ECCEZIONE E CORTE COSTITUZIONALE, di Teodoro Klitsche de la Grange

ECCEZIONE E CORTE COSTITUZIONALE

Nell’intervista data qualche giorno orsono al “Corriere della Sera” la Presidente della Corte costituzionale ha ribadito considerazioni sull’emergenza da Coronavirus e tutela dei diritti costituzionali consolidate da tempo nell’establishment italiano. E che inducono ad un esame critico.

La prima, sostiene la prof. Cartabia è che la Costituzione italiana non prevede alcuna normazione sullo stato di eccezione. Su ciò non si può non concordare.

Ma se è vero ciò non si comprende come, qualche anno fa, si descriveva soprattutto dal centrosinistra, quella italiana come “la costituzione più bella del mondo”, mentre quelle racchie prevedono (quasi) tutte norme e procedure per lo stato d’eccezione. Anche perché, incidendo lo stato d’eccezione su diritti costituzionalmente garantiti, è opportuno che la Costituzione (o almeno un atto equiparato come una legge costituzionale) preveda organi, competenze, procedure e situazioni che legittimino le deroghe alla normativa costituzionale. Ha ragione Agamben a scrivere “che lo stato di eccezione moderno è una creazione della tradizione democratico-rivoluzionaria e non di quella assolutista”; perché fino a quando non vigevano diritti garantiti da una Costituzione (quasi sempre scritta) non era necessario neppure prevedere specifiche prescrizioni su se, quando e come derogarvi.

Questo senza voler introdurre la tesi (da ultimo, in particolare, di Santi Romano) che la necessità è fonte del diritto, superiore alla legge, la quale ha precedenti illustri: dal romano salus rei publicae suprema lex allo scolastico necessitas legem non habet. Onde il criterio per valutare la validità delle misure d’emergenza non è la conformità alle norme ma la congruità allo scopo, non essendo previsti organi, competenze, procedure, situazioni.

Secondariamente la Presidente sostiene che anche in situazioni di crisi valgono i principi (costituzionali) di sempre. Si noti parla di principi e non di norme o precetti. E aggiunge che la diversità delle situazioni a poter giustificare l’applicazione e in che misura di detti principi. Così nella terminologia impiegata (e nel concetto espresso) esprime una concezione riconducibile al neo costituzionalismo allo “Stato di diritto costituzionale” nelle università italiane largamente condivisa, e di cui un acuto giurista argentino, Luis Maria Bandieri ritiene che abbia sostituito il neopositivismo, basato sulla norma e sulla Stufenbau (ossia un positivismo di norme) con un positivismo di principi e di valori.

In terzo luogo, e sempre coerentemente al neo-costituzionalismo, la Presidente ritiene che giudicare se la normativa emergenziale è o meno conforme se non alle norme almeno ai principi costituzionali e in che misura, è la Corte costituzionale, attraverso la tecnica del bilanciamento e della ragionevolezza onde se un diritto costituzionale è sacrificato la congruità e proporzionalità del sacrifico è giudicabile, come per qualsiasi altro caso, anche non riconducibile allo stato d’eccezione, dalla Corte Costituzionale. Per cui, con ciò, risponde anche all’interrogativo: quis judicabit?

Non si può non concordare anche se parzialmente, su quanto affermato e compiacersi che, anche nell’emergenza, valgano le tutele (e le procedure di garanzia) ordinarie.

Tuttavia la ricostruzione della prof. Cartabia si presta a qualche obiezione.

In primo luogo lo stato d’eccezione può essere originato da crisi del più vario tipo: terremoti, inondazioni, pandemie, guerre (e altro). C’è una differenza essenziale però tra quelle causate da eventi naturali ovvero dalla volontà umana, come la guerra (internazionale o civile) o le situazioni acute di ostilità (embarghi, blocchi economici) e le altre, causate da eventi naturali.

A proposito delle quali non è comprensibile quanta sia l’utilità dei Tribunali laddove la causa è la volontà ostile, dato che i mezzi per contrastarla non sono nella disponibilità dei giudici, ma dei governi (dalla bomba atomica in giù). Il fatto che un Tribunale giudichi lesivo del diritto di proprietà che l’esercito abbia requisito un fondo per farne un bunker è confortante ma poca cosa rispetto al fatto che il nemico sia respinto. Nella crisi che stiamo vivendo, si fa abuso delle metafore del virus come nemico, della malattia come battaglia (ecc.) ma comunque a un “nemico” siffatto manca il connotato principale: la volontà ostile.

Nelle situazioni di emergenza la tutela dei diritti è bene vi sia, ma, nell’economia generale, diritti e giustizia hanno un ruolo secondario se non marginale. Nell’emergenza contano di più i doveri di solidarietà “politica, sociale ed economica”, come dispone l’art. 2 della Costituzione. Ma soprattutto rileva il conseguimento dell’obiettivo: superare la crisi con il minimo danno possibile.

Secondariamente bisogna chiedersi perché le disposizioni delle costituzioni degli Stati democratico-liberali, almeno da quello che mi è capitato di leggere, affidino ad organi politici legittimati democraticamente (in via diretta o indiretta) dichiarazione e gestione degli stati d’eccezione. Nessuna che ci risulti, lo ha affidato alle Corti Costituzionali: si può rispondere che è ovvio, per quanto appena scritto.

Le Corti possono decidere delle controversie, ma per affrontare la crisi occorre il potere governativo-amministrativo, con mezzi e personale adatto non solo a conoscere ma soprattutto ad agire. Ma sul punto è più interessante notare che i suddetti organi sono stati investiti non solo perché hanno i mezzi (e le responsabilità) ma perché sono politici e soprattutto legittimati democraticamente.

Già dai primi decreti e atti legislativi francesi dell’epoca rivoluzionaria e napoleonica a dichiarare lo stato d’eccezione erano, a seconda dei regimi, gli organi (come il Direttorio o l’Imperatore) legittimati democraticamente (eletti o plebiscitati). Per cui il giudizio politico – che è quello che maggiormente conta – è dato dal popolo che giudica se i propri governanti abbiano affrontato la crisi in modo soddisfacente. A ciò deve aggiungersi il corollario, per la verità più evidente in alcuni saggi di neo-costituzionalisti che nell’intervista del Presidente, che un allargamento dei poteri della Corte costituirebbe una deriva verso lo “Stato dei giudici” (Justizstaat). Poco auspicabile a meno di non politicizzare le Corti costituzionali – più di quanto non sia – trasformandole nelle repliche del Consiglio dei dieci di Venezia, che Machiavelli riteneva avesse, oltre a quelle giurisdizionali (anche) le funzioni di fronteggiare le situazioni eccezionali (Discorsi, I, XXXIV).

In terzo luogo, se indubbiamente il richiamo a “principi” e “valori” costituzionali e non a norme ha il pregio di rendere la decisione più adattabile alla situazione, conformandola alla necessità contingente, e così generando un “diritto flessibile”. è assai dubbio se, il pregio, spesso richiamato, del carattere “neutro” della Corte ma ancor più la struttura del processo e la razionalità attribuita alla decisione in contraddittorio siano ragioni produttive di consenso, più delle elezioni alle cariche pubbliche, tipico degli organi democratici.

Come scrive Bandieri, esponendo (e sintetizzando) le concezioni di scrittori neo-costituzionalisti “la politica odierna non sarebbe più capace di mediare i conflitti concernenti valori essenziali, né d’esprimere un qualsiasi «consenso razionale», mentre la politica giudiziaria col suo strumentario tecnico ricolmo d’imparzialità, è presentata come la sola capace di padroneggiarlo1.

Sarebbe così, scrive il giurista argentino, necessario per superare “l’insufficienza del principio maggioritario” (ovviamente rinunciando al medesimo).

Ma a parte il fatto che se non c’è il principio maggioritario l’alternativa reale è che decide una minoranza (l’unanimità è in diritto interno praticamente esclusa), è realistico supporre che il consenso a dei principi o valori (più facilmente) sia preventivo e antecedente rispetto all’organizzazione del potere, almeno a quella compiuta.

Usando la terminologia di Maurice Hauriou un Gouvernament de fait diventa Gouvernement de droit, perché organizza in istituzioni l’idea di diritto già condivisa nella comunità. La constitution sociale precede la constitution politique. O per dirla nel lessico di Rudolf Smend realizza l’integrazione materiale (oltre alle altre forme d’integrazione) non tanto perché produce consenso, ma perché il consenso ai principi e valori applicati dai governi, dai parlamenti come dai Giudici già c’è, e, in generale, si mantiene nei limiti in cui non vengano traditi. “Principi e valori” devono essere già condivisi nella comunità, come d’altra parte, per qualsiasi regime politico.

La storia insegna come sia difficile governare, ove l’èlite sia decisa a far valere un “insieme” di principi e valori diversi, o peggio contrapposti a quello dei governati. Spesso gli ordinamenti degli imperi sono stati più tolleranti delle diversità dei popoli e delle culture, anche prevedendo giudici “di comunità” e leggi personali. Ma nel mondo globalizzato la tendenza è proprio il contrario: a espandere una particolare “tavola dei valori” (diritti umani-mercatismo universale) e regimi democratici (almeno fino a una certa data, e non si sa con quanta convinzione), a chi di democrazia non voleva saperne.

Onde è più difficile, se non impossibile che l’ “imparzialità” e la procedura possano surrogare la diversità fondamentale di opinioni ed interessi meglio di organi politici, democraticamente scelti. Come d’altra parte è chiaro che, a proteggere i diritti sono più adatte le Corti che i governi.

In conclusione e sintetizzando argomenti degni di più diffusa trattazione: nello stato d’eccezione, a qualunque causa dovuto, la protezione dei diritti fondamentali è un bene. Le Corti costituzionali che lo fanno, anche. Ma uscire dall’emergenza, con i meno danni possibili è il meglio. Per cui vale per le Corti (e per i Tribunali) quanto diceva de Gaulle per l’intendenza: che segue.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 v. in Behemoth on-line n. 54.

UN GIURISTA EUROSCOMODO, di Teodoro Klitsche de la Grange

UN GIURISTA EUROSCOMODO

Il 17 aprile scorso è venuto a mancare Giuseppe Guarino, illustre giurista ed avvocato, oltre che deputato e più volte ministro. In tempi di MES e di euro-furberie, buona parte dei commenti a caldo (specie sui media ad elevata diffusione) hanno voluto ricordare che era un europeista. Dato che purtroppo oggigiorno l’aggettivo non accomuna tanto ad Adenauer, Martino, Monnet e ai “padri fondatori”, ma a qualche grigio euroburocrate o a governanti nazionali euroasserviti , il rischio di equivocare il pensiero di Guarino, strumentalizzandone la figura, è alto. Per la verità, scendendo nell’audience, i “coccodrilli” sul giurista sono più equilibrati, e ricordano come avesse criticato l’andazzo preso dall’Unione europea nell’ultimo trentennio, che aveva tradito – in larga parte – la visione dei fondatori.

E lo fece da giurista, sostenendo l’invalidità di atti dell’U.E., contrari ai trattati e alla “funzione” dell’Unione europea.

Il saggio che sviluppa in modo più completo le tesi critiche di Guarino è “Cittadini europei e crisi dell’euro”, pubblicato nel 2014 dall’Editoriale Scientifica. La recensii quasi subito nel numero 55 (on-line) di “Behemoth”. Dopo poco tempo l’editore (mi si disse su segnalazione del prof. Guarino) chiese l’autorizzazione a pubblicarla anche (in stampa) sulla rivista “Diritto comunitario e degli scambi internazionali”.

In tempi in cui pompose mediocrità, per lo più affette da complesso euroancillare cercano di perseverare (anzi di aggravare) negli errori che il prof. Guarino con tanto acume (giuridico e politico) stigmatizzava, mi sembra utile riproporla ai lettori.

Teodoro Klitsche de la Grange

Giuseppe Guarino, Cittadini europei e crisi dell’euro, Editoriale scientifica, Napoli 2014, pp. 185, € 14,00.

 

Questo è un libro denso di idee, E quel che parimenti interessa, aderenti alla realtà: quella da cui molti giuristi, in specie quelli più à la page, rifuggono.

È scritto da un giurista dotato di visione non limitata al proprio ambito scientifico (in genere strettamente inteso). La cui tesi di fondo è che i guai provocati dall’euro (che siano guai è sicuro, e Guarino cita – all’uopo – ripetutamente i dati, drammaticamente sconfortanti, della stagnazione dei paesi dell’area “euro”), siano dovuti ad un regolamento, illegale perché contrario al TUE (Maastricht), che ha realizzato un vero e proprio golpe. Scrive l’autore “Il golpe è stato attuato a mezzo del reg. 1466/97. Per la formazione del regolamento, come si è detto, si è fatto ricorso alla procedura di cui agli artt. 103, n. 5 e 189 c) TUE che, nello stesso momento in cui è stata utilizzata, è stata anche violata perché ce se ne è avvalsi per uno scopo diverso dall’unico previsto.

La procedura di cui agli artt. 103, n. 5 e 189 c) TUE in nessun modo avrebbe potuto essere impiegata per modificare norme fondamentali del Trattato. L’essersene avvalsi configura una ipotesi non di semplice illegittimità, bensì di incompetenza assoluta. Gli atti adottati sono di conseguenza non illegittimi, ma nulli/inesistenti”. Il che comporta, a ragionare con precisione e consequenzialità giuridiche, la responsabilità degli organi dell’Unione e delle persone fisiche che lo hanno posto in essere. Per cui abrogare il predetto regolamento attraverso un contrarius actus non è nulla di illegale o illegittimo, ma è semplicemente il ripristino di una situazione di legalità internazionale, perché le norme mutate dal regolamento 1466/97 sono disposizioni di Trattato internazionale. Ma cosa ha prescritto il regolamento 1466/97 in violazione sia delle norme dei Trattati sia degli obiettivi dell’Unione, come dei diritti degli Stati. Scrive Guarino: “Quanto all’Unione è stato modificato, in modo radicale ed irreversibile, l’obiettivo principale, consistente (artt. 2 e 3 TUE) nel conseguimento di uno sviluppo dalle caratteristiche e secondo le modalità previste nei suddetti articoli e nell’aver abrogato, per aver regolato in modo diverso la intera materia, l’art. 104 c) TUE, contenente la disciplina dei mezzi di cui gli Stati si sarebbero potuti avvalere per l’adempimento all’obbligo di promuovere sviluppo.

Quanto agli Stati la illecita variazione consiste nell’averli privati, con l’abrogazione degli artt. 102 A, 103, 104 c) TUE, nonché degli altri connessi, a mezzo di norme (quelle del reg. 1466/97) regolanti in modo diverso l’intera materia , degli unici poteri politici ad essi attribuiti in funzione alla conduzione economica dell’Unione”, e aggiunge l’autore che ciò “ha inciso sul carattere fondamentale dell’Unione, in assenza del quale gli Stati non sarebbero stati legittimati a parteciparvi, quello della democraticità. È l’affermazione che tra tutte genera la massima incredulità”.

L’acuto giurista sostiene che, per rimediare, e data la comprovata dannosità dell’attuale disciplina dell’euro, tra l’altro non conforme al TUE, ma in violazione dello stesso, occorre,per i paesi a rischio, un’uscita concertata dalla moneta unica, che non ha nulla di illegale, dato che significa il passaggio da paese senza deroga a paese con deroga, come ce ne sono – allo stato – undici nell’U.E. La soluzione migliore sarebbe che lo facessero di concerto quattro o cinque Stati. Meglio se tra i promotori ci fossero la Francia e l’Italia.

Ci sono tante cose in questo libro, e con dispiacere il recensore, ratione officii le  deve tralasciare per concentrarsi su due che colpiscono più di altre i giuristi, e che sottolinea per i lettori.

La prima che Guarino, a proposito della disciplina dell’euro, la definisce robottizzata: ossia di una moneta che non ha – sopra – un vertice politico decidente e decisivo, ma solo una regolazione normativa. Ma se è così (e così è) la regolamentazione dell’euro ha un pregio: verificare sul piano fattuale la non praticabilità di un assetto fondato sulla perfezione (bontà, saggezza) della normazione, senza un potere che diriga e all’occorrenza ne deroghi. L’idea del nomos basileus applicata, nel caso, alla moneta comune, si è rivelata illusoria . Il pensiero va a de Maistre e al suo giudizio tranchant  “il n’est pas au pouvoir de l’homme de créer une loi qui n’ait besoin d’alcune axception”. L’eccezione  serve di tanto in tanto: ma la necessità di adeguarsi ai cambiamenti è costante. E la regolamentazione dell’euro non ne ha tenuto conto; essendo stato pensato (e ri-pensato) in un periodo di cambiamento, ha una disciplina che poteva essere congrua in periodi di stabilità – come quello dalla fine del secondo conflitto mondiale al crollo del comunismo – non lo è quando la situazione si “mette in movimento” (ossia negli ultimi vent’anni), per cui occorrono flessibilità, adeguamenti; cioè decisioni. Il tutto ricorda la critica che un altro acuto giurista, Hauriou, rivolgeva ad Hans  Kelsen e al normativismo: che il giurista austriaco aveva immaginato un sistema statico, e per ciò inadatto alla vita, che è movimento ed alla quale il diritto si deve adeguare.

Ma come ci si può adeguare se il potere “adeguatore”, cioè quello politico, manca? Essere guidati dall’impersonalità della norma, piuttosto che dalla personalità della decisione è una prospettiva forse seducente, ma del tutto irreale, come salire su un automobile senza conducente:prima o poi si va a sbattere. É quello che hanno constatato gli europei. Si è sognata – nel XX secolo, la “Costituzione senza sovrano” (Kirkheimer – e tanti altri, dopo) per verificare che senza sovrano  non può funzionare neppure la moneta.

La seconda: a prescindere dalla lettera della normativa, farcita di buone ed appetibili intenzioni è al contenuto effettivo, e al senso delle norme che deve guardarsi. Come scrive Guarino “la modifica introdotta dal reg. 1466/97 rispetto al TUE (Maastricht), sul piano formale, è consistita nell’abrogazione di un diritto-potere, quello degli Stati di concorrere alla crescita con la propria “politica economica”, concorrendo così anche alla crescita dell’Unione, sostituendola con un obbligo/obbligo, gravante sugli Stati, avente come contenuto il pareggio del bilancio a medio termine, da conseguirsi nel rispetto di un programma predeterminato. Gli elaboratori delle norme non si sono resi conto delle conseguenze che sarebbero derivate dall’aver messo a base del sistema, un “obbligo” al posto di un “potere”. Di conseguenza il sistema ha leso la libertà degli Stati, ossia delle comunità di decidere come, quanto e in quali direzioni crescere. La libertà politica comunitaria è in primo luogo quella di scegliere scopi, mezzi e forme del vivere comune e si chiama sovranità; adesso non “va di moda” ma non se ne può prescindere, ancor meno di quanto si possa fare a meno della libertà individuale.

Nel complesso un libro che si consiglia di leggere dato il surplus di idee che lo connota. In un coro di banali cortigianerie agli idola ed ai potenti (economici, burocratici e politici) di turno sentire qualcuno che non canta nel coro (ed è molto intonato) è salutare e necessario.

Teodoro Katte Klitsche de la Grange

LA MENZOGNA È UN RITORNELLO…, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA MENZOGNA È UN RITORNELLO…

C’è un segnale inconfutabile che il governo Conte-bis sta per istituire nuove imposte o alzare qualche aliquota: e non è solo la proposta (di deputati del PD) dal nome buonisolidarista di “Contributo di solidarietà” sui redditi superiori a € 80.000,00, ma è che già i corifei delle élite decadenti hanno intonato di nuovo il ritornello ripetuto tante (purtroppo) volte negli ultimi 50 anni: lotta all’evasione! paghiamone meno paghiamole tutti! Dopo che è stato gorgheggiato a lungo, l’esperienza insegna,  segue, puntuale come la morte, uno o più aumenti (o istituzioni) d’imposta che, avrebbero lo scopo esternato di combattere l’evasione”, ma invece hanno quello praticato, di far pagare di più quelli che non evadono (i soliti). Risultato esternato che è peraltro poco (o punto) raggiunto . Facciamo un esempio. L’IVA, l’imposta che ha il maggior gettito dopo l’IRPEF, fu istituita nel 1972 e vige dal 1973; l’aliquota ordinaria nel 1973 era del 12%. Nel tempo tale aliquota ha avuto 9 variazioni: 7 al rialzo (ne dubitavate?) e 2 al ribasso. Con gli ultimi rialzi dei governi Berlusconi (sul piede di partenza) e Letta siamo arrivati al 22%.

Ossia l’aliquota è quasi raddoppiata. A che è servito il (quasi) costante rialzo? Sicuramente ad aumentare la predazione dei contribuenti i quali pagano per ogni cessione di beni e servizi soggetti all’aliquota ordinaria (quasi tutti) il 10% in più a Pantalone (obiettivo colto ma occultato). Quanto al fine esternato il calcolo è più difficile, per il carattere presuntivo e/o parziale dei dati. Comunque da dati (relativamente) affidabili si sostiene che dal 1980 al 2009 l’evasione dell’IVA è calata dal 20% al 14%; valutazioni diffuse alla CGIA di Mestre danno un’evasione stimata (totale, cioè di tutte le imposte e contributi) di circa euro 100 miliardi l’anno dal 2010 al 2015 (relativamente stabile) e per l’IVA, nello stesso periodo di circa 35 miliardi annui. I due aumenti, nello stesso periodo 2010-2015 che l’avevano portata dal 20% al 22% non sembra abbiano inciso affatto sull’evasione.

D’altra parte è noto come le sciagure – come la pandemia – stimolino l’appetito fiscale dei governanti. Amilcare Puviani scriveva che “il sopraggiungere di sventure pubbliche, il minacciare di pericoli nazionali e perfino l’esagerazione o addirittura l’invenzione di quelle o di questi, danno luogo ad attenuazioni degli effetti penosi immediati di imposte, opportunamente collegate a quegli eventi”; ghiotta occasione, quindi, per aumentarle. Pertanto è difficile per il governo PD-M5S resistere alla tentazione, specie per il PD ch’è abituato a cedervi.

Piuttosto è interessante notare come, da quasi cinquant’anni, tale argomento-principe per tosare i cittadini sia un asserto così poco ragionevole e smentito dai fatti.

Gli è che “pagare meno, pagare tutti” è affermazione che ha una qualche base: è vero ad esempio che un’imposta spalmata su un maggior numero di contribuenti, incide meno pro-capite. Se si aggiunge a ciò la proporzionalità dell’imposizione, il carico appare equamente ripartito, Ma se, come avviene (ed avveniva) spesso, non incide (di fatto o di diritto) su tutti e/o non lo fa proporzionalmente, indubbiamente la situazione si deteriora. Al punto che l’esenzione (totale o parziale) della nobiltà e del clero da molti oneri tributari fu una delle cause, forse la principale, della rivoluzione francese.

Scriveva Salvemini che nell’ancien régime le imposte “fuggivano quelli che avrebbero potuto pagare e si abbattevano su chi non era in grado di difendersi”. Possedendo gli ordini privilegiati circa un terzo delle terre francesi (in un paese agricolo!) la conseguenza era che i restanti due terzi dovevano soddisfare quasi integralmente i bisogni crescenti dell’amministrazione statale. Se l’affermazione è vera e si fonda su una semplice divisione da scuola elementare (il dividendo è il fabbisogno delle finanze pubbliche, il divisore il numero dei contribuenti, il quoziente il carico fiscale pro-capite) altri fattori, non puramente quantitativi e forse più determinanti, la condizionano.

Il primo dei quali è l’aumento del dividendo: se il carico fiscale aumenta, il quoziente è sempre più gravoso, anche se equamente ripartito. Altro è dividere un carico fiscale che, nell’Italia di un secolo fa, si aggirava intorno al 20% del PIL, altro oggi, che è oltre il 40%. Anche se equo è comunque troppo.

Il secondo è la destinazione del prelevato: se va a favore di certi ceti o classi, la disuguaglianza, cacciata dal prelievo, si riproduce nella spesa. Tutti pagano in modo uguale, ma alcuni ricevono disegualmente (i tax-consommers).

Il terzo, che il vertice impositore è un complesso politico-amministrativo che, come tutte le classi dirigenti, vive non solo per la politica, ma altrettanto di politica, come scriveva Max Weber. E quindi si appropria di parte della ricchezza prelevata. Quando peraltro la classe dirigente gode di poca considerazione, ha un consenso minoritario e un’autorità (non il potere, autorità) prossima allo zero, come quella italiana attuale, il problema è grave. E diventa gravissimo in un’epoca in cui il risultato economico (in termini di crescita del benessere individuale e collettivo) è decisivo. I governanti attuali, e quasi tutti i precedenti, hanno aumentato il prelievo e non hanno ottenuto altro che una venticinquennale stagnazione, la peggiore d’Europa. E tralasciamo altri rilevanti aspetti del “quadro” complessivo per esigenze di “redazione”.

Perciò è razionalmente superficiale e quindi poco o nulla “comprendente” ridurre a un solo aspetto, forse neppure il principale (ancorché importante) il complesso rapporto tra esigenze pubbliche e giustizia, autorità e consenso, doveri e diritti.

A furia di ripetere il ritornello suddetto, ormai da quasi mezzo secolo e dopo tali penosi risultati significa quindi solo contare sul presupposto che tutti gli italiani siano (detto in politicamente corretto) “diversamente intelligenti”.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

CORONAVIRUS ED ECCEZIONE III, di Teodoro Klitsche de la Grange

CORONAVIRUS ED ECCEZIONE III

Continuano le perplessità su effetti e conseguenze istituzionali del Coronavirus. Specie in relazione, (dato che grazie – al cielo – il contagio sta calando) alla cosiddetta “fase due”.

Avevo già scritto che mai Carl Schmitt era stato così citato dai media come dall’inizio della pandemia. Anche, per lo più, da intellos che conoscono il giurista per sentito dire o, al massimo, per letture sommarie. E quindi lo intendono male.

Il “nocciolo” del ragionamento schmittiano, condiviso da gran parte dei maestri del diritto pubblico, è che quando è in gioco l’esistenza comunitaria (e la vita), si devono tollerare le compressioni necessarie ai diritti, anche a quelli garantiti dalla Costituzione. Ma vale anche l’inverso: allorché la situazione emergenziale viene meno, devono cessare anche quelle limitazioni; così come queste vanno valutate in relazione non (o meno) alle restrizioni dei diritti (e dei valori) garantiti dalla Costituzione che all’effettiva attitudine (e risultato) a conseguire lo scopo prefissosi: l’eliminazione (o almeno il contenimento) dell’emergenza che le ha rese opportune. Ma non sempre il giudizio è positivo.

Come esempio (negativo) di un’emergenza strumentalizzata ad altri fini, abbiamo la crisi italiana del 2011. Il governo Monti osannato dai media come idoneo al compito di ridurre il debito italiano, proprio su questo conseguì il peggior risultato: in poco più di un anno e mezzo, a prezzo di sacrifici notevoli, riuscì a far aumentare il debito italiano dal 116,50% al 129,00% del P.I.L.

Oltretutto coniugando tale pessimo risultato a un aumento  delle imposte che ha ridotto il tenore di vita degli italiani. Peggio di così…..

Non pensiamo che il governo Conte bis otterrà un risultato simile al governo “tecnico”, non foss’altro perché le epidemie arrivano, crescono e cessano. I proclami di vittoria, soprattutto quelli confezionati dal governo  hanno quindi il limite dell’ovvietà, Più interessante è sapere il quando, il quanto e il come se ne uscirà. Ricorda Manzoni che durante la peste di Milano le autorità presero le prime misure di emergenza circa un mese dopo che le avevano deliberate cioè dopo che “la peste era già entrata in Milano”. Colla loro inerzia accrebbero i danni. Come scriveva Schmitt “conseguire un obiettivo concreto significa intervenire nella concatenazione causale degli accadimenti con mezzi la cui giustezza va misurata sulla loro adeguatezza o meno allo scopo e dipende esclusivamente dai nessi fattuali di questa concatenazione causale… significa infatti il dominio di un modo di procedere interessato unicamente a conseguire un risultato concreto”. E il bilancio – anche dell’adeguatezza dell’azione di governo – sarà possibile solo quando raggiunto il “contagio zero”.

Nello stato d’eccezione la sovranità mostra la propria superiorità rispetto alla norma: è stato Bodin il primo a definirla come summa in cives legibusque soluta potestas: quindi agli albori dell’elaborazione del concetto i connotati qualificanti già ne erano: la preminenza rispetto agli altri poteri (summa) e d’esser svincolata dalla normativa (legibusque soluta). Almeno dalle leggi, cioè dalla normativa posta dal potere e per volontà del medesimo, secondo il noto frammento di Ulpiano. La sfida affrontata dal sovrano nello stato di eccezione non è negare il diritto – e tanto meno l’ordinamento – ma di ri-creare una situazione normale in cui la norma possa tornare a poter essere applicata.

É nell’eccezione (e in modo in certo modo simile nel gouvernment de fait di Hauriou) che l’istituzione politica – cioè lo Stato (moderno) – mostra sia la propria essenza che la superiorità dell’istituzione rispetto alla norma. Dall’impossibilità o anche dall’inutilità di applicare norme in una situazione eccezionale, quindi a-normale, dimostra la necessità e la precedenza istituzionale della “creazione”, da parte dell’autorità, di una situazione in cui la norma possa avere vigore ed efficacia. Come scrive Schmitt  “Il caso di eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue dalla norma giuridica, e l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto”.

E tale “creazione” non ha nulla a che fare con le garanzie dell’ordinamento – nel senso dei diritti individuali – affidate (per lo più) ai Tribunali, e in particolare al livello più alto, alle Corti costituzionali. La riparazione di un diritto trova proprio nel potere giudiziario il più adatto ad assicurarlo.

Ma nella situazione eccezionale il problema è garantire “la situazione come un tutto nella sua totalità”. A esser garantito non è l’interesse e la correlativa pretesa del singolo, ma la concreta applicazione di tutto il diritto attraverso il ripristino della situazione normale.

Ne consegue che è la situazione (eccezionale o normale) a determinare l’opportunità di promulgare, mantenere, far cessare le misure per fronteggiare l’emergenza. Così come è il risultato a determinare se, finita l’emergenza, l’azione delle autorità di governo sia stata congrua, e in che misura. Ora è troppo presto per formulare una valutazione definitiva.

Quanto alla fase due, ancora è da venire, e il giudizio sulla stessa anche.

Capisco la diffidenza di tanti italiani data l’esperienza che altre situazioni emergenziali (o, meglio presunte tali) sono state utilizzate dai governi per l’unico fine di sfruttare i cittadini, senza altro risultato (v. da ultimo quello “tecnico” citato) che realizzare il contrario dello scopo esternato. Ma ora è troppo presto per dare un giudizio: non lo è per avere fondati sospetti.

Teodoro Klitsche de la Grange

PEGGIO FIORENZIO?,di Teodoro Klitsche de la Grange

PEGGIO FIORENZIO?

Un vecchio detto latino recita “historia docet”, ma l’esperienza insegna che spesso non è così. Gli è che per imparare dalla storia, occorre che gli studenti la conoscano, la capiscano e non trovino buone ragioni per non mettere in pratica quanto appreso.

E di fronte all’alzata di ingegno di deputati del PD di istituire un “contributo di solidarietà” a carico dei contribuenti con reddito superiore a € 80.000,00 (lordi) ci è venuto in mente quanto quell’adagio sia contraddetto dai comportamenti, in particolare della burocrazia.

Non che mi abbia meravigliato: è una condotta ripetuta in Italia che ad ogni sciagura collettiva segue, quasi sempre, un aumento delle tasse. Se Puviani fosse vivo lo spiegherebbe probabilmente coll’emozione collettiva, la paura hobbesiana dei sopravvissuti, i quali, scampati al peggio  accettano di sottomettersi ai nuovi balzelli. E di questo le classi dirigenti si approfittano, aumentando l’imposizione la quale, al contrario dell’emergenza che l’ha “giustificata” non ha un inizio e una fine (come tutto) ma la sgradevole tendenza a perpetuarsi da provvisoria a (tendenzialmente) eterna. Se si legge l’elenco delle accise sulla benzina, ad esempio, si ha il riassunto di gran parte delle sventure sopportate negli ultimi 90 anni dagli italiani. Si parte dalla guerra d’Etiopia (1935) fino al terremoto in Emilia di qualche anno fa per complessive: guerre e missioni militari 3, terremoti 5, alluvioni 3, varie (dagli autobus ecologici al finanziamento della cultura, al “finanziamento immigrati”) 5 e infine la peggiore di tutti, il decreto “salva Italia” del governo Monti che, caso unico, riassumeva in se i connotati sia della sciagura che dell’imposta corrispondente.

Quindi nessuna novità, neppure nell’aspetto socio-politico dell’imposta ventilata che colpisce (come al solito) i ceti medi, cioè i meno propensi a votare PD, e quindi i primi candidati allo sfruttamento fiscale.

Questo ricorda un episodio della vita dell’imperatore Giuliano, allora Cesare delle Gallie, subordinato al cugino, l’Augusto Costanzo, da cui era stato circondato di funzionari ligi all’Augusto. Racconta Ammiano Marcellino che il giovane Cesare, issato al comando pur dedicandosi alla filosofia, si rivelò un generale eccezionale. Dato che i franchi e gli alamanni avevano occupato gran parte della Gallia orientale da alcuni anni, li sbaragliò, passò il Reno e li costrinse a restituire il bottino (o almeno gran parte) e i galli da loro deportati e ridotti in schiavitù. Il prefetto del pretorio Fiorenzio, tutto contento del ritorno dei contribuenti e dei territori, si fregò le mani e propose a Giuliano di provvedere alle finanze pubbliche con requisizioni a carico dei sudditi.

Ma Giuliano, scrive Ammiano, “affermava di preferire la morte anziché permettere una simile misura” perché sapeva che provvedimenti analoghi avevano rovinato le provincie. Alle proteste di Fiorenzio si mise a fare i conti dimostrandogli che la somma ricavata col prelievo ordinario era già sovrabbondante. Dato che il prefetto del pretorio, dopo qualche tempo, tornò alla carica col decreto fiscale da firmare, lo buttò per terra. Ai rilievi di Costanzo (causati da un rapporto di Fiorenzio) Giuliano rispose che bisognava ringraziare il cielo che i sudditi galli, dopo le depredazioni subite, pagassero almeno le solite imposte, senza gli aumenti sollecitati dal burocrate.

Il quale, qualche anno dopo, fece carriera e fu fatto console da Costanzo; morto il quale e succedutogli Giuliano, vista la mala parata, scappò e fu condannato a morte in contumacia.

A fare scuola comunque fu più Fiorenzio che Giuliano, purtroppo per l’impero romano (d’occidente). Racconta Salviano, quasi un secolo dopo, che i sudditi romani scappavano dalle zone (ancora) amministrate dall’Impero a causa delle vessazioni della burocrazia imperiale, per rifugiarsi in quelle occupate dai barbari, dove quella non arrivava. E così l’Impero cadde.

Dalla narrazione di Ammiano Marcellino (e dal… seguito) risulta che quando, per garantire quello che Gianfranco Miglio chiamava “rendite politiche”, si sfruttano e s’impoveriscono le popolazioni (l’Italia con la crescita quasi zero degli ultimi vent’anni e la prospettiva di calo rilevante del PIL, causa pandemia ne è esempio) non si consolida lo Stato: lo si manda in rovina.

Teodoro Klitsche de la Grange

CORONAVIRUS ED ECCEZIONE II, di Teodoro Klitsche de la Grange

CORONAVIRUS ED ECCEZIONE II

È inutile ripetere quanto già scritto (v. Coronavirus ed eccezione) su questo sito che le crisi sono spesso generatrici di cambiamenti decisivi; e questi quasi sempre – nascono da situazioni di emergenza. È l’eccezione e non la situazione normale l’acceleratore della storia.

Tocqueville, a proposito della rivoluzione francese scriveva che questa aveva compiuto bruscamente “con uno sforzo convulso e doloroso, …quanto si sarebbe compiuto a poco a poco, da se e in molto tempo”. La rivoluzione realizzò in pochi anni, e a prezzo di immensi dolori, quanto si sarebbe comunque realizzato. Perché iscritto nelle tendenze della storia, e in buona parte avviato dalla monarchia assoluta.

Certo tra crisi e cambiamenti la relazione non è simmetrica, nel senso che ogni crisi genera un cambiamento, ma è vero, come sopra cennato, che tutti (o quasi) i cambiamenti reali seguono una crisi,

E questa tendenza – quasi una regolarità – è sempre stata nella consapevolezza del pensiero politico giuridico, da Polibio a Machiavelli, da Spinoza ad Hauriou, da Santi Romano a Carl Schmitt. Proprio Machiavelli in un celebre capitolo del Principe (il XXV) ne da una spiegazione/descrizione nel rapporto tra fortuna e virtù.

Il segretario fiorentino ricorda che molti sostengono l’“opinione che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio, che li uomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi non vi abbino rimedio alcuno” tuttavia dato che gli uomini hanno il libero arbitrio, possono fronteggiare (l’avversa) fortuna con la virtù: e la fortuna “sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam ce ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi”: ma proprio in Italia la situazione della penisola era dovuta alla mancanza nei governanti di “conveniente virtù” che invece non mancava in Francia, Spagna e Germania.

Ed è la fortuna – cioè la situazione critica che per così dire, “a dettare l’agenda”: per fronteggiarla il principe deve adattare “el modo del procedere suo con la qualità dei tempi”. Talvolta occorre essere decisi (ipotesi che Machiavelli ritiene maggiormente idonea) ma talaltra prudenti. É l’idoneità dei mezzi apprestati a conseguire lo scopo, data la situazione, a determinarne la validità.

Quando nei Discorsi passa da un discorso politico alla conseguenza politico-istituzionale (in un regime repubblicano) individua il rimedio nell’istituto della dittatura romana, la quale serve a fronteggiare la situazione emergenziale (“gli accidenti istraordinari”), e  a tal fine, rompere gli ordini (cioè prendere misure straordinarie in deroga alle leggi, valevoli per una situazione normale).

Nel corso della storia, in particolare in quella moderna, il rapporto “paritario” (o quasi) sostenuto da Machiavelli tra fortuna e virtù è stato spesso spensieratamente sostituito dalla fede nel progresso umano (non solo tecnico-scientifico, ma anche politico e “morale”) il quale farebbe si che l’esistenza della comunità potrebbe scorrere su un binario tranquillo, fino alla stazione d’arrivo. Anzi quella stazione sarebbe stata già raggiunta una trentina di anni orsono, con il crollo del comunismo e “la fine della storia” (Fukuyama docet). È chiaro che secondo i più (sprovveduti) seguaci di tale concezione, di misure d’eccezione non c’è bisogno, perché il controllo umano sul mondo attraverso la tecnica e quello sulla stessa natura umana con il “pensiero unico” è tale da allontanare qualsiasi situazione eccezionale. In primis la guerra che di tante crisi è stata quella più considerata. Ma, accanto a quella, meno drammatiche, ma assai più frequenti, ci sono crisi indotte dagli eventi naturali (terremoti, inondazioni, pestilenze, carestie). Anche se le emergenze provocate da eventi naturali, per lo più, non producono effetti politici e storici epocali, non è mancato il contrario. Secondo gli storici il crollo della talassocrazia minoica fu dovuto al maremoto causato dall’esplosione del vulcano di Santorini; la fine delle civiltà precolombiane alle epidemie dovute alle malattie diffuse dai primi marinai spagnoli sbarcati in America, e che facilitarono grandemente il compito dei conquistadores.

Ancor più possono pertanto produrre mutamenti non di civiltà, ma sicuramente di (costumi) legislazione e di forma politica. Se le misure eccezionali riescono a dominare la situazione (a batterla e urtarla scriveva Machiavelli con un paragone che probabilmente dispiace alle femministe) tornano, dopo la crisi, gli ordini normali; ma, talvolta è la crisi, anche dovuta ad eventi naturali, a portare cambiamenti, fino alle innovazioni di forma politica.

Credere il contrario, che la storia sia direzionale nel senso di un progresso lineare, cioè l’inverso dell’andamento ciclico familiare al pensiero politico e giuridico è quindi, in primo luogo, contraddetto dalla storia.

Peraltro lo stesso Fukuyama  “correggendo il tiro” del suo famoso saggio limitava (nel libro che ne seguì) la fine della storia alle forme politiche; e nell’opera stessa attribuiva la concezione direzionale della storia a due fattori, uno dei quali è la conquista tecnico-scientifica della natura. Ma se, per così dire, tale conquista non è ancora (totalmente) avvenuta, succede che la natura riprenda il proprio ruolo, peraltro solo parzialmente intaccato dalla scienza e dalla tecnica. Ed occorre costituire “ripari ed argini” (anche) nell’organizzazione dei poteri pubblici.

Perché, contrariamente ai corifei del progresso (ecc. ecc.) la natura (deus sive natura, scriveva Spinoza) torna sempre a bussare. Come cantava Orazio, natura expelles furca tamen usque recurret.

Teodoro Klitsche de la Grange

ECCEZIONE E DEMOCRAZIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

ECCEZIONE E DEMOCRAZIA

Non è un caso che negli Stati (sicuramente) democratici la proclamazione dello Stato d’eccezione nelle sue molteplici gradazioni e forme è attribuito a organi eletti direttamente o indirettamente dal corpo elettorale.

Così, per limitarsi all’esame delle costituzioni francese, tedesca e spagnola, l’art. 16 della Costituzione francese lo riserva al Presidente della Repubblica. Diversamente l’art. 116 della Costituzione spagnola alle Cortes, gli artt. 115 (e seguenti) della Costituzione tedesca al Parlamento. Anche se data l’urgenza che connota (alcune) situazioni eccezionali, misure d’urgenza possono essere decise dal governo salvo poi ratifica (approvazione, autorizzazione) del Parlamento (per la normativa spagnola e tedesca). A una prima disamina ciò può considerarsi una conseguenza logica del carattere democratico del moderno Stato di diritto, che ripugna a conferire tale competenza ad organi non elettivi (e burocratici) come i comandanti militari (almeno per le zone interessate); o dal carattere politico delle situazioni eccezionali e delle misure, pertanto demandate ad organi politici e non amministrativi; o anche dalla necessaria compressione dei diritti fondamentali, che richiedono, ancora, volontà e responsabilità politiche, e così via. È pertanto negata ad organi che non abbiano la fiducia, diretta (meglio) o indiretta del corpo elettorale. Il governo Conte 2 ha ottenuto sì la fiducia della maggioranza del  Parlamento, ma la ragione esternata per la nascita del suo secondo governo, era d’impedire a Salvini, attraverso elezioni anticipate, di ottenere la maggioranza parlamentare, sicura in base ai suffragi delle europee del 2019. A parte altre motivazioni un po’ bizzarre, a questa si aggiungeva l’argomento decisivo della Repubblica antifascista: la reductio ad hitlerum ossia l’aver Salvini auspicato di andare alle elezioni per ottenere dagli elettori i “pieni poteri”…. al fine di attuare il programma di governo. Un’assordante campagna di stampa (e TV) riduceva la dichiarazione del leader leghista alla (sola) parte centrale: omessa la richiesta di scelta da parte del corpo elettorale (decisiva per la legittimazione democratica) e dimenticato il fine della attuazione del programma di governo (non quindi d’instaurare una repubblica corporativa o dei soviet), la volontà eversiva del leader leghista era… manifesta (e… confessata).

Il tutto condito dalle solite litanie: la costituzione più bella del mondo, i valori della costituzione, i diritti dell’uomo (ma che c’azzecca?) e anatemi vari.

Non meraviglia che, con queste motivazioni ideali,  si avverte che nei decreti del Presidente Conte ci sia una assenza (vistosa quanto) evidente del “programma” agostano di Salvini: il consenso e la legittimazione democratica.

Cioè quello che fa la differenza tra un gorilla in divisa sudamericano e un Presidente eletto dal popolo: la legittimità o perlomeno il consenso democratico a chi decide.

Confermata dai pessimi risultati dei partiti di Governo – eccezione solo per l’Emilia Romagna – in tutte le elezioni regionali succedute a quelle europee.

Dando prova di prudenza più che di correttezza istituzionale, ha fatto bene il capo del Governo a coinvolgere a cercare di coinvolgere nella gestione dell’emergenza le forze d’opposizione, e bene hanno fatto queste ad essere coinvolte; tuttavia è chiaro che per un governo claudicante in legittimità vale il detto di Ovidio: anche se vacat culpa sed tamen omen habet.

Teodoro Klitsche de la Grange

ECCEZIONE E ORDINAMENTO, di Teodoro Klitsche de la Grange

ECCEZIONE E ORDINAMENTO

Dopo i primi decreti (amministrativi) sull’emergenza sanitaria è iniziato sulla stampa un lamento corale sulla triste “fine” dello Stato di diritto, col suo Parlamento, le sue leggi (e decreti-legge) ma soprattutto i suoi diritti, garantiti dalla Costituzione come (in genere) nelle altre costituzioni degli Stati democratici-liberali e nelle dichiarazioni (anche internazionali).

Di quella italiana la prima vittima è stato il diritto di locomozione (art. 16), ormai ridotto – in linea generale e salvo deroghe – alla facoltà di girare intorno al proprio isolato.

Tali considerazioni presuppongono che tra eccezione e norma vi sia incompatibilità assoluta e che un ordinamento “liberale” debba necessariamente bandire la prima – e le relative misure – dalla normativa.

Ma è vero ciò? Tra i tanti esempi contrari che si possono portare, è istruttivo ricordare le considerazioni – a  distanza più che secolare – che facevano sull’habeas corpus due pensatori come De Maistre e Gaetano Mosca.

L’habeas corpus è, come noto, un istituto dell’ordinamento inglese volto alla tutela della libertà personale e della legalità delle accuse, onde evitare arresti e detenzioni arbitrarie. Dopo la rivoluzione francese normative in qualche misura simili (anche se probabilmente meno efficaci) si diffusero agli ordinamenti europei (continentali) e nelle dichiarazioni internazionali dei diritti. A tale proposito Gaetano Mosca lo considerava lo strumento più semplice ed efficace pensato e praticato a tutela della libertà personale. Scrive Mosca che l’habeas corpustutela i cittadini inglesi… in modo così pratico ed efficace che non è stato possibile in nessun altro paese, e neppure nel secolo XIX, fare di meglio”.

Proprio per la sua libertà ed efficacia, De Maistre, un secolo prima di Mosca, sulla base del fatto che spesso era sospeso dal Parlamento, lo considerava un’eccezione, nel senso che, se applicato sempre, avrebbe travolto la costituzione (id est l’esistenza ordinata) della Gran Bretagna. Sosteneva De Maistre “La costituzione inglese è un esempio più vicino a noi, e di conseguenza colpisce maggiormente. La si esamini con attenzione: si vedrà che essa funziona solo nella misura in cui non funziona (se è consentito il gioco di parole). Essa non si regge che sulle eccezioni. L’habeas corpus, per esempio, è stato sospeso così spesso e così a lungo, che si è potuto sospettare che l’eccezione fosse divenuta la regola. Supponiamo per un istante che gli autori di tale famoso atto avessero avuto la pretesa di fissare i casi in cui potesse essere sospeso: l’avrebbero con ciò stesso ridotto a nulla”. Ovvero l’ordinamento inglese riesce a funzionare nella misura in cui l’habeas corpus è sospeso. Ma chi aveva ragione: il costituzionalista siciliano o il diplomatico sabaudo? È facile rispondere: entrambi. La tutela delle libertà fondamentali è connaturale ad un ordinamento liberale, come la sospensione o la deroga delle stesse lo è nel caso sia in pericolo la vita comunitaria ed individuale: perché senza vita non c’è libertà. Così nelle legislazioni e anche nelle costituzioni – sia degli Stati liberali era ed è previsto che in situazioni eccezionali potevano essere sospese le libertà individuali. La “costituzione più bella del mondo” non lo contempla: ma la legislazione ordinaria ha riconosciuto, anche ad organi amministrativi eccezionali, creati ad hoc, di provvedere con ordinanze, in deroga alle leggi, col solo limite dei principi generali dell’ordinamento giuridico (ad es. art. 1 L. 22/12/1980 n. 876, in occasione del terremoto campano-lucano).

Parimenti gran parte degli ordinamenti liberali prevedevano e prevedono garanzie della libertà individuale simili (anche se – spesso – meno efficaci dell’habeas corpus). Pertanto è chiaro che lo Stato democratico-liberale tiene tanto alla libertà individuale quanto all’esistenza comunitaria, anzi in caso d’eccezione, limita quella per salvaguardare questa. In definitiva ha fatto proprie – come ogni ordinamento – le affermazioni di De Maistre che “non è nel potere dell’uomo fare una legge che non abbia necessità di alcuna eccezione”. E l’eccezione, tenuto conto del principio d’uguaglianza, è rapportata alla situazione oggettiva: se è realmente eccezionale sono necessarie e legittime le misure d’emergenza: se non lo è, deve applicarsi la normativa ordinaria. Di converso osservare questa se ricorre un caso d’emergenza significa fare un buco nell’acqua; del pari, attentare alla libertà individuale quando non ve ne sono i presupposti. Ossia dare all’apparato pubblico dei poteri enormi senza che ve ne sia ragione. Questi è stato il pretesto spesso usato per sovvertire l’ordine, giustificando abusi di potere, dal colpo di Stato in giù.

Il cui movente comune è salvaguardare la “poltrona” di chi esercita il potere talvolta in condizione di dichiarare legalmente lo stato d’eccezione. Ma all’uso improprio non c’è rimedio giuridico se non, come scriveva Locke (per i casi estremi) che l’“appello al cielo” ossia la disobbedienza e, al limite, la guerra civile.

Resta il fatto che la prima tutela che si ha in questi casi è la limitazione nel tempo soprattutto (e nello spazio) delle misure d’emergenza (la sunset clause della legislazione inglese), dimenticata talvolta in quella nazionale, dove misure eccezionali (anti BR) sono state in vigore anni dopo la fine della situazione che le aveva giustificate. La seconda, e la più importante: che i cittadini vigilino perché ciò non succeda.

Resta il fatto che in ogni ordinamento sia liberal-democratico che non, vale la regola che Machiavelli enunciava nei Discorsi sulla dittatura romana: “perché senza uno simile ordine le cittadi con difficultà usciranno degli accidenti istraordinari… Perché quando in una republica manca uno simile modo, è necessario, o servando gli ordini rovinare, o per non rovinare rompergli”.

Esorcizzare l’abuso (sempre possibile) opponendosi alle misure d’emergenza ed alla loro previsione è credere che la storia non possa bussare più alla porta di casa. Mentre il problema è essere pronti ad accoglierla, quando prima o poi si presenta.

Teodoro Klitsche de la Grange

COMUNITÁ E CRISI DA CORONAVIRUS, di Teodoro Klitsche de la Grange

COMUNITÁ E CRISI DA CORONAVIRUS

L’emergenza sanitaria ha fatto riscoprire a gran parte dei media il senso della comunità. Elzeviristi, attori, cantanti, politici, pensatori (veri e presunti), prelati constatano – e spesso auspicano – che la crisi ha ricostituito il senso e i rapporti di appartenenza collettiva. Secondo la maggior parte sarebbe stato distrutto da trent’anni di neo-liberismo; secondo altri da una globalizzazione che tende – neppure occultandolo – a demolire tutte le appartenenze particolari; altri  vi aggiungono diverse cause. La stragrande maggioranza mostra così sorpresa di questo collegamento tra crisi e crescita del senso (e dei vincoli) comunitari; ma di questo stupore la cosa più stupefacente è proprio che si sorprendano.  Perché il collegamento tra crisi e comunità è uno dei più noti da (almeno) venticinque secoli; tenendo conto che Tönnies nel “definire” la comunità ricorre alla “perfetta unità delle volontà umane come stato originario o naturale” nonostante la separazione empirica. A tale riguardo occorre che i vincoli comunitari prevalgano sulle differenze individuali, le quali non possono estendersi oltre un certo limite “perché al di là di esso viene soppressa l’essenza della comunità in quanto unità del differente”.

E dato che gli uomini sono tutti dotati di intelletto e volontà, oltre che di diverse attitudini, tendenze ed opinioni, di passare quel limite c’è sempre il rischio, come ci sono situazioni che lo facilitano ed altre che, di converso, rinsaldano i vincoli comunitari, tra cui le crisi. La più considerata delle quali da sempre è la guerra, e l’antagonista necessario, ossia il nemico, come già diceva Eschilo nelle Eumenidi: “E scambio ci sia di gioie nella comune concordia; e unanime odio ai nemici: delle molte calamità unica medicina è questa ai mortali”; e anche nel secolo scorso ne abbiamo avuti tanti esempi dall’Union Sacrée ai “gabinetti di guerra” composti da tutti i partiti (o quasi tutti), riflesso istituzionale dell’unità della nazione e della volontà di vittoria.

Meno compulsato è il rapporto tra crisi (non belliche) e vincoli comunitari; quello che l’Italia sta correndo in questi mesi, aggredita da un nemico che non è un gruppo umano, ma, come spesso nelle situazioni d’emergenza, un fatto naturale, come il terremoto (cui purtroppo siamo abituati) o le inondazioni.

In tutti questi casi il potere pubblico governa con misure eccezionali in deroga alla normativa ordinaria, la quale presuppone, come scrive Schmitt, una situazione normale, e pertanto diventa inadatta in una eccezionale. I giuristi lo hanno evidenziato, spiegato e ricondotto a principi: dalla necessità come fonte di diritto di Santi Romano, alla “forza che sacrifica il diritto per salvare la vita” di Jhering, tra gli altri.

Tutte riconducibili alle funzione di salvaguardia dell’esistenza ordinata della comunità da parte dell’istituzione politica (Hauriou).

Una spiegazione più “stretta” del rapporto tra crisi e comunità l’ha dato René Girard con la sua concezione del rapporto tra violenza e sacro. Secondo lo studioso francese, la crisi dissolve l’ordine sociale, ma dato che una comunità non può esistere senza ordine, attraverso il meccanismo vittimario (il capro espiatorio che viene sacrificato e dopo sacralizzato) lo si ricostituisce. L’esempio che (tra i tanti) Girard indica è l’ “Edipo re”, con la pestilenza che affligge Tebe, la scoperta della “colpa” di Edipo, la punizione che il re si auto infligge, prima di andare in esilio.

A prescindere dalla spiegazione del sacro, è chiara in Girard la relazione tra crisi e ordine comunitario, vincoli sociali, concordia (che in effetti significa cum cordia, ossia unione dei cuori id est pace e unità sociale, con relativizzazione dei conflitti intra-comunitari tra cives e relativa violenza). La concezione di Girard poggia tutta sul fond teologico dell’ordinamento, mentre quelle dei giuristi tengono conto prevalentemente sulla couche giuridico-istituzionale (Hauriou). La crisi così si configura come un indebolimento dei rapporti comunitari, ma anche come il passaggio a un ordine “altro” basato su elementi (totalmente e più spesso parzialmente diversi): dalla più semplice sostituzione del vertice (un re succede a un altro, come a Tebe dopo l’auto-esilio di Edipo) a quella del regime politico (da monarchico a aristocratico o democratico); a quella della “tavola dei valori” (come, quasi sempre, nelle rivoluzioni e nei mutamenti costituzionali moderni).

Tutti connotati da un rafforzamento/ricostruzione del senso (e dei vincoli) comunitari. I quali, senza voler annichilire il contrapposto (da Tönnies) idealtipo della società, sono quelli necessari all’esistenza di  una comunità, politica in primo luogo, Onde le crisi sono la transizione tra (diversi) ordini. È solo il quantum (dei vincoli e caratteri) del tipo ideale comunità (rispetto al contrapposto società) a connotarle rispetto alle situazioni normali. Contrariamente a quello che si pensa (o pensava) nei paraggi del politicamente corretto, per il quale la società globale d’individui commercianti e consumatori, è il destino.

Teodoro Klitsche de la Grange

CORONAVIRUS E STATO D’ECCEZIONE, di Teodoro Klitsche de la Grange

CORONAVIRUS E STATO D’ECCEZIONE

Da quando si è profilata l’emergenza sanitaria, la celebre affermazione di Carl Schmitt “sovrano è chi decide dello stato di eccezione” è stata ripetuta tante volte e in modo bipartisan, dalla destra alla sinistra. Qualcuno l’ha fatto – come sempre nelle affermazioni politiche – per sostenere più poteri al governo che alle regioni (per lo più a direzione politica avversa) altri per diverse ragioni.

Approfittando che sta sulla cresta dell’onda, ricordiamo quanto scrive Schmitt, e ancor più il suo allievo Fortsthoff, sul carattere delle “misure” che il sovrano (o comunque i poteri pubblici) prendono in casi di emergenza.

Sostiene Forsthoff che tali misure vanno ricondotte al concetto di “provvedimento”. Citando Schmitt scrive che è “tipico del provvedimento «che il procedimento sia determinato, nel suo contenuto, da un dato di fatto concreto e sia completamente permeato da uno scopo obiettivo». Perciò contrappone il provvedimento alla decisione emessa nella dovuta forma di un regolare procedimento ed alla norma di legge, «se essa esprime essenzialmente un principio di diritto, cioè se essa vuole essere soprattutto giusta, permeata dall’idea di diritto»… Caratteristica del provvedimento è una specifica relazione tra mezzo e scopo. Il provvedimento è diretto ad un determinato scopo, A questo scopo sono adattati e subordinati i mezzi che sono usati per il suo raggiungimento” mentre “la sentenza giudiziaria in quanto è presa «in base al diritto» sta al di sopra della adeguatezza allo scopo e del perseguimento di esso, che distinguono il provvedimento”; mentre nella legge scopo e idea di giustizia sono ambo presenti “La norma giuridica può essere creata per regolare un rapporto della vita in modo adeguato, cioè in conformità ad uno scopo ed in corrispondenza alle idee correnti di giustizia. Una tale legge, nel suo complesso, è sottratta alla determinazione di uno scopo, poiché contiene in se stessa un valore”. Quindi “L’ordinamento non è mai solo mezzo a scopo, esso ha un proprio valore”. Lo scopo, che in altri atti giuridici ha un ruolo di comprimario o subordinato, nelle misure d’eccezioni è determinante; l’idoneità delle stesse è commisurata alla congruità a conseguire lo scopo.

Ne consegue che la “tavola dei valori” o “le idee di giustizia” che informano ogni ordinamento sono qui subordinate. Il perché è chiaro: allorquando è in gioco l’esistenza e/o beni pubblici essenziali come la vita, la sicurezza collettiva, il resto, come l’intendenza di De Gaulle, segue. Dov’è che le misure hanno la propria validità e legittimità? La prima nell’essere adeguate allo scopo (“razionali rispetto allo scopo” avrebbe scritto Max Weber), la seconda nell’essere prese da un’autorità che goda di fiducia e largo consenso.

In questo senso la vicenda del coronavirus è iniziata proprio male. Ai governatori leghisti delle regioni del Nord che chiedono di mettere in quarantena gli studenti, di qualsiasi nazionalità, provenienti dalla Cina, il segretario Dem replicava “Allarmismi ridicoli… il governo ha già sospeso i voli provenienti dalla Cina, dunque non si capisce come i bambini possano arrivare” (fonte “Il Messaggero”); e una loquace deputata Dem “i governatori fomentano panico e intolleranza”; la Ministra Azzolina “Il governo si è mosso immediatamente e voglio tranquillizzare tutti perché la propaganda non fa assolutamente bene: non ci sono motivazioni al momento per pensare di escludere gli alunni dalla scuola” (fonte: “Il Messaggero”).

Il Presidente Conte, forse per non essere tacciato di sovranismo, rimanda tutto a presidi e primari “Ci dobbiamo fidare delle autorità scolastiche e sanitarie, se ci dicono che non ci sono le condizioni per il provvedimento in discussione invito i governatori del nord a fidarsi di chi ha specifica competenza”, senza porsi il problema di cosa succede se i presidi e i primari non avessero la stessa opinione (dato il numero è impossibile che ne abbiano una condivisa da tutti).

È chiaro che tutte queste affermazioni erano condizionate dalla ideologia e dalla lotta politica: accoglienze e frontiere aperte versus sovranismo e frontiere chiuse. Cioè erano proprio il contrario di quello che una misura d’emergenza deve essere. Il fatto che (almeno) dai tempi di Boccaccio e della peste nera è noto che l’isolamento è un efficace strumento di riduzione del contagio e che il virus se ne impipa delle divisioni politiche ed ideologiche, così come i mezzi per combatterlo; l’agente patogeno non è antifascista o anticomunista, ma semplicemente (e banalmente) pericoloso come terremoti, inondazioni (e altro).

Resta il fatto che dopo poche settimane Conte ha chiuso province, regioni, scuole e, da ultimo, tutta Italia dimenticandosi di governatori, presidi e primari: probabilmente ha fatto bene, ma ci sono volute – per farlo – diverse settimane nelle quali il coronavirus non ha trovato ostacoli, o ne ha trovati meno.

E rimane il problema della fiducia che può ispirare ai cittadini una maggioranza ed un governo che fa di una questione essenzialmente “tecnica” (nel senso indicato) una faccenda politico-ideologica: sarebbe meglio che facessero tesoro dell’intera lezione di Schmitt e Forsthoff (e Weber) sul punto.

Teodoro Klitsche de la Grange

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