma Creonte è irremovibile: alle argomentazioni di Emone, tutte fondate sul pubblico, e specificamente sull’equilibrio tra “capo” e “seguito”, comando e consenso[14], Creonte respinge Emone nel privato, rimproverandolo di consigliare la grazia per Antigone solo perché è la sua promessa sposa, e di essere quindi schiavo di una donna (con ciò insiste nel rapporto “politico” tra principio (attitudine) maschile e femminile, sottolineato da Hegel). Emone, secondo Creonte, parla ed agisce per scopi privati, per sentimento e non secondo ragione.

Anche la fede nella ragione umana è infatti caratteristica di Creonte, come appare da diversi passi della tragedia, in particolare nel primo episodio e nel primo stasimo. Creonte respinge l’idea del Corifeo, che vi sia stato intervento divino nella sepoltura di Polinice: “dici una cosa insopportabile, affermando che gli dèi si danno pensiero di questo cadavere”[15]. E attribuisce l’atto ad una congiura di oppositori, che avrebbero corrotto le guardie. Una spiegazione tutta terrena e razionale che esclude l’intervento divino (o “magico”) nelle vicende umane. Al dialogo con la guardia succede il canto del coro nel primo stasimo, uno splendido elogio dell’ingegno umano, che ha sottomesso e utilizzato terra, animali e piante con la propria creatività; ha organizzato con leggi l’esistenza comunitaria e tuttavia, di fronte a questi meravigliosi risultati, permane la facoltà (pretesa) umana di  scegliere (e discernere con la ragione) il bene o per il male. Che è constatazione altrettanto positiva e “razionale” delle tesi di Creonte. E che racchiude il (possibile) prevalere di una volontà orientata al male, irrispettosa delle leggi e della giustizia divina. La contrapposizione, tante volte ripetuta nella storia (e nella teoria) del diritto e dello Stato, tra la capacità ordinatrice della ragione umana e della decisione consapevole e ordine naturale e “divino” (che viene opposta a quella giudicata frutto di ybris) è qui formulata, da una parte nelle affermazioni di Creonte, dall’altra nelle contestazioni di Antigone. E’ un fatto, peraltro, che il legislateur illuminista e la connessa fiducia nella ragione umana era ricalcato da Rousseau e Mably sui modelli greci di riformatori-ordinatori, ricorrenti nella Grecia dal VI al IV secolo a.c., che con le loro riforme avevano innovato e riformato l’ordine tradizionale (e “naturale”) della polis; e l’Antigone pare presupporre tale processo storico. Di cui Sofocle intravede i limiti, e la fine di Creonte, dispregiatore degli dèi e delle leggi divine e tradizionali, (che perde la propria famiglia) ammonisce a non superare[16]. Una tematica assai simile si sarebbe riproposta, dopo l’illuminismo e la rivoluzione, nelle critiche al diritto statuito (e volontario) formulate (già nel periodo napoleonico) e poi durante la Restaurazione e in tutto il XIX secolo, comuni sia ai pensatori contro-rivoluzionari, che ai giuristi tedeschi della scuola storica, ai primi sociologi che a socialisti come Lassalle, pur nelle differenti posizioni ed argomentazioni.

In effetti nei rimproveri che si fanno a Creonte ce n’è un altro, altrettanto prossimo al precedente che significativo: di avere invertito (e violato) il rapporto tra legge e ordine. Inteso quest’ultimo come ordine prima naturale che umano. In tal senso è particolarmente significativo il canto del coro nel secondo stasimo dell’Edipo re “Possa io avere destino di serbare santa purezza di parole e di azioni, a cui sono preposte leggi sublimi, procreate nell’etere celeste, e l’Olimpo solo è loro padre; non natura mortale di uomini le generò, né mai l’oblio le sopirà: un dio potente è in esse, e non invecchia. La dismisura genera tiranni. Ma se taluno in atti o discorsi superbamente procede, senza temere Dike e non rispettando le sedi degli dèi, mala sorte lo colga per il suo sciagurato orgoglio”[17]; ma ancor di più lo è la profezia di Tiresia a Creonte, che può essere interpretata come l’ “atto d’accusa” per le colpe del monarca: “E tu sappi bene che non compirai ancora molti celeri giri di sole senza ripagare tu stesso, in cambio di morti, un morto delle tue stesse viscere: in cambio di quelli di quassù che tu gettasti sotterra, ponendo indegnamente nel sepolcro una persona viva; mentre tieni qui un cadavere privo degli dèi inferi, senza funebri onori, nefando. Questo non è in potere tuo, né degli dèi supremi, anzi essi soffrono questa violenza da te”[18].

Creonte mette sottoterra i vivi, e fuori i morti, nega la loro destinazione naturale, violando la legge divina. Tale atto è in contrasto con ordine e legge, non essendo in potere di Creonte (né dell’uomo), e neppure degli déi.

Si intravede in ciò il fondamento e la concezione “tellurica” dell’esistenza umana; è la terra che ha la funzione di sostenere (e sostentare) i vivi, come di far riposare i morti: la justissima tellus di Virgilio. La legge – il decreto umano – non può violare quest’ordine; in termini moderni si potrebbe dire, con Schmitt, che la legge umana presuppone l’ordine (sociale e naturale) e non il contrario; e la sua funzione è quindi solo limitatamente ordinatrice[19].

E la superbia che fa i tiranni e l’ybris consiste nel non tener conto dei limiti umani nel mutare l’ordine naturale. Anche in ciò Creonte è archetipo di quanto sarebbe stato praticato e teorizzato ancora, in particolare, negli ultimi secoli dell’età moderna.

  1. Di fronte a Creonte, Antigone rappresenta l’altro “corno” di tali opposizioni. Antigone mostra una concezione del diritto, del rapporto tra legge divina e decreti umani, che è sintetizzata nel dialogo con Creonte, nel secondo episodio “Non fu Zeus a proclamare quel divieto, né Dike, che dimora con gli dèi inferi, tali leggi fissò per gli uomini. E non pensavo che i tuoi editti avessero tanta forza, che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte e incrollabili degli dèi. Infatti queste non sono di oggi o di ieri, ma sempre vivono, e nessuno sa da quando apparvero”[20]; in tali versi sono indicati i caratteri peculiari della legge divina: l’autorità divina, la superiorità “gerarchica” sulle norme umane, la non volontarietà, il mistero sulla di essa “genesi”. Oltre venti secoli dopo molte di tali caratteristiche erano sottolineate da De Maistre come tipiche delle norme “tradizionali”, in perticolare delle costituzioni[21]. Nel secolo scorso è stato Max Weber, con la definizione – adattabile – del tipo di potere tradizionale legittimo, a sintetizzarle meglio “quando poggia sulla credenza quotidiana nel carattere sacro delle tradizioni valide da sempre, e nella legittimità di coloro che sono chiamati a rivestire una autorità”[22]. Antigone con ciò afferma anche come fondamento dell’obbedienza alla legge essenzialmente il giudizio soggettivo del destinatario che si uniforma a regole imposte dall’autorità divina: un rapporto tra uomo e divinità, senza l’interferenza (o la mediazione) dell’autorità umana (e politica), alle statuizioni della quale, se in contrasto con la legge divina, non è dovuta obbedienza. Ch’è l’archetipo di (gran parte) delle tesi politiche del pensiero rivoluzionario, nella modernità riunite, per lo più, sotto il diritto di resistenza. Ma che apparivano già in contrasto con l’ethos della polis.Basti ricordare che circa un cinquantennio dopo la rappresentazione dell’Antigone(la data di redazione del Critone è dubbia) Socrate sceglieva volontariamente di non evadere e morire, per il rispetto che il cittadino doveva all’ordinamento della propria polis. Nel dialogo (immaginato) con le Leggi è chiaro che queste sono tutt’uno con la polis. Fin dall’inizio si presentano come le leggi e l’insieme della città (oi nomoi kai tò koinòn tes pòleos, definizione ripetuta) e lo esortano a non sovvertirla, sfuggendo alla condanna a morte, pur se ingiusta. Infatti “ti pare che possa ancora esistere e che non venga interamente sovvertita quella Città, nella quale le sentenze emesse non hanno vigore, ma, ad opera di privati cittadini, vengono destituite della loro autorità e distrutte?”[23]: la “ribellione” di Socrate colpisce quindi la capacità di esistenza stessa della polis; il rapporto tra questa e le sue leggi e il cittadino è asimmetrico e non paritario: “E se la cosa sta così, credi tu forse che ci sia pari diritto fra te e noi, e, se noi intendiamo fare qualcosa contro di te, credi di avere diritto anche tu di fare le stesse cose contro di noi?”[24]; perché più di tutti è: “degna di onore la patria, e che è più venerabile e più santa, e che è tenuta in più alto grado di stima e presso gli dèi e presso gli uomini assennati; che bisogna venerarla”[25] “e anche soffrire se essa comanda di soffrire, stando in silenzio, sia che si venga percossi, sia che si venga incatenati, sia che essa mandi in guerra per essere feriti e uccisi, bisogna fare questo, perciò in ciò consiste la giustizia: che non si deve disertare, né ritirarsi, né abbandonare il proprio posto, ma, e in guerra e in tribunale e in ogni altro luogo bisogna fare quello che la Patria e la Città comandano”[26].

Nel discorso delle Leggi il rapporto tra uomo e divinità di Antigone è sostituito da quello tra uomo e polis; e s’intravede chiaramente non solo il carattere individuale/personale del primo e quello sovrapersonale/collettivo del secondo, ma anche in germe i connotati principali del concetto d’istituzione: quelli di potere (finalizzato) all’ordine, secondo un’idea direttiva. Connotati formulati come poteva farlo un greco dell’età classica della polis, ma che possono assimilarsi, anche con le differenze, a come espressi da Hauriou[27]. La superiorità nel connettere e consolidare il gruppo sociale del secondo rispetto al primo è data dalla risoluzione del problema del quis judicabit, col confermare o riservare all’istituzione le competenze a decidere cos’è legge, cosa debba essere applicata come tale e come tale eseguita, e da chi; ciò che, se rimesso alla coscienza del singolo, diventa, in politica, insolubile (in teoria, no: basta immaginare una società di uomini saggi, disinteressati e dotati delle congrue capacità intellettuali e della dirittura morale necessaria).

Nel discorso di Antigone è, di conseguenza, invertito il rapporto tra politica e diritto: per cui quella non domina questo, ma piuttosto vi è sottomessa; onde non vale il ricordato detto salus rei publicae suprema lex, ma piuttosto il fiat justitia, pereat mundus in cui la justitia è ciò che appare tale al cittadino. Anche in ciò la “modernità” di Creonte, rispetto ad Antigone è evidente: mentre la sua scelta ha carattere pubblico, perché, come sostiene Freund, il pubblico è in primo luogo, affermazione dell’unità, la seconda porta ad una scelta e ad un esito dissolutorio, essenzialmente riconducibile al  privato[28].

E in effetti l’intuizione di Hegel che vede in Creonte ed Antigone l’opposizione tra elemento maschile e femminile, che diventa poi tra famiglia e polis è interpretabile come momento di un’evoluzione-trasformazione, in cui il carattere politico e quindi decisivo è passato dalla famiglia (intesa come istituzione umana fondata su rapporti di consanguineità) a un gruppo sociale più esteso: con relativa “espropriazione”, dei poteri di comando, di distinzione tra pubblico e privato, amico e nemico, a favore dell’istituzione superiore.

In ogni processo del genere (così nel passaggio dalle monarchie feudali a quelle assolute) connotato comune e ricorrente è la privazione da parte dell’istituzione sovraordinata di poteri politici e in gran parte, e più in generale, pubblici a quelli sotto-ordinati; così come l’opposizione ad ogni invadenza degli “espropriati” nelle funzioni riservate al potere politico; il quale senza quelle non potrebbe garantire l’unità[29]. La depolitizzazione, è anche, e in primo luogo, una privatizzazione: mentre gli “espropriati” non rappresentano che se stessi essendo (ridotti a) privati, chi esercita il potere pubblico rappresenta (e garantisce) l’unità politica.

La modernità della posizione di Creonte quindi consegue alla capacità di assicurare l’unità e l’ordine politico-sociale. A cui è essenziale l’esercizio del comando: rapporto umano tra uomo ed uomo, l’uno che comanda, l’altro che obbedisce. Tutte considerazioni che sarebbero emerse e formulate, in modo chiaro e distinto, da Thomas Hobbes. Per il filosofo di Mulmesbary il rapporto sociale consolidato richiede (un patto tra uomini legittimante) il potere (di comando) conferito solo ad uno o alcuni; questi ultimi hanno il potere di ordinare e far eseguire i loro comandi. Cui si deve obbedienza, finché è assicurata la protezione; è il rapporto tra protezione e obbedienza a legittimare il potere politico e così rendere e mantenere ordinata la società.

Nello stesso tempo potere, comando, obbedienza, (coazione) sono rapporti tra uomo ed uomo e non tra uomo e norma, né tra uomo e divinità.

Per far punire Creonte infatti Sofocle fa intervenire (anche se non in forma di personaggio teatrale) il potere soprannaturale: a un potere umano assoluto si può opporre solo un potere ancor più forte, che però non può essere umano. Ovviamente essendo l’intervento soprannaturale escluso in una visione moderna e quindi secolarizzata della politica e dello Stato, la sola “visione” proponibile è quella di Creonte.

A tale proposito ciò che confina la posizione di Antigone nel non giuridico (nel senso di Creonte) sono soprattutto due cose: la prima è il carattere individualistico: la decisione su cosa debba valere come regola applicabile al caso è rimessa al giudizio del singolo: con ciò viene meno sia la necessaria eteronomia del giuridico, articolantesi sia nel momento della posizione del comando che in quello della sua applicazione/esecuzione.

Se, nella specie si può concepire eteronoma la legge divina, non lo è sicuramente ciò che più conta, cioè la sua applicazione/esecuzione. La posizione di Antigone è rapportabile ad una realtà (o ad una norma) morale, più che giuridica.

In un certo senso non è neppure assimilabile ad una visione cristiana. Se il cristianesimo riconosce una legge divina, ha tuttavia conferito carattere d’istituzione divina anche all’autorità umana, mentre connotati della posizione di Antigone sono l’istituzione divina della legge, ma il carattere totalmente umano dell’autorità e, accanto, la riserva della decisione alla persona. Nella teologia cristiana, di converso, è considerata istituzione divina anche l’autorità umana, come consegue sia dal notissimo passo dell’“Epistola ai romani” di S. Paolo (13,1) sia dalle note frasi del Vangelo[30] per cui giuristi come Hauriou e Carré de Malberg hanno distinto tra dottrina del diritto divino soprannaturale e del diritto divino provvidenziale[31] sostanzialmente riprendendo le tesi principali sul punto della teologia politica cristiana moderna.

Ciò ha fatto si che l’appello alla legge divina, in una società cristiana, non sia un fatto di giudizio personale, ma circondato di condizioni e requisiti. La trattazione del tirannicidio e della seditio ne è un esempio: quasi tutti i teologi sia cattolici che protestanti legittimano l’uno e/o l’altro se vi sia una volontà pubblica prevalente orientata a detronizzare il tiranno, perché tota respublica superior est rege, il tutto peraltro a certe condizioni, differenti se il tiranno è tale absque titulo o quoad regimen[32]; e, ciò che costituisce la differenza essenziale, la “contestazione” dell’autorità è sempre fatta in funzione e in vista di un’autorità diversa, in un contesto cioè istituzionale; e avente carattere pubblico piuttosto che di rivendicazioni/istanze private, come, in larga misura, appaiono quelle di Antigone.

Mentre la posizione di Creonte si colloca all’interno (ed in funzione) di un gruppo sociale umano, con i di esso modelli di ordine, presupposti e rapporti e la relativa concretezza, quella di Antigone, come detto, è un rapporto della coscienza con la divinità (la legge, la norma), ovvero con una dimensione ed entità ideale e (se non) astratta.

Le tesi di Creonte sono razionali perché spiegano la realtà – e assicurano la possibilità di esistenza – di una comunità umana; quelle di Antigone non possono costituire nulla di politicamente concreto e strutturato.

  1. Tornando sul rapporto tra politica e diritto (nel senso in cui quest’ultimo è visto da Antigone), l’opposizione tra l’una e l’altro è particolarmente evidente nella vicenda di Polinice che somiglia, per certi aspetti, alla scelta di Antigone: infatti Polinice rivendica a se nei confronti di Eteocle la sovranità di Tebe, perché così convenuto col fratello. È quindi la rivendicazione di un diritto soggettivo (direbbero i giuristi) per la cui realizzazione Polinice promuove una coalizione di re argivi, al fine di conquistare Tebe, cacciare Eteocle e governare la città. Dato però che gli argivi, come tutti i conquistatori, non somigliano a Farinata degli Uberti, questa scelta significa operare per la sconfitta della patria e la rovina dei propri concittadini, così accuratamente descritta (e paventata) dal coro dei Sette a Tebe. Anche Polinice – anzi assai più di Antigone – antepone il proprio diritto alla salvezza e conservazione della patria. La Giustizia lo guida: nello scudo si è fatto cesellare una donna che guida un guerriero; questa donna “Si dichiara giustizia, nella scritta, e proclama: «Ricondurrò quest’uomo signore a Tebe e nelle patrie case»”[33]. Davanti a ciò, alla notizia recatagli dal messaggero ne I sette a Tebe, lo sdegno di Eteocle è grande, tale da indurlo a combattere di persona contro Polinice, pur consapevole di andare incontro alla morte.

Proprio Eteocle che, in tanti versi della tragedia di Eschilo aveva chiamato a difesa della patria i cittadini di Tebe, come madre di tutti “Ora a quanti di voi non ride ancora il fiore della giovinezza, a quanti sfiorì col tempo, al suo compito ognuno, soccorrete questa città, gli altari dei patrii dèi, cui non si spenga onore, e i figli e la dolcissima nutrice, la madre Terra, che a voi tenerelli malfermi sul benigno suolo, accolto tutto il peso di crescervi, nutriva cittadini fedeli nel frangente a recare lo scudo in sua difesa”[34] e anche, designando Melanippo a difesa della prima porta di Tebe dice “Risolverà l’evento Ares coi dadi, ma giustizia di sangue lui sospinge scudo alla madre contro lance ostili”[35], come Megareo a difendere le porte Neiste “ma pagherà morendo il suo tributo alla terra nutrice, o, catturati quei due e la città finta sullo scudo, orna di spoglie l’atrio di suo padre”[36]; e negando che la giustizia sia guida a Polinice “E se la figlia vergine di Giove Giustizia fosse in opere e pensieri con lui, l’augurio forse si compiva. Ma né quando fuggì dal buio grembo materno, o la nutrice lo cresceva, né fanciullo, né poi che s’addensava a ciocche la lanugine sul mento, mai lo degnò Giustizia d’un saluto. Né credo ora l’assista nel frangente della patria, Giustizia, a rinnegare il proprio nome, amica a un malfattore”[37].

Nella coppia Eteocle-Polinice si riscontra l’opposizione tra diritto fondato su una pretesa del singolo e – di converso – sull’appartenenza ad una comunità[38], come in modo più sfumato quella tra diritto e politica. Anche se fondato, il diritto di Polinice non può essere fatto valere contro la (propria) polis; è questa a costituire e garantire l’ordine e a prevalere quindi sui diritti individuali: né contro questa valgono pretese se non riconosciute all’interno  (e dall’ordinamento della polis).

La posizione di Eteocle, in un frangente più drammatico e politico in certa misura è simile a quella di Socrate, che sacrifica all’ordine della polis la propria possibilità di avere salva la vita. E l’ordine della polis è un ordine concreto: è parallelo nei discorsi di Eteocle e di Socrate il richiamo alla patria come madre, che nutre ed alleva e così consente l’esistenza ordinata dei cittadini.

Le vicende (e la situazione) di Polinice richiamano, di converso, da vicino quelle di un altro eroe, romano e non greco: Coriolano. Anche egli esiliato per una decisione che riteneva ingiusta, e per questa, ritornato alla testa di un esercito nemico a stringere di assedio Roma. A dissuadere Coriolano è una donna, la madre Volumnia. La quale per il discorso – d’alta potenza drammatica nel racconto di Plutarco – più dotato di “spiritualità” maschile che femminile (a seguire Hegel), compie in effetti la sintesi della (spiritualità) della famiglia e della polis. Volumnia parla come madre (fisica), ma le sue parole sono anche (e soprattutto) quelle della madre politica: è consapevole che se Coriolano ne seguirà l’esortazione, sarà ucciso. Ma nella decisione tra la patria e la vita del figlio (ossia tra pubblico e privato) non ha esitazioni né dubbi: sacrifica i sentimenti privati alla salvezza di Roma: ed esorta il figlio a fare altrettanto: “Perché taci o figlio? Forse che è nobile abbandonarsi completamente all’ira e al rancore mentre è disonorevole cedere alla madre che ti rivolge una così grave preghiera?… E a nessuno come te si converrebbe di osservare i doveri della riconoscenza, a te che così duramente ti vendichi dell’ingratitudine. Eppure, benché ti sia ampiamente vendicato della patria, a tua madre non hai mostrato alcun segno di riconoscenza”[39].

Coriolano compie la scelta perorata dalla madre: salva Roma e vieni ucciso dai Volsci. Il comportamento del romano è l’opposto di quello di Polinice: l’esistenza e la salvezza della patria valgono più dei diritti individuali, pur fondati, e dello spirito di vendetta. In linea più generale: le vicende di Polinice e Coriolano provano come spesso, sia il diritto (soggettivo) ad essere occasione (giustificazione e pretesto) di guerra; contrariamente a quanto capita nell’Antigone, il rapporto familiare e quello politico non sono in conflitto, ma sinergici nel discorso di Volumnia la madre è a un tempo lei e la polis, ma l’opposizione famiglia-polis (evidente in episodi della Roma più antica, come la purificazione del terzo Orazio per l’uccisione della sorella, promessa sposa ad uno dei Curiazi  da lui uccisi) si è risolta in una sintesi che vede la polis “inglobare” e “superare” la famiglia; e il diritto della polis prevale su quello soggettivo-individuale o familiare[40].

  1. Dato che Creonte non è inquadrabile nel tipo “classico” di tiranno, cioè nel governante poco o punto sollecito del bonum commune (che è il primo criterio d’individuazione della tirannide, come sopra cennato), in cosa consiste la sua ybris, che ne ha fatto una delle figure-simbolo dell’abuso tirannico del potere agli occhi di un greco (e non solo).

A spiegarlo è lo stesso Sofocle nel secondo stasimo dell’Edipo re, quando il Coro afferma: “la dismisura (ybris) genera i tiranni” ybris psyténei tyrannon (v. sopra).

Forse la traduzione di ybris in “dismisura” invece che nei più letterali “superbia” o “tracotanza” è la chiave per capire l’errore di Creonte.

Si potrebbe all’uopo ricorrere a quella concezione, tipicamente greca, del kosmos quale ordine del creato, contrapposto al kaos, e più specificamente, allo spirito apollineo, che, come specificato da Spengler[41] “organizza” il mondo in forme esattamente delimitate, armoniche e perciò ordinate.

In uno spazio così organizzato limite e misura sono, in particolare il primo, concetti essenziali; per cui la dismisura (cioè l’errata – o voluta – non osservanza, calcolo, valutazione) del limite costituisce un vulnus all’ordine (politico e metafisico). Perciò Creonte erra: perché non ha tenuto conto che l’ordine (di cui è espressione la legge divina) è stato violato dal decreto su Polinice; e ancor più che non è nel potere dell’uomo violare tale ordine. La dismisura consiste così nell’aver violato il limite al potere umano: limite prima metafisico che politico.

  1. Accanto a ciò cosa rimane della posizione di Antigone dopo millenni di diritto “statuito” e politica “razionale” (anche se, spesso, intervallati – anche per secoli – da ritorni di diritto “tradizionale” e politica influenzato da “valori” tutt’altro che razionalmente giustificabili)?

È proprio il limite: se la posizione di Antigone appare “vecchia”, alla fine non è irrazionale. Non lo è se si pensa bene, a valutare razionalmente (rispetto allo scopo) il decreto di Creonte; a che serve, vinta la guerra (diverso se la guerra fosse da vincere) “condannare” il nemico sconfitto e morto? È razionale rispetto all’esigenza di proteggere la sicurezza della polis? In un certo senso il decreto di Creonte appare l’antesignano di quella pratica, diffusasi nel secolo scorso, che vede la guerra concludersi sui campi di battaglia, per subito dopo proseguire in un processo, in cui i vinti vengono pubblicamente giudicati – con le forme, talvolta, ma sempre senza lo spirito e i presupposti minimi della giustizia – dai vincitori; o peggio, proseguire con esecuzioni di massa. Prassi contraria alla teologia politica cristiana, e al diritto internazionale “classico” che tanto deve a quella.

Antigone è stata l’ispiratrice di molte aspirazioni rivoluzionarie, destinate a modificarsi tuttavia, o talvolta divenire l’inverso, cioè a coincidere, per lo più con le idee di Creonte, dopo che la rivoluzione diventa potere. Al di là di questi effetti transeunti, c’è quindi altro, nel mondo moderno, che può ricondursi alla posizione di Antigone, o almeno riconoscere in quella qualcosa di vicino.

Ed è che Antigone, attraverso il richiamo alla legge naturale, al diritto familiare, e alla legge divina, arriva a relativizzare l’inimicizia, temperando così la posizione di Creonte che assolutizza sia il comando che il nemico. Certo non è solo (né prevalentemente) all’esempio di Antigone e alla poesia di Sofocle che dobbiamo questa conquista (ch’è dovuta assai più al pensiero cristiano e alla prassi politica romana): ma c’è comunque un filo che da questa conduce allo jus publicum europaeum: è che questo si basa sull’assolutizzazione del comando, ma nel contempo, sulla relativizzazione del nemico. E Antigone con il suo rifiuto di considerare il nemico come indegno di pietas, ne costituisce un precedente. Il fatto, poi, che il nemico sia il fratello è significativo, avendo il senso che, essendo comune l’identità umana con il nemico, l’ostilità non deve tradursi in azioni che la neghino.

Sul rispetto di questi principi si possono consolidare forme di convivenza umana che concilino le diversità delle comunità con la coesistenza (relativamente) pacifica tra le stesse. Cioè la “formula” che ha consentito la presenza di più sovranità concorrenti in uno spazio relativamente ristretto, come quello dell’Europa occidentale.

Ed in questo, sulla costruzione e mantenimento di un assetto politico concreto e stabile che consiste la “modernità” di Antigone, che trova così la sintesi con la propria opposizione, rappresentata da Creonte.

T.K.

 

[1] V. Grundilinien der Philosophie des Rechts (§166), trad it. di V. Cicero , Milano 1995 p. 317; v. anche Die Phänomenologie des Geistes, trad. it. di E. De Negri, Firenze 1973, pp. 29 ss.

[2] Op. loc. cit..

[3] Antigone trad. it. di R. Cantarella, rist. Milano 2005, p. 271.

[4] V. Antigone 450-456, op. cit. p. 289.

[5] Op. cit. 283.

[6] Su ciò v. Hegel Die Phänomenologie des Geistes cit. pp. 31-32.

[7] Antigone op. cit. p. 272-273.

[8] Op. cit. p. 293.

[9] L’espressione di Creonte, sopra riportata nella traduzione italiana, può essere tradotta con “il nemico non è mai amico” la distinzione era ben nota già ad un ateniese del V° secolo, dato che la sua più chiara (ed argomentata) formulazione, in relazione alla consistenza e funzione della polis, è nelle  Eumenidi di Eschilo, rappresentate nel 458 a.c., cioè circa 15 anni prima dell’Antigone, la cui prima rappresentazione è collocata nel 442 a.c.. Sulle Eumenidi ed il rapporto amico/nemico come fondazione e consolidazione dell’unità politica v. lo studio di E. Werner

[10] V. Platone La Repubblica 332 a-e.

[11] Op. cit. p. 303.

[12] Op. cit. p. 305.

[13] Op. cit. p. 305-307.

[14] Si noti che Emone solo dopo parecchie battute fa riferimento alla legge (e alla giustizia) divina ed al rapporto tra re e Antigone. Per la maggior parte del dialogo si attiene ad argomenti “laici” e di saggezza politica, ovvero posti sulla stessa “lunghezza d’onda” del padre.

[15] Op. cit. p. 277.

[16] In tal senso la sanzione inflitta a Creonte appare il contrappasso alla violazione compiuta dal medesimo, condannando Antigone a non formarsi mai una famiglia (v. il reiterato richiamo a ciò, nel quarto episodio vv. 813-816 e 867-876), dopo aver perso tutti i componenti della propria (tranne Ismene). E il “reato” di Antigone era di aver rispettato i vincoli dell’adelphia; i vincoli della famiglia, la quale è considerata la prima cellula dell’ordine sociale.

[17] Op. cit. p. 101-102.

[18] Op. cit. p. 329.

[19] V. Schmitt Über die drei Artyen des Rechtwissenschaftlichen Denkens, trad. it. di P. Schiera nelle “Categorie del politico” Bologna 1972, p. 256 ss. In particolare p. 259.

[20] Op. cit. p. 289.

[21] V. Des constitutions politiques (Prefazione e capp. I – VII).

[22] Wirtshaft und Gesellshaft, trad. it., vol. I, Torino 1980 p. 210, v. anche p 34, vol. III (ex pluris) pp. 95 e ss.

[23] Critone, trad. it. di G. Reale, Milano 1996 p.143.

[24] Op. cit. p. 145.

[25] Op. cit. p. 147

[26] Op. cit. p. 147-149

[27] V. Précis de droit constitutionnel, in particolare capp. I e II, Paris 1929.

[28] Oltre che da Freund e da altri l’affermazione di tale distinzione è formulata con notevole efficacia e drammaticità da Hegel nell’introduzione alla Die verfassung Deutschlands.

[29] Un fenomeno analogo è conseguenza della secolarizzazione e della separazione tra potere temporale e spirituale, che come scriveva de Bonald si è tradotto nella perdita del carattere pubblico della religione, e nella sua riconduzione alla sfera privata (ovvero ad un fatto di coscienza e scelta personale).

[30] Lutero Sull’autorità temporale  in Oevreus, Genève, 1959, p. 15 ss.; Calvino L’institution chrétienne, Lib. IV, cap. XX; S. Tommaso d’Aquino De regimine principum, Lib. I, cap. I; Bossuet in Politique de Bossuet, Paris 1968, p. 79 ss.; in particolare parecchi teologi ricordano il salmo LXXXII, 6, con la frase Dii estis, indirizzata ai Re, che ritengono rappresentanti o vicari di Dio.

[31] V. M Hauriou Précis de droit constitutionnel Paris 1929, p. 29; R. Carré de Malberg Contribution à la théorie générale de l’Etat, Tome II, Paris 1922, pp. 149-152.

[32] V. sul punto S. Tommaso d’Aquino De regimine principum, lib. I, cap. 6; Francisco Suarez De Charitate; Juan de Mariana De rege et regis institutione, Lib. I, cap. V; Stephanus Junius Brutus Vindiciae contro tyrannos, trad. it. Torino 1994, pp. 61 ss. Si noti che le posizioni sono distinte e non coincidenti su diversi punti: ma tutti, implicitamente o esplicitamente escludono che un privato possa, da solo, promuovere legittimamente una seditio o uccidere il tiranno, il che significa ricondurre il tutto al pubblico, escludendo il privato (e il personale).

[33] V. I sette a Tebe, trad. it. di Leone Traverso, Roma 2000, p. 62.

[34] Op. cit., p. 47.

[35] Op. cit., p. 56.

[36] Op. cit., p. 58.

[37] Op. cit., p. 63.

[38] Hegel scrive “Considerando la cosa nel suo aspetto umano, ha commesso il peccato colui che, privo del possesso, assale la comunità di cui l’altro era a capo; viceversa ha dalla sua parte il diritto colui che seppe considerare l’altro soltanto come singolo, distaccato dalla comunità, e, in quella sua impotenza, lo mise al bando; egli ha offeso solo l’individuo come tale, non la comunità, non l’essenza del diritto umano. La comunità assalita e difesa dalla vuota singolarità, si conserva, e i fratelli trovano entrambi, l’uno mediante l’altro, la reciproca morte; l’individualità infatti, che per il suo esser-per-sé mette in pericolo l’intiero, ha escluso sé dalla comunità e si dissolve in se medesima. Ma la comunità renderà onore a quell’uno che si trovò dalla sua parte; l’altro invece, che già sulle mura pronunciò la sua distruzione, il governo punirà privandolo degli onori estremi” op. ult. cit. pp. 31-32.

[39] V. Plutarco, Vite parallele. Coriolano, trad. it. di L. M. Raffaelli, Milano 1992 p. 241.

[40] In effetti mentre il rapporto familiare gioca un ruolo d’opposizione nell’Antigone; questo ruolo è solo confermativo-corroborativo del rapporto con la polis nel discorso di Volumnia e nel comportamento di Coriolano. Nel discorso di Volumnia il parallelo famiglia/polis nel rapporto di maternità/filiazione è evidente. Come è evidente il prevalere del pubblico sul privato (sacrifica il figlio per la salvezza di Roma). In Coriolano (come in Polinice) il conflitto è tra diritto personale (individuale) e esistenza della polis. Sta di fatto che mentre per l’Orazio è stata necessaria l’espiazione (cioè la riparazione da una violazione) per aver ucciso un familiare, qua in Coriolano sacrificarsi per la patria è un dovere; e il conflitto è subito risolto. V. Sul terzo Orazio, l’uccisione e l’espiazione G. Dumézil, trad. it. di F. Bovoli, Milano 1990, pagg. 38 ss.

[41] Der untergang des abeslandes, trad. it. di J. Evola, p. 296 ss., Milano 1957.

Sovranisti e “servilisti” , di Teodoro Klitsche de la Grange

Sovranisti e “servilisti”

di Teodoro Klitsche de la Grange

Da qualche anno, da quando sono stati coniati i neo-logismi sovranismo e sovranista (probabilmente dal francese) il pensiero “politicamente corretto” (e relativi pensatori) si è lanciato in una, per esso abituale, opera di screditamento e demonizzazione. Sovranismo sarebbe un’ideologia guerrafondaia (??), passatista, dittatoriale, egoista e così via. I sovranisti poi demagoghi, ignoranti, cattivi, maleducati e cafoni (oibò!)

Sarebbe facile screditare questa ennesima campagna di (preteso) discredito con cui la classe dirigente in decadenza cerca di arrestare il volgere degli eventi, tutt’altro che propizi a quella, quanto favorevoli alle élite cafone. Un paio di perché – e un suggerimento (ripreso da fonte autorevole) – vorrei comunque proporre.

Il primo: a leggere la Treccani il significato di sovranismo è di “Posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovrannazionali di concertazione”.  A seguirlo, bisogna cominciare con lo svalutare del tutto il nostro Risorgimento, e buona parte della storia moderna. I costruttori dello Stato nazionale italiano (da Cavour a Garibaldi, da Vittorio Emanuele II a Mazzini), forse non erano dei damerini (il Savoia era anche un po’ grossier) ma sicuramente non avrebbero acconsentito – il Piemonte prima, l’Italia poi tanto da fare quattro guerre all’uopo – che in nome di qualche idea, si fosse limitata l’indipendenza dell’Italia. Se per Metternich l’Italia  era un’ “espressione geografica” per loro era una comunità politica. E per esserlo doveva avere l’indipendenza (dalla volontà) e dagli interessi di altre potenze (e popoli). Del pari non avrebbero mai preteso di occupare Vienna, Praga, Lubiana o Zagabria (tant’è che neppure con lo sfascio dell’Impero asburgico lo fecero), neppure con la giustificazione di qualche ideale cosmopolita. Dato che, a ben vedere, il cosmopolitismo rientra nella classe delle alternative al patriottismo.

La seconda: le più interessanti e centrate definizioni di ciò che è la libertà, politica in specie, l’ha date S. Tommaso.

Come ho scritto in un precedente articolo per Rivoluzione liberale (Sovranismo e libertà politica) l’Aquinate sosteneva che è libero chi è causa di se (del suo): liber est qui causa sui est; e per chiarire ulteriormente definiva  servo chi è di altri (servus autem est, qui id quod est, alterius est).

Applicando queste due asserzioni di S. Tommaso non sono né libere, né comunità perfette quelle che giuridicamente e politicamente dipendono da altri e pertanto non hanno la piena disponibilità di determinare i propri scopi né i mezzi per conseguirli.

Per cui liberarsi da quella condizione di dipendenza è il requisito minimo per poter decidere del proprio destino. L’inverso è sopportare che lo decidano gli altri: come spesso capitato nella recente storia nazionale. Dato che né Di Maio né Salvini vogliono occupare, neppure Tripoli e Tirana, ma solo evitare di subire troppi condizionamenti in casa nostra, non sono dei pericolosi aggressori e guerrafondai.

Ciò stante passiamo al suggerimento.

Diceva Vittorio Emanuele Orlando in un famoso discorso pronunciato alla Costituente, chiedendo che l’assemblea non ratificasse il Trattato di pace: “considerate almeno questo lato della decisione odierna, il significato di questa accettazione, che avviene in un momento in cui essa non è necessaria; onde il vostro voto acquista il valore di un’accettazione volontaria di questa che è una rinuncia a quanto di più sacro vi è stato confidato dal popolo quando vi elesse: l’indipendenza e l’onore della Patria… Questi sono voti di cui si risponde dinanzi alle generazioni future: si risponde nei secoli di queste abiezioni fatte per cupidigia di servilità”.

Seguendo l’indicazione del Presidente della vittoria, non sarebbe il caso di cominciare a chiamare gli anti-sovranisti, mutuando l’espressione di Orlando: “servilisti”?

Teodoro Klitsche de la Grange

OLTRE SESSANTA E LI DIMOSTRA, di Teodoro Klitsche de la Grange

SESSANTA E LI DIMOSTRA

  1. Il 14 agosto 1941 ad Argentia nella baia di Placentia (Terranova) si incontravano il premier Winston S. Churchill e il presidente Franklin D. Roosevelt. Al termine dei lavori ritennero opportuno render noti taluni principi comuni della politica dei rispettivi Paesi, sui quali essi fondavano le loro speranze per un “più felice avvenire del mondo”. In particolare il terzo principio era il seguente “Essi rispettano il diritto di tutti i popoli a scegliersi la forma di governo sotto la quale intendono vivere; e desiderano vedere restituiti i diritti sovrani di autogoverno a coloro che ne sono stati privati con la forza”.

Tale dichiarazione è evidentemente rispettosa dell’autodeterminazione e della sovranità dei popoli: si riconosce il diritto a scegliersi la forma di governo; si auspica che tale diritto possa esercitarsi anche da coloro cui è stato sottratto con la forza.

Il tono muta decisamente con le dichiarazioni della conferenza di Yalta, nel febbraio 1945, pochi mesi prima della fine della guerra mondiale, quando buona parte dell’Europa già occupata dalla Germania era già stata liberata dagli alleati. Nella Dichiarazione sull’Europa liberata, (uno degli accordi raggiunti a Yalta) infatti si può leggere: “Il Premier dell’URSS, il Primo Ministro del Regno Unito e il Presidente degli Stati Uniti d’America si sono tra loro consultati nel comune interesse dei popoli dei propri rispettivi Paesi e di quelli delle Nazioni dell’Europa liberata. Durante il temporaneo periodo di instabilità che attraverserà l’Europa liberata essi dichiarano di aver congiuntamente deciso di uniformare le politiche dei loro tre Governi al fine di dare assistenza ai popoli liberati dalla dominazione della Germania Nazista e ai popoli degli stati satellite dell’Asse Europeo al fine di risolvere con strumenti democratici i loro pressanti problemi politici ed economici.

Il ristabilimento dell’ordine in Europa e la ricostruzione della vita economica nazionale dovranno essere raggiunti attraverso processi che permettano ai popoli liberati di distruggere ogni traccia di Nazismo e Fascismo e di creare proprie istituzioni democratiche. Questo principio contenuto nella Carta Atlantica, sancisce il diritto di tutti i popoli di scegliere liberamente la forma di governo che desiderano e riafferma la necessità di ripristinare il diritto alla sovranità per quelli che ne sono stati privati con la forza.

Per creare le condizioni nelle quali i popoli liberati possano esercitare questi diritti, i tre Governi, qualora fosse necessario, offriranno assistenza per:… Istituire delle autorità di governo provvisorie largamente rappresentative di tutti i settori democratici della società civile che si impegnino nel più breve tempo possibile e attraverso libere elezioni, a costituire dei Governi che siano espressione della volontà popolare;

Nel momento in cui, secondo l’opinione congiunta dei tre Governi, le condizioni di uno degli Stati Europei liberati o di quelli satelliti dell’Asse Europeo imponessero di intervenire, i suddetti tre Governi si consulteranno immediatamente tra loro per stabilire le misure necessarie da adottare e adempiere così agli obblighi previsti da questa dichiarazione.

Con tale dichiarazione intendiamo riaffermare la nostra fiducia nei principi contenuti nella Carta Atlantica, il nostro impegno a rispettare quanto stabilito nella Dichiarazione delle Nazioni Unite e la nostra determinazione a costruire in collaborazione con le Nazioni amanti della pace, un mondo in cui siano garantite legalità, sicurezza, libertà e benessere”; seguono le disposizioni per lo smembramento della Germania, sui risarcimenti, sui criminali di guerra, su alcuni Stati europei e sul Giappone. Di particolare interesse è una delle disposizioni relativa alle future elezioni in Polonia “Il Governo Provvisorio di Unità Nazionale dovrà impegnarsi ad indire al più presto libere elezioni a suffragio universale e a scrutinio segreto. Per tali elezioni tutti i Partiti democratici e anti-Nazisti avranno diritto a presentare liste di propri candidati”.

  1. Il significato di tale Dichiarazione, in cui si sottolinea la continuità rispetto alla Carta Atlantica, è in effetti assai differente e, in molti punti, opposto a quella[1].

In primo luogo, e seguendo l’ordine della Dichiarazione, i (prossimi) vincitori si presentano come curatori-interpreti dell’interesse dei popoli dell’Europa liberata. Nella realtà politica – e del rapporto politico – chi cura un interesse altrui è il protettore del tutelato e, per il “rapporto hobbesiano”, ha diritto all’obbedienza. Una enunciazione apparentemente “neutra” e benevola sottende ed esprime una realtà inquietante. Che si rivela già nel periodo successivo dove ai popoli europei si promette assistenza per risolvere con “strumenti democratici” i loro problemi: il che significa negarla a chi ne persegue la soluzione con strumenti – a giudizio delle potenze vincitrici – non democratici. Rafforzato ulteriormente nel passo seguente dove si delineano i caratteri e funzioni del “nuovo ordine”: distruggere il Nazismo e creare istituzioni democratiche. Il che è palesemente  in contrasto con quanto segue, che richiama la Carta Atlantica nel diritto dei popoli a scegliere liberamente la forma di governo “che desiderano” e ripristinare “il diritto alla sovranità”. Ma è chiaro che l’uno e l’altro diritto (che sono poi lo stesso, enunciato sotto diverse angolazioni, come scriveva tra i tanti Orlando) ha un senso solo se assoluto  e illimitato: a farne qualcosa di relativo, e limitato, lo si distrugge[2]. Per cui è chiaro che la “sovranità” limitata non è un’invenzione di Breznev all’epoca dell’invasione della Cecoslovacchia, ma aveva un autorevole precedente (e supporto) in questa dichiarazione, dove la libertà di darsi un ordinamento era limitata nei confini disegnati (e imposti) dalle potenze vincitrici.

Le quali si riservavano un diritto d’intervento, ovviamente generico, e illimitato nei presupposti e nel contenuto dei provvedimenti (le misure necessarie); diritto presentato come adempimento “degli obblighi previsti da  questa dichiarazione”: cioè un obbligo a carico di chi l’aveva costituito (un’auto-obbligazione). In realtà quella disposizione delinea la competenza a decidere dello “stato d’eccezione” all’interno degli Stati, ed è così un’attribuzione di sovranità alle potenze vincitrici. Peraltro la dichiarazione sulla Polonia, a meglio chiarire il concetto, prescrive subito che i partiti non democratici e non antinazisti non hanno diritto a presentare liste di candidati. Con queste premesse in pochi anni l’Europa (e non solo) fu tutto un fiorire di costituzioni: Italia (1948), Cecoslovacchia (1948), Bulgaria, (1947) Polonia (1952), Iugoslavia (1946), Albania (1946), Germania occidentale (1949), (e così via).

Anche la non sconfitta Francia sentì la necessità di darsene una, per la verità per motivi più “interni” che per le pressioni dei (veri) vincitori. Questa fioritura costituzionale, ovviamente, aveva meno a che fare con i principi ideali che connotano il potere costituente – in primis di costituire l’espressione della volontà della nazione – che con la necessità di adeguarsi ai nuovi rapporti di forza internazionali (più che interni).

Così capitò, che mentre le nazioni liberate dagli anglosassoni si dettero costituzioni – nella varietà istituzionale – tutte riconducibili ai “tipi” dello Stato borghese e connotate da sistemi pluripartitici, quelle al di là della cortina di ferro, si dettero carte da “socialismo   reale” e sistemi partitici fondati sull’egemonia del partito comunista. Cioè istituzioni, che lassallianamente, riproducevano il colore delle divise degli occupanti. Qualcuno, affezionato all’idea che a far le costituzioni siano (o debbano essere) i giuristi (i quali hanno la più circoscritta funzione di tradurre in regole quei rapporti di forza), ne sottolinea la diversità e varietà delle norme relative. Ma è un’obiezione che conferma la fecondità della distinzione schmittiana tra Costituzione e leggi costituzionali: la prima comprende le decisioni fondamentali e non può non esserci, perché altrimenti lo Stato non esisterebbe e/o non avrebbe capacità di agire (il che è come non esistere); mentre le altre sono per così dire, anche se importanti, accidentali: possono non esserci, o essere le più diverse. Ciò perché, come spiegava Lassalle non sono quella “forza attiva decisiva, tale da incidere su tutte le leggi che vengono emanate … in modo che esse in una certa misura diventano necessariamente così come sono e non diversamente”.

La variabilità di queste e l’invarianza e la “costanza” di quella sono conseguenze del diverso carattere. L’una che attiene alla sostanza e all’essenza del “politico”: comando, obbedienza, pubblico, privato, amico, nemico, in quanto presupposti fondamentali dell’esistenza e dell’organizzazione politica. Le altre, le regole, più o meno importanti ma comunque poco o punto incidenti sul “politico”.

  1. Quando si afferma che la Costituzione italiana è nata dalla Resistenza, si fa un’affermazione vera in astratto, ma errata in concreto.

Che sia vera in astratto lo prova la storia: quasi tutte le “nuove” costituzioni nascono da una crisi, per lo più bellica o in rapporto con una guerra. Non è vero che ogni guerra comporta una nuova costituzione; ma è vero l’inverso che (quasi) ogni costituzione nuova è il risultato e la conseguenza di una guerra.

Quando poi la guerra è civile la percentuale di “innovazione” costituzionale è quasi pari alla totalità. E quindi la resistenza, come qualsiasi guerra civile, avrebbe prodotto la nuova costituzione. Tuttavia, è errato pensare che la causa determinante della Costituzione vigente sia stata la resistenza. Perché in definitiva, vale sempre la tesi di Lassalle, il quale  afferma con dovizia di argomenti che gli “effettivi rapporti di potere che sussistono in ogni società sono quella forza effettivamente in vigore che determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società, cosicchè queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come sono”. “Questi effettivi rapporti di forza li si butta su un foglio di carta, si dà loro un’espressione scritta e, se ora sono stati buttati giù, essi non solo sono rapporti di forza effettivi, ma sono anche diventati, ora, diritto, istituzioni giuridiche, e chi vi oppone resistenza viene punito!”[3] .

E in realtà nel ’45 l’Italia era stata liberata ed era occupata da quasi un milione di armatissimi soldati americani e inglesi (e alleati); di fronte ai quali il potere delle Forze armate nazionali e di qualche decina di migliaia di partigiani era ben piccola cosa. Vale a proposito, occorre ripeterlo, il detto di Lassalle “un re cui l’esercito obbedisce e i cannoni – questo è un pezzo di costituzione”; e anche di potere costituente.

Per cui il fatto che le potenze vincitrici si fossero riservate di intervenire e che tutti quei soldati fossero delle Potenze anglosassoni significava non solo che il potere costituente sarebbe stato esercitato, ma che lo sarebbe stato in un certo senso. Cosa che fu colta, tra gli altri, da un politico realista e acuto come Togliatti: chi non lo capì fece la fine della Grecia, dilaniata da una seconda guerra civile, in cui, ovviamente, la fazione monarchico-legittimista vittoriosa era appoggiata dagli Anglosassoni.

  1. Fino alla fine del secolo XVIII ci si limitava a chiudere la guerra con un trattato che “registrasse” i nuovi rapporti di forza lasciando inalterato l’ordinamento del vinto; dopo la rivoluzione francese è invalso spesso d’imporre al vinto anche l’ordinamento. E con ciò di cambiare la propria costituzione con una nuova, frutto d’imposizione del vincitore. Già così s’esprimeva la mozione La Revellièrè-Lepeaux votata dalla Convenzione nel dicembre 1792, e con la quale s’iniziava, anche teoricamente e programmaticamente, la guerra civile internazionale, che vedeva contrapposti più che Stati contro Stati, borghesi contro aristocratici, giacobini contro cattolici, chaumiéres contro chateaux. Il cui esito comportava la rifondazione dell’ordine concreto del vinto con sostituzione dei governanti, delle istituzioni, delle norme con i modelli imposti dal vincitore. E di cui furono applicazioni le “repubbliche-sorelle” tra cui la nostra cisalpina (e le effimere romana e napoletana). Tale prassi, per la verità contenuta nel periodo post-napoleonico, ha ripreso vigore nel secolo scorso. In modo appena cennato dopo la prima guerra mondiale; del tutto apertamente a conclusione della seconda quando l’esercizio del potere costituente delle nazioni europee liberate e/o sconfitte fu, per così dire, sollecitato dai vincitori. In precedenza la prassi era l’inverso. Un giurista come Vattel nel Droit de gens (1758) già scriveva che “La nazione è nel pieno diritto di formare da se la propria costituzione, di mantenerla, di perfezionarla, e di regolare secondo la propria volontà tutto ciò che concerne il governo”. Questo era in linea con il pensiero pre-rivoluzionario, e, agli esordi, anche di quello rivoluzionario. Per Rousseau la costituzione è il prodotto della volontà della nazione. Polemizzando con le tesi dei privilegiati Sieyès partiva dall’affermazione “La nazione esiste prima di tutto, è all’origine di tutto. La sua volontà è sempre legale: è la legge stessa”: premesso ciò era impossibile che fosse legata da disposizioni preesistenti, anche se costituzionali “Una nazione è indipendente da qualsiasi forma ed è sufficiente che la sua volontà appaia, perché ogni diritto positivo cessi davanti ad essa come davanti alla sorgente e al signore supremo di ogni diritto positivo”. Nella Costituzione giacobina (quella mai applicata, perché chiusa nell’arca di legno di cedro in attesa della fine della guerra) il principio era inserito nella dichiarazione dei diritti: l’art. 28 proclamava solennemente che “un popolo ha sempre il diritto di rivedere, di riformare e di cambiare la propria Costituzione. Una generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni future” ma la prassi delle conquiste rivoluzionarie e poi napoleoniche era l’inverso: gli Stati-satelliti si davano degli ordinamenti ricalcati su quello francese. Ciò che era ovvio per la Nazione francese, non lo era per le altre. Kant, nel trattare del nemico ingiusto, scrive che il diritto dei vincitori non può arrivare “fino a dividersi tra loro il territorio di quello Stato e a fare per così dire sparire uno Stato dalla terra, perché ciò sarebbe una vera ingiustizia verso il popolo che non può perdere il suo diritto originario a formare una comunità; si può invece imporgli una nuova costituzione, che per la sua natura reprima la tendenza verso la guerra”[4]; ma pur ammettendo il diritto ad imporre la costituzione, nulla esplicitamente afferma sul potere costituente[5].

In effetti, nel pensiero di Kant sembra che ciò non possa escludersi: quando, scrive, ad esempio, “deve pur essere possibile al sovrano cambiare la costituzione esistente”[6]; è chiaro che o ha questo diritto o non è più sovrano. Il che è contrario alla concezione kantiana. Anche il passo sopra citato, che il popolo “non può perdere il… diritto…” significa, implicitamente, che conserva il potere costituente. Quindi se pure è, secondo il filosofo di Königsberg, possibile imporre una costituzione al nemico ingiusto, non è lecito impedirgli di cambiarla e sottrarre o limitarne, così, il potere costituente.

  1. Nella realtà la costituzione vigente è il risultato di quella sollecitazione, esternata negli accordi di Yalta, ben sostenuta dall’argomento-principe della sconfitta militare e dalla conseguenziale occupazione.

Si potrebbe obiettare che il procedimento democratico seguito – e l’alta partecipazione alle elezioni della Costituente – hanno attenuato il carattere d’imposizione e legittimato, in certa misura, la Costituzione che ne è conseguita. Anzi si potrebbe aggiungere che la procedura relativa – conclusasi politicamente anche se non giuridicamente, con l’elezione, il 18 aprile 1948 del primo Parlamento – abbia costituito un esempio di applicazione del consiglio di Machiavelli che regola della decisione politica è di scegliere quella che presenta minori inconvenienti[7].

E sicuramente dato il disastro militare e l’occupazione, non esistevano le condizioni per sfuggire (forse per attenuarla sì, a seguire il discorso di V. E. Orlando, sopra ricordato) alla logica degli accordi di Yalta.

  1. Ma in tale materia è importante essere consapevoli che certe scelte sono state in gran parte frutto di necessità (e di imposizione) e non prenderle per quelle che, a una visione giuridica (peraltro parziale e riduttiva), appaiono come scelte (ottime) del “popolo sovrano” il quale, come scriveva Massimo Severo Giamini, è sovrano solo nelle canzonette; e, in quel frangente, forse neppure in quelle. La sovranità implica libertà di scelta: quella non vi era né in diritto – limitata com’era dalle clausole dell’armistizio e del Trattato di pace – e quel che più conta era inesistente di fatto per la sconfitta e l’occupazione militare. Per cui alla Costituzione del ’48, ed alla relativa decisione si può applicare il detto romano per la volontà negli atti annullabili: che, il popolo italiano coactus tamen voluit.

Se quindi la madre della Costituzione fu l’Assemblea Costituente, i padri ne furono i vincitori della Seconda guerra mondiale. Ma se è vero che, a seguir Kant, al nemico ingiusto (e vinto) è consentito imporre la Costituzione, non lo è pretendere (meno ancora consentire) che quella Costituzione, nata in circostanze sfortunate, divenga come le tavole mosaiche, immodificabile come se fosse stata data da Dio, cosa non richiesta neppure da gran parte dei teologi cristiani. Infatti secondo la teologia tomista il potere costituente, la possibilità di darsi determinate forme di Stato e di governo compete al popolo: non est enim potestas nisi a Deo, cui deve aggiungersi per popolum[8].

Per cui, a cercare di comprendere perché sia vista per l’appunto, come il Decalogo la spiegazione può essere data in termini sociologici, richiamandosi a quella concezione di Max Weber per cui al mantenimento di certe tradizioni “possono connettersi degli interessi materiali: allorchè ad esempio in Cina si cercò di cambiare certe vie di trasporto o di passare a mezzi o vie di trasporto più razionali, venne minacciato l’introito che certi funzionari ricavavano dal pedaggio”[9]; ovvero quella ancora più cruda e demistificante di Pareto, per cui certi tipi di argomentazione sono riconducibili a quella classe di residui che chiamò della persistenza degli aggregati, ovvero nella inerzia e resistenza all’innovazione manifestate dai rapporti sociali in atto, che tendono a perpetuarsi nelle stesse forme, regole, relazioni (e fin quando possibile, persone).

Giacché le situazioni e relative decisione politiche, tra cui la normazione costituzionale, sono frutto di certi rapporti di forza (e di potere), ne producono e riproducono di compatibili; tra cui personale politico selezionato sulla base di quelli, è chiaro che sia a questi sgradito un ri-esercizio del potere costituente che metterebbe in discussione quei rapporti, e la stessa classe politica che ne è stata riprrodotta plasmata. La quale, pertanto, si oppone in ogni modo a qualsiasi cambiamento sostanziale della costituzione. Tra gli argomenti – le derivazioni all’uopo costruite, anche al fine di suscitare la fede nella propria legittimità – c’è di averne ricondotta integralmente la genesi alla lotta ed alla volontà del popolo italiano. Che è, una mezza verità. Purtroppo come tutte le mezze verità  ha l’inconveniente di nascondere una mezza menzogna (se non una menzogna tutta intera); e quello, ancora più pericoloso, di costituire un ostacolo ad una piena consapevolezza politica. Attribuire la costituzione ad una scelta (tutta) propria, occultare la parte nella genesi della stessa svolta dagli alleati, prendere la situazione politica dal primo dopoguerra e le scelte conseguenziali come un criterio di valutazione … per secoli, significa, come scriveva Croce, raccontar favole d’orchi ai bimbi. Nella specie, agli italiani, che, anche per questo, non assumono piena consapevolezza politica. E questa, in politica, significa se non l’impotenza, una mezza potenza, una ridotta attitudine a sviluppare le proprie potenzialità. Una sorta di  emasculazione volontaria .

  1. Che questo sarebbe stato l’esito della situazione e dell’ordine nato alla fine della seconda guerra mondiale era chiaro a qualcuno, tra cui Vittorio Emanuele Orlando che già lo prevedeva nel discorso, sopra citato, contro il Trattato di pace.

La cosa che più colpisce del discorso dell’anziano statista è come stigmatizza la coniugazione tra buone intenzioni (propositi) quali lo sviluppo della democrazia, la repressione del fascismo, la tutela dei “diritti democratici” del popolo, oltre che naturalmente di quelli umani contenuti nelle clausole del Trattato da un lato, e le conseguenti limitazioni e controlli sulla sovranità e sull’esercizio dei massimi poteri dello Stato, dall’altro. Diceva Orlando “Ho detto che questo Trattato toglie all’Italia l’indipendenza che non sopporta altri limiti che non siano comuni a tutti gli altri Stati sovrani. Or bene, approvando questo Trattato, voi approvate un articolo 15,…”[10] e prosegue “Questo articolo si collega con quella educazione politica di cui sembra che abbisogni l’Italia, e cioè la Nazione del mondo che arrivò per la prima all’idea di Stato, e l’apprese a tutti i popoli civili. Dovevamo proprio noi ricevere lezioni di tal genere! E meno male se fosse soltanto un corso di lezioni: ma si tratta di un umiliante limite alla nostra sovranità[11]; quanto all’art. 17 che imponeva di vietare la rinascita delle organizzazioni fasciste, sosteneva: “Non è già, dunque che l’art. 17 mi dispiaccia per sé stesso, ma mi ripugna come un’offesa intollerabile alla sovranità del nostro Stato. Qualunque atto di Governo può prestarsi ad una interpretazione che dia luogo alla accusa della violazione dell’art. 17. Intanto tutte le espressioni in esso usate sono elastiche, atte a favorire ogni punto di vista soggettivo. Una organizzazione dei così detti giovani esploratori potrà essere considerata come militarizzata”[12]. E così prosegue, ricordando l’iniquità delle clausole sul disarmo, sulle limitazioni alla ricerca che possa avere applicazioni militari “ma chi può dire  e sino a qual punto una scoperta in qualsiasi campo possa avere applicazioni militari? In conclusione anche i gabinetti delle nostre Università potrebbero essere assoggettati  ad un controllo, capace di impedire il proseguimento di uno studio scientifico!”[13]. Per cui conclude su questo punto: “l’indipendenza sovrana del nostro Stato viene dunque meno formalmente, cioè come diritto”[14] (oltre che di fatto come espone nel prosieguo). Orlando anticipava così l’opposizione ancora oggi ripresentantesi con frequenza tra tutela di certi “diritti” universali (o trans-nazionali) e integrità della sovranità e indipendenze nazionali. Lo Stato che assume la funzione di tutela di certi diritti, esercita un’influenza interna allo Stato “tutelato”. Così nella tradizionale “impermeabilità” tra interno ed esterno allo Stato si aprono falle, probabilmente destinate ad ampliarsi.

L’altra (principale) preoccupazione  di Orlando era la fragilità dell’assetto politico (e costituzionale in fieri) dell’Italia, incrementata dall’attitudine “psicologica” italiana ad accondiscendere a pretese esterne. Così distinguendo tra Italia e Francia afferma “Ma egli è che una vera superiorità alla Francia su di noi può riconoscersi nella fierezza dei suoi rappresentanti, per cui l’ipotesi di una Francia  come grande Potenza fu ed è sempre una pregiudiziale che si deve ammettere se si vuole conversare con un francese”[15], mentre “nei rapporti con l’estero noi ci dobbiamo sempre precipitare; noi sentiamo sempre l’urgente bisogno di dar prova al mondo che siamo dei ragazzi traviati, i quali avendo demeritato e non bastando la tremenda espiazione sofferta, ammettono la loro indegnità e non aspettano altro di meglio che di riabilitarsi e essere ripresi in grazia[16]. Per cui concludeva l’orazione con la ben nota invettiva “Questi sono voti di cui si risponde dinanzi alle generazioni future: si risponde nei secoli di queste abiezioni fatte per cupidigia di servilità[17]. Ansia condivisa da Benedetto Croce, il quale nel discorso contro il Trattato di pace (pronunciato all’Assemblea costituente il 24 luglio 1947) diceva “Il governo italiano certamente non si opporrà all’esecuzione del dettato; se sarà necessario, coi suoi decreti o con qualche suo singolo provvedimento legislativo, la seconderà docilmente, il che non importa approvazione, considerato che anche i condannati a morte sogliono secondare docilmente nei suoi gesti il carnefice che li mette a morte. Ma approvazione, no! Non si può costringere il popolo italiano a dichiarare che è bella una cosa che esso sente come brutta e questo con l’intento di umiliarlo e togliergli il rispetto di sé stesso, che è indispensabile ad un popolo come a un individuo, e che solo lo preserva dall’abiezione e dalla corruttela[18]; e proseguiva “coloro che questi tempi chiameranno antichi, le generazioni future dell’Italia che non muore, i nipoti e pronipoti ci terranno responsabili e rimprovereranno la generazione nostra di aver lasciato vituperare e avvilire e inginocchiare la nostra comune Madre a ricevere rimessamente un iniquo castigo;… ma vi dirò quel che è più grave, che le future generazioni potranno sentire in se stesse la durevole diminuzione che, l’avvilimento, da noi consentito, ha prodotto nella tempra italiana, fiaccandola”.

In ambedue i vecchi patrioti era evidente che quell’approvazione era il primo passo verso una capitis deminutio dell’indipendenza italiana; riecheggia in entrambi lo sferzante giudizio di Gobetti, che Mussolini non aveva tempra di tiranno, ma gli italiani avevano ben animo di servi.

  1. Il secondo “momento” di questa “rieducazione” era la Costituzione: pur nelle buone intenzioni, di chi l’aveva redatta, e nel pregevole tentativo – particolarmente riuscito nella prima parte – di coniugare l’impianto liberal-democratico con il c.d. “Stato sociale”, la repubblica parlamentare e regionale organizzata dalla seconda parte della Carta, era già obsoleta al momento di entrare in vigore. Scriveva Hauriou a proposito del “prototipo”di quella italiana, cioè la Terza repubblica francese “al momento della redazione della nostra Costituzione del 1875, non si era mai vista al mondo una Repubblica parlamentare, e fu una grande novità”. E ne attribuiva la durata a diversi fattori, istituzionali: d’essere il “giusto mezzo” tra dittatura dell’assemblea e quella dell’esecutivo; di perpetuare il governo delle assemblee, e con esso l’oligarchia parlamentare, pur svolgendo la funzione d’integrazione politica di altri strati della popolazione; ma anche sociali, costituendo un compromesso tra borghesia (vie bourgeoise) e “proletariato” (vie de travail). Tuttavia ne intravedeva già negli anni ’20 del secolo scorso, il tramonto[19]; come d’altra parte altri giuristi francesi. Cosa che avvenne puntualmente nel 1958, perché la repubblica parlamentare aveva esaurito la propria funzione, così acutamente esposta da Hauriou, e non era più adatta ai tempi nuovi, che erano quelli, a un dipresso, in cui l’Italia adottava questa “formula” politica e istituzionale. In Francia, dopo poco, dismessa.

La decisione italiana per la Repubblica parlamentare fu determinata da più motivi.

La ripulsa per il governo “forte” fascista, che fece preferire tra le tante forme di governo quella più “debole” possibile; il ricordo (positivo) del parlamentarismo liberale dello Statuto, cui però erano tolti proprio i principali fattori di stabilità e di governabilità, cioè la monarchia e il sistema elettorale maggioritario; la necessità di garantire un assetto policratico dei poteri pubblici finalizzato alla co-esistenza di partiti ideologicamente radicati quanto distanti; la mancata – o insufficiente – percezione dell’evoluzione economico-sociale dello Stato e delLa società moderna.

Tutte ragioni di carattere (e genesi) essenzialmente e in grande prevalenza “interno” ed “endogeno”; tuttavia alcune in (evidente) accordo col modello delineato (e imposto) a Yalta, specificato dall’occupazione militare anglosassone.

  1. Le condizioni del secondo dopoguerra sono cambiate, fino alla cesura rappresentata dal crollo del comunismo sovietico e dalla fine della guerra fredda; seguita dalla dissoluzione dell’URSS; speculare questa alla divisione, al termine della seconda guerra mondiale, della Germania – ora riunificata all’esito della guerra fredda – e dell’Impero giapponese.

Le conseguenze, anche in Italia, sono state notevoli; la caduta del sistema partitico della prima repubblica – salvo il PCI “graziato”; la fine della conventio ad excludendum nei confronti della destra; la sostituzione della legge elettorale proporzionale con sistemi (sia per il Parlamento che per gli enti territoriali) maggioritari. Buona parte della costituzione materiale è stata cambiata. Ma quella formale – se si eccettua l’innovazione al titolo V (cioè della parte “periferica” e non solo in senso territoriale della carta costituzionale) e qualche altra piccola modifica (come all’art. 11) è rimasto inalterato col suo impianto di repubblica parlamentare e policratica.

Permane quindi il “tabù” dell’intangibilità della parte essenziale della Costituzione, malgrado l’evidente inadeguatezza al governo di una società e uno Stato moderno e, più ancora, il venir meno della situazione politica e delle condizioni politiche e sociali che ne giustificavano, in una certa misura, l’adozione.

  1. Neppure è spiegabile questa durata con un interesse delle potenze vincitrici a “determinare” l’esercizio (e il prodotto) del potere costituente. Questo per (almeno) due ragioni. In primo luogo perché, come accennato, la situazione politica è distante anni-luce da quella del dopoguerra. Pensare che gli USA abbiano un interesse rilevante che l’Italia sia una repubblica presidenziale o parlamentare o una monarchia costituzionale o quant’altro appare difficile: crollato il comunismo è venuta meno anche la funzione dell’Italia quale paese di frontiera tra l’Est e l’Ovest.

Dall’altro perché la dissoluzione del comunismo ha eliminato il nemico anche sul piano interno. Di qui l’indifferenza – o lo scarso interesse – che la dialettica politica italiana e i modi in cui si svolge, possono oggi suscitare all’estero.

Piuttosto l’attaccamento a quella Costituzione si può spiegare con la funzione del mito (Sorel), dato che la Resistenza ha avuto la funzione di mito “fondante” della Repubblica, e la Costituzione ne è – secondo questa concezione – la figlia unigenita.

Ma più ancora ci può soccorrere, come sempre cennato, Pareto. Questi divide del Trattato i residui (cioè le azioni non logiche e gli istinti e sentimenti che le determinano) in sei classi; una delle quali è composta dai residui che si esprimono nella tendenza alla persistenza degli aggregati. Gli è che, applicando anche all’inverso la formula di Lassalle, la Costituzione formale, non solo garantisce i rapporti di forza che l’hanno determinata, ma li cristallizza e tende a riprodurli. Da cui consegue la resistenza al cambiamento di quelli che dalla stessa sono favoriti e garantiti, anche se la situazione – e le esigenze – sono sostanzialmente cambiate. Ed il fenomeno si è presentato tante volte nella storia: dalla crisi di Roma repubblicana nel I secolo a.C., a quella dell’Ancien régime (e del potere dei ceti privilegiati), già in gran parte demolito dall’assolutismo borbonico. Nihil sub sole novi.

L’importante è ricordare, e Pareto è qui quanto mai utile, che le ragioni esternate sono derivazioni di quei residui. E più ancora che dietro quelle ci sono concreti rapporti di forza che come tutte le relazioni sociali crescono, si mantengono e poi decadono, come mutano le situazioni reali che li hanno determinati; per cui è compito degli uomini, di rimodellare la nuova forma politica; com’è stata opera degli uomini aver realizzato quella sorpassata. Come scriveva Miglio la Costituzione non è la camicia di Nesso in cui il popolo italiano deve essere avvolto in eterno.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Si riprende la tesi esposta da Jeronimo Molina Cano in “La Costituzione come colpo di Stato” in Behemoth n. 38 luglio-dicembre 2005 p. 5 ss.

[2] Diceva V. E. Orlando nel vibrante discorso contro il Trattato di pace dell’Italia con i vincitori della Seconda guerra mondiale pronunciato nell’Assemblea Costituente il 30 luglio 1947 “anche grammaticalmente sovrano è un superlativo: se se ne fa un comparativo, lo si annulla” v. in Behemoth n. 3 luglio-dicembre 1987 p. 37.

[3] v. Über verfassungswesen trad. it. in Behemoth n. 20 luglio-dicembre 1996 p. 8

[4] Methaphisik der Sitten § 60.

[5] Anzi Schmitt la interpreta nel senso che “non intende ammettere… che un popolo fosse privato del potere costituente” v. Der nomos der erde, trad. it. Milano 1991, p. 205.

[6] Op. cit. § 52.

[7] V. Discorsi, lib. I, VI.

[8] Sul punto si richiamano i giuristi francesi citati nelle note del mio scritto Diritto divino provvidenziale e dottrina dello Stato borghese in Behemoth n. 41 gennaio-giugno 2007 p. 25 ss.

[9] M. Weber, Storia economica, trad. it. rist. Roma 2007, p. 261.

[10] Behemoth cit., p. 35.

[11] Ivi p. 35-36.

[12] Ivi p. 36.

[13] Ivi p. 36.

[14] Ivi p. 37.

[15] Ivi cit., p. 32.

[16] Op. loc. cit..

[17] Ivi cit. p. 40.

[18] V. in Palomar n. 18, p. 48.

[19] V. “Ce régime pourra durer tant que les nouvelles couches de la population garderont l’ambition de la vie bourgeoise, et il montre des qualités précieuses pour les embourgeoiser successivement sous le couvert des étiquettes politiques les plus variées. Mais le jour où la distinction de la vie bourgeoise et de la vie de travail aura disparu, il devra probablement s’effacer devant les institutions faisant une place plus large au gouvernement direct ” ; Précis de droit constitutionnel Paris 1929, p. 341 – v. anche p. 346.

ISTITUZIONE, NORME, VALORI E NUOVE FORME DI OSTILITA’ , di Teodoro Klitsche de la Grange

ISTITUZIONE, NORME, VALORI E NUOVE FORME DI OSTILITA’ *

A Paul Piccone In memoriam

 

Nella Theorie des partisanen Schmitt collega i nuovi tipi d’inimicizia all’aspirazione a valori più alti: “l’inimicizia…. non si rivolge più contro un nemico ma serve ormai solo una presunta imposizione oggettiva di valori più alti per i quali, notoriamente, nessun prezzo è troppo alto. Il disconoscimento della inimicizia reale apre la strada all’opera di annientamento di quella  assoluta”. Qualche anno dopo, nel saggio Die Tyrannei der Werte ritornava sull’argomento “la teoria dei valori celebra i suoi trionfi, come abbiamo visto, nel dibattito sulla questione della guerra giusta. Ciò appartiene alla natura della cosa. Ogni riguardo al nemico viene meno anzi si trasforma in un non valore, quando la battaglia contro questo nemico è una battaglia per i valori supremi. Il non valore non ha nessun diritto di fronte al valore, e nessun prezzo è troppo alto per l’imposizione del valore supremo”[1]. Tale affermazione può destare una certa sorpresa, perché le relative modificazioni nel diritto internazionale possono altrettanto, e più direttamente, ricondursi alle grandi rivoluzioni del XVIII (e XX secolo), in particolare a quelle francese e russa (come, d’altra parte sostenuto da Schmitt).

Proprio, ad esempio, nella prima, si teorizzò prima, e praticò subito dopo che la guerra, e il suo esito, non dovevano essere indifferenti (e senza effetti) sull’ordinamento “interno” del vinto. Con la votazione del decreto             La Révellière – Lépeaux e della proposta di Cambon alla Convenzione la guerra rivoluzionaria era qualificata come guerre aux chateaux, paix aux chaumières, per cui il nuovo ordine doveva essere esportato sulla  punta delle baionette, e le relative spese coperte dall’espropriazione dei patrimoni delle classi privilegiate, diversamente dalle guerre dell’ancien régime che lasciavano inalterato l’ordinamento politico e sociale dei vinti. Tuttavia l’approccio di Schmitt, più generale  e meno diretto,  alla teoria dei valori quale motore delle nuove – e più intense- forme d’inimicizia può essere correlato alla costante – almeno dagli anni ‘30- contrapposizione che il grande giurista sviluppa tra istituzione e norma e da quella tra soggettività ed oggettività nel diritto.

II

Nel saggio Űber die drei Arten des rechtwissenschatflichen Denkens Schmitt rende omaggio ai grandi giuristi (istituzionalisti) Maurice Hauriou e Santi Romano. In particolare osserva che malgrado la concezione istituzionista  del diritto risalga ad Aristotele e S. Tommaso “la distinzione qui accennata fra pensiero fondato sulle norme e pensiero fondato sull’ordinamento è sorta ed è divenuta pienamente consapevole solo nel corso degli ultimi decenni. Negli autori precedenti, non è possibile rintracciare un’antitesi come quella contenuta nel passo appena citato di Santi Romano. Le antitesi precedenti non riguardano la contrapposizione di norme e ordinamento, ma piuttosto quella di norma e decisione oppure di norma e comando” [2]. Sia in Hauriou che in Santi Romano, pur ritenendo entrambi  che il diritto consista tanto di norme che di istituzioni, il presupposto ( e la condizione d’esistenza ) ne è l’istituzione, e non le norme. Sono quelle – scrive Hauriou- “a fare le regole di diritto, non sono le regole a fare le istituzioni”[3]; e Santi Romano: “l’ordinamento giuridico, così comprensivamente inteso, è un’entità che si muove in parte secondo le norme , ma, soprattutto, muove, quasi come pedine in uno scacchiere, le norme medesime, che così rappresentano piuttosto l’oggetto e anche il mezzo della sua attività, che non un elemento della sua struttura”[4]. La stessa tesi è ripetuta da Schmitt [5], secondo il quale, per il pensiero fondato sull’ordinamento “la norma o regola non fonda l’ordinamento, essa svolge soltanto, sulla base o nell’ambito  di un ordinamento dato, una certa funzione dotata solo in misura modesta di validità autonoma, indipendente dalla situazione oggettiva”. Ed è proprio la necessaria oggettività del diritto a rendere preferibile un tipo di pensiero giuridico fondato sull’istituzione a quello normativistico. Hauriou, in polemica con Duguit sostiene: “il vero elemento oggettivo del sistema giuridico è l’istituzione; è vero che contiene un germe di soggettività che si sviluppa col fenomeno della personificazione, ma l’elemento oggettivo sussiste nel corpus della istituzione, e questo solo corpus, con la sua idea direttiva e il suo potere organizzato, è molto superiore per forza giuridica alla regola di diritto”[6]; Santi Romano afferma che “diritto non è e non è soltanto la norma che così si pone, ma l’entità stessa che pone tale norma. Il processo di obbiettivazione, che dà luogo al fenomeno giuridico, non si inizia con l’emanazione di una regola, ma in un momento anteriore: le norme non ne sono che una manifestazione” e prosegue “obbiettiva non si dice la norma giuridica solo perché scritta o altrimenti formulata con esattezza: se così fosse, essa non si distinguerebbe da molte altre norme, che sono capaci di quest’estrinseca formulazione”; invece  “il carattere dell’obiettività è quello che si ricollega all’impersonalità del potere che elabora e fissa la regola, al fatto che questo potere è qualche cosa che trascende e s’innalza sugli individui, che è esso medesimo diritto. Se si prescinde da questo concetto, il c. d. carattere dell’obiettività o non dice più nulla o. peggio, implica degli errori” [7]. Considerazioni simili svolge Schmitt, secondo il quale l’ “oggettività delle norme” è solo il riflesso dell’oggettività e della stabilità dell’ordine che le stesse concorrono a creare; la stessa aspirazione “borghese” alla sicurezza, normalità, prevedibilità, alla base del positivismo giuridico, è la conseguenza della sicurezza, normalità, prevedibilità  dell’ordine assicurato dai grandi Stati europei – in particolare Germania e Francia- nel XIX secolo; questi avevano creato una situazione di pace e sicurezza in cui le norme erano concretamente (e generalmente) applicabili.

In tutti e tre i giuristi la preoccupazione (e la critica) principale al normativismo era di ridurre il diritto a qualcosa di astratto, avulso dalla sua (principale) funzione: regolare effettivamente  ed efficacemente la vita sociale. L’obbiettivizzazione si realizza non – o non solo- in un corretto ragionamento logico,  con il quale un determinato fatto o azione è sussunta alle norme che la disciplinano; ma piuttosto nel fatto che la normativa vigente sia generalmente applicata e osservata sia dai cittadini che dai pubblici funzionari. Far rispettare la legge, creare e mantenere a tal fine una situazione normale, richiede autorità e consenso, potenza ed efficacia, comando e obbedienza, più che sillogismi ed implicazioni. Espungendo, come fa il normativismo, il problema ( in sé distinto) dell’applicazione delle norme e della loro effettiva vigenza nell’ambito sociale, (perché “sociologico” e non riconducibile alla Reine rechtslehre), e separandolo da quello dello jus dicere, la purezza e l’astrattezza del medesimo risultano tali solo perché sottraggono al diritto gran parte del suo ambito (e delle sue problematiche).

Così l’oggettività di una corretta applicazione delle norme si riduce alla validità e correttezza di una operazione logica e intellettuale (verificabile in base a Barbara e Darii, cioè a parametri di rigore logico), mentre l’oggettività, per giuristi come  Hauriou, Schmitt e Romano, consiste nell’incidenza reale del diritto vigente sui comportamenti sociali. Se questa è consistente il diritto ( e l’istituzione) è oggettivizzata; se scarsa e  episodica, non lo è.

III

Ed è proprio questo il criterio con cui è stato costruito uno dei più importanti istituti dello jus publicum europaeum; ovvero il riconoscimento.

Questo prescinde dalla legalità della costituzione del nuovo Stato che è riconosciuto. Requisito che sarebbe assai difficile da avere, perché nella totalità ( o quasi) dei casi un nuovo Stato si costituisce con il distacco di parte del territorio e della popolazione da un altro Stato, che difficilmente  vi acconsente; e un nuovo governo – intendendo con ciò un governo rivoluzionario – per definizione nega di derivare legalità e legittimità da quello che ha rovesciato. Il caso più problematico è il riconoscimento di uno Stato ribelle, in pendenza di una guerra civile: come capitato agli Stati Uniti nella guerra di Secessione, quando la Confederazione fu riconosciuta dalla Gran Bretagna e dalla Francia, cioè dalle più grandi potenze dell’epoca, appena pochi mesi dopo l’inizio delle ostilità. Come scrive Schmitt, il riconoscimento, in tal caso, si può configurare come un’ingerenza negli affari interni, contraria al diritto internazionale e comunque un grave torto al governo legale [8]. È da notare che in quella occasione il ministro degli esteri inglesi Lord Russel, del tutto in linea con la prassi del diritto internazionale, dichiarò che solo le dimensioni e la forza delle fazioni in lotta e non la bontà della loro causa dava loro diritto al carattere di belligeranti[9].

A prescindere dal significato politico (contingente)  del riconoscimento è consuetudine che si riconosca solo chi esercita un potere su territorio e popolazione determinati con un comando responsabile e un’organizzazione (relativamente) stabile, e non colui che può vantare un titolo, valido e regolare in base a norme, all’esercizio di quel potere (tantomeno quindi a chi sostiene valori positivi). Comando, organizzazione, territorio, popolazione sono gli elementi dell’istituzione statale; la loro presenza, anche se in forma fluttuante ed imperfetta in un movimento o partito rivoluzionario fa si, come scriveva Santi Romano, che lo stesso sia già un ordinamento giuridico[10] ; e ordinamento giuridico, secondo il giurista siciliano, è sinonimo d’istituzione. Per cui  nello jus publicum europaeum è l’effettività di un comando responsabile in uno spazio e su una popolazione determinata il presupposto per essere istituzione – Stato, quindi soggetto di diritto internazionale, ed esser riconosciuti come tale. In questo contesto la conformità o meno di quell’ordinamento a norme interne –ed anche internazionali- è di nullo (o scarso) rilievo rispetto al dato concreto di un comando effettivo. Solo chi lo esercita ha carattere rappresentativo, nel senso di potestà non solo di agire ed esercitare dei diritti, ma anche di obbligarsi ed eseguire le obbligazioni per la comunità: ch’è la condizione minima ed essenziale perché possa esistere un diritto internazionale. L’oggettività è qui intesa, pertanto, nel senso –realistico- dei giuristi ricordati.

IV

Se passiamo a considerare cosa s’intende per “valore”, questo è stato solitamente associato alla sfera economica. Hobbes definisce “il valore di un uomo” sulla base del “ prezzo che si pagherebbe per l’uso del suo potere”. Il problema di come si potesse legare a parametri oggettivi il “valore” di una cosa o di una prestazione è stato uno dei problemi più dibattuti nella scienza economica: ma per lo più le prospettazioni “oggettiviste” ( ovvero che prescindono da una scelta o valutazione soggettiva) hanno avuto minor successo[11]. Max Weber nel saggio Il senso dell’ “avalutatività” delle scienze sociologiche ed economiche rifiuta la trascendenza metafisica dei valori; piuttosto indica il “riconoscimento di un politeismo assoluto come la sola forma di metafisica ad essi corrispondente”. E il punto cruciale della questione è che “tra i valori, cioè, si tratta in ultima analisi, ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra <<dio>> e il <<demonio>>. Tra di loro non è possibile nessuna relativizzazione e nessun compromesso”[12]. Anche Schmitt si chiede se “il passaggio alle teorie oggettive dei valori, ha gettato nel frattempo un ponte sull’abisso, che divide la scientificità libera dai valori dalla libertà di decisione degli uomini? I nuovi valori oggettivi hanno rimosso l’incubo, che ha provocato in noi la descrizione della lotta delle valutazioni di Max Weber?”, per rispondere “non lo hanno fatto, e non lo potrebbero neanche fare. Senza aumentare neanche  minimamente l’evidenza oggettiva per coloro che la pensano diversamente, essi, mediante la loro asserzione del carattere oggettivo dei valori da essi posti, non hanno fatto altro che introdurre un nuovo momento dell’autocorazzarsi nella lotta delle valutazioni, un nuovo veicolo della pretesa di avere sempre ragione, il quale aizza e intensifica soltanto la lotta” perché “la teoria soggettiva dei valori non è superata, ed i valori oggettivi non sono già guadagnati,  nascondendo i soggetti e i portatori dei valori, i cui interessi forniscono i punti di osservazione, i punti di vista e i punti di attacco della valutazione. Nessuno può valutare senza svalutare, innalzare il valore, e valorizzare. Chi pone i valori, si è messo con ciò contro i non valori. La tolleranza e la neutralità sconfinate dei punti di osservazione e dei punti di vista scambiabili  a piacere si rovescia nel contrario, nell’inimicizia, non appena si impongono e si fanno valere seriamente i valori”[13].

Né  la logica dei valori evita i presupposti del politico, sia quello dell’amico-nemico, sia del comando-obbedienza[14]; scrive Schmitt “chi dice valore, vuol far valere e imporre. Le virtù vengono praticate; le norme vengono applicate; i comandi vengono eseguiti; ma i valori vengono posti e imposti. Chi sostiene la loro validità, li deve far valere. Chi dice che essi valgono, senza che qualcuno li faccia valere, vuole ingannare[15].

La spiegazione che ne dà il giurista di Plettenberg è: “la filosofia dei valori è sorta in una situazione storico-filosofica molto pregnante, come risposta ad una domanda minacciosa, che si era posta come crisi nihilistica del XIX secolo”; a tale proposito, condivide la considerazione di Heidegger che nel XIX secolo parlare e pensare per valori divenne usuale, e dopo Nietzsche addirittura popolare “si parla di valori vitali, di valori culturali, di valori eterni , di gerarchia dei valori, di valori spirituali, che si credeva per esempio di trovare nell’antichità. Attraverso l’esercizio erudito della filosofia e la rielaborazione del neokantismo, si arriva alla filosofia dei valori. Si costruiscono sistemi di valori, e si perseguono nell’etica le stratificazioni dei valori. Perfino nella teologia cristiana si qualifica Dio, il summum ens summum bonum, come il valore supremo. Si considera la scienza come libera dai valori e si gettano le valutazioni dalla parte delle concezioni del mondo. Il valore e ciò in cui esso appare diviene il surrogato positivistico del metafisico[16].

In realtà, i valori non sfuggono, come cennato, alle   costanti del politico (e della politica), in particolare al rapporto tra metafisica e organizzazione dello Stato[17] cioè alla teologia politica. In tal senso la teologia cristiana fondata su un Dio (unico e) onnipotente, trova l’analogia nella struttura sistematica del concetto del sovrano che ha il diritto di fare tutto quanto è nella propria potenza (Spinoza); che è soggetto solo attivo – e mai passivo- di rapporti giuridici (Kant); o nella Nazione sovrana che “è tutto ciò che può essere per il solo fatto di esistere” (Sieyès).

L’istituzione-Stato del diritto pubblico moderno si basa sul concetto della Sovranità: senza cui non c’è né un diritto costituzionale né un diritto internazionale moderno. Ed il Sovrano è come il Dio delle religioni monoteiste: ma se, riprendendo la metafora di Max Weber, nella realtà sociale c’è (è diffuso) un politeismo dei valori, una metafisica (o un suo surrogato)  che si fondi su un tale politeismo, difficilmente può supportare un diritto statale (interno) ed internazionale basato su istituzioni monoteiste.

D’altro canto la trasformazione in valore non è altro che “un trasferimento in un sistema di gradi nella scala dei valori. Essa rende possibili continui capovolgimenti sia dei sistemi di valori, sia anche dei singoli valori nell’ambito di un sistema di valori, mediante continui spostamenti nella scala dei valori”[18], che è quanto di più lontano dalla stabilità – sia pur relativa – intrinseca (al termine e) al concetto di Stato. Nella teoria istituzionalista lo Stato è in effetti un sistema sociale in movimento “lento e uniforme”, analogo a un organismo vivente, in cui la materia (gli uomini) muta di continuo, mentre la forma è stabile. E questa forma è costituita da un “governo e dagli equilibri essenziali della materia stessa”[19]. Ma se alle relazioni sociali istituzionalizzate sostituiamo scale di valori soggettivamente apprezzate la stabilità diventa una chimera. D’altro canto, secondo lo jus publicum europaeum un mutamento, anche della costituzione (e perfino del potere costituente) non modifica, nei rapporti internazionali, l’istituzione-Stato. Questa permane, anche se l’intero sistema normativo (ed a maggior ragione i valori di riferimento) venga cambiato. L’esigenza di stabilità ed oggettività è così salvaguardata dall’istituzione che dura anche in presenza di mutamenti rivoluzionari. La funzione oggettivante e stabilizzante di quella ne è confermata.

V

Vale cioè per i valori – anche se parzialmente – una delle critiche che i giuristi istituzionalisti rivolgono al normativismo: d’essere cioè da un canto estremamente statico, e dall’altro di sostituire il potere di dominazione dello Stato con quello di un “imperativo categorico, che equivale ad un ordine sociale essenzialmente coattivo”[20].  Hauriou con questo, in sostanza, contrapponeva la stabilità dell’istituzione (cioè il mutare pur conservando forma ed elementi fondamentali), alla staticità di un sistema normativo impersonale. Nella prima l’essenziale  dura, mentre l’elemento secondario (le norme) mutano; se si è, di converso, conseguenti alla seconda ne risulta o un ordinamento statico – e perciò poco adatto alla vita – o, al limite, di dover applicare le norme anche al prezzo della fine dell’istituzione. Adeguandosi così al detto fiat justitia, pereat mundus, ch’è proprio quanto rifiutato da tanti giuristi e filosofi, da Jhering ad Hegel, da Machiavelli a Santi Romano. Ciò che s’intende per “ordinamento giuridico” varia poi a seconda del tipo di pensiero (normativista o istituzionalista): per esempio con riguardo alla “completezza”. Mentre per completezza un normativista intende che ogni fatto può essere qualificato (sussunto) in base ad una norma, (e quindi, in tal caso, l’ordinamento è completo); per un istituzionista coerente l’ordinamento è completo quando l’organizzazione sociale rende possibile la decisione e risoluzione di ogni conflitto d’interessi[21].

Riguardo ad un altro (ed essenziale) aspetto Schmitt ritiene che il normativismo non riesca a risolvere il problema dell’unità dell’ordinamento giuridico: “Come può accadere che una quantità di disposizioni positive possa essere ricondotta con il medesimo punto di riferimento ad una unità, se si tratta non dell’unità di un sistema di diritto naturale o di una teoria giuridica generale, ma dell’unità di un ordinamento avente efficacia positiva?” e prosegue “Per Kelsen, l’unità sistematica è una «libera azione (Tat) della conoscenza giuridica». Prescindiamo per un momento dall’interessante mitologia matematica, secondo la quale un punto deve essere un ordinamento e un sistema e deve identificarsi con una norma, e chiediamoci invece su che cosa riposa la necessità ed obiettività concettuale dei differenti riferimenti ai diversi punti di riferimento, se non su una disposizione positiva, cioè su un comando. Come se fosse la cosa più naturale di questo mondo, si parla continuamente di una progressiva unità di ordinamento; come se sussistesse un’armonia prestabilita fra il risultato di una libera conoscenza giuridica ed un complesso legato in unità solo nella realtà politica”, per cui “La scienza normativa alla quale Kelsen vuole elevare, in tutta purezza, la giurisprudenza non può essere normativa nel senso che il giurista valuta in base ad una propria azione libera: egli può riferirsi solo a valori che gli vengono dati (positivamente). In tal modo sembra essere possibile un’obiettività, ma senza un nesso necessario con una positività. I valori ai quali si riferisce il giurista gli vengono dati, ma egli si comporta nei loro confronti con una superiorità relativistica”[22].

In realtà il problema dell’unità, partendo dal punto di vista normativistico, appare irrisolubile: come scrive Schmitt “chiunque potrebbe appellarsi alla giustezza del contenuto, se non ci fosse un’ultima istanza”[23], cioè il comando e la decisione sovrana. Per cui l’uno e l’altra, espunti dalla concezione normativista, rientrano per garantire l’unità dell’ordinamento. In effetti un appello al (contenuto di una) norma, se non c’è una decisione in ultima istanza, genera, anche in uno Stato moderno (pluralista), un soggettivismo e un pluralismo interpretativo contrastante con l’esigenza di unità dell’ordinamento (e con l’eguaglianza di fronte alla legge). Per il conflitto sui valori, a maggior ragione che per quello sulle norme o sulla giustizia, vale – nel caso estremo – quanto scriveva Locke, che non c’è giudice su questa terra che possa giudicarlo, ma comunque è dato l’appello al cielo. E ciò significa la guerra.

VI

Negli ordinamenti interni, il richiamo ai valori fatto da alcune Corti di giustizia ha per lo più il medesimo (o assai simile) significato, anche se enfatizzato, di principio o di norma-principio[24].

I costituenti, enunciando dei principi fondamentali, compiono in effetti delle valorizzazioni, connotate dall’essere tali valori tutelati con norme “rafforzate” come quelle costituzionali. Non si può negare che, garantendo degli interessi con norme costituzionali e anche ordinarie, il legislatore compie (anche) delle scelte di valore[25].

In questo senso, è chiaro che ogni comunità politica ha dei valori di riferimento, per lo più tutelati nella Carta costituzionale. Il che non significa che tali valori abbiano una validità (giuridica) ex se. Quello che conferisce loro validità è, per l’appunto,  il fatto di essere tutelati dall’ordinamento (e, per così dire incorporati). Ad oggettivizzarli è, in altri termini, il consenso formatosi  – e istituzionalizzato – sui medesimi da parte dei consociati: chi ritiene, invece, i valori validi ed evidenti ex se, mette il carro davanti ai buoi. Sono il consenso ed il comando ad avere funzione preponderante nell’ “oggettivizzare” i valori e non la pretesa qualità intrinseca: è cioè l’istituzione a valorizzare, molto più di quanto i valori possano istituzionalizzare[26]. Smend, che riteneva fondamentale per la vita dello Stato il processo d’integrazione, ne distingueva i tipi in tre classi: personale, funzionale, materiale. Con quest’ultimo, cioè “l’integrazione tramite partecipazione a contenuti di valori materiali”[27] compaiono nella concezione di Smend i valori. Questi costituiscono una delle componenti del sistema di integrazione, non esclusiva e prevalente più nelle unità politiche pre-moderne che nello Stato (moderno)[28]. Nello Stato moderno è, di converso, particolarmente importante sia la co-operazione dei tre tipi sia il coinvolgimento dei cittadini attraverso le procedure d’integrazione funzionale. Con la conseguenza che cambiare i “valori di riferimento” non implica una nuova istituzione o una nuova forma.

Un altro esempio di non-identificazione tra l’idea d’istituzione-Stato e compiti (scopi) dello stesso offre Hauriou, secondo il quale l’elemento più importante di ogni istituzione corporativa consiste nell’idea dell’opera da realizzare “non si deve confondere l’idea dell’opera da realizzare, che merita il nome di «idea direttiva dell’impresa», né con la nozione di scopo né con quella di funzione. L’idea dello Stato, per esempio, è cosa ben diversa dallo scopo dello Stato o della sua funzione”. E quanto scrive su scopo e funzione vale, a ratione maius, per il valore, che non rientra nella “formula” della direttiva dello Stato (come non vi rientrano scopo, funzione e norma[29].

Ma il problema si presenta più interessante nel diritto internazionale, che, come cennato, presuppone una pluralità di Stati sovrani. L’evoluzione della dottrina dello jus belli e dello justum bellum, dalla seconda Scolastica (Vitoria, Suarez, Bellarmino) ha visto, almeno fino al secolo scorso, il deperimento del requisito della justa causa belli e il ruolo preponderante dello justus hostis. Tale “deperimento” è attribuito al dubbio sui diritti e le ragioni degli Stati belligeranti: per cui la guerra è ritenuta legittima per ambedue le parti, purché titolari dello jus belli. Scrive Vattel “dans une cause douteuse, il est encore incertain de quel côté se trouve le droit. Puis donc que les Nations sont égales et indépendantes, et ne peuvent s’ériger en juges les unes des autres, il s’ensuit que dans toute cause susceptible de doute, les armes des deux parties qui se font la guerre doivent passer également pour légitimes”[30].

Tale evoluzione (poi invertitasi nel secolo scorso) può essere letta, in parte, come conseguenza del prevalere del carattere (giuridico) “istituzione” rispetto a quello “norma”. Anche se la justa causa di Suarez o Bellarmino non può identificarsi sbrigativamente con le nozioni di “violazione di norma”, o di “presupposto per l’applicazione della sanzione bellica”, dato anche il carattere istituzionalista del pensiero          giuridico cristiano e tomista in particolare (semmai sarebbe più esatto parlare di “violazione del diritto”)[31], tuttavia il concetto di justa causa è denotato principalmente dagli iniurarium genera, cioè dai torti, dalle violazioni del diritto. Ciò non esclude l’esattezza della considerazione di Schmitt che il concetto di justa causa introduce nella dottrina dello justum bellum degli elementi normativistici e contenutistici dubbi (se non assai difficili) da applicare in concreto, anche tenuto conto degli arcana imperii[32]; per cui, come scrive: “il carattere giuridico di una guerra viene trasferito da considerazioni contenutistiche di giustizia nel senso della justa causa alle qualità formali di una guerra interstatale di diritto pubblico, condotta da sovrani portatori della summa potestas[33] e il concetto di guerra giusta “è formalizzato in quello di nemico giusto. A sua volta il concetto di nemico viene orientato completamente, nello justus hostis, attorno alla qualità di Stato sovrano, per cui – senza alcun riferimento alla justa o injusta causa – viene stabilità la parità e l’eguaglianza tra le potenze belligeranti e raggiunto un concetto non discriminante di guerra, poiché anche lo Stato sovrano belligerante senza justa causa rimane, in quanto Stato, uno justus hostis”[34].

L’insistenza con cui Schmitt insiste sia sugli elementi tipici e necessari dello Stato (che permettono di relativizzare la guerra) e in particolare sulla “forma”, è conseguenza, per l’appunto, della possibilità di applicazione più sicura e meno foriera di danni di un diritto basato su istituzioni statali, con rappresentanti, organi, confini e responsabilità, rispetto ad un “sistema” di norme, e, ancor più, di valori.

Nel senso che gli da Schmitt il concetto (politico e giuridico) di forma  appare strettamente connesso a quello di ordine. Ciò che è in forma è ordinato per definizione; una guerra in forma tra due contendenti in forma permette anche in una situazione dinamica e tendenzialmente dis-ordinata come il conflitto bellico, di ridurre danni e identificare responsabilità. Ciò è permesso dall’ordinamento “gerarchico” dell’istituzione statale e, in particolare, dalla sovranità. Vale, in tal senso, ancora la definizione di S. Agostino che “l’ordine è la disposizione degli esseri uguali e disuguali che assegna a ciascuno il posto che gli conviene”[35].

È vero che avere una forma, significa anche avere delle norme (e delle relazioni). Ma che sia prevalente l’aspetto della forma nel senso, cennato, di autorità certa e responsabile, capace di comando efficace, cioè della prevalenza, ai fini del mantenimento di una situazione ordinata, di ciò che risponde alla domanda: chi decide? rispetto a quello della giustezza della decisione, lo dimostra proprio immaginare l’inverso. Se non vi fosse chi decide, e tutto il problema consistesse nella giustizia (contenutistica) delle decisioni, ognuno, come sopra cennato, potrebbe appellarsi contro (o invocare) la pretesa ingiustizia: e il disordine, causato da discussioni, lotte e querele interminabili non avrebbe fine. La limitazione dello jus belli a soggetti  in forma consente, peraltro, di ridurre i contendenti legittimi e gli effetti dei conflitti. E parlare di forma, a seguire Schmitt e Hauriou, significa parlare di istituzione. In effetti il problema del quis judicabit era posto proprio dai tardo-scolastici, per cui lo justum bellum era l’unico rimedio possibile dato che tra i contendenti non c’è un “terzo” superiore, provvisto dell’autorità di decidere[36]. E soprattutto quel “terzo superiore” deve necessariamente essere (incorporato in) un’istituzione. Anche se nel pensiero occidentale da Suarez a Locke, da Vattel ad Hegel, si ricorre all’immagine del Giudice come “terzo superiore”, onde la mancanza di quello, legittima (in certi casi) il ricorso alla guerra, tale richiamo è, in effetti, da intendere come quello della mancanza di un’istituzione “terzo superiore”. Non è l’esistenza di Tribunali, come sia le vicende del Medioevo e gli istituti del Sacro Romano Impero sia i processi ai vinti e i Tribunali internazionali diffusisi nel XX secolo dimostrano, a evitare la guerra e, soprattutto, a applicare efficacemente il diritto, ma l’istituzione-Stato, in grado di esercitare un comando effettivo ed eseguito[37].

VII

La sovranità e la rigorosa limitazione tra interno ed esterno (all’unità politica) hanno fatto si che, salvo eccezioni, la lotta tra valori, come i conflitti su norme e forme istituzionali, fossero confinati all’interno dell’unità politica. Tuttavia l’evoluzione del secolo scorso manifesta l’inversione di tale tendenza: la forma, le norme e i valori di una comunità organizzata in Stato non sono più indifferenti agli altri; d’altro canto la semi-legittimazione dei movimenti di resistenza ha moltiplicato i soggetti dello jus belli.

Il richiamo poi a diritti e valori, come l’istituzione di Tribunali internazionali deputati a tutelarli non serve a cambiare la realtà, ma semmai a occultarla.

La politica, e quella estera non meno dell’interna, ha la propria realtà nella volontà e nel comando. Hegel, esponendo il diritto internazionale classico, riteneva che “gli Stati sono l’uno verso l’altro nello stato di natura, e i loro diritti hanno la loro realtà non in una volontà universale costituita a potere sopra di essi, bensì soltanto nella loro volontà particolare” per cui “non c’è nessun Pretore tra gli Stati” e criticava la concezione Kantiana della pace perpetua[38]: “La volontà particolare del tutto, è…, in generale il benessere del tutto. Di conseguenza, questo benessere è la legge suprema nel comportamento di uno Stato verso altri Stati”[39]. E proseguiva che il benessere sostanziale è quello di uno Stato particolare, nei suoi interessi e situazioni concrete; per cui “il principio per la giustizia delle guerre e dei trattati, non è un pensiero universale (filantropico), ma è il benessere realmente offeso o minacciato nella sua particolarità determinata[40]. Il criterio di giustizia della guerra, coincide così, in Hegel, con quello della protezione dell’esistenza e della potenza dello Stato; quanto all’obiezione del conflitto tra morale e politica aggiunge: “la sostanza etica, lo Stato, si dà immediatamente – cioè, ha il suo diritto – non in un’esistenza astratta, bensì concreta: solo questa esistenza concreta, e non uno dei molti pensieri universali reputati come precetti morali, può essere principio delle sue azioni e dei suoi comportamenti”. D’altra parte, dato che una comunità organizzata in Stato, parafrasando Sieyès “è tutto ciò che può essere per il solo fatto di esistere”, ciò significa in primo luogo che non ha nessuna necessità di legittimazione etica o giuridica, ossia di corrispondere ad un modello ideale di valori o di procedimento. Per cui i “valori” cui si ispira sono un fatto interno all’unità politica, ne è possibile giudicare dalla conformità etica o giuridica il diritto – o meno – ad un’esistenza indipendente.

In questo contesto il richiamo ai valori, ancor più di quello al diritto, appare un potente moltiplicatore della conflittualità ed un promotore d’irregolarità, perché la ripresa della justa causa e l’affievolirsi dello justus hostis è la duplice ragione della de-istituzionalizzazione (de-statalizzazione) del diritto internazionale; e l’istituzione, più che la norma, è ciò che assicura normalità e regolarità effettive. Già Montesquieu sottolineava che “le droit de la guerre dérive donc de la nécessité et du juste rigide”. Ma se, di converso, lo si fonda su “principes arbitraires” di gloria, etichetta, (o attualmente su valori o diritti umani), “des flots de sang inonderont la terre[41]. La lotta per l’esistenza è sempre legittima: quella per dei valori non altrettanto.

Se la causa belli è costituita dalla volontà di diffondere (od imporre) diritti, istituti, valori che appaiono naturali (perché condivisi) da alcuni Stati, ma estranei ad altri – o assai meno condivisi – i “valori” (come le altre causae belli) sono, da un lato, la ragione per aggirare e superare i limiti (confini), attraverso un “diritto d’ingerenza” dell’istituzione – Stato, e, nel caso estremo, distruggerla: il tutto senza che un’imposizione dall’ “esterno” dei valori abbia un sicuro (e necessario) consenso, e, peraltro, senza che questo possa, in ogni caso, supplire, come strumento integrativo esclusivo, la pluralità dei “tipi” d’integrazione (cioè, in sintesi, quelli dell’istituzione – Stato debellanda).

Dall’altro una lotta per dei valori, diviene, in ogni caso, per necessità logica e storica, una lotta per l’affermazione (e il dominio) di una istituzione rispetto a un’altra. In particolare il tentativo di esportare l’ideologia occidentale – con mezzi bellici – appare il primo passo per costituire un nuovo assetto (istituzionale) di potere. Un impero che sostituisca il concerto pluralistico degli Stati[42].

Peraltro, come cennato, l’agire per dei “valori” non sfugge affatto alla logica del  politico: in realtà chi sostiene di rappresentare un valore più alto, rivendica per ciò di avere titolo per comandare chi preferisce quello più basso. La logica “gerarchica” dei valori si trasforma perciò in una dinamica di potere, particolarmente apprezzata in un periodo della storia umana in cui il potere deve render conto ad un’opinione pubblica, spesso de-politicizzata, ed ornarsi all’uopo di buone e commendevoli intenzioni. Sotto le quali nascondere o edulcorare la realtà della potenza e del comando, che non è un rapporto tra valori ma tra volontà, una delle quali prevale sulle altre. A confronto di ciò, il (notissimo) discorso degli ambasciatori ateniesi agli abitanti dell’isola di Melo, con la sua realistica e, a tratti, spudorata franchezza, è quanto di più onesto si possa immaginare[43].

Teodoro Klitsche de la Grange

 

* Questo articolo è stato scritto su sollecitazione di Paul Piccone, nell’ultimo colloquio che abbiamo avuto nel giugno 2004. E’ dedicato quindi, essendo anche suo, alla memoria dell’amico scomparso. E’ il “seguito” della Teoria del partigiano, oggi pubblicato su Telos n. 27 (Spring 2004), Ciudad de los Césares n. 69 (junio 2004) e su Imperi (n. 3 del 2004).

[1] V. Die Tyrannei der Werte,trad. it., Roma 1987 p.71(i corsivi sono nostri).

[2] Trad. it. ne Le categorie del politico. Bologna 1972 p. 260.

[3] La thèorie de l’institution et de la fondation (Essai de vitalisme social) , Paris, 1925, trad. it. Milano 1967 p. 45.

[4] L’ordinamento giuridico 1918, 2ª ed. Sansoni Firenze 1947 p. 130 e proseguiva: “sotto certi punti di vista , si può anzi ben dire che ai tratti essenziali di un ordinamento giuridico le norme conferiscono quasi per riflesso: esse, almeno alcune, possono anche variare senza che quei tratti si mutino, e, molto spesso, la sostituzione di certe norme con altre è piuttosto l’effetto anziché la causa di una modificazione sostanziale dell’ordinamento”.

[5] Op. ult. cit.

[6] op.cit. (trad. it.), Milano 1967, p.45 (i corsivi sono nostri).

[7] op-cit. pp 16-17 (i corsivi sono nostri).

[8] V. Der Nomos der erde, trad. it. Milano 1991, pp400-403.

[9] V. Schmitt op. ult. cit. p.400. Cioè, in sostanza, l’effettività del comando (e del consenso). Si noti, che, nel caso, fu riconosciuta la Confederazione degli Stati schiavisti, malgrado il “valore” della libertà personale fosse da secoli patrimonio degli Stati europei e del pensiero occidentale.

[10] v. Santi Romano Frammenti di un dizionario giuridico, Milano 1947, p.224.

[11] Per una sintesi del concetto e delle teorie del valore, si rimanda alla voce “Valore” redatta da Ugo Spirito in Enciclopedia Italiana vol. XXXIV, p. 944, Roma 1937.

[12] V. trad. it. di P. Rossi ne “Il metodo delle scienze storico-sociali” Milano 1980, p. 332.

[13] Die Tyrannei der Werte, tra. it. cit., pp. 65-66

[14] v. J. Freund, L’essence du  politique, Paris 1965

[15] op. ult. cit.p.61 (i corsivi sono nostri).

[16] op.ult. cit. pp.57-58 (il corsivo è nostro).

[17] v. C. Schmitt Politische Theologie trad it. P. Schiera ne “Le categorie del politico”, Bologna 1972

[18] Schmitt, Die Tiranney der Werte, p. 36.

[19] v. M. Hauriou Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 71

[20] M. Hauriou op. ult. cit. p. 11; e prosegue: Le primat de la liberté est remplacé par celui  de l’ordre et de l’autorité. La maxime fondamentale n’est plus: “Tout ce qui n’est pas défendu est permis jusqu’à la limite” elle est: “Tout ce qui n’est pas conforme à la constitution hypothétique est sans valeur juridique”.

[21] Santi Romano ne “L’ordinamento giuridico”, scrive, facendo l’esempio del giudice, che è possibile concepire un ordinamento “che non faccia posto alla figura del legislatore, ma solo a quella del giudice”. Da tale affermazione consegue che per essere completo, non gli occorrono norme che regolino ogni possibile caso, ma autorità che lo decidano. Ed è la risposta più conseguente al problema  del quis judicabit? v. op. cit. p. 20

[22] Politische Theologie trad. it. ne Le categorie del politico, Bologna 1972 pp. 46-47 (il corsivo è nostro).

[23] op. ult. cit. p. 57

[24] V. per la Corte Costituzionale italiana tra le più recenti 18 ottobre 2002 n. 422; idem 9 luglio 2002 n. 333; idem 7 febbraio 2000 n. 39.

[25] Il che non significa che tali scelte possano essere tranquillamente fatte anche dal giudice. Un giudice che invece di essere bouche de la loi, come nello Stato di diritto, diventi bouche de la valeur, con ciò giudicando di comportamenti (e anche di norme) in base a valori e non ad altre norme, sconta il fatto di divenire, nel migliore dei casi, assai impreciso. Nel peggiore, di surrogare il legislatore, o di sostituirlo. Ma ambedue gli esiti sono in aperto ed espresso contrasto con i principi dello Stato di diritto.

[26] Il pensiero (politico e) gius-pubblicistico “classico” ha come canone fondamentale quello dell’esistenza e non della normatività. È orientato dal dasein e non dal sollen.

Il problema (e l’imperativo) della politica e del costituzionalismo “classico” è come far esistere, vivere (e prosperare) la comunità politica, e solo in secondo luogo, secondo quali norme e valori.

L’aspetto “tecnico” del pensiero di Machiavelli, notato da Schmitt, come la secolarizzazione (cioè la separazione tra potere temporale e spirituale) ne sono i segni (e i fenomeni) più antichi. E il tutto era sviluppato nella concezione della ragion di Stato e nel diritto pubblico “classico”, partendo dal presupposto razionale che ciò che non esiste (o non è in grado di esistere) non può neanche darsi delle norme o dei valori (comunitari): ancora Croce scriveva “non vita normale, se prima non sia posta la vita economica e politica: prima il “vivere” (dicevano gli antichi) e poi il “ben vivere” (v. Etica e politica, Bari 1945, p. 228). A chi non è in grado di esistere politicamente, i valori secondo i quali vivere sono dettati da altri: è così sollevato dal peso della decisione di sceglierli.

[27] V. R. Smend Verfassung und verfassungrecht München-Leipzig 1928, Duncker and Humblot, trad. it., Milano 1988, p. 102.

[28]Se la realtà della vita dello Stato si presenta come la produzione continua della sua realtà in quanto unione sovrana di volontà, la sua realtà consisterà nel suo sistema di integrazione. E questo, cioè la realtà dello Stato in generale è compreso correttamente solo se concepito come l’effetto unitario di tutti i fattori di integrazione che, conformemente alla legislatività dello spirito rispetto al valore, si congiungono sempre di nuovo e automaticamente in un effetto d’insieme unitario”. Op. cit. p. 111; e poco dopo “La dissoluzione del sistema di valori medioevale significa nel contempo la dissoluzione della comunità di valori organica, naturale, non problematica, della “comunità” anche nel senso di Tönnies, cioè la fine dell’epoca in cui l’integrazione è prevalentemente materiale. L’uomo moderno spiritualmente atomizzato, desostanzializzato e funzionalizzato non è l’uomo senza valori e sostanza, ma l’uomo privo di valori costitutivi di comunità, soprattutto di quelli tradizionali, che sono ad un tempo valori necessari di un ordine culturale e sociale di tipo statico. Nei suoi confronti, perciò, il processo di formazione della comunità ricorre più di prima a tecniche di integrazione funzionale”op. cit. p. 112 (i corsivi sono nostri).

[29] La Théorie…, trad. it. cit., p. 15.

[30] Droit des gens, Liv. II, cap. III, § 40; altrove ritorna sull’argomento “La première règle de ce droit, dans la matière dont nous traitons, est que la guerre en forme, quant à ses effets, droit être regardée comme juste de part et d’autre. Cela est absolument nécessaire, comme nous venons de le fair voir, si l’on veut apporter quelque ordre, quelque règle, dans un moyen aussi violent que celui des armes, mettre des bornes aux calamités qu’il produit, et laisser une porte toujours ouverte au retour de la paix. Il est même impraticable d’agir autrement de Nation à Nation, puisqu’elles ne reconnaissent point de juge. Ainsi les droits fondés sur l’état de guerre, la légitimité de ses effets, la validité des acquisitions faites par les hommes, ne dèpendent point, extérieurement et parmi les hommes, de la justice de la cause, mais de la légitimité des moyens en eux-mêmes; c’est-à-dire de tout ce qui est requis pour constituer une guerre en forme” (i corsivi sono nostri), (liv. III, cap. XII, § 190).

[31] Tuttavia era ritenuto che anche se sussisteva la justa causa muovere guerra senza averne autorità, la rendeva ingiusta v. Suarez De charitate disp. 13 De bello: bellum quod…sine legitima auctoritate indicitur, non solum est contra charitatem, sed etiam contra iustitiam, etiamsi adsit legitima causa. Poco dopo ribadisce “nullum potest esse justum bellum sin subsit causa legitima et necessaria. Est conclusio certa et evidens..”

[32] C. Schmitt Der nomos der erde trad. it. Milano 1991 pp. 182 e ss.

[33] op. ult. cit. p. 182

[34] op. loc. cit. (il corsivo è nostro).

[35] De Civitate Dei, lib. XIX, 13

[36] V. Suarez op. cit. “Sicut supremus princeps potest punire sibi subditos quando aliis nocent, ita potest se vindicare de alio principe, vel republica, quae ratione delicti ei subditur; haec autem vindicta non potest peti ab alio iudice, quia princeps, de quo loquimur, non habet superiorem in temporalibus”; all’obiezione che è contro lo jus naturae che in questo modo nella stessa controversia la parte sia attore e giudice replicava “non posse negari, quin in hoc negotio eadem persona quodammondo subeat munus actoris et iudicis, sicut etiam in Deo conspicimus, cui potestas publica similis est; causa vero alia non est, quam quia actus hic iustitiae vendicativae fuit necessarius humano generi, et naturaliter atque humano modo non potuit via ulla dari convenientior”.

[37] Che il problema sia, per l’appunto, quello dell’esecuzione, e non – o non tanto – dello jus dicere è evidente. Hegel, criticando Kant scrive che il tutto presuppone la concordia tra gli Stati. Il problema vero si pone, tuttavia, quando c’è la discordia. (v. nota 37). In realtà l’antitesi tra diritto senza forza e forza senza diritto è verbale, dato che, in concreto, entrambe portano a situazioni di anarchia e conflittualità diffusa. L’antitesi reale all’anarchia è l’istituzione, che non nega né l’esigenza del diritto né la necessità della forza, ma regolarizza la seconda attraverso il primo, istituzionalizzandoli.

[38] “La rappresentazione kantiana di una pace perpetua, da attuare mediante una lega di Stati che appiani ogni controversia e che, in quanto potere riconosciuto da ogni singolo Stato, componga ogni discordia rendendo quindi impossibile la decisione per via bellica, presuppone la concordia tra gli Stati. Tale concordia, però, si baserebbe su fondamenti e aspetti morali, religiosi o quali che siano: in generale, avrebbe pur sempre per base delle volontà sovrane particolari, e perciò rimarrebbe affetta da accidentalità”. V. Lineamenti di filosofia del diritto, § 333, trad. it. di V. Cicero, Milano, 1995.

[39] Op. cit. § 336.

[40] Op. cit. 337.

[41] Esprit des lois, lib. X, Cap. II.

[42] V. sul tema il saggio di J. C. Paye Lotta antiterrorista, un atto costituente (Behemoth n. 36).

[43] La guerra del Peloponneso V, 84-113: il punto decisivo delle argomentazioni ateniesi è allorchè esprimono la “costante” politica del dominio: “ la nostra opinione sugli Dei, la nostra sicura scienza degli uomini ci insegnano che da sempre, per invincibile impulso naturale, ove essi, uomini o Dei, sono più forti, dominano. Non siamo noi ad aver stabilito questa legge, non siamo noi che questa legge imposta abbiamo applicata per primi. Era in vigore quando ce l’hanno trasmessa, e per sempre valida la lasceremo noi che la osserviamo con la coscienza che anche voi, come altri, ci imitereste se vi trovaste al nostro grado di potenza”; e l’inutilità del ricorso ad argomenti di giustizia: “ gli uni e gli altri sappiamo che nel linguaggio della vita reale le ragioni della giustizia vengono prese in considerazione solo quando la necessità preme ugualmente sull’una o sull’altra parte; se no, ci si adatta: i più forti agendo e i deboli cedendo”.

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