Italia e il mondo

Orazio Maria Gnerre, Nihil medium. Carl Schmitt tra passato e futuro_a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Orazio Maria Gnerre, Nihil medium. Carl Schmitt tra passato e futuro, Morlacchi Editore, Perugia 2024, pp. 185, € 18,00.

Bene ha fatto l’autore a scrivere questo ampio saggio. Carl Schmitt, infatti “è uno dei pensatori che maggiormente hanno influenzato e previsto il tempo presente, grazie alla sua visione complessa e multifattoriale della realtà, che lo ha portato ad indagare diversi campi del sapere per definire una prospettiva globale delle principali questioni politico-sociali della modernità avanzata”.

L’attualità di tante intuizioni di Schmitt è impressionante, anche se l’oblio di cui il giurista di Plettemberg era circondato nel secondo dopoguerra non era sorprendente. E non solo per la di esso adesione al partito nazista (anche se in Italia il passaggio dal fascismo alla Repubblica nata dalla resistenza è stato diffuso, perfino nell’alta burocrazia), ma anche di più per l’incompatibilità di molte tesi di Schmitt con gli idola ideologici del nuovo regime italiano (e non solo).

Tuttavia a partire dagli anni ‘70 Schmitt era progressivamente rivalutato (e tradotto). Merito all’inizio soprattutto di Miglio e Schiera. Tuttavia, già a metà degli anni ‘80, a pochi mesi dalla morte del giurista di Plettemberg, Maschke poteva indicare nel saggio in memoriam pubblicato su Der Staat l’Italia, tra i paesi europei, come quello in cui il pensiero (e la figura) del giurista renano era all’epoca il più studiato.

La differenza dalla situazione attuale, rispetto agli anni ‘80 è che il crollo del comunismo ha modificato la situazione politica. Onde la fecondità delle idee di Schmitt è confermata dalla loro applicabilità all’evoluzione avvenuta: non è solo la sensibilità e l’interesse degli studiosi a sancirla, ma il contesto politico globale.

Faccio quale esempio:

1) Si legge spesso che l’antitesi tra destra e sinistra sia tramontata: è sicuramente vero, anche se, ad esser più precisi, l’antitesi andrebbe precisata in quella borghese-proletario, che ha dominato nel “secolo breve”, anzi da qualche decennio prima.

Schmitt ritiene che (nell’occidente moderno) il campo centrale dello scontro politico (amico-nemico) sia quello decisivo per l’epoca. Così dai primi del ‘500 agli ultimi decenni del ‘600, questo era la teologia, con relativo diffondersi delle guerre di religione; neutralizzato questo Zentralgebiet,poi subentrò quello “etico” per approdare, circa due secoli dopo, a quello economico.

Ogni progredire è dovuto alla neutralizzazione dell’opposizione precedente e nella politicizzazione della successiva.

Quindi essendosi ormai neutralizzato – o meglio depotenziato – il conflitto borghese/proletario, subentra un nuovo “campo di battaglia”. All’inizio sembrava quello religioso (v. 11 settembre), ma poi più che altro la nuova antitesi globalisti/sovranisti la quale ha come campo di conflitto centrale l’identità dei popoli e la relativa decisione sul loro destino.

2) Allo scoppio della guerra russo-ucraina è stato indicato come nuovo satanasso (e non solo) Putin, il quale oltre a personificare il male, era un po’ tonto, gravemente malato, ecc. ecc. Invece Putin non faceva (e fa) che rivendicare parte del Grossraum russo, conquistato in quattro secoli dai suoi predecessori. E il Grossraum, lo spazio vitale degli imperi è idea di Schmitt esposta in molti scritti, e soprattutto nel Nomos della terra.

3) Al tempo del COVID, (quasi) l’intera Italia cascò dal pero, notando che il governo, coi decreti del Presidente del Consiglio, limitava i diritti garantiti dalla Costituzione “più bella del mondo”. In questo caso, qualcuno si ricordò del pensiero di Schmitt sullo stato d’eccezione, il quale nello Stato moderno si realizza con la sospensione, la modifica o la deroga della legislazione normale, sostituita da normativa (e non solo, anche con organi straordinari) d’emergenza. La quale arriva (anche nel caso COVID) a limitare o sospendere diritti garantiti dalla Costituzione. La parte politica più zelante nella difesa della normativa eccezionale fu proprio quella che dell’oblio dello stato d’eccezione e – ma a un tempo –  della limitazione dei diritti aveva fatto una “dottrina”.

Questi sono solo alcuni dei punti in cui le idee di Schmitt mostrano un’attualità sorprendente, ma solo per coloro che le valutano  sotto il profilo ideologico; mentre connotato di Schmitt è che le sue idee seguono sempre la massima di Machiavelli di considerare la realtà delle cose e non la loro immaginazione; e meno ancora di valutarle in base alle convinzioni ideologiche.

Il saggio di Gnerre considera altri aspetti vitali ed attuali delle concezioni di Schmitt: dal pensiero di Ernst Kapp sulla civiltà talassica del mediterraneo al colonialismo europeo in Africa; dalle migrazioni umane alla teologia economica.

Proprio su quest’ultimo argomento, basantesi sul confronto del pensiero di Max Weber e Carl Schmitt, Gnerre parte dalla considerazione che “esiste un rapporto tra religione ed economia, e ciò è tanto più evidente in quanto l’economia, secondo l’insegnamento di Weber, non può essere separata dalle sue risultanti nell’organizzazione sociale”. Il capitalismo è stato favorito dalla teologia protestante, calvinista soprattutto. Diverso è con la teologia (e soprattutto la Chiesa) cattolica perché “il cattolicesimo saprà adattarsi a ogni ordine sociale e politico, anche in quello in cui dominano gli imprenditori capitalistici […]. Ma questo adattarsi gli è possibile solo se il potere basato su una situazione economica sarà divenuto politico, cioè se i capitalisti[…] si assumeranno la responsabilità, in tutte le forme della rappresentazione statale”. Ma il capitalismo ha una natura privatistica e non “pubblica”. Quanto al liberalismo, “controparte ideologica dell’economia capitalista” l’autore riprende le considerazioni di Donoso Cortes, molto simili a quelle precedenti di de Bonald, per cui “ogni teologia ha un fondamento radicale, ma solo il liberalismo era riuscito a costruire una teologia politica nella negazione di ogni punto di riferimento essenziale, allontanando Dio dal mondo”. Il deismo che è la teologia sottesa al liberalismo, concepisce un Dio creatore, ma non interveniente nel mondo. Come scriveva Bonald se il teismo era la teologia cattolica e l’ateismo quella delle correnti democratiche (giacobini), il deismo era quello dei costituzionali dell’89, i quali avevano inventato una forma politica con un Re il quale, come il Dio deista, non agisce e non interviene nella politica (regna ma non governa).

Gnerre ritiene che se la dottrina della predestinazione e “l’ascesi intramondana” ha favorito il capitalismo e addirittura ha giudicato la miseria segno di colpa, ciò non è avvenuto con la teologia cattolica.

Anche se in correnti cristiane, di converso, la ricchezza era considerata elemento negativo “la visione cattolica della religione cristiana concilia invece le dimensioni della materia e dello spirito, cercando di non frustrare il primo, ma sottomettendolo formalmente al secondo”.

Scrive l’autore che “E’ lo stesso Carl Schmitt a ribadire come sia nel deismo che vada rintracciata la teologia fondamentale che sostanzia il liberalismo. Tuttavia, ciò crea un paradosso di portata incommensurabile per cui il deismo, che è una teologia senza grande interesse per la religione, produce una teologia politica che non è affatto teologica”.

A questo punto il recensore rivolge una  domanda all’autore, contando che scriverà una congrua risposta, in tema di teologia politica (di attualità). De Bonald (per i democratici giacobini) e Donoso Cortes (per i socialisti) indicavano il carattere panteista della teologia loro sottesa, ritenendo la società umana come  prodotta spontaneamente, senza un’autorità, un ordine, senza che fosse necessario un sovrano.

La società comunista (dopo la dittatura del proletariato), la cuoca di Lenin (in grado di “governare” la società) sono esempi (estremi) di un ordine spontaneo, in cui l’autorità è superflua.

Ma non è che certe idee tecnocratiche nostre contemporanee, che derivano (deviandola) dalla mano invisibile di Adam Smith, non sono affini a quella socialista nelle radici panteiste, nell’illusione di poter realizzare un ordine senza un principio e un potere ordinatore? Insomma l’amministrazione delle cose, destinate a sostituire il governo degli uomini, ha anch’essa una teologia politica, confermandosi così la concezione di Hauriou che ogni ordine giuridico è l’involucro (couche) di un fondo (fond) teologico?

Nel complesso  un libro che merita di essere letto per capire il nostro presente, onde se ne consiglia la lettura.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Antonio Forza, Rino Rumiati, L’errore invisibile. Dalle indagini alla sentenza, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Antonio Forza, Rino Rumiati, L’errore invisibile. Dalle indagini alla sentenza, Il Mulino 2025, pp. 286, € 20,00.

E’ noto che il ragionamento giuridico e in particolare quello giudiziario è stato oggetto, oltre che di norme che lo disciplinano, di molti studi. Meno noto è che spesso l’attenzione è stata rivolta a evitare gli errori, le fallacie logiche e argomentative piuttosto che a dettare le regole della corretta decisione.

Oltretutto il giudizio è attività umana, e l’argomentare (dei difensori) come la motivazione (dei decisori) è condizionata dalla professione di questi ultimi; onde sono diverse. In particolare se i decisori sono degli esperti (funzionari di carriera od onorari) o dei comuni cittadini (giurie popolari).

Il tutto è complicato dal fatto che il linguaggio giuridico non è formalizzato (a differenza di quello scientifico) ma è quello di uso comune.

Questo libro si pone una domanda, partendo dal dato di fatto che nell’ultimo trentennio in Italia sono stati registrati oltre trentamila casi di ingiusta detenzione: da dove derivano questi errori? Gli autori rilevano che molti conseguono a travisamenti risalenti alla fase iniziale, i quali poi condizionano le fasi successive, decisione compresa.

Gli autori prendono in considerazione la psicologia degli inquirenti e così il soggettivismo degli stessi, ossia l’insidia-principe dell’oggettività della decisione (e del diritto). Dai tempi di Bacone e dei suoi idola si sa che sono i pregiudizi a condizionare i giudizi, quel che è nuovo nel saggio è che gli autori si servono dei più moderni strumenti della psicologia.

Emerge così  un’ampia ricognizione delle “trappole cognitive” che producono effetti nella decisione. E quindi nella vita delle persone.

In definitiva un libro da leggere sia per l’argomento sia per il modo di affrontarlo degli autori. Sperando che migliori la qualità delle decisioni e così quella della giustizia di uno Stato di diritto.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Chantal Delsol Elogio della singolarità. Saggio sulla modernità tardiva._A cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Chantal Delsol Elogio della singolarità. Saggio sulla modernità tardiva. Liberilibri, Macerata 2010, pp. 271, € 18,00

A distanza di qualche anno dalla pubblicazione in Italia, questo lungo saggio di Chantal Delsol ottiene ulteriori conferme delle analisi svolte.

Il punto da cui parte l’autore è che “Il totalitarismo, di qualunque obbedienza sia, fa la sua comparsa quando cominciamo a credere che “tutto è possibile”” tuttavia “Rifiutare il “tutto è possibile”, farne la pietra angolare degli errori del secolo significava, è stato detto, equiparare il terrore all’utopia; significava collocare le perversità dell’annientamento dell’uomo sulla stessa scia degli ideali di una nuova strutturazione della natura umana …. Numerosi decenni di perseverante riflessione, tuttavia, hanno finalmente reso possibile dichiarare apertamente che il concetto del “tutto è possibile” rappresenta la nascita del XX secolo”. Al di là di come “tutto è possibile” è stato inteso nei grandi totalitarismi del XX secolo, questo topos della modernità (o della di essa parte più caratterizzante) è stato declinato in due sensi. Il primo che non vi sono regole vincolanti, se non quelle che da la politica. E’ la prevalenza della volontà politica (quindi umana) su ogni norma, anche di natura/origine trascendente: la fine del diritto naturale, dei vincoli morali, il trionfo della sovranità nelle sue forme più radicali (la dittatura sovrana). E’ quello che sintetizzava Dostojevski con la frase “se non c’è Dio, tutto è permesso” o già Sofocle nel “discorso della corona” di Creonte nell’Antigone (anche se più “moderato”). Quanto al secondo che non vi sono regole, neppure le leggi naturali, di fronte alla capacità prometeica dell’uomo di poterle cambiare o controllare. Con ciò l’uomo pone se stesso al centro non solo del mondo istituzionale/normativo, ma dello stesso mondo. Innovando il concetto di sovranità “classica” espresso da Spinoza, Thomasius, Kant (tra gli altri), per cui l’uomo (il sovrano) poteva mutare tutte le regole, ma non le leggi naturali. Invece la modernità, proprio nel marxismo (realizzato) ha espresso una visione del mondo fondata sulla convinzione che è possibile cambiare la natura umana, cambiando i rapporti di produzione.

Sarebbe questa la soluzione “dell’enigma irrisolto della storia”, la quale porterebbe all’edificazione della società comunista (senza classi) connotata dall’assenza di tutti i presupposti del politico (Freund). Una società senza comando/obbedienza, nemico/amico, privato/pubblico. E di cui non si è vista l’ombra: il comunismo è morto nella transizione tra il vecchio ordine distrutto e quello vagheggiato, impantanato nelle “regolarità” del politico, che credeva superabili (e modificabili).

Tuttavia il “tutto è possibile” continua a connotare il post-comunismo, Certo manca la violenza, connaturale ai totalitarismi “Nel “tutto è possibile” del totalitarismo, che era costretto a fare ricorso alla violenza, noi crediamo che sia soltanto il ricorso alla violenza a essere pericoloso. Dovremmo quindi realizzare questo “tutto è possibile” con altri mezzi. La modernità tardiva crede ancora che noi possiamo fare quel che vogliamo dell’uomo, ma a condizione che questo avvenga nella libertà: la stessa ideologia è sempre all’opera anche se in forma diversa”, la certezza del “tutto è possibile” è così condivisa dai totalitarismi “e dalle democrazie della modernità tardiva, perché essa trae la propria origine dalla religione del progresso, che ha generato sia gli uni che le altre”. Per Fukuyama, la cui brillante interpretazione del crollo del comunismo implicava anche la negazione delle “regolarità” del politico, almeno di quella amico/nemico “«la biotecnologia sarà capace di effettuare ciò che le ideologie del passato hanno maldestramente tentato di realizzare: dare vita ad un nuovo essere umano». Questa “ri-naturazione” passerà attraverso la genetica e la farmacopea”. Così l’immensa speranza nutrita dalla modernità di determinare l’avvento di una società perfetta, di un uomo puro, vuoi attraverso le ideologie totalitarie al potere, vuoi attraverso il progresso ininterrotto, faceva si che l’incompiutezza dell’uomo venisse considerata come una tara …. In questo modo la scomparsa delle ideologie ha lasciato intatte le loro fondamenta, ovvero il primato delle idee sulla realtà e quella forma mentis particolare che si ostina a screditare l’essere a vantaggio di un “bene” disincarnato”. La volontà di potenza, trasferita dalla politica alla biologia, o meglio a una politica “biologica”, non elimina il nichilismo, e soprattutto somiglia assai al “Mondo nuovo” di Huxley.

Scriveva circa un secolo fa Hauriou che le fasi di decadenza delle società umane sono caratterizzate dal prevalere del denaro e dello spirito critico: oggi si direbbe dell’economia e del relativismo. Anche la tarda modernità è dominata dal primato dell’economia. Ma tale primato “del denaro inteso come valore rappresenta la conseguenza logica, ancorchè pregiudizievole, della derisione dei valori spirituali”, scrive la Delsol.

E’ perché quelli sono decaduti che il denaro appare decisivo, anche se tale decisività è più apparente che reale, e se ne vedono già limiti ed usura. Quanto al relativismo non sfugge alla regolarità del politico “il relativismo della modernità tardiva non lascia presagire un futuro caratterizzato dalla tolleranza, ma piuttosto la sostituzione della motivazione del conflitto. Con la scomparsa delle certezze, le lotte e le oppressioni non si verificheranno più nel nome di verità di rappresentazione, ma nel nome di verità di essere”.

Il relativismo, ha contribuito al depotenziamento di dottrine, ideologie, religioni e messaggi universali “Ha eliminato un certo tipo di guerre combattute sotto lo stendardo di messaggi universali, ma così facendo ha contemporaneamente permesso che sul campo lasciato libero si sviluppassero conflitti nazionalistici o etnici. Il fanatismo ha trovato nuove giustificazioni”. E con ciò è stato piegato anch’esso alle regolarità del politico.

Nel complesso un libro più che interessante; scritto alla fine del secolo scorso è stato “convalidato” dal tempo trascorso.

Teodoro Klitsche de la Grange

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DEMOCRAZIE APERTE O CHIUSE?_di Teodoro Klitsche de la Grange

DEMOCRAZIE APERTE O CHIUSE?

Occorre dedicare attenzione, a seguito del noto rapporto dei servizi segreti tedeschi sull’affidabilità democratica e ai principi dello Stato di diritto dell’AFD; partito il quale, a leggere i sondaggi, sarebbe ormai quello primo nel consenso degli elettori tedeschi.

La Costituzione tedesca (Grundgesetz) all’art. 21, II comma, dispone che sull’incostituzionalità dei partiti decide la Corte Costituzionale, La norma è assai ampia e suscettibile di applicazioni altrettanto late; a tale riguardo è stato sostenuto che quella tedesca sia una democrazia protetta, mentre altri testi costituzionali – come quello italiano – segnatamente con l’art. 49 e la XII disposizione transitoria siano democrazie aperte. In effetti in quella italiana, manca l’indicazione di chi giudica sulla costituzionalità, e il dettato normativo è assai più ristretto. La ragione storica di ciò è spesso ricondotta alla fine della costituzione della Repubblica di Weimar – e al dibattito sviluppatosi anche tra i più eminenti giuristi, in particolare Carl Schmitt e Hans Kelsen – sul più ampio problema di chi dovesse essere il “custode della Costituzione”.

La costituzione di Weimar fu “abolita” di fatto, approvando la legge “sui pieni poteri” del marzo 1933 con un voto del Reichstag che rispettava la norma (costituzionale) della maggioranza qualificata, indipendentemente da ogni valutazione del contrasto tra i principi e la forma della repubblica e quelli della “modifica” costituzionale approvata che ne erano la negazione.

E’ palese che la costituzionalità dei partiti e di chi li debba giudicare è un aspetto particolare di una tematica che interessa i principali istituti (e concetti) dello Stato moderno: dalla sovranità al potere costituente, dalla democrazia al principio dell’art.  28 della dichiarazione dei diritti dal 1793 (detta giacobina) per cui ogni generazione ha il diritto di modificare e cambiare la propria costituzione. A tal fine occorre che non si frappongano ostacoli, tenuto conto del pensiero di Pareto, alla circolazione delle élite. E considerando anche, come scriveva Hauriou, che l’ordinamento giuridico è sempre in movimento, vuoi per il cambiare delle situazioni come per quello delle opinioni e, anche per questo, il giurista francese riteneva il sistema di Kelsen “statico” (e di conseguenza poco realistico).

E’ tutt’altro che semplice risolvere le opposizioni concettuali e, quel che più conta, reali (e le loro conseguenze) che si pongono.

La sovranità e non meno il potere costituente sono degli assoluti rispetto alla normativa: e farne dei poteri relativi (cioè limitati) li si  nega. La democrazia implica opinioni diverse e per tutti i cittadini uguaglianza di chances nell’accesso al potere; ma se è la Corte costituzionale a decidere cosa bisogna pensare e credere per accedervi, la democrazia se non abolita, ne risulta gravemente azzoppata. Se una comunità vitale è connotata dalla circolazione delle élite, decidere chi possa aspirare (e ottenere) il comando e chi no significa un ordinamento a ZTL, che è poi quello più connaturale al modo di pensare delle élite decadenti, soprattutto in Italia.

D’altra parte occorre riconoscere che ammettere élite incostituzionali nello spazio pubblico, con la conseguente possibile abolizione totale della costituzione è una contraddizione. Tuttavia è un fatto costantemente ripetutosi nella storia, anzi sotto tale angolo visuale, del tutto normale: la teoria ciclica delle forme politiche lo presupponeva, anzi era la la puntuale rappresentazione di come le opere umane  siano transeunti. E le transizioni, come scriveva Spinoza, non sono mai pacifiche e legali. Cercare di renderle tali è opera meritoria, ma l’esperienza prova che è assai difficile.

Anche perché norme del genere, animate da buone intenzioni, possono essere utilizzate dalle élite decadenti per impedire l’accesso alle nuove. Specie all’ombra della legalità.

Non aveva torto Machiavelli che, nel chiedersi se in una repubblica facessero più danno quelli che vogliono acquistare il potere o quelli che cercano di non perderlo, riteneva che provocassero più tumulti i secondi “il più delle volte sono causati da chi possiede, perché la paura del perdere genera in loro le medesime voglie che sono in quelli che desiderano acquistare” (D, I, V) e, come sempre, non aveva torto.

Teodoro Klitsche de la Grange

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IL LUPO E IL CHIODO, di Teodoro Klitsche de la Grange

IL LUPO E IL CHIODO

Quanto è accaduto la scorsa settimana tra Germania e Romania, mi ha ricordato un manifesto dei repubblicani francesi dopo la caduta del Secondo impero, quando la Francia doveva ri-decidere se essere una Repubblica o una monarchia. Nel manifesto si vedeva un chiodo con la testa di Marianna (simbolo della Repubblica) piantata nella Francia con sopra un martello che la batteva.

La relativa didascalia di Alexandre Dumas figlio diceva “Le opinioni sono come i chiodi: più li si colpisce, più li si pianta”. Intendendo così l’effetto contrario alle intenzioni della propaganda monarchica, la quale, demonizzando la repubblica, rafforzava i sentimenti repubblicani.

Ho l’impressione che tale manifesto sia ignoto alla comunicazione mainstream e in genere ai globalizzatori (aiutantato compreso) perché ogni volta ricadono nel medesimo errore. Da ultimo proprio in Romania e Germania.

In Romania l’eliminazione per via giudiziaria del candidato,  di estrema (??) destra ha solo prodotto che nelle rinnovate consultazioni l’estrema destra (cosiddetta dagli esorcisti mainstream) è passata da circa il 23% a oltre il 40% dei voti espressi. In Germania la “ghettizzazione” post-elettorale dell’AFD pare (perché risultante dai sondaggi, sempre opinabili) abbia provocato l’aumento del gradimento di detto partito fino a promuoverlo a primo partito tedesco. Non è dato sapere quanto lucrerà l’AFD dal rapporto negativo dei servizi segreti della Repubblica federale, di cui si discute in questi giorni.

Né se tutto abbia influito sul primo scrutinio (negativo con 18 “franchi tiratori”) per l’elezione di Merz.

Ma appare chiaro da questo e dalle analoghe vicende in altri paesi che il richiamo dei “poteri costituiti” alla legalità è affetto da costante e persistente “eterogenesi dei fini”, onde, di solito, ottiene l’effetto contrario.

Si ha l’impressione che, per ottenere quello voluto, sarebbe opportuno sostenere che AFD è un partito di democrazia ineccepibile, o che Georgescu è nemico giurato di Putin. In fondo aveva ragione Giorgia Meloni quando, mesi fa, parlando al Convegno di Atreju disse di aver stappato una bottiglia del vino migliore ascoltando le critiche mossele da Prodi; le quali, alle orecchie della maggioranza degli italiani suonavano come (meritati) complimenti. Gridare “al lupo, al lupo” in assenza dello stesso è controproducente.

Si possono enumerare varie ragioni per spiegare la credibilità inversa della propaganda delle élite decadenti.

La prima – e la più ovvia – specie in Italia è che i modesti risultati di quelle ne rendono poco appetibile le soluzioni proposte. Sempre da noi, si aggiunge il fatto che spesso (come per il jobs act) il PD (e non solo) quando sta all’opposizione propone rumorosamente di abrogare qualche riforma o provvedimento fatti stando al governo (e perché li hanno posti in essere o almeno modificati prima?).

La seconda, che ho sottolineato da mesi, è che il tutto può ricondursi a una contrapposizione tra legalità (la quale va dall’alto in basso) e legittimità ( che segue il percorso inverso). La prima è perciò (anche) strumento del comando; l’altra produce obbedienza.

La terza è che, proprio per esercitare ed aver esercitato il potere, la legalità è comune alle élite decadenti, come la legittimità (di solito) alle emergenti.

E si potrebbe continuare ad enumerare, in particolare, per la Germania dalla normativa sui partiti e su chi decida, di cui all’art. 21 della Grungesetz tedesca e sulle sue implicazioni. Ma questo un’altra volta.

Teodoro Klitsche de la Grange

Una chiosa di WS al testo: A proposito di “eterogenesi dei fini” Non bisogna dimenticare l’ effetto delle prova generale di “democratura globale ” che è stata la “pandemia” , perché ha prodotto nelle mente di milioni di persone nel mondo “il lieve sospetto” che gli sia stato sistematicamente mentito; che quindi “il sistema mente” .
E per chi raggiunge la credenze che “il sistema mente” non solo sarà immediato pensare che mentirà ANCORA ma col tempo raggiungerà la credenza che “forse” esso ha mentito SEMPRE e su TUTTO.
Personalmente io non ho dovuto aspettare il covid per raggiungere questa convinzione, e posso datare l’ inizio del mio “wokismo” alle bombe NATO su Belgrado quindi a me non mi hanno “fregato” nemmeno con “l’ €uropa” perché subito cercai di capire frugando la poca letteratura VERAMENTE “underground” allora disponibile ( guarda caso TUTTA di “destra” ).
Ciò detto non ci si illuda che un SISTEMA di potere s e ne vada da solo o mediante elezioni. Al peggio ( per esso ) dopo aver usato tutti gli strumenti coercitivi e propagandisti possibili userà il modo più efficace per “fuggire in avanti” (una guerra), o contratterà la propria fine asservendosi ad un sistema “esterno” più forte.
In ogni caso ci aspettano tempi difficili.

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Jacob L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria_ Recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Jacob L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, Il Mulino 2024, pp. 448, € 18,00. Presentazione di C. Galli.

Una nuova edizione del saggio di Talmon è proposta dal Mulino con la presentazione (aggiornata) di Carlo Galli. Scrive il presentatore “Quando, nel 1951, Jacob Talmon concludeva la stesura del suo libro su Le origini della democrazia totalitaria la cultura occidentale – in quasi tutte le sue accezioni e declinazioni – si stava interrogando su che cosa avesse determinato il totalitarismo fascista e comunista”. Molti intellettuali si chiedevano come il razionalismo, connotato peculiare della modernità “si fosse rovesciato nelle tenebre di Hitler e di Stalin”. La tragedia era imputata alle ragioni più varie. A tale temperie appartiene anche l’opera di Talmon, secondo il quale “Il libro è  dedicato alla formazione della religione, e del mito, del messianismo politico rivoluzionario e del millenarismo nella filosofia illuministica del Settecento”. Dopo essersi manifestato nella rivoluzione francese il messianismo, ispiratore anche della Comune di Parigi, emigrava ad oriente nella Russia e nella rivoluzione bolscevica. Talmon ritiene che tratto principale ne sia “il postulato di un sistema sociale unico basato sulla soddisfazione uguale e completa dei bisogni umani come programma di azione politica immediata. La giustificazione economica o la definizione di questo postulato è una questione di secondaria importanza”. Babeuf l’aveva immaginato oltre un secolo prima,  nel sostenere che così si sarebbe razionalizzata al massimo produzione e distribuzione. Il che implica anche l’abolizione della proprietà privata (e altro). Scrive Galli che “Questo libro è dunque costruito su di un disegno unitario: secondo Talmon c’è un’obiettiva evoluzione della fede politica negli ultimi due secoli, dal postulato dell’armonia etica all’obiettivo dell’uguaglianza economica e della felicità universale”, e i fondamenti hanno più a che fare con l’armamentario dell’illuminismo, in particolare con la virtù, principio politico secondo Montesquieu della democrazia, onde dev’essere, se insufficiente, imposta. Nella nota aggiunta a questa edizione, Galli ritiene che “il rovesciarsi della democrazia in dominio, è nel frattempo emerso come rischio immanente non solo allo Stato sociale ma anche alle cosiddette «società aperte» che lo hanno (parzialmente) sostituito e che all’individuo, ai suoi diritti e al suo libero agire economico, affidano il compito di evitare gli effetti totalitari della politica”; infatti anche tale ordine “pretende apertamente di costituire una totalità omogenea, priva di alternative – peraltro non certo immune dalle logiche più dure della politica”.

In conclusione il messianismo politico e la di esso compagna inseparabile, cioè l’eterogenesi dei fini può trovare la principale spiegazione nel rapporto tra immaginazione e realtà. Il messianismo si nutre della prima, ma finisce per essere succube della seconda. La quale recupera, trasformandone i risultati, che confermano le regolarità e i presupposti del politico. Questo a meno che, come scriveva Gaetano Mosca, certe costruzioni siano non “sogni di uno sciocco”, ma furberie da ipocriti. Come spesso succede.

Teodoro Klitsche de la Grange

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LA PRASSI DELLA LEGALITÀ CONTRO LA LEGITTIMITÀ, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA PRASSI DELLA LEGALITÀ CONTRO LA LEGITTIMITÀ

Non meraviglia che un Tribunale francese abbia condannato Marine Le Pen e, quel che più conta, l’abbia interdetta dal candidarsi alle prossime elezioni. Non sorprende perché il tutto segue un copione ben noto (la cui prova generale fu fatta, in questo secolo, proprio in Italia con la defenestrazione di Berlusconi nel 2011) di estromettere dal potere attraverso decisioni giudiziarie, coloro che con quelle elettorali, cioè democratiche, non lo perderebbero.

Le prospettive da cui giudicare ciò sono molteplici e sempre concorrenti: dalle regolarità (Miglio) della competizione per il potere alla necessità di una situazione eccezionale, dalla conformità (asserita) a regole inviolabili (la cui origine va dalla divina a scendere) al clamore assorbente della propaganda ad ampio spettro.

Mi preme evidenziarne due, forse le meno (o punto) ricordate sui media: il conflitto tra legittimità e legalità e il comportamento (ricorrente) delle élite decadenti.

Quanto al primo problema la distinzione tra legalità e legittimità, a leggere in rete, è normalmente così espressa “La legalità innanzitutto viene definita come la condizione di conformità alla legge e a quanto essa prescrive o vieta. Il termine legalità quindi non può essere riferito ad ogni atto, azione, provvedimento che rispetti la legge in vigore… Lì dove per legalità s’intende la conformità di un atto con l’insieme delle leggi dello Stato, la legittimità sta ad indicare il fondamento stesso del diritto dello Stato, ovvero il criterio a cui si rifà chi detiene il potere di legiferare – cioè il potere di dare forma alla legalità – o eventualmente chi lo contesta”; ovvero “Legalità può sinteticamente significare soggezione alla legge, o anche rispetto della legge. In questa accezione si è parlato, almeno sin dall’Ottocento, di principio di legalità… Legittimità invece significa, piuttosto, conformità ad una legge, cioè corrispondenza di un atto o di un comportamento specifici al modello astratto configurato da una norma di legge”. Hasso Hofmann scrive che “Schmitt pone il problema della legittimazione dell’autorità da legittimare con una svolta antitetica rispetto al presunto funzionalismo privo di contenuto della legalità dello Stato di diritto e spinge il concetto di legittimità in una inusuale e provocatoria contrapposizione con il concetto di legalità”. E in effetti il problema del legittimo fondamento del potere si pone dalla constatazione che questo è oggetto di conquista, cioè di un fatto storico, prima che modificazione, anche profonda di norme giuridiche. Per lo più questa è conseguente a quello, e talvolta (poche) non è una reale fine e rinascita dell’ordinamento, ma solo una di esso revisione, ancorché profonda.

Lassalle descriveva bene questo rapporto tra situazione reale (i “rapporti di forza”) e redazione documentale “Questi effettivi rapporti di forza li si butta su un foglio di carta, si dà loro un’espressione scritta, e, se ora sono stati buttati giu, essi non solo sono rapporti di forza effettivi, ma sono anche diventati, ora, diritto, istituzioni giuridiche, e chi vi oppone resistenza viene punito”.

Ne consegue che giudicare legittimo un ordinamento è confrontare la corrispondenza tra fatti generatori e successivi comportamenti, in primo luogo, quello dei governati, se considerano che chi ha afferrato (e consegnato) il potere abbia il “diritto” di esercitarlo. Come scriveva Santi Romano, un ordinamento così acquista vitalità e durata. Il che non ha nulla a che fare con la legalità, come sopra intesa. Se la storia, come diceva Pareto, è un cimitero di aristocrazie, data la successione di élite, regimi e sintesi politiche, è la legittimità a determinare l’ordine concretamente esistente, e non il legale – raro – avvicendamento tra quelli.

Ciò stante la legalità può essere legalmente utilizzata anche per realizzare fini contrapposti a quelli dell’ordinamento legittimo. Lo teorizzava da rivoluzionario Lenin. Ma il caso più frequente è che se ne  serva chi esercita il potere per conservarlo a scapito delle élite emergenti.

E’ questa la via che vogliono far percorrere le élite  europee (ma non solo) in “lista di sbarco”, forse anche nell’inconsapevolezza dei legali estensori delle decisioni relative. I quali possono sempre sostenere di aver osservato la legalità (norme, Stufenbau) cioè di avere il potere di decidere se il candidato rumeno escluso o Marine Le Pen fossero colpevoli dei reati loro ascritti e di averlo legalmente esercitato. Ma la conclusione, con l’interdizione ad esercitare o aspirare al potere politico, grava sull’esito elettorale e sulla legittimità dello stesso. In particolare in una democrazia governa chi è scelto (ha il consenso) dal popolo. Se si impedisce al capo dell’opposizione di presentarsi alle elezioni si annulla la prerogativa del popolo di designare chi governa. Cioè il contenuto essenziale e principale della democrazia politica.

D’altro canto, soggetti dell’ordinamento internazionale sono coloro che esercitano il potere effettivo e non quelli che hanno diritto ad esercitarlo. Tant’è che persino i movimenti rivoluzionari conquistano una loro soggettività in conseguenza del potere esercitato, anche se in situazioni incerte (e precarie) su popolazione e zone di territorio. Vale sempre il principio generale di Spinoza che tantum juris quantum potentiae; costruire e garantire un ordine senza il potere è impossibile. Una delle conseguenze ne è, per l’appunto che il soggetto in diritto internazionale è colui che, di fatto esercita il potere e non chi ha il titolo legale a detenerlo.

Ciò stante, nella specie, il far confliggere legalità e legittimità  è semplice, anche laddove l’uso della legalità non fosse strumentale. Se una corretta decisione giudiziaria consiste in una logica e motivata sussunzione di una fattispecie a una norma, non significa che sia politicamente opportuna e conveniente. Diversamente una decisione politica opportuna e conveniente non significa che sia lecita e conforme a norme (anzi spesso non lo è).

Quel che però conta di più – ed è un bene in se – è che questa sia legittima: abbia con ciò il quantum di consenso dei governati necessario a non interrompere il rapporto tra vertice e base, capi e seguito. Proprio quello che manca alle élite decadenti (e alla burocrazia) che perdono consenso e potere.

Lo stesso uso strumentale della legalità è un sintomo di decadenza.

E con ciò passiamo al secondo tema. Pareto, che considerava regolare il movimento ondulatorio delle comunità, che alternavano periodi di crescita e di decadenza, considerava manifestazioni di declino delle classi dirigenti il richiamarsi a derivazioni (ossia a giustificazioni del potere) miti (umanitarie, buoniste), all’uso prevalente dell’astuzia piuttosto che alla forza, alla chiusura della circolazione delle élite.

In diversa misura e in modi analoghi le élite euroccidentali in decadenza li manifestano tutti: dagli invocati diritti umani, alla “fine della storia”, dalla lotta climatica, ai vaccini,  ecc. ecc.

All’uso strumentale e indiretto delle varie emergenze (virus, clima, guerra) si accompagna la propaganda che talvolta attinge a livelli grotteschi: Non ho prove che i Tribunali, da Berlusconi in poi, abbiano fatto un uso strumentale della giustizia, ma è evidente che l’abbiano fatta le élite decadenti (e i loro corifei) ed è altrettanto sicuro che il copione sia stato ripetuto più volte fino alla Le Pen. Onde pensare che sia voluto e programmato non è da respingere.

Da evitare è l’adeguarvisi.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Milton Friedman, Non esistono pasti gratis, Liberilibri_recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Milton Friedman, Non esistono pasti gratis, Liberilibri, Macerata 2025, pp. 141, € 16,00.

Il libro è una raccolta di saggi dell’economista sulfureo premio Nobel (bestia nera del pensiero conformista e talvolta anche di quello anticonformista) preceduta da una lunga e brillare intervista a Playboy, che funge da introduzione al suo pensiero.

Che è quello, per così dire, di un realista liberale che non crede né all’uomo nuovo, né al buonismo di governo, ma di come “mettere a frutto” l’interesse personale di ciascuno di guisa che sia realizzato quello di tutti.

Demolisce così i capisaldi del Welfare State: le storture che provoca, la pressione fiscale eccessiva, la burocrazia ridondante, gli sprechi che ne conseguono. Spesso Friedman suggerisce le misure alternative liberiste: in particolare l’imposta negativa sul reddito (che sostituisce le altre forme di assistenza pubblica) e il buono-scuola.

Tutto questo ha dei precedenti noti nel pensiero nordamericano (e ovviamente non sono in quello). A cominciare dall’antropologia negativa enunciata nel Federalista per sostenere lo Stato liberal-democratico: se gli uomini fossero angeli, non occorrerebbero i governi, se lo fossero i governanti non servirebbero i controlli sui governi; dato però che di angeli non se ne vedono, sono necessari i governi e i controlli sui governi. Per continuare poi,  nel secolo XX con gli scritti dei teorici della public choice, oltre s’intende Hayek, Mises e gli economisti liberisti non americani.

Dato che i saggi sono “ad ampio spettro” ovvero affrontano i problemi più disparati non posso che rinviare alla lettura del volume, limitandomi ad alcune considerazioni.

In primo luogo quanto scrive Friedman corrisponde, sulla coniugazione degli interessi personali con quello generale, con l’abituale tecnica del giurista, e i particolare del legislatore. Tanto per ricordare è la tesi esposta (tra i tanti) da Jhering che ironizzava sul contrario ricordando ai di esso sostenitori che facevano come S. Crispino che rubava il cuoio ai ricchi per fare stivali ai poveri. Resta il fatto che il cuoio rubato dal sant’uomo qualcuno doveva aver lavorato per produrlo (anche perché nessun pasto è gratis).

Secondariamente le obbligazioni-scambio, cioè quelle di diritto privato, sono fondate su due capisaldi: l’autonomia negoziale e la responsabilità patrimoniale. Ambedue assenti, ridotte o diverse nelle obbligazioni pubbliche, basate sul rapporto di comando-obbedienza. Due delle proposte di Friedman importano i principi delle prime nell’ambito – per quanto possibile – delle seconde. Per cui garantendo reddito ed istruzione, consentono all’assistito di scegliere (la scuola, come spendere il denaro dell’imposta negativa). Col risultato di incrementarne l’effetto positivo e di ridurre gli sprechi (ad esempio, istituti d’istruzione o presidi sanitari inutili perché poco frequentati).

E in terzo luogo riduce la capacità di coalizzarsi e corporativizzarsi dei tax-consumers, cioè di coloro che beneficiano della spesa pubblica perché vivono non dell’assistenza, ma dell’erogazione dell’assistenza. Aiutando così a risolvere il problema della qualità e congruità del servizio. Ma ancor più evitando la costruzione di “carrozzoni” d’imprese pubbliche costose e di dubbia utilità (economicità, efficienza). Si salva così l’assistenza, ma si evita la creazione di enti alla stessa preposti. Strada, quest’ultima, spesso seguita.

Insomma c’è tanto da imparare da questo libro, specie per gli italiani tartassati  da un carico fiscale enorme cui corrispondono servizi mediocri o carenti.

Buona lettura.

Teodoro Klitsche de la Grange

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VESPAIOTENE 2.0_di Teodoro Klitsche de la Grange

VESPAIOTENE 2.0

Non è un caso che la domanda della giornalista maltrattata da Romano Prodi riguardasse, tra i vari punti dolenti del Manifesto di Ventotene, quello sulla proprietà privata, né che era quello cui era più difficile che l’interpellato rispondesse. Ciò, in quanto è quello dove la prassi costante e la legislazione delle istituzioni europee è stata la più distante da quella espressa dal documento.

La proprietà è diritto garantito dalle costituzioni degli Stati fondatori (i sei iniziali): dall’art. 14 della Grundgesetz tedesca, dall’art. 11 di quella belga, dall’art. 42 dell’italiana, dall’art. 16 della lussemburghese. Per la Francia vale, come diritto vigente, la dichiarazione dei diritti del 1789, come richiamata dal Preambolo della Costituzione della V repubblica. L’art. 17 della suddetta dichiarazione dispone “Essendo la proprietà un diritto sacro ed inviolabile, nessuno ne può essere privato, se non in caso di pubblica necessità, legalmente accertata, la quale l’esiga con evidenza, e a condizione del pagamento di una giusta e preventiva indennità”. Pur con minore enfasi, tutte le disposizioni delle Costituzioni europee citate (influenzate dalla citata dichiarazione dei diritti), tutelano la proprietà, l’accesso alla stessa e la relativa possibilità di espropriarla.

Date queste premesse, nel diritto europeo, come risultante sia dalla normativa sia (principalmente) dalla giurisprudenza della Corte EDU, sia da quella della Corte di giustizia dell’Unione europea, il diritto di proprietà ha fondamentale importanza.

Infatti viene considerato dalla Carta di Nizza del 2000 quale situazione soggettiva di potere la cui tutela deve manifestarsi in una forma più «intensa» rispetto a quanto previsto nell’ambito dei rapporti economici. L’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, considera il diritto di proprietà quale diritto dell’individuo.

Esso, infatti, dispone che «ogni individuo ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquistato legalmente, di usarli, di disporre e di lasciarli in eredità» e e che «l’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti dall’interesse generale».

Inoltre è garantita anche dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Ad essa è dedicato l’art. 1 del primo Protocollo («Protezione della proprietà») addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo, firmato a Parigi nel (lontano) 1952. Sulla nozione di «bene» la Corte di Strasburgo si è soffermata ripetutamente, con conseguente ampliamento delle fattispecie giuridiche rientranti in codesta categoria. Così ha sussunto nella garanzia del cittadino tutti i beni (in certi casi anche crediti) spettanti allo stesso.

Dato che non sempre la legislazione italiana è stata rispettosa della proprietà privata come disposto sia dall’art. 42 della Costituzione che dalla normativa europea, gli organi giurisprudenziali europei l’hanno ripetutamente bacchettata.

A ricordare solo alcune delle sentenze della Corte EDU, bacchettatrici della legislazione italiana, ricordiamo (limitandoci ad alcune delle più recenti): Scardaccione/Italia del 07/11/2024 (sull’eccessiva durata degli sfratti); Cutelli + 1/Italia del 07/11/2024 (sull’occupazione appropriativa); Varvara/Italia dell’11/10/2024 (sulla confisca). Di guisa che, anche richiamando questa costante giurisprudenza, la Corte costituzionale italiana ha pronunciato molte sentenze di annullamento di disposizioni legislative, che riconoscevano indennizzi troppo inferiori al valore di mercato del bene ablato: le sentenze 348/2007 e 349/2007 della Corte costituzionale (sull’indennizzo pari alla media tra valore di mercato e valore catastale) o la 181/2011 (sul criterio dell’indennizzo pari al valore agricolo medio).

Da questa mole di norme e decisioni contrarie alle affermazioni sulla proprietà privata nel Manifesto di Ventotene è chiaro che Prodi, già Presidente della Commissione dell’UE, si sentiva profondamente imbarazzato: se avesse risposto si, avrebbe smentito legislazione e giurisprudenza europea (sia della UE, ma ancor più della Corte EDU, organo del Consiglio d’Europa), se invece avesse risposto negativamente sarebbe andato contro la sacralizzazione del Manifesto di Ventotene operata dalla sinistra.

Per cui era meglio, come ha preferito fare, non rispondere, quasi addossando alla peculiarità della situazione dei confinati le espressioni del documento. E tirando la ciocca dei capelli  alla giornalista impertinente.

Teodoro Klitsche de la Grange

Vespaiotene, di Teodoro Klitsche de la Grange

VESPAIOTENE

L’ultimo vespaio suscitato dal discorso della Meloni alla Camera per le citazioni del “Manifesto” di Ventotene, si presta ad una serie di considerazioni, che vado ad enumerare:

1) Come succede spesso il “Manifesto” è assai più citato che letto, e i di esso estimatori (di professione) non hanno l’accortezza di citare i passi interpretati (magari corredandoli con l’indicazione relativa come i versetti della Bibbia o i frammenti del Digesto). Per cui complicano il lavoro del lettore curioso che voglia approfondire e controllare. A pensar male la prassi sarebbe volontaria, con l’effetto (voluto) di ascrivere a Rossi o a Spinelli le idee dell’interprete.

2) Le affermazioni del “Manifesto” citate dalla Meloni – e comunque oggetto della discussione, concernono idee che, all’epoca della redazione del “manifesto” (1941) erano diffuse e dibattute, in particolare tra intellettuali e politici.

Le ricordiamo: “La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria” e “Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente” (sulla democrazia).

E sul carattere dell’auspicata rivoluzione “La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista”.

Sulla proprietà: “la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita e tollerata solo in linea provvisoria quando non se ne possa proprio fare a meno… La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio”.

Sul rapporto tra popolo e partito dirigente: “Durante la crisi rivoluzionaria […] (il movimento, ndr) attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto non da una preventiva consacrazione da parte dell’ancora inesistente volontà popolare, ma dalla coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società… Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo Stato, e intorno a esso la nuova vera democrazia”.

Tutte tali affermazioni, inequivocabili, corrispondono a convinzioni allora diffuse, ma che le vicende successive – e la stessa evoluzione di Rossi e Spinelli – hanno cambiato spesso radicalmente.

Ernesto Rossi fu un benemerito sostenitore del liberismo contro i monopoli; Spinelli fu a favore del Piano Marshall e nel corso della sua carriera politica, pur sempre di sinistra, non risulta che avesse posizioni o prassi simili a quelle esposte nel Manifesto prima sintetizzate.

Fa in particolare impressione il rapporto tra rivoluzionari e masse (sia movimenti politici che cittadini comuni). Quanto ai primi nel manifesto si criticano i partiti (e loro dirigenti) democratici: che questi «Credono nella “generazione spontanea” degli avvenimenti e delle istituzioni, nella bontà assoluta degli impulsi che vengono dal basso. Non vogliono forzare la mano alla “storia” al “popolo” al “proletariato” o come altro chiamano il loro dio… Sono perciò dirigenti adatti solo nelle epoche di ordinaria amministrazione, in cui un popolo è nel suo complesso convinto della bontà delle istituzioni fondamentali, che debbono essere ritoccate solo in aspetti relativamente secondari. Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente».

Il popolo, nelle situazioni rivoluzionarie è disorientato «Mille campane suonano alle sue orecchie, con i suoi milioni di teste non riesce a raccapezzarsi, e si disgrega in una quantità di tendenze in lotta tra loro» e conseguentemente «i democratici si sentono smarrirti non avendo dietro uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni; pensano che loro dovere sia di formare quel consenso, e si presentano come predicatori esortanti, laddove occorrono capi che guidino sapendo dove arrivare… Man mano che i democratici logorassero nelle loro logomachie la loro prima popolarità di assertori della libertà, mancando ogni seria rivoluzione politica e sociale, si andrebbero immancabilmente ricostituendo le istituzioni politiche pretotalitarie, e la lotta tornerebbe a svilupparsi secondo i vecchi schemi della contrapposizione delle classi».

Anche i comunisti, col loro classismo «costituiscono nei momenti decisivi un elemento settario che indebolisce il tutto» per cui «Una situazione dove i comunisti contassero come forza politica dominante significherebbe non uno sviluppo non in senso rivoluzionario, ma già il fallimento del rinnovamento europeo». Invece il «partito rivoluzionario non può essere dilettantescamente improvvisato nel momento decisivo, ma deve sin da ora cominciare a formarsi almeno nel suo atteggiamento politico centrale, nei suoi quadri generali e nelle prime direttive d’azione… dalla schiera sempre crescente dei suoi simpatizzanti deve attingere e reclutare nell’organizzazione del partito solo coloro che abbiano fatto della rivoluzione europea lo scopo principale della loro vita… e costituiscano così la solida rete che dia consistenza alla più labile sfera dei simpatizzanti…Durante la crisi rivoluzionaria spetta a questo partito organizzare e dirigere le forze progressiste, utilizzando tutti quegli organi popolari che si formano spontaneamente come crogioli ardenti in cui vanno a mischiarsi le forze rivoluzionarie, non per emettere plebisciti, ma in attesa di essere guidate»[1].

È evidente l’influenza del modello del partito rivoluzionario-totalitario e, soprattutto, l’insegnamento di Lenin. Il quale nel “Che fare?” scriveva:  il “nostro compito pratico più urgente: creare un’organizzazione di rivoluzionari capace di garantire alla lotta politica l’energia, la fermezza e la continuità” e affermava “che  non potrà esservi un movimento rivoluzionario solido senza un’organizzazione stabile di dirigenti che ne assicuri la continuità… che tale organizzazione deve essere composta principalmente di uomini i quali abbiano come professione l’attività rivoluzionaria”. È inutile poi ricordare il ruolo guida che, nel pensiero di Gramsci ha il partito rivoluzionario o la sua organizzazione tattico-insurrezionale (Malaparte). Giudizi in cui il consenso, la democrazia, la legittimità sono quasi sempre un impaccio, e comunque non costituiscono né una condizione né una preoccupazione. Secondo Malaparte alla tattica insurrezionale dei bolscevichi non servivano le masse, ma nuclei ristretti, esperti e organizzati Tutto il resto delle citazioni della Meloni (estratte dalle più numerose conferme esposte nel Manifesto) concernenti socialismo, proprietà (dei mezzi di produzione) più che proprietà in genere, sono state superate dall’attuale EU, che sicuramente non è socialista, è contraria a ogni nazionalizzazione dei mezzi di produzione (e così via).

Cos’è   ancora vivo nel Manifesto di Ventotene, esaminandolo con un occhio realista?

A mio avviso principalmente due cose: il giudizio che in un’epoca di potenze continentali, gli Stati nazionali sono superati  non avendo ma massa critica per competere con le superpotenze in essere o in fieri (oggi USA, Cina, India, Russia e forse Brasile). È un buon argomento per costruire uno Stato federale europeo come quello auspicato dal Manifesto.

La seconda: che Rossi e Spinelli non credevano ad una “unione” che prescindesse dall’elemento decisivo perché unione ci sia: un potere sovraordinato ai singoli Stati, come scriveva il giovane Hegel sul Sacro Romano Impero (allora in via di estinzione), al quale mancava proprio quello. L’insistenza sul partito rivoluzionario e l’indifferenza verso il consenso e le procedure democratiche non è altro che la riproduzione nella prima metà del XX secolo della essenzialità per una sintesi politica di avere un centro unificatore supremo (Hegel). all’epoca del filosofo era il monarca assoluto, ai tempi di Rossi e Spinelli, era diventato il partito rivoluzionario che, esercitando la dittatura, costruiva un nuovo ordine. Al contrario dell’UE attuale, la quale ha unificato molte cose, ma non il potere (decisivo e superiore) ai singoli Stati, ma si è limitata ad alcuni “rami bassi”. Anzi in Italia è stato teorizzato il “vincolo esterno” che si presta a questa unificazione delle mezze misure. Dai tappi delle bottiglie in su. Cioè di ciò che non è (o è poco) politico.

E, anche per ciò, il Manifesto, liberato da utopismo e condizionamenti d’epoca, può dirci ancora qualcosa.

Teodoro Klitsche de la Grange


[1]      I corsivi sono miei.

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