FEDERALISMO E UNITÁ POLITICA, di Teodoro Klitsche de la Grange

FEDERALISMO E UNITÁ POLITICA (pubblicato nel 2008)

1. Nella prima metà del XIX secolo due grandi pensatori europei, Hegel e Tocqueville si posero il problema di come potesse conservarsi uno Stato federale, come gli Stati Uniti d’America, senza che l’Unione godesse di tutti quei poteri che il “centro” delle monarchie europee – cioè il governo monarchico – aveva nel proprio territorio,

Scriveva Hegel:

“Se paragoniamo poi l’America del nord con l’Europa, troviamo laggiù l’esempio costante di una costituzione repubblicana. Cioè l’unità soggettiva, perché vi è un presidente a capo dello Stato, eletto, per prevenire ogni possibile ambizione monarchica, solo per quattro anni. La protezione universale della proprietà e la quasi totale assenza d’imposte sono fatti che vengono continuamente elogiati. Ma con questo è già determinata anche la caratteristica fondamentale di questi Stati. Essa consiste nella tendenza del privato all’acquisto e al guadagno, nella prevalenza dell’interesse particolare, che si volge all’universale solo in servigio del proprio godimento. Vi sono, naturalmente, rapporti di diritto, ed una formale organizzazione giuridica: ma questa conformità al diritto è senza dirittura, e così i commercianti americani hanno la cattiva riputazione di ingannare sotto la protezone del diritto”, e prosegue “l’America del nord non va considerata come uno Stato già formato e maturo ma come uno Stato tuttora in divenire: esso non è ancora tanto progredito, da aver bisogno della monarchia. E’ uno Stato federativo: ma questi, per quel che concerne i loro rapporti con l’estero, sono gli stati peggiori. Solo la sua particolare posizione ha impedito che questa circostanza non causasse la sua totale rovina. Ciò si è visto nell’ultima guerra con l’Inghilterra. I Nord-americani non poterono conquistare il Canadà, e gli Inglesi poterono bombardare Washington, perché la tensione fra le provincie impedì ogni vigorosa azione. Inoltre, gli stati liberi nordamericani non hanno nessuno stato confinante, rispetto a cui siano nella situazione in cui gli stati europei sono reciprocamente, uno stato cioè che debbano considerare con sospetto e contro cui debbano mantenere un esercito stanziale. Il Canadà e il Messico non incutono loro timore, e l’Inghilterra ha fatto ormai esperienza da cinquant’anni che l’America le è più utile libera che dipendente”i.

Quindi da un lato Hegel connetteva la forma istituzionale dello Stato federale alla prevalenza, negli USA, del “privato” sul “pubblico” dall’altro, e più ancora, all’assenza di nemici “credibili” ai confini che consentiva di mantenere un governo debole. Considerazioni simili, e nello stesso periodo di tempo, faceva Tocqueville nella “Démocratie en Amérique”.

Sosteneva Tocqueville: “La più importante di tutte le azioni che possono far riconoscere la vita di un popolo è la guerra. Nella guerra un popolo agisce come un solo individuo di fronte a popoli stranieri: esso lotta per la sua stessa esistenza… Di qui deriva che tutti i popoli, che hanno dovuto sostenere grandi guerre, sono stati condotti, quasi loro malgrado, ad accrescere le forze del governo. Quelli che non sono riusciti a farlo, sono stati conquistati. Una lunga guerra pone quasi sempre le nazioni in questa triste alternativa, che la loro disfatta li consegna alla distruzione, e la loro vittoria al dispotismo.

Perciò, in genere, è in guerra che si rivela, nel modo più visibile e pericoloso, la debolezza di un governo; e ho mostrato come il difetto inerente ai governi federali sia appunto quello di essere molto deboli.

Nel sistema federale, non solo non c’è affatto accentramento amministrativo o qualcosa di simile, ma lo stesso accentramento politico esiste solo in modo incompleto; e questo è sempre una grave causa di debolezza, quando ci si deve difendere contro popoli nei quali è completo”. E ad esempio ricorda lo stesso episodio storico: la guerra con l’Inghilterra bel 1812ii.

Ambedue i pensatori si sono (forse) ispirati a quanto pochi anni prima, aveva cennato De Maistre sulle istituzioni europee ed inglesi in particolareiii.

Per cui la particolare conformazione della Costituzione e del diritto pubblico inglese era ricondotto, in gran parte, alla situazione geo-politica dell’Inghilterra: in analogia con Hegel e Tocqueville per l’America.

D’altro canto il rapporto tra sovranità all’esterno ed all’interno era considerato da Hegel anche nei Grundilinieniv.

2. Peraltro Hegel sottolineava il carattere politico – in quel senso . – del rapporto tra assetto interno e esterno (nemico e guerra), e lo distingueva da un mero decentramento amministrativo. Nell’opera giovanile Verfassung Deutschlands già lo scriveva, in relazione alla “costituzione” dell’Impero tedesco. Sosteneva a dimostrazione della tesi iniziale “La Germania non è più uno Stato” che “Il potere legislativo, quello giudiziario, quello spirituale, quello militare, mescolati nella maniera più disordinata e in parti le più disuguali, sono separati e congiunti, proprio variamente come la proprietà dei privati.

Attraverso dimissioni della Dieta, trattati di pace, capitolazioni elettorali, contratti domestici, deliberazioni della Corte suprema, ecc. la proprietà politica di ciascun membro del corpo statale tedesco è determinata nel modo più accurato”v, per questo ha il diritto di andare in rovinavi. Sosteneva peraltro che l’unità dello Stato non è data dall’uniformità del dirittovii né della religioneviii; ma l’essenziale per aversi uno Stato è che “una moltitudine di uomini si può chiamare uno Stato soltanto se è unita per la comune difesa della sua proprietà in generale” e “L’allestimento di questa effettiva difesa è la potenza dello Stato; esso deve da un lato essere sufficiente a difendere lo Stato contro i nemici interni ed esterni, dall’altro a mantenere se stesso contro l’impeto universale dei singoliix.

Le argomentazioni di Hegel e Tocqueville, comuni ad altri pensatori, si possono riassumere nei seguenti punti:

Che l’assetto dei rapporti o poteri pubblici – cioè la forma politica – è condizionata dalla situazione geo-politica, e, in particolare, dai nemici e dalle guerre possibili.

Che a costituire l’unità politica non è la comune religione, la lingua, e neanche le leggi ed i costumi o i commerci (cioè fattori in se non riconducibili al politico, anche se rilevanti, e spesso assai rilevanti, sul politico), ma è l’unità del popolo sotto un governo.

Che, quindi, ciò che rende debole il governo non è tanto la diversità di legge o di religione, costumi – spesso, si può aggiungere, “superata” grazie al federalismo o al decentramento – ma la divisione del potere politico. Per definire il quale occorre distinguerlo da quello non politico, ancorché pubblico: e in entrambi il criterio di distinzione è, per l’appunto, la guerra, cioè il rapporto estremo con l’hostis. È questo che può porre in gioco l’esistenza della comunità organizzata in Stato, così costituire l’extremus necessitatis casus ed essere la cartina di tornasole della vitalità di uno Stato.

Che, potenzialmente – le diversità ed i gruppi di interesse che sussistono in ogni comunità umana possono, nelle situazioni di crisi, se prevalenti, mettere in forse l’unità politica (e la capacità di difendersi). Se queste così diventano decisive, passano dal privato al pubblico – o meglio al politico (come gli interessi dei mercanti del Massachussets e del Connecticut nella guerra con l’Inghilterra).

3. La progressiva “tecnicizzazione” del diritto pubblico, cui probabilmente ha contribuito non solo il clima generale – di “onnipotenza normativa” – ma anche la specializzazione accademica, ha fatto si che quei rapporti, sopra elencati, tra situazione concreta e forma politica, fossero smarriti e, quel che più conta espunti dalle concezioni (e trattazioni) del diritto pubblico.

Ciò è stato l’effetto di due idola theatri diffusisi negli ultimi secoli.

In primo luogo l’onnipotenza del legislatore o (meglio ancora), del potere costituente. La frase di Sieyès, ricalcata da Rousseau, che la Nazione è “tutto ciò che può essere per il solo fatto di esistere” è stata, a dir poco, mal interpretata. Un sottile politico come Sieyès, oltretutto largamente tributario nelle sue concezioni della teologia cristianax non avrebbe mai pensato di poter prescindere nella fase “costituente” da ogni riferimento concreto e reale, a partire dalla situazione geopolitica, passando per i condizionamenti (e le determinanti) storici e naturali, per finire, in certi casi, alle leggi di “natura”, intendendole se non nel senso dell’ironia di Spinozaxi, come quelle della storia.

Ancora nell’insegnamento di Montesquieu lo “spirito” delle leggi (e a maggior ragione delle costituzioni) erano quei “rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose”xii, e capire le leggi, penetrarne lo “spirito”, era capire quei rapporti concreti e reali; onde, tra l’altro, scriveva che le leggi sono adatte al popolo che le ha “sviluppate” e non ad un altro.xiii Tutto il contrario quello che avvenne dopo, a partire dal tardo illuminismo fino all’età post-rivoluzionaria.

Ironizzava de Maistre che nel secolo XVIII ogni giovane acculturato, appena diplomato, aveva scritto almeno un trattato sull’educazione, una costituzione e un mondo. Incominciò a diffondersi non solo l’immagine del legislateur provvido e onnipotente, ma pure che all’onnipotenza (in diritto) del sovrano corrispondesse, in qualche misura, quella di fatto: la comunità politica era così considerata la materia da plasmare a piacimento dal legislateur. Tradizioni, costumi, condizionamenti politici, culturali e sociali erano conformabili a discrezione: la retta ragione e la bontà dei fini avrebbero creato istituzioni razionali, condivise e legittimate dal consenso generale di esseri razionali (nel senso dell’illuminismo). Gli sviluppi successivi, dalla Vandea agli insorgenti italiani ai guerrilleros spagnoli dimostrarono che la questione non era così semplice, ma il sogno utopico di costruire una società senza rispondenza alle situazioni (e ai problemi) concreti continuò; in particolare inverandosi nell’utopia radicale del marxismo collassato in pochi decennixiv.

Pertanto l’idea di poter elaborare costituzioni a tavolino (diversamente da quanto pensava Cicerone che fondava la superiorità politica di Roma sulla sua costituzione perché frutto delle esperienze e del lavoro di tante generazioni) sopravviveva e si sviluppava, anche per ragioni scientifiche, anche in un ambiente diverso: quello dei giuristi. Levatrice di ciò è stato, in gran parte, l’ideale “avalutativo” della scienza e, del pari, l’idea che, per il giurista interpretare tenendosi distante da tutto ciò che è politico (anche quando, come nel caso, l’oggetto – da studiare – è politico) è la via migliore per essere scientificamente “oggettivi”.

A leggere un manuale di diritto costituzionale o internazionale del periodo del positivismo affermato (cioè da metà del XIX secolo) i presupposti e i condizionamenti politici dell’assetto costituzionale sono di solito appena cennati; ciò che assume rilievo, pressoché esclusivo, è il dato positivo dell’elaborazione della costituzione in (un) atto organico, che il giurista può interpretare a guisa di un super codice. Come se le costituzioni fossero parti dei giuristi che contribuivano a stenderle (su carta). In questo orizzonte, largamente se non totalmente prevalente, la nota forse più stonata fu quella di Lassalle – non a caso un politico e non un giurista – che in una celebre conferenza formulava il concetto (moderno) di costituzione materiale, contrapponendolo a quel “pezzo di carta” (cioè i testi considerati dai giuristi) la cui funzione principale è, secondo Lassalle, di formulare e confermare i rapporti di forze realixv.

L’altro fatto rivelatore del mutato spirito è che se, ancora nel ‘700, si cercava lo “spirito” delle leggi, e la “forma” (in senso aristotelico-tomista, e non procedurale) dello Stato, col positivismo dalla forma – come oggetto d’interesse prevalente – si passa alle norme. Funzione del giurista è d’indagare sulle norme e su come si possa ricostruire l’unità di un sistema partendo dalle norme. Invece nel ‘700 un giurista come Vattel costruiva un sistema di diritto (interno ed internazionale) basandosi sulla forma: guerre in forma, soggetti (del diritto internazionale) in forma, rapporti formali.

Nel rapporto tra diritto interno ed internazionale il raccordo tra le due sfere (interna ed esterna) non si regge più sulla forma della struttura statale pubblica, ma si ricorre ad armamentario ed a principi e concetti propriamente giuridici. Scrive Triepel in un’opera “classica” sulle relazioni tra diritto interno e diritto internazionale: “La natura delle relazioni intercedenti fra questo diritto ed il diritto internazionale può essere molto varia. Vi possono essere norme di diritto interno la cui esistenza ovvero il cui contenuto dipende da norme di diritto internazionale; può darsi che le prime tutelino anche dalle seconde; le dette norme talora operano con concetti che si possono chiamare “di diritto internazionale”; di tutto ciò non mi è dato far qui che un semplice cenno, poiché sono appunto queste relazioni che dovremo esaminare minutamente nelle pagine che seguono”xvi. Per ricostruire queste relazioni tra norme è centrale il concetto d’ “impenetrabilità” dello Stato ( e cioè il monopolio territoriale della decisione su ciò che debba essere diritto – un elemento della forma-Stato) come di “recezione” o di “rinvio”. E’ chiaro tuttavia che impenetrabilità, rinvio, recezione presuppongono una struttura – una forma – dello Stato in grado in fatto prima che in diritto di “chiudere” il proprio territorio ad ogni potere esterno. Cioè (in primo luogo) eserciti stanziali e permanenti, flotte, efficienti difese delle frontiere e delle coste: strumenti per assicurare il monopolio della decisione politica e della forza legittima (e di conseguenza, anche se meno rilevante, del diritto applicato).

Ed è tale forma che garantisce non solo l’impenetrabilità, ma anche l’osservanza, ad esempio del diritto internazionale (cioè del diritto esterno): una tribù o anche uno Stato feudale ha probabilità assai minore di assicurare l’applicazione delle norme di un trattato internazionale di quanto ne abbia uno Stato moderno, anche un po’ malmesso come la Repubblica italiana. In uno Stato “fallito” (come ad es. la Somalia) la possibilità di far osservare il diritto internazionale (ed anche quello “interno”) è minima. Il tutto conferma l’immagine con cui Santi Romano sintetizzava il rapporto tra ordinamento e norme paragonando il primo al giocatore di scacchi, le seconde alle pedine mosse dallo stesso.

Ciò che è evidente è che quel rapporto tra norme è possibile solo se i soggetti tenuti ad applicarle hanno una forma ed esercitano un potere effettivo senza i quali il rapporto tra interno ed esterno può anche essere giuridicamente regolato e valido, ma è del tutto inutile. All’inizio del secolo scorso Schmitt, Hauriou e Santi Romano invertirono i termini del problema: è l’unità dell’ordinamento (l’istituzione) a dare unità al sistema normativo e non l’inverso.

4. Ad applicare alla situazione del mondo (contemporanea) le tesi desunte da Hegel e Tocqueville ne derivano conseguenze interessanti.

In primo luogo che a costituire una federazione, non è tanto necessaria l’omogeneità culturale delle comunità federate, ma l’unità politica. Ne deriva che la costituzione di super-Stati (differenti su tutto) sarebbe possibile ove vi fosse una effettiva unità politica. Dato che il criterio di quell’unità sono per l’appunto il monopolio della decisione sul nemico e la guerra (e la competenza a identificare il primo e dichiarare la seconda), ne consegue che occorre che la federazione per essere tale e non una mera unione di Stati anche se molto vicini culturalmente (come l’Unione europea), deve avere il monopolio dell’una e dell’altraxvii.

Pensare di realizzare un’unità di Stati, senza politico, è fermarsi all’anticamera dell’unità, senza raggiungerla mai.

Del pari l’entusiasmo politicamente corretto che accompagna ogni nuova istituzione, Ente, Tribunale purchè internazionale (Sabino Cassese ne ha contati oltre duemila) è mal speso e non vale a promuovere l’unità politica. Fin quando lo jus belli e le forze armate apparterranno agli Stati (e, in certi casi, ai movimenti di guerriglia) che vi siano Tribunali, agenzie (e monete) internazionali potrà essere edificante e spesso anche utile, ma non costituisce un fatto politico decisivo e tantomeno impedirà la guerra.

Neppure l’unità del diritto serve a produrre l’unità politica. A parte che per unificazione del diritto per lo più s’intende quello privato (o comunque non politico), è indubbio che una omogeneizzazione della normativa applicabile può essere d’aiuto agli scambi internazionali. Ciò che viene meno notato è come il diritto pubblico, e in particolare quello per essenza politico, non è oggetto di quasi nessun intervento. Si emanano norme e sottoscrivono trattati per i titoli di credito, società, strumenti finanziari e così via, ma non ci risulta che l’U.E. (ad esempio) abbia mai dato direttive sui poteri dei parlamenti, sulle competenze delle regioni degli Stati membri, sulle leggi elettorali, tanto meno sulla competenza a dichiarare la guerra. L’unico ambito del diritto pubblico su cui vi sia qualche normazione “internazionale” (oltre a quello amministrativo) è quello penale. Ma è troppo poco – e troppo evanescente – perché possa inficiare la regola che si omogeneizza il diritto privato ma non quello pubblico. Proprio perciò politicamente l’ “omogeneizzazione” giuridica è poco (o del tutto) irrilevante; per il suo carattere non-politico investe quello che Hauriou chiamava il diritto comune (Dike), contrapponendolo al diritto disciplinare (Thémis)xviii: il primo esterno ai gruppi (sociali), ai clan e alle famiglie e aggiunge “noi diremmo, oggigiorno, internazionalexix,il secondo interno a quelli.

Per cui la (comune) Dike non serve a mutarla in Themis e tantomeno a farla trasformare in qualcosa di politicamente decisivo. Piuttosto il confondere gli indubbi vantaggi che sul piano economico (degli scambi) e anche per altri ambiti dell’esistenza umana (aventi carattere privato) può avere l’omogeneità giuridica significa non percepire la peculiarità del politico e la distinzione tra pubblico e privato.

5. Un’altra considerazione occorre dedicare al problema in che modo i principi sopra ripetuti possano operare in un contesto che non è più quello “classico” degli Stati moderni (o dei di essi “tipi” come quello federale).

I “tipi” di relazioni con cui le unità politiche possono limitare la sovranità e/o l’indipendenza nella produzione ed applicazione del diritto sono diversi.

In particolare, se, come scrive Schmittxx “la federazione è un’associazione permanente, che serve al comune fine di autoconservazione politica di tutti i membri della federazione”, occorre considerare anche quei tipi di rapporti non riconducibili ad una federazione (o ad uno Stato federale).

Fatta questa premessa, occorre distinguere tra limitazioni alla sovranità, e limitazioni all’indipendenza.

Tra le limitazioni alla sovranità, tra la fine della seconda guerra mondiale a oggi, ve ne sono state (frequenti), anche a quella interna non riconducibili a quei rapporti e modelli già conosciuti e “classici” (ad esempio il protettorato). Caso clamoroso quello del quale fu “esternata” la dottrina della “sovranità limitata” degli Stati aderenti al “Patto di Varsavia”. Ma una menzione particolare (anche per gli effetti) compete alla Dichiarazione di Yalta sull’Europa liberata dove, tra le molte limitazioni enunciate v’è la seguente “Nel momento in cui, secondo l’opinione congiunta dei tre Governi, le condizioni di uno degli Stati Europei liberati o di quelli satelliti dell’Asse Europeo imponessero di intervenire, i suddetti tre Governi si consulteranno immediatamente tra loro per stabilire le misure necessarie da adottare e adempiere così agli obblighi previsti da questa dichiarazione”.

Il senso e gli effetti di tale dichiarazione sono chiari: i vincitori si riservavano il diritto d’intervento all’interno dei singoli Stati occupati, diritto ovviamente indefinito nei presupposti e nel contenuto (delle misure) e quindi determinabile a discrezione degli Stati vittoriosi : tale affermazione costituisce una limitazione alla sovranità interna, quella cioè che in molti Stati membri di una federazione, compete di solito ai medesimi e non alla federazionexxi.

Diversamente da una federazione le limitazioni alla sovranità come quelle sopra ricordate non comportano la garanzia dell’esistenza politica e della sicurezza degli Stati (federati), che Schmitt ritiene una delle conseguenze del “contratto federale”xxii.

Mentre nel patto costitutivo della federazione c’è ancora un “sinallagma” come garanzia di protezione (e obbedienza) che giustifica anche la forma “pattizia” o “contrattuale”, nelle dichiarazioni di Yalta tutto si risolve nella volontà dei vincitori (quindi egemoni in forza della vittoria e della conseguente occupazione militare) i quali dettano le condizioni di sviluppo politico degli Stati occupati, si riservano la facoltà di interpretarle/applicarle e di intervenire di conseguenza.

Non meraviglia che con la firma dei trattati di pace alcune limitazioni alla sovranità (interna) divenissero clausole del trattato stesso, come notò Vittorio Emanuele Orlando nel discorso alla Costituente contro l’approvazione del trattatoxxiii. Ciò non esclude che con un Trattato possano accordarsi quelle garanzie: tuttavia mentre nel caso della federazione ineriscono alla natura dello stesso e sono, come scrive Schmitt, la conseguenza dell’esistenza associata sia degli Stati membri che dello Stato federalexxiv, nel caso del trattato dipendono totalmente dalla volontà degli Stati contraenti (e sono soggette alle riserve comuni a tutti i trattati).

Spesso connesse alle limitazioni alla sovranità vi sono quelle all’indipendenza nell’esercizio del potere normativo o in quello di “polizia” e giudiziario. La recente normativa internazionale finalizzata alla lotta al terrorismo ce ne offre diversi esempi in cui taluno, non senza fondamento, ravvisa la formazione di una sorta di controllo degli Stati Uniti sugli altri Stati del pianeta, sviluppantesi – e questo è il carattere “originale” – non tramite eserciti e occupazioni militari ma con forme di dipendenza delle burocrazie giudiziarie e amministrative degli Stati “soggetti” al potere “imperiale”xxv dello Stato-guida.

Il che costituirebbe una forma di egemonia esercitata in un’epoca in cui si fa un gran parlare di governance, termine che difetta di quella chiarezza e distinzione di solito comune alla terminologia del periodo statale “classico”.

6. È difficile definire un’impero. Il termine è stato applicato a tante diverse forme politiche, dall’impero persiano achemenide a quello romano, dal Sacro romano Impero a quelli coloniali degli Stati europei dalla Rinascenza al secolo scorso, solo per citare quelli più familiari alla nostra cultura.

Trovare forme e tratti comuni tra Dario e Carlo Magno non è facile: tuttavia un primo tentativo di delinearne i caratteri si può iniziare partendo dai connotati tipici e salienti dello Stato moderno e notare le differenze: delimitando cioè l’Impero, in modo negativo, da ciò che è Stato.

In primo luogo nell’Impero non vi è il monopolio della decisione politica e della violenza legittima, invece connotati fondamentali dello Stato moderno, come sostenuto da Max Weber e Carl Schmitt. L’individuazione/designazione del nemico e l’esercizio dello jus belli è distribuito tra il centro e le periferie dell’Impero.

L’Anabasi offre una rappresentazione di ciò che avveniva nell’Impero achemenide: Artaserse non percepisce come ostili i preparativi del fratello Ciro di muovergli guerra perché crede che lo stesso volesse far guerra a (un altro satrapo) Tissaferne e ciò oltre a sembrargli normale non gli dispiaceva “affatto che si facessero guerra tra loro”xxvi (probabilmente perché così erano troppo impegnati per farla a lui). Ciro, per raggiungere il centro dell’impero e combattere col fratello attraversa territori, ottenendo aiuti da una parte e combattendo dall’altra; lo stesso aveva giustificato la spedizione militare come rivolta contro i Pisidi, altri sudditi dell’impero Persiano; tutta la posizione e la politica di Tissaferne nei confronti dei mercenari greci in ritirata è dominata dalla preoccupazione che possano fargli guerra nei suoi domini di satrapo.

In altre parole né monopolio dello jus belli né una situazione di pace all’interno e guerra all’esterno (l’aspirazione/situazione “statale”) facevano parte della normalità dell’Impero persiano. Lo stesso per altri imperi, segnatamente per il Sacro Romano Impero e in genere la società feudale, dove le guerre tra vassalli, comuni, e di questi (e del Papa) contro l’Imperatore costituivano la situazione normale. Contrariamente a quanto accade anche negli Stati federali, lo jus belli non è monopolizzato dal centro; si ha una situazione simile a quella descritta da Grozio, quando distingue le guerre pubbliche da quelle privatexxvii.

La seconda distinzione, tipica dello Stato moderno, è quella “spaziale” tra interno ed esterno, che ha un connotato del tutto specifico il quale delinea due “status” o situazioni differenti e, in molti casi, opposti: quello tra ordinamento (e quindi diritto) interno ed esterno.

Quello interno si basa sul potere-dovere (e le correlative responsabilità, interna ed internazionale) di mantenere la pace (e l’ordine) all’interno dello Stato; a tale scopo la sovranità è irresistibile (c’è una volontà prevalente) dai poteri “interni” e ha quindi il potere (e il dovere) per mantenere la pace. All’esterno coesistono più unità politiche, in principio uguali (non c’è una volontà prevalente) e il mezzo per far valere, realizzare far riconoscere (e regolare) i propri diritti ed interessi è il trattato e, in caso di disaccordo, la guerra. Questa, che all’interno è in linea di principio vietata e considerata attività criminale, all’esterno dell’unità politica è, in linea di principio, legittima se esercitata tra Stati sovrani. In molti imperi non è così: il legame pace-interno e guerra-esterno non è netto: non c’è uno spazio pacificato, qualitativamente opposto a quello d’oltre confine. La distinzione è, al massimo, quantitativa: le guerre interne sono, per le forze relative dei contendenti, meno pericolose e dannose (ma non è sempre sicuro) di quelle esterne. Il confine tra interno ed esterno consegue a questa separazione netta: diversamente dalle società feudali (dove i rapporti di vassallaggio e i conseguenti diritti e doveri attraversavano i confini per cui il Re d’Inghilterra era vassallo – ed aveva propri vassalli – nel Regno di Francia), nello Stato moderno il confine significa l’esclusività e l’irresistibilità (all’interno) del potere sovrano che ne esclude ogni altro della stessa natura.

In terzo luogo il rapporto tra comando/obbedienza e il connesso dovere di protezione (quest’ultimo costituente, secondo Hobbes, il fondamento dell’obbligazione politica)xxviii: nello Stato la sovranità esclude che vi sia un rapporto comando/obbedienza tra i sudditi ed altri poteri che possa prevalere sullo stesso rapporto con lo Stato. Nell’impero ciò non appare definito, onde vi possono essere diversi rapporti, potenzialmente (e spesso in atto) conflittuali tra loro.

Nella società feudale si poteva essere vassalli di più signori e quindi obbligati alla fedeltà ad entrambi: in caso di conflitto politico, o di guerra tra i seniores, la situazione che ne derivava era, a dir poco, confusa. Anche il rapporto di protezione/obbedienza conseguentemente ne veniva incrinato.

Quanto alla sovranità, chiave dello Stato moderno, in conseguenza di quanto sopra, negli imperi non appare dotata dei connotati costruiti da alcuni secoli di dottrina dello Stato moderno. Dei quali, i più importanti sono: l’illimitatezza (o irresistibilità)xxix e la generalità nel senso che il sovrano è competente a provvedere su tutto e “giudice” di tutto, anche della propria competenza.

Il primo peraltro, come scriveva Romagnosi, è un carattere essenziale che distingue nettamente e qualitativamente la sovranità da ogni altro potere di comando (tutti in qualche modo limitati e resistibili); mentre il potere “imperiale” appare differire dagli altri poteri pubblici essenzialmente per dimensioni (spaziali) e per collocazione (sta “sopra” agli altri, ma essenzialmente è un primus inter pares), cioè per differenze “quantitative” (è più potente, non è illimitatamente potente).

Del pari il potere imperiale, nato generalmente come sovrapposizione a precedenti poteri e organizzazioni politiche, ha una competenza non generale, né è giudice della propria competenza (come nella società feudale).

Raymond Aron distingue di conseguenza tre tipi di pacexxx, e, correlativamente tre tipi di guerrexxxi, anche in relazione alla esistenza di imperi.

7. La lezione desumibile da Hegel e Tocqueville è quindi utilmente applicabile alla situazione contemporanea.

In primo luogo né il diritto, né l’economia (e neppure altri “ambiti” dell’esistenza umana, come la morale o l’arte) possono costituire ex se il fondamento per l’unità politica. Anzi nel pensiero di Hegel il privato (nei passi sopra citati rapportato all’attività economica) è una causa di dissoluzione dell’unità politica: è l’ordinamento privatistico (e patrimonialistico) dell’Impero germanico a determinarne la rovina, sì da soccombere a Napoleone. La stessa tendenza del privato “all’acquisto ed al guadagno, nella prevalenza dell’interesse particolare” è l’attitudine spirituale meno idonea a costituire e consolidare uno Stato; nei Grundinien des philosophie des Rechts il concetto viene ribaditoxxxii.

Neppure l’esistenza di un’amministrazione nè di una burocrazia (e di regole per il funzionamento dell’una e dell’altra) è, di per sé, decisivo per l’unità politica: l’utopia di Saint-Simon di sostituire al governo degli uomini l’amministrazione delle cose si rivela fallace anche in ambito “internazionale”. Il moltiplicarsi di Enti, istituti, funzionari internazionali non ha fatto progredire affatto la pace, né eliminato e forse neppure ridotto le guerre. La spiegazione l’aveva già data Tocqueville quando nel passo sopra citato parla di debolezza dello Stato federale in relazione all’accentramento amministrativo (non all’amministrazione in genere, men che mai “autonoma”, come va di moda).

È l’amministrazione accentrata cioè l’apparato burocratico gerarchicamente organizzato e dipendente dal vertice politico a costituire fattore e garanzia di unità. In altre parole è un’amministrazione organizzata intorno al “presupposto” del politicoxxxiii del rapporto di comando/obbedienza, (cioè a servizio di un potere politico), a poter realizzare lo scopo, e non una qualsiasi amministrazione, solo perché dotata di bolli, timbri e registri. Senza “governo” la burocrazia (di un potere razionale-legale) porta in se solo l’idea di “regola”, ma non quella, necessaria, di “coazione”.

E del pari sia Hegel che Tocqueville attribuiscono carattere decisivo alla guerra (ed all’esistenza – ed alla scelta – del nemico). E’ questo, se ne desume, anticipando Schmitt (o seguendo Hobbes) a rivestire carattere decisivo per l’unità politica – e per l’esistenza della medesima. E’ il rapporto tra interno ed esterno, forma istituzionale e situazione concreta, in particolare geo-politica, a modellarla come vitale; ciò fino a determinare, in molti casi, la scelta tra rafforzamento del governo (per esistere come unità politica) e perdita (o compressione) delle libertà sociali ed individuali, con ricaduta nel dispotismo.

Ove si costruisca un’unità politica superiore non si sfugge al “criterio del politico”, il quale è decisivo: federazioni o unioni di Stati costruiti su burocrazie zelanti e regolamentazioni economiche (e sociali) non sono unità politiche, proprio perché mille funzionari non fanno un buon esercito.

Quanto all’altro aspetto – dell’impero o meglio degli imperi prossimi venturi – appare sicuro che, per esistere politicamente, devono avere anch’essi quel carattere anche se – a differenza dello Stato – distribuito tra centro e periferia, e perciò non monopolizzato.

Le conseguenze della “costituzione” di un potere imperiale, cioè di un potere non esclusivo ma prevalente, oscillante tra mera superiorità ed egemonia, si intravedono già nelle “nuove forme” di guerra, site al confine (concettuale) tra operazioni di polizia e guerra (vera e propria), e spesso caratterizzate da un confronto tra una potenza enorme e proprio perché tale molto vulnerabile e potenze minime e di conseguenza quasi invulnerabili: costituenti il tipo ideale (ed estremo) della guerra asimmetrica.

Il tutto non lascia intravedere uno sviluppo sicuramente pacifico: se lo jus publicum europeaum aveva ridotto le occasioni di justum bellum privandone gran parte dei soggetti “legittimati” alla guerra (dai grandi feudatari ai Comuni, alle compagnie di ventura), e costruendo lo Stato moderno come produttore di pace, non appare confortante l’idea di una “redistribuzione” dello jus belli tra diversi soggetti “regolari”e “irregolari”: una situazione neo-feudale.

Augusto dispose tre volte la chiusura del Tempio di Giano come simbolo della conseguita pax imperiale. Difficilmente in un’età imperiale, come quella che si profila nel futuro, si potrà procedere ad un atto analogo.

Teodoro Klitsche de la Grange

i V. LFS trad. it. Firenze 1941, p. 229-231 (i corsivi sono nostri).

ii “La costituzione dà al Congresso il diritto di chiamare in servizio attivo la milizia dei diversi Stati, quando si tratta di reprimere un’insurrezione o di respingere un’invasione; un altro articolo dice che, in questo caso, il Presidente degli Stati Uniti è il comandante in capo dell’esercito.

All’epoca della guerra del 1812, il Presidente ordinò alle forze militari del Nord di portarsi verso le frontiere; il Connecticut e il Massachussets, i cui interessi erano danneggiati dalla guerra, rifiutarono di inviare il loro contingente.

La costituzione, essi dissero, autorizza il governo federale a servirsi delle milizie territoriali in caso di insurrezione o di invasione; ora, nel caso presente, non c’è né insurrezione né invasione. Aggiunsero poi che la stessa costituzione, che dava all’Unione il diritto di chiamare le milizie in servizio attivo, lasciava agli Stati il diritto di nominare gli ufficiali; ne deriva, secondo loro, che in guerra nessun ufficiale dell’Unione aveva il diritto di comandare le milizie, eccetto il Presidente in persona. Ora, si trattava di servire in un esercito comandato da un altro.

Queste teorie assurde e distruttrici ricevettero non solo la sanzione dei Governatori e del corpo legislativo, ma anche quella delle Corti di giustizia di questi due Stati” e prosegue “Per quale ragione, dunque, l’Unione americana, per quanto protetta dalla relativa perfezione delle sue leggi, non si dissolve in mezzo a una grande guerra? Per la semplice ragione che non ha grandi guerre da temere.

Posta al centro di un continente immenso, in cui l’industria umana può estendersi senza limiti, l’Unione è isolata dal mondo quasi come se fosse circondata da ogni parte dall’Oceano.

Il Canada non conta che un milione d’abitanti: la sua popolazione è divisa in due nazioni nemiche. I rigori del clima limitano l’estensione del suo territorio e chiudono per sei mesi i suoi porti.

Al sud l’Unione tocca l’Impero del Messico; probabilmente è di qui che, un giorno, potranno venire grandi guerre. Ma, per lungo tempo ancora, il grado poco avanzato di civiltà, la corruzione dei costumi e la miseria impediranno al Messico di occupare un posto elevato tra le nazioni. Quanto alle potenze europee, la loro lontananza le rende poco temibili” concludendo “La grande fortuna degli Stati Uniti non è, dunque, quella d’aver trovato una costituzione federale, che permetta loro di sostenere grandi guerre, ma quella di avere una posizione geografica tale da non dover temere grandi conflitti.

Nessuno saprebbe apprezzare più di me i vantaggi del sistema federale. Vi vedo una delle più valide combinazioni in favore della prosperità e della libertà umane. Invidio la sorte idi quelle nazioni alle quali è stato permesso d’adottarlo. Ma, nondimeno, mi rifiuto di credere che dei popoli confederati possano lottare a lungo, a parità di forze, contro una nazione, dove il potere di governo è centralizzato” (i corsivi sono nostri) – v. La Démocratie en Amérique, libro I, parte I, trad. it. Torino, p. 200 ss.

iii “…il più grosso problema europeo è di sapere come si possa ridurre il potere sovrano senza distruggerlo.

Si fa presto a dire: «Ci vogliono delle leggi fondamentali, ci vuole una costituzione». Ma chi istituirà queste leggi fondamentali, e chi le farà attuare? Il gruppo o l’individuo che ne avesse la forza sarebbe sovrano, poiché sarebbe più forte del sovrano, di modo che, per l’atto stesso dell’istituzione, lo detronizzerebbe. Se la legge costituzionale è una concessione del sovrano, il problema si ripresenta. Chi impedirà che uno dei suoi successori la violi?… D’altra parte, si sa che i numerosi tentativi fatti per ridurre il potere sovrano non sono mai riusciti a far venire la voglia di imitarli. L’Inghilterra sola, favorita dall’Oceano che la circonda e da una carattere nazionale che si presta a queste esperienze, ha potuto fare qualcosa del genereDu pape, Lib. II, cap. II, trad. it. di A. Pasquali, Milano 1995, p. 158 (i corsivi sono nostri).

ivL’idealità che fa la sua comparsa nella guerra, venendosi così a trovare come in un rapporto accidentale con l’esterno, è in realtà identica all’idealità secondo cui i poteri statuali interni sono momenti organici del Tutto.

Sul piano dei fenomeni storici, questa identità si presenta, tra l’altro, nella figura per cui guerre fortunate hanno impedito irrequietudini interne e hanno consolidato la forza interna dello Stato.

Un fenomeno che rientra appunto in questo ordine è quello dei popoli che, non volendo oppure paventando sopportare una sovranità all’interno, sono stati soggiogati da altri popoli, e che si sono impegnati per la loro indipendenza con tanto minore successo e onore quanto meno si è potuto produrre al loro interno un primo serio assetto del potere statuale – popoli la cui libertà è morta per la paura di morire” (i corsivi sono nostri) LFD § 325 di V. Cicero, Milano 1996, p. 545.

v E proseguiva “da un lato questa legalità di mantenere ogni parte nella sua separazione dallo Stato, dall’altro le necessarie pretese dello Stato sul singolo membro di esso stanno nel più completo contrasto. Lo Stato richiede un centro comune, un monarca e degli stati in cui si riuniscano i diversi poteri, i rapporti con potenze straniere, le potenze militari, le finanze che hanno con esso relazione ecc.; un centro che avrebbe anche per la direzione, la necessaria potenza di affermare se stesso e le sue decisioni e di mantenere le singole parti in dipendenza da se. Atraverso il diritto invece è assicurato ai singoli Stati un’indipendenza quasi totale o addirittura totale… L’edificio statale tedesco non è null’altro che la somma dei diritti che le singole parti hanno sottratto al tutto; e questa legalità che veglia sollecitamente a che allo Stato non rimanga più alcun potere è l’essenza della costituzione” Op. cit. pag. 19.

vi E così prosegue “la Germania può essere saccheggiata e ingiuriata: il teorico del diritto statale saprà mostrare che tutto ciò è del tutto conforme ai diritti e alla prassi e che tutti i casi di infelicità sono piccolezze nei confronti dell’uso di questa legalità. Se il modo infelice in cui la guerra è stata condotta risiede nella condotta dei singoli stati, dei quali l’uno non inviò alcun contingente, moltissimi inviarono, invece che dei soldati, delle reclute arruolate appena ora, l’altro non pagò nessuna «mensilità romana», un terzo al tempo del più grande bisogno ritirò il suo contingente, molti conclusero trattati di pace e contratti di neutralità, la maggior parte ognuno alla sua maniera, annullò la difesa della Germania: allora il diritto statale dimostra che gli Stati hanno il diritto di una siffatta condotta, hanno il diritto di portare il tutto al più grande pericolo danno e sventura; e poiché questi sono diritti, i singoli e le comunità devono salvaguardare e difendere rigorosissimamente questi diritti di essere mandati in rovina. Per questo edificio giuridico dello Stato tedesco forse non esiste dunque nessuna insegna più adatta di questa: Fiat justitia, pereat Germania!”op. cit. trad it. in Scritti politici, Bari 1961 pp. 21.

vii Riguardo alle leggi propriamente civili e alla amministrazione della giustizia, né l’uguaglianza delle leggi e della procedura giuridica potrebbero rendere l’Europa uno Stato (tanto poco quanto l’uguaglianza dei pesi, delle misure e della moneta), né la loro diversità impedisce l’unità di uno Stato” perché “ i più potenti degli Stati effettivi hanno leggi assolutamente non uniformi. La Francia aveva prima della Rivoluzione una tale molteplicità di leggi che, oltre al diritto romano che valeva in molte province, in altre dominava quello burgundisco, quello britannico, ecc. e quasi ogni provincia, anzi quasi ogni città aveva una particolare legge tradizionale; uno scrittore francese disse a ragione che chi viaggiasse lungo la Francia doveva cambiare leggi tanto frequentemente quanto i cavalli dei servizi postali.

Non meno fuori dal concetto dello Stato giace la circostanza dello stabilire da quale particolare potenza, o secondo quale rapporto di partecipazione dei diversi stati o dei cittadini in generale devono essere date le leggi; Op. cit. pp. 32-22 (i corsivi sono nostri).

viii Quanto poco, prima e in sguito, la somiglianza delle religioni nella separazione in popoli potè impedire le guerre e riunirli in uno Stato, altrettanto poco nei nostri tempi la diversità della religione sgretola uno Stato. Op. cit. p. 36

ix Op. cit. p. 44 (i corsivi sono nostri)

x Mi si consenta di rinviare a quanto da me scritto in Diritto divino provvidenziale e dottrina dello Stato borghese in Behemoth n. 41, p. 25 ss.

xi v. Trattato politico, trad. it. Torino 1958, p. 205.

xii Montesquieu, Esprit des lois I, 1, 1

xiii Montesquieu, Esprit des lois, 1. I, 3: le leggi «doivent être tellement propres au peuple pour lequel elles sont faites, que c’est un trés grand hasard si celles d’une nation peuvent convenir à une autre».

xiv Era cioè proprio il contrario di quanto sosteneva Montesquieu. Ovvero che le leggi “devono essere in armonia con la natura e col principio del governo costituito, o che si vuol costituire, sia che lo formino, come fanno le leggi politiche; oppure che lo mantengano, come fanno le leggi civili.

Queste leggi debbono essere in relazione col carattere fisico del paese, col suo clima gelato, ardente o temperato; con la qualità del terreno, con la sua situazione, con la sua estensione, col genere di vita dei popoli che vi abitano, siano essi coltivatori, cacciatori o pastori: esse debbono essere in armonia col grado di libertà che la costituzione è capace di sopportare, con la religione degli abitanti, le loro disposizioni, la loro ricchezza, il loro numero, i loro commerci, costumi, maniere. Finalmente, esse hanno relazioni reciproche; con la loro origine, col fine del legislatore, con l’ordine delle cose sulle quali esse sono state costituite. Noi le dobbiamo considerare sotto tutti questi vari aspetti, ed è appunto ciò che intendo fare nella mia opera. Esaminerò tutte queste relazioni: esse, nel loro insieme, formano ciò che viene chiamato lo spirito delle leggi”. Lo spirito delle leggi deriva quindi dalle relazioni con i condizionamenti concreti e reali (tra cui i nemici e le guerre possibili) che erano considerati nei libri IX e X, che costituicono una vera miniera di intuizioni sul rapporto tra fattori geo-politici e istituzionali.

xv V. Über verfassungswesen, trad. it. in Behemoth n. 20, p. 5 ss.. E’ da notare che Lassalle muoveva una critica penetrante ai giuristi suoi contemporanei “tutte queste definizioni giuridiche formalmente simili aono altrettanto lontane quanto la precedente risposta in ordine alla costruzione di una risposta effettiva alla mia domanda. Perché tutte queste risposte contengono sempre e solo una descrizione esterna del come una costituzione viene ad esistenza e di ciò che una costituzione fa, ma non l’informazione: cosa una costituzione è. Esse indicano criteri, segni di riconoscimento, da cui si riconosce una costituzione dall’esterno e sul piano giuridico” per cui concludeva “ Gli effettivi rapporti di potere che sussistono in ogmi società sono quella forza effettivamente in vigore che determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società, cosicchè queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come sono” i corsivi sono nostri. V. op. cit. p. 5-6.

xvi H. Triepel Völkerrecht und Laudesrechts, trad. it. Torino 1913 pp. 4-5. (i corsivi sono nostri)

xvii Montesquieu considerava con favore le repubbliche federate perché federarsi è l’unico modo per dei piccoli Stati, di difendersi. “Furono queste associazioni a render fiorente per così lungo tempo la Grecia. Grazie ad esse i Romani attaccarono il mondo intero, e grazie ad esse sole il mondo intero si difese contro di loro. Quando Roma raggiunse il massimo della propria grandezza, fu per mezzo di simili associazioni poste oltre il Danubio ed il Reno, e sorte per effetto della paura, che i barbari poterono resistere… Le associazioni tra città erano in altri tempi più necessaria di quanto non lo siano oggi. Una città mal difesa correva rischi gravissimi. Essere conquistata significava la perdita non soltanto del potere esecutivo e legislativo, come avviene oggi, ma anche di tutte le proprietà individuali”. Poco dopo specificava che il non poter contrarre alleanza significa per l’appunto di non poter condurre una politica estera diversa dalla federazione Esprit des lois, Lib. IX, cap. 1-3.

xviii “Tutte le istituzioni generano un diritto disciplinare che resta al loro interno, si caratterizza per essere gerarchico e perché, davanti ai Tribunali che lo applicano, le parti non sono in posizione d’eguaglianza” Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 98.

xix Hauriou op.loc. cit., e aggiunge “Mentre Thémis ha la propria fonte nell’organizzazione sociale, Dike trova la propria nella socievolezza umana che non perde i propri diritti neppure di fronte agli stranieri, e del pari di fronte ai nemici”.

xx Verfassungslehre trad. it. di A. Caracciolo, p. 477, Milano 1984.

xxi v. sul punto C. Schmitt op.cit.p. 493: “Ma poiché le questioni dell’esistenza politica possono presentarsi diversamente nei diversi ambiti, specialmente in politica estera ed interna, allora è possibile che la decisione su una specie determinata di siffatte questioni, per esempio le questioni dell’esistenza in politica estera, abbia luogo nella federazione, mentre la decisione di altre questioni, per esempio il mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica all’interno di uno Stato membro, rimanga nello Stato membro. Questa non è una divisione della sovranità, ma deriva dalla coesistenza della federazione con i suoi membri: non si verifica una divisione, perché il caso di un conflitto, che determina la questione della sovranità, riguarda l’esistenza politica in quanto tale e la decisione nel caso singolo spetta sempre interamente all’uno o all’altro”

xxii v. op. cit., p. 480.

xxiii V. in Palomar n. 18, pp. 49 ss.

xxiv Op. cit., p. 480-481.

xxv v. gli articoli di Jean Claude Paye in Behemoth nn. 35, 37, 38.

xxvi Anabasi, I, 2.

xxvii In effetti in tali guerre, essendo “distribuito” lo jus belli, non c’è il criterio distintivo delle auctoritas cioè il diritto di dichiarare e muovere guerra, indicato da S. Tommaso e dai teologi-giuristi della Tarda Scolastica come una delle condizioni dello justum bellum.

xxviii V. Leviathan (conclusione); scrive Hobbes “E così sono giunto alla fine del mio trattato sul governo civile ed ecclesiastico, al quale hanno data occasione i disordini del tempo presente, e che è stato composto senza parzialità, senza prevenzione e senza altro scopo che di porre davanti agli occhi degli uomini la mutua relazione tra protezione ed obbedienza; alle quali la condizione della natura umana e le leggi divine – tanto naturali che positive – richiedono un’osservaznza inviolabile”, (il corsivo è nostro) trad. it. di Mario Vinciguerraq, vol. II, Bari 1974, p. 661.

xxix V. la definizione di G. D. Romagnosi in Scienza delle costituzioni, Firenze 1850 (tra i tanti che l’hanno ripetuto) v. V.E. Orlando nel discorso sopra citato alla Costituente.

xxx “Distinguo tre tipi di pace, equilibrio, egemonia, impero: in un dato spazio storico, le forze delle unità politiche o si controbilanciano o sono dominate da quelle di una di esse, oppure infine sono superate da quelle di una di esse in modo che tutte le unità, salvo una, perdono la loro autonomia e tendono a sparire in quanto centri di decisioni politiche” Paix et guerre entre les nations, trad. it. F. Airoldi Namer, Milano 1970, p. 188 (i corsivi sono nostri).

xxxi “La classificazione ternaria delle paci ci fornisce nello stesso tempo una classificazione, la più formale e la più generica, delle guerre: le guerre «perfette», conformi alla nozione politica della guerra, sono interstatali: in esse si affrontano unità politiche che si riconoscono reciprocamente esistenza e legittimità. Chiameremo soprastatali o imperiali le guerre il cui oggetto, o rigine o conseguenza, sia l’eliminazione di certi belligeranti e la formazione di un’unità al livello superiore. Chiameremo infrastatali o infraimperiali le guerre la cui posta è il mantenimento o la decomposizione di un’unità politica, nazionale o imperiale” op. cit., p. 191; si noti che Aron attribuisce allo Stato imperiale il monopolio della violenza legittima. Si può concordare a patto di chiarire che quando c’è uno Stato imperiale, questo è più Stato che Impero, e che l’essenza “statale” può essere prevalente in certe aree, e più sfumata in altre (come in molte colonie extraeuropee degli Stati europei).

xxxii Op. cit., v. (tra gli altri) §258 “Se lo Stato viene scambiato per la società civile, e se quindi la sua destinazione viene posta nella sicurezza e nella protezione della proprietà e della libertà personale, allora l’interesse dei singoli in quanto tali diviene il fine ultimo per cui essi sono uniti, e, a un tempo, il fatto di essere membro dello Stato finisce col dipendere dal capriccio individuale”, mentre “L’unione in quanto tale [degli individui nello Stato] è essa stessa l’autentico contenuto e fine, e la destinazione degli individui consiste nel condurre una vita universale: ogni loro ulteriore appagamento, attività, modo di comportarsi, ha per suo punto di partenza e risultato questo elemento sostanziale e universalmente valido”, trad. it. di V. Cicero, Milano 1996, p. 417-419.

xxxiii V. Julien Freund L’essence du politique, Paris 1965, p. 94 ss.

COMUNITÁ, DIRITTO, STATO: IN MARGINE AD UN SAGGIO DI HÖHN, di Teodoro Klitsche de la Grange

COMUNITÁ, DIRITTO, STATO: IN MARGINE
AD UN SAGGIO DI HÖHN
1. L’Aja, agosto 1937, secondo congresso di diritto comparato. I vari paesi
mandano un proprio rappresentante per illustrare la condizione del diritto in
ciascun Stato. La Germania invia Theodor Maunz e Reinhard Höhn, che
illustra il contributo che qui viene commentato e proposto: Popolo, Stato e
diritto. La memoria va subito al saggio di C. Schmitt di quattro anni prima,
Stato, movimento e popolo, ma, nonostante l’assonanza dei titoli, il taglio
esprime due prospettive diverse.
Il saggio di Höhn conserva un tratto profondamente giuridico ed illustra in
modo magistrale le modalità con cui la nuova scienza del diritto dell’epoca
stesse cercando di superare la precedente impostazione di stampo
individualistico, con il risultato che il diritto viene inserito ora nel concetto
più ampio di comunità e perde la precedente primazia.
Nella Germania nazista emergeva una concezione che, nel momento in cui
provvede a livellare sul piano della comunità tutte le differenziazioni ed i
particolarismi (società, diritto, Stato, i suoi rappresentanti e via dicendo),
toglie autonomia a queste singole componenti e soprattutto alla relativa
premessa: l’individuo. In questa visione vanno buttati al macero istituti
fondamentalissimi del diritto moderno come il diritto soggettivo, la persona
giuridica dello Stato e quant’altro, ossia i fondamenti della civiltà giuridica
occidentale. Tutto viene spazzato via ora e prevale solo l’avvolgente e anzi
totalizzante concetto di comunità, tale da assorbire non solo l’individuo, ma
naturalmente anche le sue derivazioni, ossia il diritto e lo Stato, la società e
gli interessi organizzati.
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Il saggio è diviso in cinque parti più una sintesi, di cui sono di seguito
trascritte alcuni passi per agevolarne la comprensione. L’interesse che
presenta, al di là di concezioni assai datate e per nulla condivisibili (in
particolare i richiami alla razza e alla “biologia” politica) è ancora notevole
per la coerenza con cui si contrappone ad una visione liberale. Tuttavia ora
che il liberalismo è inteso nel senso più depotenziato possibile – un
liberalismo “debole” e spoliticizzato – il richiamo a certi parametri realistici
e comunitari può servire a riflettere e riportare la democrazia
(asseritamente) liberale, sempre più simili al “dispotismo mite” descritto da
Tocqueville nella Démocratie en Amerique, a presupposti più concreti e
percorsi più utilmente praticabili.
2. All’inizio della relazione Höhn scrive “Il sistema giuridico
individualistico deve essere compreso sulla base del generale sviluppo
storico europeo. Si possono cogliere in pieno i suoi effetti solo se si
riconosce in esso un prodotto di decomposizione1
, debitore per la propria
nascita nei confronti della progressiva dissoluzione delle comunità di vita,
diventate salde, delle precedenti epoche storiche. La concezione
individualistica si è sviluppata storicamente dalla caduta dell’ordinamento
del mondo e della vita medievali e compare per la prima volta in modo
chiaro e senza dubbi, nei suoi principi di base, nello Stato sovrano del
principe. Si tratta qui di un sistema sociale fondato sul confronto tra
individui, di cui uno, il principe, è chiamato all’esercizio del potere su una
massa di sudditi. Il diritto appare in quest’epoca come un sistema di

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Il corsivo è nostro.
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relazioni possibili che si possono egualmente sviluppare tra il principe e
alcuni dei suoi sudditi o anche tra diversi sudditi.
La rivoluzione francese comportò l’emancipazione dei cittadini
dall’assolutismo e diede inoltre al cittadino il diritto di collaborare
all’esercizio del potere. Da qui si determinò allora la possibilità di sviluppi
sul piano costituzionale e democratico. Dal punto di vista del diritto
pubblico ciò ha reso più profondo ed ulteriormente consolidato il sistema
giuridico individualistico attraverso l’introduzione di diritti di base, di diritti
pubblici soggettivi e soprattutto della persona giuridica dello Stato, che
subentra alla personalità del principe sovrano. Con il che trovò allora
compiutezza il sistema giuridico individualistico in quanto sistema di
relazioni tra individui. Sebbene solo in epoca più recente ben sotto l’influsso
di idee marxiste, possa essere fissato in molti Stati un tratto complessivo di
tipo collettivo, questo sistema giuridico si è però mantenuto invariato nei
suoi fondamenti fin direttamente ad oggi… In Germania si è ora attuato, nei
tempi più recenti, il distacco consapevole dal sistema giuridico
individualistico. La scienza giuridica tedesca ha intrapreso, nello spirito
della sua visione del mondo, il cui principio di base è la “comunità di
popolo e la guida [Führung]”, la verifica di tutti i precedenti concetti
giuridici di diritto pubblico sulla base della loro utilizzabilità. Essa intende
superare il dissidio sussistente tra la formazione di una comunità che si attua
nella prassi della vita, da un lato, e, dall’altro, la scienza del diritto pubblico
e della dottrina dello Stato.
L’odierno diritto tedesco si basa su una nuova concezione della comunità
che si pone in termini problematici nei confronti del sistema giuridico
tradizionale nella sua totalità. Questa nuova concezione della comunità parte
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da un nuovo sentire quale si è acceso nel popolo tedesco intorno
all’esperienza della guerra mondiale e che ha trovato la propria
caratterizzazione politica nel movimento nazionalsocialista.
Il principio di comunità richiede, ai fini della sistematica scientifica, un
nuovo orientamento di base. Diviene necessario per la scienza tedesca
rivedere le idee sul diritto e sullo Stato sulla base della loro conciliabilità
con l’idea della comunità2
, distanziarsi dai concetti e dalle costruzioni
individualistiche e andare oltre, verso la nuova conformazione del diritto.
La nuova scienza giuridica si confronta oggi con un sistema e con una
dogmatica emersi in un’epoca che si basava su una visione del mondo
completamente diversa. Un tale confronto presuppone però che si riconosca
la dipendenza del sistema individualistico dalle condizioni storiche e che si
intraprenda un chiarimento dell’intera sistematica giuridica a partire dal
punto di vista storiografico implicato dal concetto tradizionale di diritto. La
scienza giuridica tedesca parte infatti dal riconoscimento del fatto che
concetti scientifici non esistono mai di per sé, ma possono essere
considerati sempre e solo espressione del loro tempo. Trova così
progressivamente attuazione l’abbattimento delle idee giuridiche
individualistiche e deve essere visto come evidentissima caratteristica di ciò,
per esempio l’allontanamento dei concetti generali tradizionali nonché del
relativo pensiero giuridico, come la presa di distanza dalle costruzioni
relative ai diritti di base, ai diritti pubblici soggettivi e alla persona giuridica
dello Stato”. È interessante notare tuttavia come il giurista tedesco apprezzi
proprio la patria storica del liberalismo, cioè la Gran Bretagna e la sua

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Il corsivo è nostro.
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diversità dai sistemi giuridici occidentali “Lo sviluppo giuridico in
Inghilterra, che è stato poco toccato da quel processo storico, si pone in
opposizione con questo sviluppo europeo continentale. Qui non si è potuta
sviluppare perciò neanche la dottrina giuridica individualistica nella forma
con cui si manifesta nel continente. Qui il diritto si muove piuttosto
nell’ambito di antiche tradizioni, abitudini ed usi, quali sono saldamente
radicati nell’anima popolare inglese”.
Quindi comunità versus individualismo; a prescindere si noti, entro certi
limiti, dai valori fondanti. Ciò che più rileva appare che l’ordinamento (e
l’istituzione) siano conformi al sentire (e all’operare) comune.
3. Nel primo capitolo Höhn tratta di un tema assai frequentato, allora più di
ora: il rapporto tra diritto e sociologia. «Per comprendere il diritto è
importante ritornare ai suoi fondamenti nella vita sociale. Nelle dottrine
internazionali sullo Stato e sul diritto viene perciò trattata, quasi dappertutto
in modo approfondito, la questione di quali reciproci rapporti intercorrano
tra diritto e sociologia. Nella misura in cui si ponga attenzione ai fondamenti
sociali, sulla base della concezione finora dominante, sembra sussistere un
dissidio indissolubile tra diritto e realtà.
Esso si mostra anzitutto nella dottrina dello Stato, che rimane sottoposta ad
una duplice modalità di pensiero, quella normativa e quella sociologica…
Esiste ora però ancora un’altra differenza, che riguarda egualmente la vita
sociale e che spesso non viene considerata a sufficienza. La vita sociale può
essere rappresentata per una volta nelle forme di una vita chiusa di
comunità, così come però, se abbiamo davanti agli occhi le antiche relazioni
germaniche, può essere trovata d’altra parte anche nelle condizioni di un
allentamento, di uno scioglimento e di un dissolvimento. In opposizione alla
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comunità chiusa viene allora assunto come punto di partenza l’individuo
libero, piantato in sé, che entra in relazione con altri individui. La sociologia
prima dominante corrispondeva ampiamente a quest’ultimo mondo di idee.
Essa osservava e sperimentava in gran parte solo il singolo uomo. Tipica era
per la Germania la dottrina di Georg Simmel, cui era legata in modo
particolare la scuola di sociologia di Colonia, e di Leopold v. Wiese, che
risolve l’intera vita sociale nelle relazioni tra uomo e uomo. La sociologia è
per Leopold v. Wiese «la scienza degli avvenimenti nello spazio sociale». In
essa viene mostrato come gli uomini si incontrino, fraternizzino e si evitino.
L’intero sistema della dottrina delle relazioni non è altro che
un’interpretazione della parolina «infra». Quale oggetto della sociologia v.
Wiese vede «la sfera dell’esserci che sussiste tra gli uomini, quello spazio
quindi in cui gli uomini vengono alleati reciprocamente ovvero divisi l’uno
dall’altro». Con il che egli riconduce la vita umana di comunità a «processi
infraumani», in cui si dispiega «il comportamento di uomini nei confronti di
uomini»… Questa specie di sociologia assunse una posizione considerevole
nella scienza tedesca prima della rivoluzione nazionalsocialista. Essa
dichiarava in tutta chiarezza che non esiste affatto per essa un modello
sociale come scienza. Perché secondo v. Wiese modelli sociali «possono
essere compresi solo dalle serie in esse prevalenti dei processi sociali». I tre
gruppi di modelli sociali da lui costruiti: massa, gruppo e corpo, vengono
poi differenziati sulla base della distanza in base alla quale essi sono
«lontani dal singolo uomo empirico». Una compagnia di soldati ad esempio
è «solo un complesso di relazioni organizzate tra uomini in vista di scopi».
Per Leopold v. Wiese non c’è lo Stato come realtà. La sociologia non «cerca
lo Stato né nel regno della natura né in quello dello spirito. Essa non cerca
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affatto un tale modello, perché non lo troverebbe; perché esso come
sostanza non si trova da nessuna parte». Il popolo costituisce in ciò un
modello che, relativamente insignificante rispetto agli altri (massa, Stato e
classe), viene reso oggetto di relazioni sociologiche. Esso sembra allora, nel
sistema di v. Wiese dei modelli sociali, tale da insistere sulla «zona-limite
della sociologia», in cui l’elemento biologico si fa strada al di là del confine
e si mischia con una problematica scientifico-sociale. Irrompe così il
popolo, accanto alla famiglia e all’umanità, come «modello di generazione»,
con cui gli altri elementi più differenziati possono essere mischiati.
La scienza giuridico-sociale nazionalsocialista tedesca si confronta in
particolare con questa concezione unilateralmente individualistica
dell’oggetto della sociologia. Per essa il metodo di risolvere tutto l’accadere
sociale e giuridico in relazioni tra singole persone non è affatto valido in
generale. Quest’affermazione corrisponde piuttosto solo ad una visione del
mondo individualistica e a relazioni individualistiche. Essa diviene nulla
con il superamento dell’individualismo. Ciò accade nella scienza tedesca
con la dottrina del popolo. Popolo significa non somma di individui, ma una
comunità che poggia sulla razza, sullo spazio e sulla storia. Essa è stata
creata ex novo dal Führer e ci viene incontro visibilmente nella comunità dei
seguaci [Gefolgschaft] e nella guida [Führung]. La comunità di popolo va
ben al di là rispetto ad un puro spazio di relazioni infraumane e racchiude
l’aspetto biologico e spirituale dell’uomo nella sua esistenza complessiva.
La comunità di popolo non è, come noi stessi abbiamo sperimentato, un
dato e basta. Essa è realtà, ma anche scopo e compito. Essa è presente
proprio là dove uno spirito di comunità comprende uomini che stanno uno
di fianco all’altro e in effetti li comprende in modo tale che il singolo agisce
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a partire da questo spirito di comunità e vive in questo spirito di comunità.
Proprio così il singolo diventa persona nella comunità. Persona e comunità
appartengono necessariamente l’uno all’altra così come si corrispondono
l’individuo e la massa… Il divenire dello spirito di comunità è ora vincolato
a certi presupposti, soprattutto all’eguaglianza di stirpe [Artgleichheit] di
quegli uomini che costituiscono la comunità. In conseguenza di ciò la
concezione giuridica teedesca si basa sulla dottrina della razza. Uguale
pensiero, sentimento e agire in un popolo sono necessariamente vincolati
attraverso impostazioni coerenti con la stirpe (artmässig). Solo in presenza
di questi fondamenti esiste anche la possibilità della nascita dello spirito di
comunità in un popolo. Lo spirito di comunità non va compreso con i
metodi usuali di una descrizione scientifica secondo natura. Si tratta
piuttosto qui di una realtà di altro tipo. Lo spirito di comunità si mostra in
particolare nell’esperienza della comunità che comprende gli uomini che
prima stavano l’un insieme all’altro come singoli e li cinge con un vincolo
comune riguardante l’anima e lo spirito. Questa esperienza di comunità il
singolo ce l’ha non come singolo, ma come persona nella comunità. Non è
quindi come se l’esperienza della comunità fosse la somma delle esperienze
dei singoli consorziati nella comunità, ma si tratta di una esperienza che li
comprende tutti insieme e che viene vissuta da ciascuno non come singolo,
ma come persona all’interno della comunità. La dottrina della comunità e
della persona non ha pertanto nulla a che vedere con la contemplazione da
lontano del mondo da parte dei romantici, ma è l’espressione di una nuova
realtà della vita tedesca. Ed è a partire da questa concezione di fondo che si
determina per la scienza tedesca il punto di vista decisivo per tutti i campi
della scienza. In base ad esso sussiste anche la possibilità di superare
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l’opposizione tra diritto e sociologia… Il diritto tedesco della comunità si
basa su questa dottrina della comunità.
Rispetto a ciò la divisione tra diritto e sociologia è destinata a stare in
primo piano se la vita sociale rimane ferma alle battaglie di interessi tra
individui. Questa è la concezione quale ancora oggi viene estesamente
rappresentata negli Stati fuori della Germania. In conformità a ciò, come
Dumas illustra approfonditamente per la Francia, oggetto della sociologia è
la vita in continuo movimento, in cui si contrappongono gli interessi degli
uomini. Dumas vede incombere il caos nel campo sociale e contrappone il
diritto alla vita sociale quale creatore di ordine. Solo la materia del diritto
viene sottratta alla sociologia. Il diritto è norma, ordinamento, forma e
istituzione, ad esso, come spesso viene rilevato, è proprio il momento della
durata. Le organizzazioni di diritto sono chiamate “ad essere durevoli
nonostante l’eterno divenire delle cose umane. Grazie a queste istituzioni
c’è stabilità nella vita sociale. I processi sociali, per contro, si
contrappongono alla norma e alla durata, essi si esprimono nella mobilità e
nella trasformazione delle forme sociali… Ma se si vede nella vita sociale
null’altro che un caos, si può assumere il diritto solo come una funzione che
dà ordine al caos. La nuova dottrina giuridica tedesca non ha più bisogno di
venire fuori dal caos e dai conflitti d’interesse, essa ha una solida base nella
comunità di popolo creata dal Führer, la quale significa il superamento della
società del XIX secolo. Essa può pertanto basare il diritto sulla comunità e
considerarlo come espressione dell’ordinamento di vita della comunità. Ciò
emerge chiaramente, nella determinazione della comunità d’impresa e nella
legge sull’ordinamento del lavoro nazionale… È interessante il fatto che il
problema: diritto e sociologia, appena esista per la dottrina giuridica
10
inglese. Qui lo Stato, il diritto e la società sono tanto buoni quanto identici.
Goodhart così dice: «Il diritto esiste poiché esso è una parte essenziale della
società che noi conosciamo come Stato». Il diritto consiste qui però non di
norme nel senso stretto quale viene inteso sul continente questo concetto.
Esso consiste ampiamente nell’osservanza di una generalità di principi che
vengono applicati nella giurisprudenza, anche se di recente può sussistere la
tendenza ad una più forte vincolatività della legge. «Poiché il diritto inglese
ha attraversato una crescita durevole sul piano storico nei passati nove
secoli, esso è diventato una parte inconscia della vita del popolo. Significa
perciò qualcos’altro il fatto che la dottrina giuridica inglese parli di
“signoria del diritto”. Tuttavia il problema qui è ancora completamente
diverso; in Inghilterra risultano contrapposti diritto e forza discrezionale di
decisione, non diritto e realtà. È infatti tipico che Goodhart dichiari che “la
differenza tra legge e comando discrezionale è stata riconosciuta con la
massima chiarezza».
Con una tale concezione non vi può essere neanche un settore particolare
della sociologia da porre alla base del diritto come “materia”. Il diritto è
basato sulla valenza e sul riconoscimento fattuale3
. “L’obbedienza nei
confronti della legge viene quindi determinata in ultima analisi attraverso la
premura di quanti fanno parte dello Stato e che hanno desiderio a che la loro
società possa risultare durevole”.
La distinzione tra sein e sollen, causa ed imputazione è ricondotta alla realtà
dalla comunità e dalla sua esistenza. Questa è un ordinamento di vita e il
diritto ne è l’espressione4
. La cosa più originale del pensiero del giurista

3
Il corsivo è nostro.
4
Il corsivo è nostro
11
tedesco è il “superamento” della impostazione hobbesiana caro al pensiero
borghese e al “tipo ideale di società di Tönnies” – che vede nello Stato il
creatore dell’ordine attraverso la risoluzione dei conflitti d’interesse (causa
principale del bellum omnium contra omnes)
5
.
4. Höhn passa poi a trattare il rapporto tra giustizia e diritto positivo
«Accanto al compito di comprendere la connessione tra diritto e relative
basi sociologiche, è inoltre necessario porre il quesito dei fini e delle idee
che il diritto positivo deve realizzare. In particolare, si tratta dell’idea di
giustizia, il cui rapporto con il diritto positivo è oggetto di un trattamento
approfondito nelle relazioni dei Länder. I positivisti di più stretta osservanza
– come chiarisce Dumas – “sono obbligati ad ammettere che le idee di
giustizia e di diritto, sebbene indivisibili, divergono l’una dall’altra”. Questa
contrapposizione tra “mondo e giustizia” sembra essere spesso
inconciliabile… La conciliazione tra giustizia e diritto positivo rimane però
ovunque un obiettivo, che non è mai da attuare in forma pura. Questo
dichiara Dumas: «al di sopra del diritto positivo esiste un ideale pieno di
mistero ed indefinibile: gli uomini non lo coglieranno mai, ma neanche vi
rinunzieranno mai».
Con questa concezione del rapporto tra idea di giustizia e diritto positivo le
idee in materia di giustizia danno attuazione ad un compito del tutto
determinato. Esse costituiscono la base portante di norme più stabili e
rappresentano in quanto tali una consapevole limitazione nei confronti di
una attività legislativa discrezionale. In esse dimorano rappresentazioni
etiche di valori che non possono trovare attuazione direttamente nella norma

5 V. sul conflitto d’interessi come base del diritto F. Carnelutti, Teoria generale del diritto,
Padova 1946, pp. 12 ss.
12
giuridica, ma che devono trovare considerazione nell’attività legislativa e
nell’attuazione del diritto. Per il diritto pubblico ne deriva il principio: salus
publica suprema lex esto, per il diritto privato il principio di fedeltà e di
fede. Ad esse il singolo deve essere vincolato anche allorquando il suo
comportamento non sia chiaramente determinabile con norma. Anche
quando, nel diritto privato, il singolo gode fondamentalmente di libertà
contrattuale ovvero può procedere, dal punto di vista del diritto pubblico,
nei confronti di un ufficio amministrativo per considerazioni di opportunità,
questo libero agire non può sostanziarsi in un abuso giuridico e non può
comunque apertamente contraddire le idee di giustizia. Tuttavia, queste idee
etiche di base non possono mai del tutto essere assorbite nel diritto positivo.
Esse rimangono solo regole per la conformazione del diritto in generale. Più
di tutte è l’idea di giustizia ad essere limitata ad una funzione negativa. Essa
offre la base per una critica. Mai riesce però, l’idea di giustizia, a pervadere
direttamente il diritto positivo.
Rispetto a ciò alla nuova concezione tedesca del diritto, che parte dal
popolo e dalla sua comunità concreta, è data la possibilità di superare la
spaccatura tra idea di giustizia e diritto legislativo. Diritto non è, secondo la
dottrina giuridica tedesca, né un sistema di norme né una somma di
rappresentazioni di valori, diritto è espressione dell’ordinamento della
società. La giustizia non si colloca al di fuori del diritto. Premessa del fatto
di potere vivere il diritto nella comunità è l’unità del sangue. Perciò la
dottrina giuridica si basa sul pensiero della razza. Nella razza si colloca,
secondo la concezione del mondo nazionalsocialista, la realtà di ogni unità
di ideali e di vita. Quando dunque la dottrina giuridica tedesca mette in luce
il fatto che la comunità non sta solo nel mondo delle idee, ma deve essere
13
vissuta e conosciuta come ordinamento concreto della vita, essa è
necessariamente costretta a rifiutare la limitazione della comunità di popolo
ad una pura comunità di diritto. Essa sente come insufficiente la comunità di
diritto, che rimane limitata ad un vincolo sentimentale in ordine a
determinate convinzioni generali. Perché anche la profonda frattura tra
diritto e moralità perde il proprio significato. Il diritto non è pura tecnica
per portare ad attuazione principi morali autonomi, diritto può solo
significare piuttosto la moralità stessa così come vissuta da un popolo…
Nella misura in cui il diritto si basa ancora ed in misura preponderante su
forme pervenute dalla tradizione e radicate nella vita, la questione del
rapporto tra rappresentazioni di valori e diritto positivo è piuttosto
irrilevante. Questo insegna il diritto inglese. Qui il concetto di legislazione
non si è sviluppato nella profonda misura in cui ciò è avvenuto nel diritto
continentale europeo come atto di volontà. La legge appare qui non
l’espressione della volontà della persona dello Stato, che può essere
riconoscibile solo se gli organi costituzionalmente chiamati alla costruzione
della volontà la esprimono nella forma della legge. In Inghilterra l’atto della
legislazione significa che fattori della politica da tutti riconosciuti, come il
re e il parlamento, si muovono all’interno di forme giuridiche, cioè
all’interno delle forme che risultano riconosciute in secoli di antico uso e
che pertanto risultano ancorate alla coscienza giuridica del popolo inglese. È
sulla base di questa circostanza che va chiarito anche il significato di fondo
della formula «King in Parliament» e «King in Council». Questa condizione
in cui versa il diritto inglese è essenzialmente da ricondurre al fatto che
l’assolutismo, che ha introdotto nel concetto di legge proprio quella
sottolineatura del momento della volontà, non si è mai realizzato del tutto in
14
Inghilterra. Tuttavia, ancora oggi il problema è qui ancora totalmente
diverso; con leggerezza vengono contrapposti diritto e potere di decisione
discrezionale, laddove per “discrezionalità” si intende più il comando
informale, cioè dato disconoscendo le forme tradizionali, che non la
mancata considerazione di certe rappresentazioni etiche di valori…La
questione del come possa essere superata la frattura tra idea di giustizia
diritto positivo riveste un significato fondamentale per una serie di questioni
giuridiche pratiche, in particolare ai fini dell’interpretazione e
dell’attuazione delle leggi. Per dare un fondamento alla differenza tra idea
di giustizia e diritto positivo sussistono due possibilità: o la preoccupazione
per un alleggerimento del diritto in vigore porta ad una rigida insistenza e ad
un rifiuto di punti di vista non giuridici e metagiuridici (ovvero)… Una
giurisprudenza intuitiva, che Georgasco fa passare come ideale per la
Romania, costituisce l’opposto al riguardo. Qui il giudice si cala nel caso in
esame e si sente “vicinissimo al calore e all’inesprimibile luce della
giustizia” e la giustizia “si colloca alla fine del processo dinamico della
intuitiva compenetrazione nel conflitto giuridico”.
In modo del tutto diverso si conforma il rapporto tra diritto e legge per la
dottrina giuridica tedesca sul terreno della concreta comunità di popolo. Il
nazionalsocialismo pone il diritto sopra la legge. Il diritto è per esso una
grandezza data con il popolo, nata dall’essenza del popolo, legata al popolo.
Questo diritto non può essere creato attraverso un atto di volontà
individuale. Esso viene vissuto nella comunità del popolo e può essere
vincolante anche senza normazione (il corsivo è nostro). La legge è per
contro solo l’espressione temporale dell’essere del popolo in ordine alla
soluzione di singoli compiti. Ciò significa una volta per tutte che legge non
15
è un atto di volontà di un individuo, ma un atto della collettività, che viene
ad espressione nell’agire del Führer. Ma significa d’alta parte che la legge
non costituisce la forma del diritto, ma un criterio di massima per lo
sviluppo del diritto. Corrispondentemente a ciò cade la profonda differenza
tra creazione e applicazione del diritto. Il giudice non è titolare individuale
della supremazia dello Stato, che deve attuare nei confronti del singolo,
nelle forme della conoscenza logica, l’ordinamento giuridico coattivo che si
colloca al di sopra dei concittadini ovvero rappresentazioni generali di
valori. Egli piuttosto deve tutelare, come persona della comunità, la vita
della comunità. Pertanto, egli è nella condizione di organizzare la nascita
della regolazione legislativa del campo [su cui si innesta] l’ordinamento
complessivo della vita”. Ma sul punto il giurista tedesco fa rilevare che,
contrariamente ai principi degli ordinamenti borghesi, il giudice deve
interpretare la legge “secondo la concezione del mondo nazionalsocialista”;
nel diritto penale ciò porta “all’annullamento del divieto di analogia”.
Sostiene Höhn “Con il che non c’è in nessun caso il pericolo della
incertezza giuridica. Esso esiste finché un ordinamento possa essere
pensato solo come tale da sostanziarsi in norme, come tale da evitare un
caos. Quindi la maggiore o minore libertà della magistratura (Richtertum)
dipende, in una tale concezione, dal se si ritenga un tale ordinamento come
il solo possibile. Prima della rivoluzione nazionalsocialista il giudice vedeva
dappertutto davanti a sé relazioni sociali non consolidate. Con una
configurazione giuridica autonoma egli stesso cadeva nel pericolo di
apparire come partito nella lotta tra i poteri della società, da un punto di
vista marxiano egli era inoltre osteggiato nella sua giurisprudenza come
esponente di una classe. In conseguenza di ciò, prima del 1933 non
16
rimaneva alla magistratura alcun’altra possibilità, in Germania, se non il
ritirarsi il più possibile in modo neutrale alla pura attuazione delle norme.
Solo la corte suprema si assegnava potere decisionale politico. Quando per
contro è l’ordinamento stesso ad essere vissuto in una comunità, la
normazione non gioca il solo ruolo decisivo. Su queste basi non è affatto
sorprendente se il giudice nazionalsocialista sia posto completamente in
libertà e spesso rileva solo il suo legame con i fondamenti in termini di
visione del mondo quali determinano l’intera vita del popolo6
.
Questa unità di visione del mondo per la magistratura costituisce oggi la
premessa autonoma, e da qui deriva anche la particolare posizione del
giudice nel popolo. L’essenza della magistratura va oltre il puro
funzionariato. La profonda opposizione tra attuazione del diritto e attività
che pone il diritto risulta qui addolcita. Entrambe fluiscono dalla fonte
unitaria della comunità di popolo. Ciò significa una riduzione della profonda
divisione che sussisteva prima sul piano scientifico tra il metodo della
politica in materia di diritto e quello dell’interpretazione giuridica. I modi di
pensare de lege ferenda e de lege lata presentano lo stesso orientamento
nell’ambito della realizzazione delle finalità programmatiche
nazionalsocialiste. Di conseguenza diritto e politica si contrappongono non
più come un rigido sistema di norme da un lato e un quadro discrezionale di
opinioni dall’altro. La politica è una continua creazione del diritto della
comunità con i mezzi della guida [Führung]”; il tutto richiede un nuovo tipo
di giurista il quale “deve trovare la propria realizzazione nel tipo del
difensore del diritto. Nel difensore del diritto vengono superate le profonde

6
Il corsivo è nostro.
17
ed in parte esagerate differenze tra l’attività che pone il diritto e i compiti,
per esempio, delle professioni giuridiche cosiddette libere ovvero a metà
dipendenti (per es. avvocato, notaio) e delle professioni giuridiche dei
funzionari (per es. giudici, pubblici ministeri), tra giudici e funzionari
amministrativi, giudici e per esempio amministratori fiduciari in economia.
Difensore del diritto è «ogni lavoro nel campo del diritto le cui funzioni
caratteristiche stanno nella cura e nella realizzazione del diritto in tutti i
campi della vita del popolo tedesco, senza che possa essere riconosciuta una
qualsivoglia degenerata differenza di valori», così viene detto nella
proclamazione dello stato del diritto [Rechtsstand] tedesco del dicembre
1933.
Difesa del diritto è dunque non solo l’esercizio della cosiddetta
amministrazione della giustizia, il campo del giudice indipendente e
dell’avvocato; a proposito della difesa del diritto sono in gioco tanto il
lavoro del funzionario amministrativo quanto la dottrina giuridica, ma
anche, per esempio, la funzione, che appare ad un primo esame puramente
economica, dell’amministratore fiduciario in economia».
5. Sostiene poi Höhn che «Nella dottrina dello Stato si incontrano i pensieri
in precedenza trattati in materia di sociologia e teoria del diritto… D’altra
parte, la dottrina tedesca dello Stato parte non dallo Stato, ma dal popolo,
come grandezza decisiva. Vista da questo punto di vista la più volte rilevata
opposizione tra Stato e diritto perde la propria profondità. Lo Stato come
comunità è il punto di partenza tanto della dottrina dello Stato quanto di
quella del diritto. Ciò si mostra anzitutto nella contrapposizione con il
concetto di personalità giuridica dello Stato. Proprio nel diritto tedesco del
18
XIX secolo il concetto della invisibile personalità giuridica dello Stato
costituiva la pietra miliare ed angolare dell’intero diritto pubblico.
La concezione dello Stato come persona giuridica discende dal mondo
ideale individualistico e in Germania rappresenta politicamente
l’espressione della lotta della borghesia contro lo Stato assoluto. Quando
non si poté più tollerare la personalità sovrana dei principi, si dovette, in
un’epoca in cui l’intero pensiero giuridico si muoveva solo nell’ambito di
relazioni tra individui, nuovamente porre una persona al posto della persona
del principe… Ma per l’odierna dottrina giuridica dello Stato, che aveva
sofferto lo sviluppo individualistico, in primo piano stava la
contrapposizione sul concetto della persona dello Stato. Questo era una
conseguenza necessaria del sistema giuridico individualistico. Il problema
di fondo del nuovo diritto pubblico tedesco suonava anzitutto così: persona
giuridica dello Stato ovvero popolo come punto di partenza di un nuovo
pensiero di diritto pubblico. È a partire da qui che si chiariscono le
contrapposizioni di dettaglio che aspirano ad una nuova concezione dei
rapporti tra Stato e popolo. Il concetto nazionalsocialista di popolo si
differenzia per motivi di fondo dalla concezione del popolo del XIX secolo.
Il popolo era qui determinato dallo Stato e risultava giuridicamente dalla
somma di tutti i singoli che comparivano innanzi alla persona dello Stato, in
parte ubbidendo come sudditi, in parte come cittadini dello Stato con pretese
giuridiche. Questo concetto di popolo proveniva dallo Stato assoluto ed è
rimasto in piedi anche nel diritto pubblico del XIX secolo così come nel XX
secolo con la costituzione di Weimar. Esso ha solo sperimentato un
ampliamento nella misura in cui il singolo è diventato titolare attivo di
diritto anche nei confronti dello Stato.
19
L’aspirazione ad elevare il popolo ad elemento portante del diritto pubblico
tedesco ha portato ai tentativi più disparati. Ciò si dimostra una volta per
tutte nella preoccupazione volta a includere più fortemente il popolo nello
Stato; collegato a ciò si pone un riallacciarsi alla dottrina organica dello
Stato di Gierke… caratteristica inoltre è la differenza tra un concetto più
ristretto di Stato e uno più ampio, laddove il concetto più ristretto di Stato
raccoglie l’essenza delle autorità e degli uffici, il concetto più ampio
descrive una sintesi concettuale tra Stato e popolo… Ma come oggi si
continua, nell’ambito del nuovo diritto pubblico, a portare avanti la
differenza tra i due concetti di Stato più ristretto e più ampio, si vuole allora
porre nello Stato individualistico il popolo al posto dei sudditi e lo si vuol
concepire, insieme all’organizzazione dello Stato, come una nuova totalità
per lo Stato in senso più ampio. Spesso si utilizza quindi il concetto di Reich
per questo più ampio concetto di Stato (così Heckel, Huber)… La differenza
tra concetto più ristretto e più ampio di Stato conduce spesso ad equivoci e a
scarsa chiarezza. Essa mostra però in ogni caso la chiara aspirazione ad
ammorbidire il concetto di Stato a partire dal popolo.
La soluzione conseguente a questi intendimenti sta però in una chiara
differenza tra popolo e Stato, laddove invece il popolo come comunità
rappresenta l’autonomo punto di partenza e il punto centrale della dottrina
del diritto e dello Stato, al cui servizio lo Stato è attivo come apparato di
uffici e di funzionari. Con il che, per la concezione tedesca, l’unità politica
dello Stato si colloca nel popolo. Il popolo, sottoposto ad una guida, non
acquista capacità giuridica e di agire con le modalità dello [auf dem Wege
über] Stato, ma è in sé una unità vivente e capace di agire. La funzione
dello Stato si limita con ciò ad una funzione al servizio della comunità di
20
popolo. Lo Stato perde il carattere di una grandezza propria e non può
essere più concepito in particolare come persona od organismo. In quanto
apparato di uffici e di funzionari lo Stato nelle mani del Führer serve alle
finalità della comunità di popolo. Con questa concezione dello Stato è
possibile superare la rappresentazione individualistica che domina lo Stato
liberale e assoluto. Viene qui solo portato ad espressione, con la descrizione
dello Stato come apparato, il fatto che lo Stato viene impiegato per scopi
determinati della comunità di popolo e non agisce come persona dotata di
signoria autonoma7
. Lo Stato come apparato non è neanche, per esempio,
un «puro» meccanismo con carattere puramente «strumentale»”. Si noti che
la concezione del giurista nazionalsocialista ha diversi tratti in comune con
la definizione di Hauriou del concetto d’istituzione, e con la di essa funzione
di protezione della comunità8
, comune a ogni Stato, di qualsiasi
orientamento ideologico (“valoriale”). E prosegue «I principi costituzionali
che ne derivano si basano su un altro principio rispetto alla relazione Statosuddito; al suo posto sono subentrati “comunità e guida” come principio del
diritto. In conseguenza di ciò la guida in quanto principio del diritto acquista
grandissimo significato. La legge non è un’emanazione del potere dello
Stato, ma un atto della guida. In quanto guida del movimento e del popolo il
Führer e cancelliere del Reich tedesco è al contempo capo dello Stato. Al
suo posto decisiva non è pertanto l’attivazione del potere dello Stato. Questa
è piuttosto solo la conseguenza necessaria della sua posizione di guida. Con
questa concezione della posizione del Führer si pone però la questione di

7
Il corsivo è nostro
8

21
come stiano in rapporto con il Führer le precedenti funzioni del potere dello
Stato, legislazione, amministrazione, giurisdizione. È evidente il fatto di
vedere nel Führer la sintesi di tutti i poteri pensabili. Con il che sarebbe però
disconosciuta l’essenza della guida quale si estende ben al di là della pura
attivazione dell’apparato dello Stato e dei suoi strumenti coercitivi. Il potere
del Führer non è subentrato al posto del potere di prima dello Stato. Se
oggi parliamo della legge come di un atto del Führer e quindi vediamo qui
una relazione Führer-comunità di seguaci, vediamo con ciò superata l’antica
rappresentazione del potere legislativo quale espressione delle autorità e
della possibilità di darvi attuazione… Questo lo dimostra particolarmente il
caso d’emergenza. Se tutto il popolo viene chiamato all’appello dal Führer
per la difesa nei confronti di un nemico esterno, la relazione Führercomunità di seguaci è destinata a dimostrare la sua grandissima forza. Il
potere dello Stato non comporta in sé quella forza che il Führer possiede
invece di una comunità. Essa, a differenza di quella del Führer che riesce a
collocarsi direttamente all’interno delle forze della comunità, si basa invece
ampiamente sul potere della costrizione. Con il che non si può più
giuridicamente concepire il Führer e cancelliere del Reich come organo
dello Sato. Il cuore della sua posizione sta piuttosto nel popolo e nel
movimento. A partire da qui si determinano impostazioni in ordine
all’attuazione di un nuovo principio costituzionale, che consiste nell’utilizzo
dell’amministrazione statale per gli scopi della guida. In questo legame tra
«guida e amministrazione» la dottrina giuridica tedesca fornisce una
possibilità di soluzione concreta ai fini della relazione tra statica e dinamica,
il cui contrario costituisce un problema permanente nella vita dello Stato”
22
con ciò la tripartizione di Montesquieu viene ovviamente meno, e con essa
la di essa funzione di proteggere la libertà (sociale e) individuale.
Invece il potere del capo, secondo Höhn serve all’unità politica e alla
capacità d’azione della comunità.
Lo stesso concetto di dittatura è superato “Molto spesso, soprattutto nella
letteratura straniera, si tenta di spiegare la posizione di diritto pubblico del
Führer nel Terzo Reich con il concetto di dittatura. Ciò risiede nel fatto che
specialmente le democrazie occidentali riescono a pensare solo nell’ambito
dell’opposizione tra democrazia e dittatura. Se si è ancora prevenuti da un
mondo rappresentativo individualistico si possono immaginare solo forme
di signoreggio grazie alle quali esercita il comando un insieme di singoli
organizzato da punto di vista parlamentare ovvero una singola personalità
sovrana. Tutto ciò che compone l’essenza del Führer, la sua posizione come
comunità e la concentrazione nella sua persona di tutte le forze della
comunità, viene pertanto ignorato”.
6. Come sopra scritto, l’impostazione comunitaria e antindividualista data
da Höhn al diritto nazionalsocialista si distingue decisamente non solo dalle
concezioni del diritto dello Stato borghese, ma anche da quelle di giuristi
non individualisti e perfino da quelle di teorici nazionalsocialisti – (o meglio
vicini al nazionalsocialismo) come Schmitt.
In effetti (la concezione e) l’esistenza effettiva della comunità, secondo
Höhn rende superflua tutta la ricostruzione teorica e la concatenazione
concettuale elaborata dalla dottrina dello Stato moderno, a cominciare da
Thomas Hobbes. Il quale, come scriveva Tönnies (così distinguendosi da
quanto ritenuto da gran parte di coloro che si sono occupati del filosofo di
Malhesbury) era un coerente anticipatore della società borghese e dello
23
Stato liberale, perché muoveva da una prospettiva individualistica, di
società e non di comunità. Anche se Höhn non cita Tönnies, se ne avverte
l’influenza.
Infatti Tönnies sosteneva descrivendo la concezione del “tipo ideale” della
società (borghese) “La società, aggregato unito dalla convenzione e dal
diritto naturale, viene quindi concepita come una massa di individui naturali
e artificiali, le cui volontà e i cui settori stanno in molteplici connessioni
l’una rispetto all’altra e l’una con l’altra, e tuttavia rimangono tra loro
indipendenti e senza influenze interne. Qui ci appare il quadro generale
della «società borghese» o «società di scambio», di cui l’economia politica
cerca di riconoscere la natura e i movimenti – una condizione in cui secondo
l’espressione di Adam Smith, «ognuno è un commerciante»”9
Il tutto lo differenzia anche da Schmitt. Il quale nella premessa alla seconda
edizione della Politische theologie scriveva distinguendo i tre “tipi” di

9 Comunità e società, trad. it. di P. Rossi, Milano 1979, p. 95, tale “visione del mondo” è
tendenzialmente illimitata “La società intesa come totalità al di sopra della quale deve
estendersi un sistema convenzionale di regole, è quindi, in linea ideale, illimitata; essa
rompe costantemente i suoi confini reali e accidentali. Nel suo ambito ogni persona tende al
proprio vantaggio, e afferma gli altri soggetti solamente in quanto e finché essi lo possono
favorire. Così, prima e al di fuori della convenzione – e anche prima e al di fuori di ogni
contratto particolare – il rapporto di tutti verso tutti può essere concepito come un rapporto
di ostilità potenziale o come una guerra latente, contro cui tutti quegli accordi delle volontà
spiccano poi come altrettanti trattati e conclusioni di pace. Questa è l’unica concezione che
sia adeguata a spiegare tutti i fatti del traffico e del commercio, in cui i diritti e i doveri
possono essere ricondotti a pure determinazioni patrimoniali e a valori: su di essa deve
quindi fondarsi, anche inconsapevolmente, ogni teoria di un diritto privato o di un diritto
naturale (socialmente inteso) puro” (op. cit.); quanto allo scambio “compratore e venditore
si trovano sempre, l’uno rispetto all’altro – pur nelle loro molteplici modificazioni – in
posizione tale che ognuno desidera e tenta di ottenere, in cambio della quantità minima del
proprio patrimonio, la quantità massima del patrimonio altrui” e alla concorrenza: “Questa
è la concorrenza generale che ha luogo in molti altri campi, ma in nessun modo così chiaro
e consapevole come in quello del commercio – al quale viene quindi limitato il concetto
nell’uso comune – e che è già stata descritta da più di un pessimista sul modello di quella
guerra di tutti contro tutti che un grande pensatore ha addirittura concepito come lo stato
naturale della specie umana” (op. cit., p. 96).
24
pensiero giuridico “Oggi distinguerei non più fra due, ma fra tre tipi di
pensiero giuridico: cioè, oltre al tipo normativistico e a quello
decisionistico, anche quello istituzionale… Mentre il normativista puro
pensa attraverso norme impersonali ed il decisionista stabilisce il giusto
diritto attraverso una decisione personale in una situazione politica
correttamente conosciuta, il pensiero giuridico istituzionale si articola in
istituzioni e conformazioni soprapersonali. E mentre il normativista nella
sua degenerazione fa del diritto una mera funzione di una burocrazia statale
ed il decisionista si trova sempre in pericolo di fallire, con la
puntualizzazione del momento, l’essenza implicita in tutti i grandi
movimenti politici, un pensiero isolatamente istituzionale conduce al
pluralismo di una crescita priva di sovranità, di tipo cetual-feudale. In tal
modo è possibile ricondurre le tre sfere ed elementi dell’unità politica –
Stato, movimento, popolo – ai tre tipi di pensiero giuridico”10
.
Sempre nella Politische theologie Schmitt sottolinea il carattere
personalistico quale componente insopprimibile di una concezione del
diritto e dello Stato11
.

10 E prosegue “Il cosiddetto normativismo e positivismo della dottrina tedesca del diritto e
dello Stato dell’epoca guglielmina e della repubblica di Weimar è un positivismo
degenerato – poiché, invece di essere fondato su un diritto naturale o razionale, dipende da
norme semplicemente «vigenti» di fatto – e perciò in sé contraddittorio, mescolato con un
positivismo che era soltanto un decisionismo degenerato, giuridicamente cieco, riferito alla
«forza normativa del fattuale» invece che ad una vera decisione. Questa commistione priva
e incapace di forma non era collegata a nessun problema di diritto statale o costituzionale”
(i corsivi sono nostri) v. Politische Theologie trad. it. di P. Schiera ne Le categorie del
politico, Bologna 1972, p. 30.
11 V. “Ciò corrisponde alla tradizione originaria dello Stato di diritto che è sempre partita
dal presupposto che solo una massima giuridica generale possa fungere da criterio di
giudizio… non è che chiunque possa eseguire e realizzare ogni possibile norma giuridica.
Quest’ultima in quanto norma di decisione dice solo come si deve decidere non anche chi
deve decidere. Chiunque potrebbe appellarsi alla giustezza del contenuto, se non vi fosse
un’ultima istanza. Ma l’ultima istanza non deriva dalla norma. Il problema dunque è quello
25
Nell’opera sul Leviatano, poi il giurista di Plettemberg ritorna più volte sul
carattere individualistico del pensiero di Hobbes e di fondazione della
concezione dello Stato borghese12
.
7. Altra conseguente cesura dal pensiero borghese sullo Stato e il diritto è
l’assenza nel saggio di Höhn di qualsiasi riferimento ai rapporti di scambio,
tipici di un tipo “societario” di aggregazione sociale. Il carattere organico
della comunità nazionale pone in secondo piano ogni legame di tipo
associativo-sinallagmatico. Perfino l’impresa è vista come una comunità
“minore” dove l’imprenditore non è (tanto) un datore di lavoro, ma il Führer

della competenza; un problema che non si può porre, né tantomeno risolvere, in base alla
qualità giuridica del contenuto della norma. Risolvere i problemi di competenza
rimandando al dato materiale, significa burlarsi della gente… Il rappresentante classico del
tipo decisionistico (se posso impiegare questo termine) è Hobbes… Hobbes ha anche
portato un argomento decisivo che riguarda il nesso esistente fra questo decisionismo e il
personalismo e che vanifica tutti i tentativi di sostituire alla concreta sovranità dello Stato
un ordinamento avente validità astratta” op. cit., pp. 56-57.
12 V. i saggi pubblicati in italiano col titolo Sul Leviatano a cura di C. Galli, Bologna 2011,
pp. 68-69; a p. 106 scrive “Hobbes in modo scientificamente oggettivo e neutrale, fonda lo
Stato come opera umana che nasce da un patto di tutti con tutti… Lo Stato
istituzionalizzato o «costituzionale» è infatti uno Stato ordinato nella forma di una
deliberazione di una «moltitudine di uomini», cioè da una «assemblea nazionale
costituente»”; a p. 112 Schmitt vi ritorna “Frattanto, soprattutto per merito dei lavori di
Ferdinand Tönnies, sono stati enucleati gli elementi di «Stato di diritto» presenti nella
dottrina di Hobbes, e quest’ultimo è stato riconosciuto come teorico dello «Stato di diritto
positivo». Ma per secoli Hobbes fu il malfamato rappresentante dello «Stato di potenza»
assolutistico; l’immagine del Leviatano fu enfatizzata come quella di un orrendo Golem o
di un Moloch, e ancor oggi ha la funzione di archetipo, in cui si vede tutto ciò che la
democrazia occidentale intende con lo spauracchio polemico di Stato «totalitario» e di
«totalitarismo»”; e p. 147 conclude “Hobbes è il padre spirituale del moderno positivismo
giuridico, il precursore di Jeremy Bentham e di John Austin, il pioniere dello Stato «di
leggi» liberale. È stato lui il primo a sviluppare con piena chiarezza sistematica il principio
«nullum crimen, nulla poena sine lege», essenziale per il diritto penale liberale”; si veda
invece che fine fa tale principio nel saggio di Höhn. La differenza principale sul punto tra la
concezione di Hobbes e quella di Schmitt è che nella prima sono pressocché assenti le
nozioni di popolo e di comunità, mentre nella seconda in specie il popolo è decisivo per la
sintesi politica.
26
della comunità di impresa, dove “il pensiero della comunità subentra al
pensiero degli interessi”.
Così il diritto (e lo Stato che lo pone (spesso) e deve applicarlo) non trova la
propria ragione fondamentale nel conciliare i contrapposti interessi
individuali e dirimere i relativi conflitti (cioè nello scongiurare il caos) ma è
espressione dell’ordine comunitario, così come la persona è tale nella
comunità. In questo senso la stessa distinzione tra uomo e cittadino (e
relativi diritti) perde senso (tant’è che Höhn non la tratta).
Di guisa che il diritto perde la primazia e la funzione di strumento del potere
per creare (e mantenere) l’ordine (Hauriou): è la stessa comunità quale
ordinamento di vita a costituire l’ordine e quindi ad esprimerlo. La
distinzione tra potere, ordine, diritto viene dissolta in quella di comunità
composta di capo e seguito, legati dal “sentimento” di appartenenza
comunitaria.
Tale prospettiva, a tacer d’altro, ha il difetto di mancare di realismo.
Che vi siano, pur nella stessa comunità, tanti individui (e relativi “gruppi”)
con diverse opinioni, interessi, credenze, è un dato reale ineliminabile. Che
poi la comunità sia una e abbia una “funzione” unificante di tante diversità
(anche a mezzo del diritto) è altrettanto reale. Il problema che si pone,
almeno nella dottrina dello Stato moderno, da Hobbes in poi, è quello come
fare e pluribus unum; compito sia politico che giuridico; e che consiste nel
punto centrale della costruzione dell’ordine e del potere. Affermare che la
comunità (e l’organizzazione che ne consegue) possa risolvere questo
problema è (forse) possibile: ma non che lo elimini, di guisa che il problema
non si ponga.
27
All’uopo basti ricordare ciò che ne pensavano Montesquieu, Hauriou e
Freund.
Il primo fa della distinzione dei tre poteri un fattore d’ordine e d’equilibrio
sociale, oltre che politico. Il secondo scrive che “Les equilibres sociaux sont
inviolables dans nos societés politiques”
13. Proprio per questo è necessario
contemperarli e equilibrarli. E regolarli giuridicamente. Anche se un
ordinamento costituzionale può limitarsi alla regola dell’ “appartenenza al
sovrano di tutti i poteri”14, tuttavia il sovrano (il capo, la guida) ha
comunque necessità di regolare il comportamento del “seguito” e ordinare i
poteri derivati e sottostanti. Pertanto anche se il regime nazionalsocialista
era sostanzialmente monista (e monocratico) ciò non implicava l’inesistenza
di una pluralità d’interessi e di poteri15
.
Sotto un altro profilo la concezione di Höhn si discosta vistosamente dal
“tipo ideale” del pensiero della scienza giuridica “borghese” tra il XIX e
l’inizio del XX secolo: nel sottovalutare la volontà e il potere. All’uopo è
utile confrontarlo con le concezioni, per certi versi emblematiche del
positivismo giuridico “classico”, di Max von Seydel. Secondo questi molti
errori hanno “condotto un falso idealismo del diritto. In nessun altro campo,
come in questo, finzioni fallaci hanno così facilmente pullulato rigogliose, e

13 Principes de droit public, rist. Paris Dalloz 2010, p. 11.
14 V. Santi Romano Principi di diritto costituzionale generale, Padova 1947, p. 3 e
prosegue “ma almeno questa norma non potrà mancare e non essere giuridica, se su di essa
si impernia per intero quell’ordinamento giuridico quale è sempre, per sua indeclinabile
natura, lo Stato”; il passo citato è in antitesi alle teorie “restrittive” del concetto di
costituzione, tipiche del costituzionalismo liberale.
28
impedita la via alla verità… La finzione è solo un modo di esprimersi
specifico per parificare giuridicamente e trattare con gli stessi criteri
rapporti diversi. Quindi non si può… con l’aiuto di finzioni spiegare o porre
rapporti giuridici”16; ciò che è reale è che “Lo Stato sorge per ciò che un
numero di uomini, il quale occupa una parte della superficie terrestre, si
unisce sotto un supremo volere. Da ciò appare che lo Stato non è altro che
un prodotto della volontà umana, anziché il prodotto di una forza naturale o
di un processo di evoluzione naturale… la tendenza della volontà umana a
formare lo Stato è senza dubbio fondata sulla disposizione naturale
dell’uomo: l’uomo è uno zoon politikon”
17 e sostiene “il diritto non sorge
che per opera dello Stato”. Dove invece von Seydel è meno distante dal
giurista nazionalsocialista è nella netta distinzione-subordinazione tra Stato
e Sovrano “risulta chiaramente che lo Stato non è affatto il volere sovrano,
né possiede il volere sovrano, anzi, è diverso da esso. Il volere sovrano è

15 V. sul punto in una teoria dell’ordine e degli equilibri nello Stato moderno, Hauriou op.
cit., pp. 11 ss. il quale scrive “La Costituzione degli Stati è ordine introdotto nella loro
organizzazione, separazione dei poteri ed equilibrio”.
16 E prosegue “Dinanzi a un unico concetto chiaro deve dileguare il fantasma nebuloso
dello spirito del popolo del Puchta; ad esso tengon dietro i soggetti giuridici non
effettivamente esistenti, ma solo immaginati; le totalità che sono qualcosa di diverso
dall’insieme dei loro elementi, i diritti che non sono uguali alla somma delle facoltà ad essi
corrispondenti, e così – non vogliamo continuare la lista che si potrebbe facilmente
moltiplicare – molto ancora che non è mai esistito, ma solo è stato pensato, che non deve il
suo essere alla realtà, ma semplicemente all’immaginazione”.
17 E prosegue “Il singolo Stato è sempre prodotto dalla volontà umana. È quindi un pensiero
senza alcun valore giuridico e filosofico quello che lo Stato sia un organismo. Questa
espressione figurata riposa sopra un pensiero oscuro, che scambia la tendenza della schiatta
umana a produrre lo Stato con l’atto creatore che produce lo Stato reale” (i corsivi sono
nostri) op. cit, p. 1153.
29
sopra lo Stato, e la soggezione ad esso dà al territorio e al popolo la qualità
di Stato. Essi si chiamano Stato soltanto se sono dominati, analogamente
come si chiama proprietà la cosa solo quando ha un padrone. È quindi un
modo di esprimersi affatto riprovevole scientificamente quello che pone alla
pari lo Stato e il volere sovrano, e attribuisce allo Stato un volere. Stato e
sovrano sono diversi così come proprietà e proprietario”18. Potere (di
comando) e volontà sono gracili se non assenti nella ricostruzione di Höhn,
contrariamente a quello che avviene in una coerente costruzione del diritto
“borghese” (v. anche, in seguito, le critiche dei giuristi antinazisti).
D’altra parte la concezione comunitarista di Höhn può essere confrontata
con la tesi di Schmitt sull’evoluzione dallo Stato liberale dualista dal XIX
secolo a quello “totale” dei XX secolo; analisi sviluppata in particolare nel
Hüter der verfassung. Dove è centrale l’affermazione del giurista di
Plettemberg che “la società che si organizza da sé in Stato passa dallo Stato
neutrale del liberale secolo XIX ad uno Stato potenzialmente totale. La
potente svolta può essere interpretata come parte di uno sviluppo dialettico,
che si svolge in tre stadi: dallo Stato assoluto del XVII e XVIII secolo
attraverso lo Stato neutrale del liberale secolo XIX allo Stato totale
dell’identità di Stato e società”19
.
Tuttavia lo Stato (nella specie la Repubblica di Weimar) ancorché totale (in
senso quantitativo) e “autorganizzazione della società” era pur sempre
anche “teatro del sistema pluralistico” perché (tra l’altro) “Per il fatto che

18 Op. cit., p. 1155 (il corsivo è nostro).
19 Il custode della Costituzione trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1981, p. 125.
30
esiste una maggioranza di simili complessi, che entrano in concorrenza gli
uni con gli altri e si mantengono reciprocamente entro certi limiti, ossia uno
Stato pluralistico dei partiti, si impedisce che lo Stato totale in quanto tale si
ponga in risalto con quella stessa veemenza che ha già manifestato negli
Stati cosiddetti a partito unico, la Russia sovietica e l’Italia. Con la
pluralizzazione non è però eliminata la svolta verso il totale, ma è per così
dire soltanto parcellizzata, giacché ogni gruppo di potere sociale organizzato
– dalla società di canto e dal club sportivo dell’autodifesa armata – per
quanto possibile cerca di realizzare la totalità in se stessa e per se stessa”20
.
8. Nel saggio Staat, Bewegung, Volk, scritto dopo la presa del potere da
parte di Hitler, , Schmitt ricostruisce il regime nazionalsocialista come
sistema triadico21. Delle tre membra il movimento “sorregge lo Stato e il
popolo, penetra e conduce le due altre”22. Delle tre è il movimento (la cui
forma è il partito nazionalsocialista) ad essere il principio dinamico e ad
esercitare la direzione politica, a guidare da un lato lo Stato (inteso come
apparato di autorità ed uffici) e dall’altro il popolo. La sfera del popolo è
“lasciata all’amministrazione autonoma, che abbraccia tanto l’ordinamento

20 Op. ult. cit., p. 131
21 “L’unità politica dello Stato presente è l’unità di tre membra: Stato, movimento, popolo.
Essa si distingue radicalmente dallo schema statale liberaldemocratico pervenutoci dal
secolo decimonono, e non soltanto per i suoi presupposti ideologici e i suoi principii
generali, ma anche in tutte le linee essenziali della costruzione e organizzazione del
concreto edificio dello Stato. Ogni concetto essenziale e ogni istituzione importante risente
di questa diversità” trad. it. di D. Cantinori in Principi politici nel nazionalsocialismo, rist.
Settimo Siggillo, Roma 1996 p. 184.
22 E prosegue “Ciascuna delle tre parole: Stato, Movimento, Popolo, può essere usata da
sola per la totalità dell’unità politica. Essa designa però nello stesso tempo anche un lato
particolare e un elemento specifico di questa totalità. Così si può considerare lo Stato in
senso stretto come la parte politica statica, il movimento come l’elemento politico dinamico
e il popolo come il lato apolitico crescente sotto la protezione e all’ombra delle decisioni
politiche” op. cit. p. 185
31
economico e sociale a categorie di professioni come anche
l’amministrazione autonoma comunale”23. Lo Stato d’altro canto “nel senso
della classe statale dei funzionari e delle autorità perde il monopolio della
politica che si era acquistato nel secolo decimosettimo e decimottavo”24. La
legalità dello Stato borghese, formalizzata e meccanicizzata, per ciò stesso
“entra in opposizione al diritto, che permane buono nel contenuto”. Nello
Stato nazionalsocialista “ essa riceve il significato secondario che le spetta,
relativo perché strumentale; diventa il modo di funzionare dell’apparato
statale delle autorità. Questa legalità è tanto poco identica col diritto del
popolo quanto l’apparato statale con l’unità politica del popolo. Al diritto
nel senso sostanziale appartiene come prima cosa di assicurare l’unità
politica soltanto sulla base delle decisioni politiche incontestate, e in questo
senso positive, il diritto si può poi spiegare in tutti i campi della vita
pubblica in una crescita libera ed autonoma” (il corsivo è nostro).
Nell’opera suddetta il giurista di Plettemberg non insiste sul termine
comunità, ma utilizza il bagaglio concettuale e la problematica del pensiero
politico e giuridico “classico”. Manca il carattere pervasivo e “tentacolare”
della comunità espresso da Höhn. Schmitt distingue tra direzione politica ed
“amministrazione autonoma”; parla del Partito come élite (Pareto);
organizza la comunità in un sistema tripartito, con ambiti distinti, di cui una
delle “membra” è comunque decisiva rispetto alle altre (ed è l’élite a

23 Op. cit. p. 186
24 E prosegue “Esso viene riconosciuto come una semplice parte dell’unità politica e
precisamente una parte fondata sull’organizzazione che sostiene lo Stato. L’insieme delle
autorità e dei funzionari per sé solo non si identifica dunque più con la totalità politica né
con una autorità di “superiore” riposante su se stessa. Oggi non si può più determinare la
politica partendo dallo Stato, ma bisogna che sia determinato lo Stato partendo dalla
politica” op. cit. p. 189.
32
dirigere il “movimento”); distingue tra legalità (come modo di
funzionamento dell’apparato statale) e diritto (e così via): tutte dicotomie e
distinzioni “classiche” assenti nel saggio di Höhn.
9. Freund rileva che il “pubblico” è in primo luogo l’affermazione dell’unità
(in relazione al saggio di Höhn è la comunità a costituire l’essenza di ciò
che è pubblico) e fa notare l’esattezza del giudizio di Hegel relativo al
popolo il quale “considerato senza il suo monarca e senza l’organizzazione
necessariamente e immediatamente connettiva della totalità, è la moltitudine
informe che non è più Stato, alla quale non spetta più alcuna delle
determinazioni che esistono soltanto nella totalità formata in sé – sovranità,
governo, giurisdizione, magistratura, classi … Per il fatto che tali momenti
che si manifestano a un’organizzazione, alla vita dello Stato si presentano
…. cessa di essere quell’astrazione indeterminata”25. Nel pensiero di Hegel
la connessione tra poteri, uffici e organi e relativi rapporti con il vertice e la
base della sintesi politica è decisiva (per l’esistenza e la capacità d’azione
della collettività politica); e non può, come si legge invece in Höhn, essere
ricondotta al (solo) rapporto capo-seguito e al sentimento comunitario.
Freund sostiene anche, seguendo la tesi di Schmitt che “c’è sempre una
pluralità di gruppi di natura diversa all’interno di un’unità politica … anche
al tempo dello Stato assoluto esistevano gruppi dalle diverse funzioni:
chiese, corporazioni, confraternite, compagnie”26. I cui (potenziali, ma
certi) conflitti devono essere decisi, e ciò compete “al potere, ovvero al

25 Lineamenti di filosofia del diritto, prgrf 279 trad it. di F. Messineo, Bari rist. 1974.
26 L’essence du politique, Paris 1965 p. 211
33
Comando sovrano, che ha il compito di assicurare la concordia, di prendere
le decisioni opportune”27
.
A prendere le decisioni non è “la democrazia”, “la classe” o “la comunità”
ma un’autorità determinata; a doverle eseguire un’organizzazione da essa
dipendente. A fare la differenza tra l’una e l’altra forma o tipo di sintesi
politica, è a chi spetta di decidere e a chi d’eseguire le decisioni. Le altre
differenze, pur importanti, non hanno il carattere primario di queste.
Il carattere pervasivo della concezione di Höhn riduce o annulla la
distinzione tra pubblico e privato, e quella – avrebbe scritto Miglio – tra
obbligazione politica e obbligazione-scambio28; è illuminante leggere a tale
proposito il passo, sopra riportato, sulla concezione comunitaria
dell’impresa29
.
10. Anche nella dottrina politica e giuridica anti-nazionalsocialista le tesi di
Höhn erano (ovviamente) criticate. Franz Neumann scrive che: “I più
avanzati giuristi nazionalsocialisti, Reinhard Höhn e Gottfried Neesse,
respingono il concetto stesso di Stato e le loro idee sono ampiamente
approvate. Entrambi respingono il concetto della personalità dello Stato
come una mera costruzione liberale, poiché essi sostengono, se il concetto

27 Op. loc. cit.
28 V. Su detta distinzione G. Miglio, Lezioni di politica, Bologna 2011, pp. 153 ss.
29 È appena il caso di rammentare che il tutto ovviamente nega la (dualistica) lotta di classe,
riconducendola all’unità della comunità nazionale di destini. Sul punto è utile ricordare che,
come scriveva Tönnies “La storia della comunità muove – in conformità alle
determinazioni poste in luce – dalla premessa della perfetta unità delle volontà umane come
stato originario o naturale, che si è conservato nonostante e attraverso la separazione
empirica, atteggiandosi in forme molteplici secondo la natura necessaria e data dei rapporti
tra individui diversamente condizionati”, Comunità e società, Milano 1999, p. 51.
34
dello Stato venisse accettato, quelli che esercitano il suo potere sarebbero
semplicemente i suoi organi”30
.
Ernst Fränkel sostiene che la concezione giuridica nazionalsocialista, su
base biologica, “Si potrebbe definire nella teoria e nella prassi «biologismo»
politico, si basa sul riconoscimento e sulla cura di «forze» vitali…Al di là
del diritto naturale razionale e societario esiste un diritto naturale irrazionale
e comunitario, fondato biologicamente, che viene ad aggiungersi alla lunga
lista di varianti storiche del diritto naturale”31; la distinzione tra “diritto
naturale societario e diritto naturale comunitario fu formulata già dai
giuspubblicisti del XVII secolo mediante la contrapposizione dei concetti di
societas e socialitas”
32; tra questi Leibniz. Descrive poi i “tipi ideali” del
diritto naturale societario e del diritto naturale comunitario, i cui caratteri
si attagliano con notevole precisione a quanto esposto da Höhn nel saggio
qui commentato33
.

30 E prosegue “Secondo loro, invece, il potere politico in Germania si fonda sul Führer, che
non è un organo dello Stato ma è la comunità, e non agisce come il suo organo ma come la
sua personificazione” e “Questa teoria costituzionale nazionalsocialista avanzata, benché
attaccata persino da Carl Schmitt, ammette chiaramente che non è lo Stato a unificare il
sistema politico ma che vi sono tre (a nostro avviso, quattro) poteri politici coesistenti, la
cui unificazione non è istituzionalizzata ma solo personalizzata” e conclude che “le teorie
della comunità del popolo e il Führerprinzip siano semplici maschere che coprono i poteri
di apparati burocratici enormemente rigonfi. Ma, almeno un grano di verità può essere
contenuto in queste teorie; vale a dire che è difficile dare il nome di Stato a quattro gruppi
che entrano in trattativa. In effetti, eccettuato il potere carismatico del Führer, non vi è
alcuna autorità che coordina i quattro poteri, nessun luogo dove il compromesso fra di essi
può essere fondato su basi universali” v. Behemoth, trad. it. di M. Braccianini, Milano
1999, p.
31 Der Doppelstaat trad. it. di P.P. Portinaro, Torino 1983, p. 174.
32 Op. loc. cit.
33 “Il diritto naturale comunitario sostiene che fra gli individui singoli esiste un ordine
armonico fondato sugli istinti naturali, che scaturisce dalla «volontà essenziale» dei
componenti della comunità e ad essa corrisponde…Il diritto naturale comunitario vede nel
diritto soltanto una forma di manifestazione della comunità, la cui coesione è prodotta e
35
11. Dopo questa rapida esposizione occorre considerare quanto di ciò che
scrive Höhn appaia ancora rappresentativo non tanto di un modo concreto di
concepire il diritto da parte di un regime politico dato ma in quale misura sia
utilizzabile per la ricostruzione di connotati ed elementi costanti delle
istituzioni, indipendentemente dalla specifica ideologia politica che le
“conforma”. Se quindi la concezione comunitaria di Höhn, col suo carattere
pervasivo e totalizzante ma poco determinato e precisato presenti ancora
interesse per alcuni punti enunciati.
In primo luogo il concetto stesso di comunità: se quello di Höhn è un
ectoplasma così evanescente e dai contorni sfuggenti, l’assenza di quello in
buona parte della dottrina giuridica successiva al secondo conflitto
mondiale, è frutto di una concezione riduttiva e limitata del diritto, una
coperta corta che non considera la totalità dell’esperienza e (del fenomeno)
giuridico34
.

conservata da forze extragiuridiche. Il diritto svolge tutt’al più una funzione di
appoggio…Il diritto naturale comunitario è portatore di un potere delegato. Quanto al suo
contenuto, è determinato dalle forze terrene che lo hanno prodotto; da queste deriva la sua
autorità temporalmente e spazialmente limitata. Il diritto naturale comunitario rifiuta la
ragione non appena questa mette in questione la legittimità degli istinti, sulla cui
affermazione esso invece si fonda…Il diritto naturale comunitario possiede un limitato
ambito di validità cronologico, topografico come pure personale. La coscienza comunitaria,
a cui deve la propria esistenza, emerge soltanto nel processo di differenziazione da altre
comunità. Il diritto naturale conunitario è concepibile solo all’interno di un gruppo sociale
concreto. Il diritto naturale comunitario non è egualitario in analogia alla forma originaria
di tutte le comunità, la famiglia, che è fondata sulla disuguaglianza dei suoi membri …Per
il diritto naturale comunitario lo Stato è soltanto la secondaria espressione della primaria
unità di tutti i compagni di stirpe (Volksgenossen). La comunità di popolo è una
formazione biologica che esiste anche se non è organizzata in forma statale. Lo Stato è un
fenomeno organico derivato dalla comunità di popolo intesa biologicamente”, op. cit., p.p.
175-176.
34 Come scrive Carl Schmitt sul carattere “limitato” del positivismo giuridico “possiede nel
caso migliore, tanto e, nel caso peggiore, tanto poco valore quanto ne posseggono i trattati
fra stati e le leggi interne alle quali esso aderisce. Del resto, per la scienza del diritto, esso
non sta a significare altro che una funzione normativistica, il cui valore, come il valore
dell’intera prospettiva positivistica caratterizzante il XIX secolo, è relativo o storicamente
36
Ad esempio l’indeterminazione è un limite della concezione comunitaria di
Höhn,ma è tuttavia accostabile alla contrapposizione
nazione/costituzione/forma esposta da Sieyès in Qu-est-ce-que le Tiérs
État35. È chiaro che l’abate rivoluzionario calca la mano sulla volontà e
sull’associazione politica (di individui liberi ed uguali), concezione perciò
opposta a quella di Höhn, ma comune ad entrambi è che la comunità (la
Nazione) è superiore e decisiva rispetto alla forma costituita (e costituenda)
in cui si organizza. Al contrario di quanto ritengono in molti che la “forma”
(intesa peraltro in senso normativistico, cioè riduttivo) prevalga sulla
volontà e il consenso comunitario, di per sè elementi metagiuridici e perciò
espunti.
Peraltro la comunità di Höhn che è il fondamento (e la causa finale) e
dell’organizzazione dello Stato (sul punto v. anche E. Fränkel)36 ricorda
alcune considerazioni di Hauriou sull’istituzione-Stato; la quale “domata ed

determinato. Esso trascura intenzionalmente il significato dei contenuti e delle specificità
del diritto, cioè il senso politico, sociale ed economico delle istituzioni e degli ordinamenti
concreti e non può quindi pretendere, già per tale ragione, di possedere il monopolio del
pensiero giuridico e di dire l’ultima parola sul nostro tema. Un’interpretazione ed una
sistematizzazione di tipo scientifico-giuridico deve appunto tener conto del contenuto
concreto delle norme e del senso specifico delle istituzioni”v. Die Lage der europäischen
Rechtswissenschaft (il corsivo è nostro), trad. it. di L. Cimmino (con introduzione di A.
Carrino), Roma 1996, pp. 37-38.
35 “La comunità non si spoglia affatto del diritto di volere; si tratta di una proprietà
inalienabile, essa può solamente affidarne l’esercizio. Tale principio è sviluppato altrove” –
“La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre
conforme alla legge, essa è la legge stessa. Prima di essa e al di sopra di essa non c’è che il
diritto naturale” trad. it. di G. Troisi Spagnoli in Opere, Tomo I, Milano, pp. 254-255.
36 “Hitler ha sostenuto: «Lo Stato è un mezzo per raggiungere un fine. Il suo fine consiste
nella conservazione e nell’incremento di una comunità di creature fisicamente e
moralmente omogenee…Stati che non servono a questo scopo sono costruzioni mal
riuscite, anzi aborti. Ciò non cambia in considerazione del fatto della loro esistenza, così
come il successo di un’associazione di filibustieri non può giustificare la rapina»” op. cit.,
p. 176.
37
addomesticata” secondo Hauriou dal costituzionalismo post-rivoluzionario
deve svolgere tre funzioni essenziali:
1) proteggere la società individualista a mezzo del governo, assicurarle la
pace e l’ordine all’interno e all’esterno… 2) controllarla e renderle servizi
attraverso l’amministrazione 3) Reprimere gli eccessi dell’individualismo37
.
Anche se Hauriou scrive di società e non di comunità
38, l’istituzione-Stato è
quindi la forma in cui s’organizza la società, la protezione dell’esistenza
della quale è funzione essenziale di quello: il che vuol dire che lo Stato è
strumento della società.
Inoltre una seconda analogia (nella “funzione”) del concetto di comunità di
Höhn con concezioni del tutto opposte ma omologhe, è che quello ha, come
queste, l’effetto di depotenziare l’aspetto autoritario – e necessario – del
comando. Così in certe concezioni dello Stato di diritto, inteso quale
“governo di leggi, non di uomini”, o in quella di Rousseau della volontà
generale come “eliminazione” del comando, perché ognuno obbedisce a se
stesso, avendo partecipato a deliberare la legge, la comunità col suo idem
sentire de re publica (e anche di più) diventa un modo per minimizzare il
lato “discendente” del rapporto politico (dal capo alla comunità) a vantaggio
di quello ascendente (dalla comunità al capo).
Peraltro c’è un terzo punto di convergenza strettamente connesso al
precedente: il rapporto tra “capo” e “seguito”, richiamato più volte da Höhn.
Il quale è il più chiaro e determinato del saggio. E pour cause: perché il

37 V. Precis de droit consitutionnel, Paris 1929, p. 49.
38 Tuttavia il termine società di Hauriou è prossimo (e non contrapposto) al significato di
comunità (o più in generale, di “gruppo sociale” – ossia il genere). Al punto che quando si
riferisce alla società “borghese” l’accompagna con l’aggettivo individualista.
38
rapporto tra capo e seguito, ovvero tra vertice e base della sintesi politica è
la condizione essenziale dell’esistenza e della capacità d’agire della
comunità: questo perché il presupposto del comando/obbedienza in una
comunità (anzi in ogni gruppo politico organizzato) è insostituibile. Le
sintesi politiche possono assumere diverse forme e costituire vari tipi: ma a
tutti è essenziale che i comandi del vertice ottengano l’obbedienza e la
minore possibile resistenza alla volontà dei governanti39
.
Vale al riguardo quanto scriveva Hegel distinguendo tra ciò che è necessario
perché esista uno Stato e ciò che è, invece, accidentale40. Inoltre il richiamo
continuo di Höhn al diritto “espresso” dalla comunità rammenta da un lato
la distinzione tra diritto statuito e diritto consuetudinario; dall’altro lo jus
involuntarium, la cui importanza è stata messa in evidenza – tra gli altri – da
Santi Romano41
.

39 Nell’esposizione di Höhn mentre è chiaro il rapporto di direzione del Führer, non lo è
come sia organizzato, in particolare nel lato ascendente se non sulla base, per appunto
dell’idem sentire, dell’appartenenza, della storia. Mentre nei regimi democratici quello che
Smend chiama integrazione funzionale (votazioni, plebisciti, accesso a cariche ed impieghi
pubblici) è dettagliatamente prevista e regolata.
40 Chiedendosi cosa sia necessario perché “una moltitudine formi uno Stato “Dobbiamo
nella nostra considerazione, separare le due cose: ciò che è necessario, che cioè una
moltitudine sia uno Stato e un potere comune, e ciò che invece è soltanto una particolare
modificazione di questo potere e non rientra nella sfera del necessario, bensì appartiene, per
il concetto, alla sfera del più o meno bene, per la realtà invece alla sfera del caso e
dell’arbitrio” Verfassung Deutchlands trad. it. a cura di A. Plede, in Scritti Politici Bari
1961 p. 31
41 “Del resto, anche fra gli Stati moderni ce ne sono alcuni che, non alla legge, ma alla
consuetudine attribuiscono il primo posto nella produzione delle norme giuridiche. Così,
come è noto, l’Inghilterra, dove la «common law» è considerata la base di tutto il diritto e la
legge scritta interviene solo quando è indispensabile, con la figura di un «emendamento»
della prima” v. Principi di diritto costituzionale generale Milano 1947 p. 91
39
Verosimilmente la considerazione che Höhn ha del diritto inglese è
attribuibile al carattere consuetudinario (e quindi involontario, comunitario)
di questo42
.
Bisogna tuttavia considerare che la concezione di Höhn di una produzione
prevalentemente (o quasi totalmente) spontanea del diritto era ampiamente
contestata dai giuristi antinazisti, tenuto conto che nel Terzo Reich non
mancava certo potere statuente e momento “autoritativo” onde appare
forzata ed edulcorata, come sopra cennato. Anche se in ogni ordinamento
convivono sia l’aspetto autoritativo che quello spontaneo-consensuale cioè,
sotto un diverso profilo, il comando e l’obbedienza.
Piuttosto occorre considerare il saggio di Höhn uno dei contributi più
conseguenziali alla “spolicitizzazione” dello Stato, tipica del XX secolo,
espressa da Carl Schmitt nel Begriff des politischen; in particolare nella
“Premessa” al testo del 193243
.

42 Sul punto v. Santi Romano “Del resto, anche fra gli Stati moderno ce ne sono alcuni che,
non alla legge, ma alla consuetudine attribuiscono il primo posto nella produzione delle
norme giuridiche. Così, come è noto, l’Inghilterra, dove la «common law» è considerata la
base di tutto il diritto e la legge scritta interviene solo quando è indispensabile, con la figura
di un «emendamento» della prima. Contrariamente all’opinione del Bentham, che del resto
anche agli «statuti» del parlamento rivolse critiche acerbe, la dottrina inglese ritiene che
alla volontà del legislatore, che può essere arbitraria e sbagliare, sia da preferire la comune
convinzione giuridica, nella quale si esprime direttamente e genuinamente la saggezza del
popolo” op. loc. cit..
43 L’epoca della statualità sta ormai giungendo alla fine: su ciò non è più il caso di spendere
parole… Lo stato come modello dell’unità politica, lo Stato come titolare del più
straordinario di tutti i monopoli, cioè del monopolio della decisione politica, questa fulgida
creazione del formalismo europeo e del razionalismo occidentale, sta per essere
detronizzato… Vi fu realmente n tempo in cui era corretto identificare i concetti di ‘statale’
e di ‘politico’. Infatti allo Stato europeo classico era accaduto qualcosa di assai
improbabile: di creare la pace al suo interno ed eliminare l’inimicizia come concetto
giuridico” trad. it. di P. Schiera ne Le categorie del politicoi, p. 90, Bologna 1972.
40
Anche il connotato della volontà viene messo in ombra nel saggio di Höhn e
più ancora se riferito allo Stato; ad esempio a fare un confronto con il
pensiero di Gentile, tutto incentrato sullo Stato, sul suo rapporto con il
cittadino e sul diritto come volontà dello Stato44
12. Altre idee di Höhn sono comunque trasmigrate, o comunque presentano
analogie – sotto diversa veste ideologica, con differenti termini e scopi – in
alcune concezioni della successiva dottrina giuridica. Così l’affermazione
che il Giudice nel regime nazionalsocialista è “posto in libertà” e rileva solo
il suo “legame con i fondamenti in termini di visione del mondo quali
determinano l’intera vita del popolo”, a prescindere con i collegamenti con
le (precedenti) teorie del “diritto libero” può accostarsi alle concezioni,
successive, che vedono il Giudice quale interprete – più che di norme – di
principi, valori e anche interessi. Del pari il richiamo alla “visione del
mondo” comunitaria è analogo a quelli alla tavola dei valori, ai principi
costituzionali, e differisce da questi principalmente perché non si basa su un
supporto scritto, qual è la costituzione45
.
Quel che invece appare irrealistico (e quindi impossibile) è la – pressoché
assente – trattazione della forma politica, onde non è chiaro in che modo la
comunità agisce – se non attraverso il Führer (ma così si ritorna alla forma,

44 Che è in molte affermazioni incompatibile con quello di Höhn. Per Gentile, ad esempio
“Non è la nazionalità che crea lo Stato; ma lo Stato crea (suggella e fa essere) la
nazionalità. Che conquistando la propria unità e indipendenza celebra la sua volontà
politica, realizzatrice dello Stato”; la “volontà dello Stato è diritto (pubblico o privato,
secondo che regola i rapporti tra Stato e cittadini, o tra cittadini e cittadini); quanto al
rapporto governanti-governati “come il diritto positivo è negato nell’attualità dell’azione
etica, così ogni opposizione di Governo e governati cade nel consenso di costoro, senza il
quale il governo non si regge”: quindi coazione e consenso sono complementari e ambedue
necessari, v. Genesi e struttura della società, rist. Firenze 1987, pp. 57-60.
45 V. sul punto le interessanti considerazioni di L. M. Bandieri Dallo Stato di diritto al neocostituzionalismo in Behemoth online, n. 54.
41
sia pure ridotta all’osso, dei pieni poteri). Il problema della necessità della
forma, al di là del diritto a dare forma, è di rendere la comunità capace di
esistere ed agire. E senza quella l’una, ma ancor più l’altra sono impossibili:
a meno di non integrarle, come un po’ fa in sordina Höhn, con i
Führerbehfele.
Teodoro Klitsche de la Grange

http://www.behemoth.it/index.php?pag=news&id=1235499015_59&titolo=COMUNIT%C1%2C%20DIRITTO%2C%20STATO%3A%20IN%20MARGINE%20%20AD%20UN%20SAGGIO%20DI%20H%D6HN-Teodoro%20Katte%20Klitsche%20de%20la%20Grange

Teodoro Klitsche de la Grange: “Francesco Calasso, Medio evo del diritto_recensione

Teodoro Klitsche de la Grange: “Francesco Calasso, Medio evo del diritto, Adelphi edizioni, Milano 2021, pp. 647, € 40,00”

È pubblicato in nuova edizione, con postfazione di A. Cecchinato, il saggio di Francesco Calasso del 1954, già all’epoca oggetto di attenzioni diffuse.

La postfazione nota come l’attività scientifica dell’autore con la sua aura di antiformalismo “ha infuso l’esperienza scientifica di Calasso d’una piena fiducia nel valore autoritativo della tradizione, che è stata la vera cifra – come ha insegnato Manlio Bellomo – di una vita condotta per il diritto”.

A distanza di oltre cinquant’anni e malgrado la materia – la storia del diritto – il saggio di Calasso suscita interessi d’attualità.

In primo luogo per la “rinascita” del diritto romano, avvenuta nei primi secoli del passato millennio, in Italia ad opera, in particolare, d’Irnerio e della scuola di Bologna. Lentamente i giuristi del diritto comune, interpretando il corpus juris in una con consuetudini, statuti e (anche) contaminazioni, contribuiscono all’unità giuridica. Ovviamente nei e con i limiti di un sistema non codificato, e le cui fonti non avevano il carattere formale di un’organizzazione che le ponesse in essere e ne garantisse l’applicazione. Caratteri ambedue, ancorché non esclusivi, del (successivo) Stato moderno. Come scrive Calasso, il sistema giuridico è un tutto, un’unità. E il quid che gli da vita è “un’organizzazione cioè nella quale distinguiamo un meccanismo che produce le norme e degli organi che le applicano e ne garantiscono l’osservanza”. Come successe che, malgrado la debolezza dell’organizzazione politica medioevale, avvenisse quella “unificazione”? Fu, scrive l’autore per “un ideale supernazionale: quella monarchia universale che perpetua il nome di Roma”.

Tale tesi ricorda quella di Vittorio Emanuele Orlando che sia fonte di equivoci ed errori “la pretesa di assumere come caratteri assoluti dello Stato e del Diritto, non che dei rapporti intercedenti fra loro, le forme moderne, in cui quelle nozioni han trovato il loro attuale assetto”. E che l’affermarsi di un ordinamento superiore e generale avviene per gradi, onde in relazione alla realizzazione coattiva delle pretese perdura “l’esistenza e continui l’efficacia, anche se ridotta, della forza spettante alle forme anteriori: il diritto pubblico romano dimostra tangibilmente il valore politico e istituzionale che, per lungo tempo dopo la loro trasfusione nello Stato, serbarono la familia, la gens, la curia, la tribus”, scriveva Orlando.

Secondariamente, molti hanno notato, come, a partire dal secolo scorso, ma in particolare dagli ultimi decenni del medesimo, sia in atto il percorso inverso: da un monopolio statale della decisione politica e della forza legittima (la coazione) ci stiamo avviando verso una pluralizzazione normativa (e anche istituzionale): il conferimento di funzioni a organismi internazionali, la progressiva crescente diffusione di Tribunali internazionali (e l’efficacia delle di essi decisioni sul diritto interno), e la stessa legittimazione di guerre e di occupazioni militari attraverso l’appello ai diritti dell’uomo (et alia) e le conseguenti espressioni lessicali che le designano (“operazioni di polizia internazionale”), mostrano il processo in atto. Al quale corrisponde una nuova antitesi politica, prevalente in gran parte del mondo sviluppato: quella tra globalizzatori, cioè sostenitori – per ora – di un diritto (ed un’economia) universale, e sovranisti, cioè partigiani di diritto e scelte economiche particolari (cioè statali).

Come andrà a finire questa contrapposizione è in mente jovis. Anche qua tuttavia la tesi di Calasso che il diritto comune si fondò (e si diffuse) in forza di un’idea universale, di “un fatto spirituale” può indicarci come dal diritto, anzi dall’aspirazione a un diritto, possa nascere l’istituzione.

Teodoro Klitsche de la Grange

Murray N. Rothbard, L’etica della libertà, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Murray N. Rothbard, L’etica della libertà, Liberilibri editore, Macerata 2021, pp.468, € 14,00.

Pubblicata dall’editore Liberilibri oltre vent’anni fa, ora è ristampata dallo stesso editore, in un momento in cui il “liberalismo” (come inteso dai media mainstream) è colpevolizzato di tutto: dalla globalizzazione fino all’inadeguatezza della risposta alla crisi pandemica. Non riportiamo quanto già scritto in molte recensioni, tra cui una apparsa sull’Opinione circa un mese orsono. Ci limitiamo alla critica che un liberale “archico”, come chi scrive può muovere ad un libertario (o liberale anarchico).

Rothbard propone una società in cui sia abolito il monopolio statale della violenza (legittima) e tutti i servizi pubblici siano offerti (ed acquistati) sul mercato. L’etica di tale società senza Stato si basa sul carattere pre-statale e naturale (giusnaturalistico) dei diritti dell’individuo; sviluppa (in particolare) il pensiero di John Locke. La contrarietà dello Stato all’etica è costituita dal fatto che obbliga i sudditi senza il consenso (individuale e volontario) degli stessi.

Così sintetizzando al massimo quello che Rothbard sviluppa in centinaia di pagine di Etica della libertà.

A questo un liberale archico può svolgere due critiche fondamentali.

La prima che l’uomo è sia homo aeconomicus che zoon politikon; ma politico ed economico sono essenze non dipendenti – anche se interferiscono l’una sull’altra – e tantomeno la scelta per una può eliminare ragioni, presupposti e regolarità dell’altra. Come scriveva tra i tanti e da ultimo Miglio, vi sono contratti-scambio e obbligazioni politiche. Quest’ultime intese hobbesiamente, volte a barattare protezione con obbedienza. Prima di Miglio, Hauriou riteneva che ci sono (sempre) due diritti (e due giustizie): quella comune tra soggetti pari e quella disciplinare (istituzionale) tra soggetti non in condizione di parità. Pretendere di eliminare uno dei due è, in sostanza, voler cambiare la natura umana. Cioè proprio quello che non solo preti e teologi, ma anche i giusnaturalismi non credono.

L’altra è che, anche perciò il liberalismo ha costruito lo Stato borghese di diritto, al quale accanto alla tutela dei diritti fondamentali è essenziale la distinzione dei poteri (Montesquieu); come mezzo e organizzazione di uno Stato attento alle libertà politica, sociale ed economica. Il potere statale non è così eliminato, ma limitato e controllato. In fondo, vale quanto scritto nel Federalista sul rapporto tra natura umana e governi: che se gli uomini fossero angeli, i governi non sarebbero necessari; e se fossero angeli i governanti, non servirebbero i controlli sui governi. Ma dato che gli uomini (tutti) non sono angeli, sono necessari sia i governi che i controlli sui medesimi.

Una concezione realistica della natura umana conduce necessariamente, coniugata all’aspirazione alla libertà, alla forma dello Stato di diritto, allo Stato liberale. Il quale è una species del genus “Stato”. Vi appartengono altre species, lo Stato assoluto che l’ha preceduto, gli Stati comunisti del XX secolo (meteore spente), gli Stati nazi-fascisti, e così via.

Lo Stato liberale è uno Status mixtus, mescolanza di principio politico (in genere, prevalentemente democratico) e dei principi dello Stato borghese di diritto. In questa fusione testimonia l’impossibilità di prescindere dal politico (e da uno o più principi politici) per realizzare una sintesi che sia “la realtà della libertà concreta” (Hegel).

Rothbard trascura perciò la realtà storica dalla forma che ha assunto il liberalismo, man mano che si realizzava, divenendo ordine ed istituzione. La polemica sull’immoralità dello Stato del filosofo nordamericano è serrata, radicale e a giro d’orizzonte: la tassazione è “obbligatoria e perciò indistinguibile dal furto, segue che lo Stato, che prospera grazie ad essa, è una vasta organizzazione criminale, di gran lunga più fortunata e formidabile di qualsiasi mafia privata”; essendo un’istituzione permanente, ha bisogno al contrario di un bandito di strada, di assicurarsi almeno l’acquiescenza dei governati attraverso una pletora di tirapiedi ideologici la cui funzione è “di spiegare alla popolazione che in realtà il re indossa bellissime vesti. In sintesi gli ideologi devono spiegare che, mentre il furto commesso da una persona o più persone o gruppi è un male, se è lo Stato a compiere tali azioni, allora non si tratta più di un furto, bensì dell’atto legittimo, e persino consacrato, detto tassazione” e anche “quando è lo Stato a uccidere, allora non si deve parlare di omicidio, ma di una pratica glorificata detta “guerra” o “repressione della sovversione interna””, onde “Il successo consolidato nel tempo degli ideologi dello Stato è probabilmente la più colossale frode nella storia dell’umanità”. Dato però che lo Stato è necessariamente fondato sul furto e l’omicidio, è costretto a servirsi di intellettuali che giustifichino queste pratiche giudicate da Rothbard immorali.

E qui troviamo un problema di etica politica che va da Platone a Croce (ed oltre), passando per la teologia cristiana: per il governante (lo “stato”) vale la stessa etica che per i governati? La risposta dei teologi e dei filosofi (molti) è che non è la stessa: sostenuta dai teologi con l’argomento che difendere la vita e la proprietà dei sudditi è opera “preziosa e divina”, come sosteneva (tra i tanti) Lutero. Deducendolo dall’antropologia negativa (l’esistenza del male e dei malvagi) cui il potere politico, istituito dalla Provvidenza divina, deve porre rimedio.

Malgrado il mio (parziale ma esteso) dissenso, il libro di Rothbard è comunque una lettura quanto mai salutare, soprattutto perché contraddice in modo radicale quegli idola propinati con dovizia e costanza da governanti e dai loro intellos, con argomenti che il filosofo nordamericano demolisce con acume e vis polemica. Una terapia di cui, in tempi di decadenza, non si può fare a meno.

Teodoro Klitsche de la Grange

Anthony M. Esolen, Sex and the unreal city. La demolizione del pensiero occidentale, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Anthony M. Esolen, Sex and the unreal city. La demolizione del pensiero occidentale, Il Timone, Milano 2021, pp. 233, € 22,00.

Come scrive l’autore “ora, in questa nostra epoca così apparentemente illuminata, abbiamo dichiarato che restare ancorati alla realtà sia una cosa da condannare. Perciò non abbiamo semplicemente finito col credere in alcune falsità”, ma alla falsità, compreso il non essere, inteso al minimo come ciò che non esiste, anzi ciò che ragionevolmente non può esistere. La diffusione di tale credenza è sorprendente, e contraddice la pretesa di essere, nel contempo, dei “fedeli della ragione”. Perché credere in una cosa che non è ma addirittura non può essere, serve solo ad illudersi o ingannare gli altri. Come scrive Dante “ti fai grosso / col falso imaginar, sì che non vedi / ciò che vedresti, se l’avessi scosso”. Così una volta creduto nell’irrealtà, si deve conseguentemente svincolarsi dalla logica e dall’esperienza. Scrive Esolen: “Uno dei sintomi dell’irrealtà è sicuramente l’incapacità di riconoscere la propria stupidità… Tutti, in qualche maniera, siamo degli sciocchi: ci sono gli sciocchi che lo sanno, e gli sciocchi che, non sapendolo, sono ancora più sciocchi”, scrive l’autore descrivendo la parabola delle università americane popolate, del tipo umano homo academicus saecularis sinister.

Nell’illudersi un’importanza decisiva ha il linguaggio “Una delle strane caratteristiche della Città Irreale è l’ossessione simultanea per il linguaggio e un rifiuto generale di riconoscere a cosa serve il linguaggio”. Nomina sunt coinsequentia rerum dicevano i romani: invece oggi, precisa l’autore “Vogliamo creder che le nostre parole possono alterare la realtà”. Solo che questo significa creare il falso: un uomo che afferma di essere una donna, e pretende di essere considerato e chiamato tale, continua ad essere un uomo. D’altra parte secondo un noto detto il Parlamento inglese poteva fare qualsiasi cosa, tranne che cambiare l’uomo in donna; tale limite non c’è per i creatori e fedeli di certi idola, tendenzialmente creduli nell’onnipotenza (delle parole).

Il che somiglia assai più che a un ragionamento a un desiderio che si trasforma in obiettivo, in un quid da realizzare. Senza però chiedersi se sia realizzabile. Con ciò presupporrebbe una potenza (o onnipotenza) che non è nelle disponibilità umane. Basta all’uopo constatare – a livello macroscopico – qual è stata la sorte del comunismo, il cui esito era la società comunista o senza classi. Già nel giovane Marx il comunismo era indicato come la soluzione dell’enigma irrisolto della storia. Ossia la formula per cambiare la natura umana mutando i rapporti di produzione. L’instaurazione della società senza classi avrebbe comportato l’estinguersi dello Stato e del politico. Solo che non c’era un esempio nella storia che ciò si fosse verificato. I presupposti del politico, cioè l’insopprimibilità (la costanza) del comando/obbedienza, del pubblico/privato, dell’amico/nemico, risultavano dati in ogni comunità umana conosciuta (l’uomo è zoon politikon). Il resto della parabola dimostra che il comunismo realizzato (cioè il socialismo reale) ha retto solo perché (contrariamente alle intenzioni) ha potenziato le tre costanti. Ha creato dittature sovrane, società che hanno quasi completamente annichilito il “privato”, ha avuto nemici (la borghesia, ecc.) come qualsiasi altro regime politico.

Dopo poco più di settant’anni (al massimo, per l’URSS) il tutto è finito per implosione, dato che la stessa classe dirigente non credeva più nel sistema e della società senza classi non si sentiva il profumo, neanche alla lontana. Il tutto può ripetersi in utopie/illusioni che presentino caratteri analoghi: obliterare la realtà per andare appresso all’immaginazione di essa. Cosa che, come scriveva Machiavelli, porta alla “ruina sua”.

E causa di quella ruina è aver creduto all’impossibile. Cioè alla fuga dalla realtà e dalle costanti che la governano.

Teodoro Klitsche de la Grange

TELLURICI O COSMOTERRORISTI, di Teodoro Klitsche de la Grange

TELLURICI O COSMOTERRORISTI

Ci si interroga sulle intenzioni dei talebani, ma senza particolare interesse al dubbio se cercheranno di esportare il conflitto oltre l’Afghanistan ovvero di rimanere nei confini del loro Stato. La domanda non è peregrina e coinvolge concetti, criteri e presupposti del pensiero politico e del diritto internazionale.

Scrive Schmitt nella “Teoria del partigiano” che il partigiano ha carattere tellurico “Tale caratteristica è importante per definire la posizione del partigiano la quale, a prescindere da ogni mobilità tattica, rimane fondamentalmente difensiva; ed egli deforma la sua natura quando fa propria un’ideologia di aggressività assoluta e tecnicizzata o vagheggia una rivoluzione mondiale…” e aggiunge relativamente a come distinguere il partigiano “è indispensabile fondarlo sul carattere tellurico, per rendere più evidente nello spazio la difensiva, cioè la limitatezza dell’ostilità e preservarla dalle pretese assolute di una giustizia astratta”. Questo lo differenzia da altre “categorie” di combattenti irregolari come il pirata o il corsaro, per necessità non-tellurici in quanto operano in un altro “spazio”, il mare. Tuttavia “Con l’ausilio della motorizzazione la sua mobilità si fa tale che egli corre il pericolo di sradicarsi completamente dal suo ambiente. Nelle situazioni provocate dalla guerra fredda egli diventa un tecnico del combattimento clandestino, un sabotatore e una spia… La motorizzazione fa perdere dunque al partigiano la sua connotazione tellurica ed egli finisce per diventare un ingranaggio della mastodontica macchina che opera politicamente su un piano mondiale”.

E con la “motorizzazione” e le possibilità che offre tende ad appannarsi il carattere difensivo del partigiano e della guerra partigiana.

Il connotato difensivo del partigiano non andò smarrito neanche dopo che la guerra partigiana divenne – per lo più – il mezzo di un’ostilità ideologica assoluta come durante la guerra fredda, specie da parte del blocco comunista. In effetti nessuna delle lotte partigiane, né dei capi, giunse a mutarne il carattere prevalentemente difensivo. Né Mao, né Ho Chi Min né il Fln algerino o l’Irgun hanno condotto operazioni offensive nel territorio del nemico.

Questo è cambiato con Al-Qaeda e con parte del terrorismo islamico contemporaneo: ormai è normale che ad un’occupazione militare da parte di una potenza (anche in mancanza) si risponda con attentati terroristici offensivi (dalle Torri gemelle al Bataclàn).

Vent’anni fa, in occasione dell’attentato alle Twin Towers mi capitò di scrivere che il successo dell’attentato era stato determinato: a) dalla sostanziale invulnerabilità di Al-Qaeda, gruppo terroristico senza popolazione e territorio, onde era quanto mai difficile organizzare una reazione b) il tutto lo distingueva dai movimenti partigiani, i quali, come insegna Santi Romano, hanno gli stessi elementi caratteristici dello Stato, solo in misura poco determinata e fluttuante.

Onde se era vero che ciò assicurava a Bin Laden un vantaggio militare, costituiva un handicap politico, impedendone o rinviando sine die la conversione in istituzione.

Non così sembra per i talebani, in questo assai più vicini ai movimenti partigiani “classici”. La prima volta che conquistarono il potere, la dinamica e il contesto sia della lotta contro l’occupante sovietico che della fase successiva per i talebani – come per gli altri movimenti afgani di resistenza, il rapporto con la popolazione e territorio era costituito almeno con i territori occupati dai gruppi etnici di riferimento (per i talebani i pastun).

Il fatto che i talebani avessero così compiuto il percorso “canonico”, diventando forza al governo dello Stato afgano, ne provocò la rovina. Dando protezione e asilo a Bin Laden e rifiutandosi di consegnarlo agli USA, si assunsero così la responsabilità politica, normale nel diritto internazionale, del territorio e di quando vi succedeva.

Da qui l’intervento americano, che, a quanto risulta dai mass-media – non riusciva a pacificare e a controllare (se non in parte) – il territorio del paese – né a consolidare il governo insediato dall’occupante.

Le zone “libere” (ossia controllate dai movimenti di resistenza), probabilmente la maggior parte del territorio, e la popolazione lì residente continuava ad essere il “santuario” dei partigiani. Santuario fluttuante, ma pur sempre accomunante il movimento partigiano all’istituzione statale.

Anche se la resistenza afgana – al contrario di Al-Qaeda così poteva fruire solo relativamente dei suggerimenti di Sun-Tzu. Questi sostiene che di fronte al nemico ci si deve assottigliare… “più del sottile fino a rendersi privi di forma… Soltanto così saremo in grado di diventare gli arbitri del loro (dei nemici) destino” e questo perché “Il Nemico manifesta una forma e con ciò si rende umano. Io invece sono privo di forma”; “dimodoché per quanto concerne la forma dell’azione militare, in guerra cioè, si attinge propriamente l’enfasi con l’assenza di forma”; da ciò conclude “Insomma per quanto concerne l’azione militare una forma siffatta è quella che si assimila all’acqua” (i corsivi sono miei).

Quest’anno la situazione si è ripetuta: i talebani hanno ottenuto il governo dell’Afghanistan: sono così divenuti la classe dirigente dell’istituzione statale. Di conseguenza hanno riacquistato sia la responsabilità conseguente che l’obbligo politico di protezione della popolazione. A quanto risulta, pare abbiano capito la lezione del 1998-2001. Tutto sommato le azioni terroristiche compiute in occasione della sgombero delle forze occidentali e dei loro alleati locali sono state opera di altri gruppi di resistenza islamica, noti per averle praticate anche altrove.

Occorre trarre da ciò che l’insegnamento della teologia cristiana e controriformata, la quale tanto ha influenzato il diritto internazionale westphaliano ha ancora una sua validità: sia che bellum defensivum semper licitum, onde non si può tacciare di jniustus hostis chi difende il proprio territorio e la propria gente; e che fare guerra per violazione dei diritti (non dei propri sudditi o cittadini) ma degli altri (ad vindicandas iniurias totius orbis) è illecito: neque a deo data est necque ex ratione colligitur. E cioè un (aduso) pretesto che cerca di giustificare un intervento militare non meglio argomentabile. Di converso rispondere ad azioni aggressive è sempre consentito.

Così quando sentiamo in TV che i talebani avrebbero imposto il burqa o disposto che le scuole non siano miste, e se ne mena scandalo, mi rallegro. Personalmente sono convinto che facciano di peggio, ma se le malefatte fossero limitate a quelle non posso che riconoscere che condizione della pace è (da sempre) che ognuno decida di come vivere a casa propria.

Teodoro Klitsche de la Grange

PARTECIPAZIONE ELETTORALE E DEMOCRAZIE LIBERALI, di Teodoro Klitsche de la Grange

PARTECIPAZIONE ELETTORALE E DEMOCRAZIE LIBERALI

L’articolo, sintetico ed efficace di Riccardo Scarpa pubblicato dall’Opinione del 21 ottobre 2021, sulla “deriva oligarchica” di elezioni cui partecipa all’incirca il 40% degli elettori, induce a qualche ulteriore riflessione.

La prima: è sicuro che qualsiasi regime politico, anche non democratico, si regge (anche) sul consenso dei governati. Questo può desumersi laddove siano monarchie ed aristocrazie da vari “indici”. Il principale dei quali è l’obbedienza, il non dissenso (o il dissenso parziale e contenuto). In quelli democratici c’è un “indice” in più, peraltro numerico: le elezioni. Se il corpo elettorale è svogliato e renitente, significa quello che Scarpa ha ben espresso: che è un’oligarchia, non di diritto, ma di fatto. E che una democrazia che suscita tanta indifferenza sia in buona salute è difficile sostenerlo: anche perché fino a qualche decennio fa nella deprecata “prima repubblica” eravamo abituati a percentuali di partecipazione al voto almeno doppie.

In secondo luogo: siamo abituati a distinguere tra democrazia e liberalismo. Ci sono state nella storia democrazie poco o punto liberali e stati liberali poco (o punto) democratici. Tra cui il Regno d’Italia, almeno fino al suffragio universale maschile (1913). Ciò non toglie che democrazia e liberalismo, facili a distinguersi concettualmente, si siano per lo più accompagnati nella storia. Anche un regno del XIX secolo, in cui votava il 5% (o anche meno) dell’elettorato maschile era più democratico di una monarchia del settecento, quando non c’erano votazioni né rappresentanza (in senso moderno) dei governati.

Com’è noto uno dei pensatori liberali cui si deve la più accurata distinzione tra libertà degli antichi (a un dipresso = democrazia) e libertà dei moderni (sempre a dipresso di prova – liberalismo) è Benjamin Constant nel discorso “La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni”. Constant sostiene che nelle antiche polisScopo degli antichi era la divisione del potere sociale tra tutti i cittadini di una medesima patria; questo essi consideravano la libertà. Scopo dei moderni è la sicurezza nelle gioie private, ed essi chiamano libertà la garanzie accordate da parte delle istituzioni a tali gioie” mentre nella società moderna “serve a tale libertà, un’altra organizzazione rispetto a quella che poteva andar bene alla libertà antica…all’interno del tipo di libertà di cui noi siamo gelosi, più l’esercizio dei nostri diritti politici ci lascerà tempo per dedicarci ai nostri interessi privati, più la libertà ci diverrà preziosa. Da ciò deriva, Signori, la necessità del sistema rappresentativo. Il sistema rappresentativo altro non è che un’organizzazione per mezzo della quale una nazione scarica su alcuni individui ciò che non può e non vuole fare da sé”; onde il sistema rappresentativo è essenziale alla libertà dei moderni.

Ma c’è un rischio, sostiene il pensatore svizzero “Poiché da ciò che la libertà moderna differisce rispetto all’antica deriva la minaccia di un pericolo di specie differente. Il rischio a cui sottostava la libertà antica era che, attenti ad assicurarsi solo la partecipazione al potere sociale, gli uomini cedessero a poco prezzo i diritti e i godimenti individuali. Il rischio della libertà moderna è che, assorbiti dal piacere della nostra indipendenza privata e dall’inseguimento dei nostri interessi particolari, noi rinunciamo troppo facilmente al nostro diritto di partecipare al potere politico. I depositari dell’autorità non mancano di esortarci a far ciò. Essi sono così ben disposti a risparmiarci ogni tipo di pena, eccetto quella di obbedire e pagare”. E ambedue, l’obbedire e il pagare gli italiani hanno sopportato nella seconda repubblica, assai più che nella prima. Ma non è solo questo l’inconveniente: più grave, perché la partecipazione è necessaria alla libertà politica: “La libertà politica, sottoponendo a tutti i cittadini, senza eccezioni, la considerazione e lo studio dei propri più sacri interessi, aumenta il loro spirito, nobilita i loro pensieri, stabilisce tra di loro una sorta di uguaglianza intellettuale che fa la gloria e la potenza di un popolo. Osservate come una nazione si rafforza non appena un’istituzione le consente l’esercizio regolare della libertà politica”, quella libertà che in Italia è temuta come la peste dall’establishment. Tant’è che si vota il meno possibile e, quando lo si fa, si contraddice alle indicazioni dell’elettorato. Per cui dopo un elogio della partecipazione e del patriottismo, Constant afferma che “Ben lungi, Signori, dal rinunciare ad alcuna delle due specie di libertà di cui vi ho parlato, occorre piuttosto, come ho dimostrato, imparare a combinarle tra loro” perché “Occorre che le istituzioni si occupino dell’educazione morale dei cittadini. Nel rispetto dei loro diritti, avendo riguardo della loro indipendenza, senza ostacolare le loro occupazioni, esse devono comunque consacrare l’influenza di cui dispongono alla cosa pubblica, chiamare i cittadini a concorrere con le loro decisioni e i loro suffragi all’esercizio del potere; esse devono garantire loro un diritto di controllo e di sorveglianza con la manifestazione delle loro opinioni, e formandoli in tal modo, per mezzo della pratica, a queste elevate funzioni, donar loro al contempo il desiderio e la possibilità di adempierle”. E questa consapevolezza dello “Stato rappresentativo” come sintesi di democrazia e liberalismo è patrimonio comune dei liberali successivi, a partire da Orlando, Mosca, Croce.

Per cui opporre democrazia e liberalismo significa depotenziare complessivamente la sintesi politica; estraniare i cittadini dallo Stato e ridurli a meri sudditi (privati). Far combattere la democrazia con la libertà vuol dire indebolire lo Stato: cioè proprio quanto vogliono i poteri forti, non democratici e assai poco liberali.

Teodoro Klitsche de la Grange

POLONIA E CAVILLI, di Teodoro Klitsche de la Grange

POLONIA E CAVILLI

Il riaccendersi della vertenza tra Polonia ed UE, a mio avviso, sposta di poco la questione che indicavo ai lettori de “L’Opinione” negli articoli del 30 settembre e del 19 novembre dell’anno passato: che l’espressione “Stato di diritto”, di cui all’art. 2 del Trattato sull’Unione Europea, è altamente polisemica, essendo considerati da un lato “Stati di diritto” ordinamenti assai differenti; dall’altro il concetto relativo allo stato elaborato da tanti pensatori in nodo non univoco. Ricordavo, per evitare al lettore il “catalogo di Laparello” delle concezioni e degli autori, quanto se ne può leggere nell’attenta voce “Stato di diritto” nel “Dizionario del liberalismo” scritto da Anna Pintore che, stante la non-univocità del termine e del concetto “nessuna trattazione del tema può essere neutrale”; con la conseguenza che, proprio perciò, la formula “ha goduto fin dalla sua nascita di apprezzamento pressoché universale, al punto da segnare oggi una strada senza alternative: uno Stato che non incarni questo modello deve essere considerato legittimo ed indegno di obbedienza”. Quindi indeterminato da un lato, e perciò utile per giustificare misure sanzionatorie (se non aggressive): la connotazione lasca è ideale per sfornare pretesti.

Quale esempio, scrivevo che “nella procedura Ue d’infrazione alla Polonia è stata contestata la limitazione all’indipendenza dei giudici polacchi dopo le innovazioni degli ultimi anni… Tuttavia negli USA tutti i giudici della Corte Suprema, e molti di quelle “inferiori” sono di nomina (o elezione) politica, ma pare assai difficile sostenere che gli USA non sono uno Stato di diritto, ma anche che quel modo di nominare comprometta gravemente lo Stato di diritto”. E così si potrebbe proseguire, non solo per la Polonia (v. sul punto le “infrazioni” sulla libertà e l’educazione sessuale) ma anche per la procedura d’infrazione all’Ungheria.

Ma non risulta che Montesquieu, Gneist, Orlando, Constant (ecc. ecc.) abbiano usato come criterio per discriminare gli Stati di diritto da quelli che non lo sono le preferenze sessuali, il contenuto dei sussidiari e così via. Il pericolo è che, a forza di calcare la mano su profili irrilevanti o poco rilevanti si perdano di vista quelli essenziali (allo Stato di diritto), come avviene da decenni soprattutto in Italia tra l’indifferenza dei mass-media di regime. Solo coll’emergenza pandemica è stato dibattuto pubblicamente che alcune delle misure non erano proprio in linea né col concetto del Rechtstaat ed ancor più con i principi e le disposizioni della nostra Costituzione. Due pensatori di valore come Agamben e Cacciari sono stati messi alla gogna per aver sostenuto che obbligo del green pass nei luoghi di lavoro fa a pugni (tra l’altro) con il principio costituzionale “lavorista” (v. art. 1 Costituzione).

Piuttosto che alla paglia nell’occhio degli altri, faremmo bene a pensare alle travi nel nostro.

Teodoro Klitsche de la Grange

IMPOSTE PATRIMONIALI E RENDITE PUBBLICHE, di Teodoro Klitsche de la Grange

IMPOSTE PATRIMONIALI E RENDITE PUBBLICHE

La ventilata riforma del catasto ha ridestato il dibattito sulle imposte patrimoniali, cioè quelle le quali, secondo una definizione diffusa, prescindono dalla percezione di un reddito (come, al contrario, l’IRPEF ed altre) e si applicano a chi è proprietario (o possessore) di un bene. Onde se il bene non produce alcunché, il possessore o proprietario è comunque obbligato a pagare l’imposta.

C’è chi esalta la patrimoniale perché “giusta”, in quanto colpirebbe i proprietari e lascerebbe indenni i non proprietari. Se il criterio della giustizia corrispondesse all’appartenenza proprietaria (secondo un’ingenua opinione del socialismo ottocentesco) tale concezione avrebbe un qualche fondamento. Ma dato che è evidente che non è così, essendoci redditi (e ricchezze) enormi generate con nulla o modesta relazione con la proprietà del bene (come i redditi dei manager, i corrispettivi del commercio, le retribuzioni dei vertici burocratici, ecc. ecc.) e, di converso, proprietà con redditi nulli o modestissimi); onde è la sproporzione di ricchezza, non l’appartenenza a determinarne la “giustizia”. E neppure notano che ad ottenere l’effetto redistributivo non è la patrimonialità o meno dell’imposta, ma l’essere progressiva o no.

Gli è che a sostenere tesi così inconsistenti è che se si esentano i patrimoni “piccoli”, si riduce gran parte della base imponibile e così l’utilità della patrimoniale viene ridotta: ciò quando, invece, il fine della stessa è “mettere le mani nelle tasche” degli italiani come dice Salvini, o “spennare l’oca senza farla troppo gridare” come scriveva Pareto, e cioè aumentare l’assetto predatorio, compensandolo (a beneficio delle oche) con nobili e commoventi discorsi di giustizia, eguaglianza ecc. ecc. che con l’imposta patrimoniale (secondo i di essa sponsor) avrebbero a che vedere più che con altri tipi di prelievo pubblico.

Si potrebbe rispondere a ciò con altri argomenti di natura economica: che la patrimoniale stimola a produrre reddito. Vero, ma del tutto marginale, perché ricavare reddito da un bene, direbbe la Palice è, comunque meglio che non percepirlo affatto e così via.

È interessante, invece, rilevare che la preferenza per la patrimoniale risponde non tanto a criteri economici, quanto a evidenze e regolarità politiche e politologiche.

La prima – tipica dell’Italia repubblicana – perché è la più gestibile da un’amministrazione sgangherata come quella nazionale.

Assai più se l’oggetto del prelievo sono immobili censiti e soggetti a pubblicità. Per cui l’affetto verso tale forma d’imposizione occulta la realtà di non volere e non credere che sia possibile recuperare l’evasione fiscale, generata per lo più da redditi di tutt’altra natura. Cioè non credere alle “riforme” sbandierate da tanti anni. Più che di volontà di cambiare il tutto rivela rassegnazione e compiacimento.

La seconda: scriveva Miglio che ogni sintesi politica dà luogo a rendite politiche distribuite dal vertice ai propri collaboratori e seguaci. La differenza principale delle rendite politiche da quelle di mercato è che le prime sono ottenute con la coercizione e che perciò sono garantite (e per questo assai appetite) dal monopolio della forza. Come sostiene Miglio la garanzia della rendita del seguace è a vita e per ogni situazione (almeno finché dura la sintesi politica). Scrive: “comunque andranno le cose, comunque andrà il mercato e si evolverà la situazione economica, la paga verrà ricevuta”. Mentre le rendite di mercato sono caratterizzate in negativo dall’aleatorietà (ossia dalla dipendenza dalla situazione economica) e in positivo della (tendenziale) assenza di limiti; un imprenditore può morire di fame o divenire Jeff Bezos. L’unico limite, sempre esistente, ma in misura assai differente, è quello dell’imposizione pubblica e soprattutto fiscale.

È da notare l’analogia tra imposta patrimoniale e i caratteri delle rendite politiche: il gettito non dipende dall’andamento di mercato e dai flussi di reddito. Così i quattrini per seguaci ed aiutanti devono essere trovati anche se non “prodotti” (quindi inesistenti).

Il gettito, per la stessa ragione, è garantito (come la rendita) perché la base imponibile è costante e sicura. Ancorare l’imposta al valore di beni non (o poco) deperibili come gli immobili significa, dal lato della spesa, assicurare i redditi erogati dalla classe politica. Non che lo stesso non possa farsi con altri “tipi” d’imposta (che non presentano le suddette analogie): ma è sintomatica la corrispondenza d’amorosi sensi  tra sostenitori della patrimoniale e fruitori delle rendite politiche (per lo più gli stessi).

Dov’è il limite della patrimoniale? È la realtà. Nel senso che, a meno di ritenere i contribuenti affetti da volontà di miseria, per un bene che non da reddito non può, alla lunga, pagare imposte; con la conseguenza che per farlo, il proprietario deve alienare il bene, ossia tollerare la propria spoliazione. Il regime/assetto parassitario (secondo la tripartizione di Pantaleoni) si converte così in assetto predatorio. Con i proprietari espropriati (o, nel migliore dei casi, immiseriti) per alimentare – prevalentemente – i tax-consommers.

Analogamente pensare che un sistema fiscale possa  sostenersi senza che i beni diano un corrispettivo (a meno di alienarli) è concepibile solo ove l’incidenza dell’imposta patrimoniale sia modesta, di guisa che l’adempimento dell’obbligo relativo possa essere assolto con altri redditi del contribuente.

Certo a tali obiezioni si può replicare che questi inconvenienti possono essere causati anche da altri tipi d’imposta: è vero, ma solo nella patrimoniale la corrispondenza tra modalità del prelievo e realtà della politica, delle sue regolarità e del dominio è così evidente. Onde si pensa di mistificarla od occultarla con un’overdose di derivazioni.

Teodoro Klitsche de la Grange

IL CATASTO DELLA DISCORDIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

IL CATASTO DELLA DISCORDIA

Questa settimana sul “teatrino” della politica è andata in scena la pièce del catasto, con i soliti ruoli: il centrodestra in quello dei Gracchi, a difendere il popolo dei tartassati, il PD nell’usuale personaggio del moralgiustizialista (che produce giustizia con il portafoglio degli altri) un Arpagone in cipria e merletti; e il resto della compagnia in personaggi di contorno.

Data la reazione tutt’altro che entusiasta dell’opinione pubblica, il PD ha dovuto ridimensionare rapidamente l’iniziale consenso anche perché, a parte la solita “estrema” sinistra, si è trovato a corto di alleati.

Tuttavia è il caso di comprendere perché gli argomenti del PD (e compagni) sono usati e perché funzionano sempre meno.

La giustizia. Ch’è argomento sia di carattere offensivo, nel senso di promuovere l’avanzata sia difensivo, per proteggere la ritirata. Nel caso, fugacemente utilizzata nel primo, assai più nel secondo.

Dato infatti che i contribuenti sanno benissimo che si parte facendo appello a commoventi discorsi di giustizia, solidarietà, ecc. ecc., ma si finisce per mungere chi le tasse già le paga, i piddini si sono serviti della “giustizia” con la correzione della parità di prelievo, ossia volta a riequilibrare il prelievo tra i contribuenti e non per aumentarlo.

Tuttavia i contribuenti – a parte le reiterate esperienze dei risultati contrari alle esternazioni simili – forse si sono ricordati che la manovra fu già fatta (in tono minore) una dozzina di anni fa con le c.d. micro-zone; ma che io sappia a tutti i professionisti che se ne sono occupati (da me contattati), me compreso, non risulta che ci fosse un sono contribuente cui la “riformina” non avesse regalato un aumento d’imposta; oltretutto nello stesso periodo in cui il governo Monti con la sagacia economica che lo caratterizzava, istituiva l’IMU con enormi aumenti dell’imposizione. Il danno così risultava aggravato ad onta dell’intento giustizialista esternato: l’unica redistribuzione prodotta era quella dalle tasche dei governati a quelle dei governanti.

La credibilità. Dato ciò, perché una classe dirigente richieda (con successo) un sacrificio ai governati occorre che abbia autorità e legittimità. Churchill poteva farlo, promettendo lacrime e sangue agli inglesi, sia perché lo era, sia perché c’era da affrontare un nemico formidabile come la Germania nazista. Ma alla sinistra (o sedicente tale) italiana contemporanea, autorità e legittimità mancano del tutto. A provarlo sono due fatti: l’uno, decisivo, che non sono mai andati al governo (dal 2008 in poi) per aver vinto le elezioni, cioè per volontà del corpo elettorale (quindi popolare) ma solo per decisione di altri e/o per manovre di palazzo. L’altro, secondario ma rivelatore, che non fanno, di conseguenza, nelle loro argomentazioni, alcun riferimento ai desiderata del popolo, ma ad altro: “ce lo chiede l’Europa”, “lo ha detto Greta”, “faremo cose magnifiche” (ma le esperienze insegnano il contrario), “lo sostengono i tecnici” e così via.

Tra commoventi appelli alla solidarietà, mozioni degli affetti, futuro paradisiaco, c’è tutto l’armamentario della propaganda (neanche granché raffinata).

E qua casca l’asino; perché se il governo Draghi ha di per sé il pregio di essere il più credibile tra i governi italiani degli ultimi quindici anni, il premier non ha la vocazione a perderla, in particolare per manovre mediocri. Onde ben fa Draghi a ripetere che questo è il momento di dare quattrini ai cittadini e non di toglierli. Finché è coerente, la sua credibilità non ne risente.

Teodoro Klitsche de la Grange

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