Blinken: eccezionalismo USA, scontro fra grandi potenze, e guerra a oltranza in Ucraina, di Roberto Iannuzzi

Già nell’ottobre scorso il sito di Italia e il mondo aveva sottolineato le novità presenti nel piano strategico NSS presentato da Biden e nelle conferenze di Sullivan. Roberto Iannuzzi offre il suo contributo di approfondimento sul tema mettendo a nudo soprattutto l’ipocrisia, le rimozioni sottese e l’istigazione al caos consapevole, presenti nel discorso di Blinken, in questo cambio di paradigma. Una critica più cogente delle scelte dell’attuale leadership statunitense avrebbe bisogno di ulteriori puntualizzazioni:

  • non si tratta di un confronto tra “deregolamentazione” e regolamentazione dell’ordine globale, quanto di diversi modelli di ordinamento e minore arbitrarietà di applicazione di questi
  • il problema fondamentale degli Stati Uniti è quello di mantenere all’interno del proprio sistema di alleanze l’esclusiva dei rapporti di conflitto e cooperazione con le potenze rivali ed avversarie. Attraverso questa chiave andrebbero lette le recenti perorazioni della Yellen, la sua flessibilità nella costruzione dei rapporti con la Cina e l’estremo rigore che al contrario si pretende dai paesi europei.
  • contrariamente a quanto sosterrebbe Blinken nel suo intervento e sulla falsa riga delle tesi del NSS, lo stesso tema della democrazia non sarebbe più il discrimine fondamentale nel determinare la natura dei rapporti internazionali e gli schieramenti, quanto piuttosto l’adesione al proprio sistema di regolamentazione delle relazioni economiche e politiche. Un approccio che stride platealmente con la attribuzione agli avversari e competitori esterni di quella visione totalitaria che si sta cercando di introdurre surrettiziamente al proprio interno. Una caratteristica che indebolisce la vena polemica e la motivazione infusa nel discorso di Blinken

Sta di fatto che l’attuale leadership sta iniziando a porsi il problema di una ricostruzione delle proprie relazioni e dei propri sistemi di alleanze all’interno di una visione bipolare che vede nel binomio sino-russo il polo avversario designato; come pure appare consapevole della necessità di ricostruire in qualche maniera al proprio interno un modello di coesione sociale che garantisca energia necessaria ai propri propositi e all’esterno una ridefinizione della divisione del lavoro circoscritta al proprio polo. Nelle more su questo si segna il destino di paesi come la Germania e l’Italia, ma anche del Giappone; all’interno di questo disegno si deve inquadrare l’azione del Governo Meloni e lo stretto sodalizio che sta costruendo con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Tornando ai centri decisori statunitensi, li attende un compito immane, difficilmente raggiungibile; ma non va sottovalutata la forza e la capacità di cui ancora dispongono. Lo stesso fatto che si pongano pur tardivamente questi termini porterà ad una ennesima scomposizione e ricomposizione degli schieramenti politici statunitensi, impossibili al momento da prevedere nelle dinamiche e nei contenuti concreti.

La vera ossessione che turba l’attuale leadership è quella di impedire il multipolarismo, il vero incubo di questa amministrazione, ma anche il tema per vari motivi sino ad ora eluso nello scacchiere geopolitico dalle forze emergenti, impegnate a perorare un sistema di regole concordate e non imposte tra i vari attori e un multilateralismo che rifugge da vere e proprie alleanze politiche stabilmente definite, se non contrapposte. Come una delle tante nemesi che avvolgono la storia, è proprio il perdurare dell’oltranzismo e dell’avventurismo statunitense a creare le condizioni del suo avvento o di una sua accelerazione contro tutto e contro tutti. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Blinken: eccezionalismo USA, scontro fra grandi potenze, e guerra a oltranza in Ucraina

Col tramonto dell’egemonia unipolare americana, il manicheismo di Washington richiede un mondo diviso, e un conflitto armato di lunga durata che perpetui questa divisione.

29 set 2023
Il segretario di Stato USA Antony Blinken (2021) (Public Domain)

“Ciò che stiamo vivendo oggi è ben più di una messa alla prova dell’ordine mondiale post-Guerra Fredda, è la sua fine”.

A pronunciare queste parole è stato il segretario di Stato USA Antony Blinken, in un discorso tenuto il 13 settembre alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies (SAIS), uno dei “templi” del pensiero strategico americano.

La SAIS fu fondata nel 1943 da Paul Nitze, considerato uno degli architetti della politica di difesa americana durante la Guerra Fredda. Nitze fu il principale autore dell’NSC 68, un documento del Consiglio per la Sicurezza Nazionale che pose le basi per la militarizzazione della Guerra Fredda dal 1950 in poi, con l’espansione del bilancio del Pentagono, lo sviluppo della bomba all’idrogeno e l’incremento degli aiuti militari agli alleati di Washington.

Settantatré anni dopo, Blinken ci pone di fronte alla prospettiva di una nuova, e forse più pericolosa, guerra fredda contro non una, ma due potenze nucleari: Russia e Cina.

Quella di Blinken non è una visione personale, ma riflette quanto già affermato nella Strategia di Sicurezza Nazionale formulata dall’amministrazione Biden nell’ottobre del 2022.

Una crisi senza cause apparenti

Di fronte alla platea della SAIS, Blinken ha decretato la fine dell’era unipolare americana, e l’inizio di una cupa fase di conflitto.

Secondo il segretario di Stato, la fine della Guerra Fredda aveva “portato con sé la promessa di una marcia inesorabile verso una maggiore pace e stabilità, cooperazione internazionale, interdipendenza economica, liberalizzazione politica, e diritti umani”.

Tuttavia, “decenni di relativa stabilità geopolitica hanno lasciato il posto a una crescente competizione con potenze autoritarie e revisioniste”.

Blinken non spiega come ciò sia accaduto, e non fa alcuna autocritica.

Trent’anni di globalizzazione all’insegna della deregolamentazione dei mercati, di ortodossia neoliberista che ha tagliato le tasse alle grandi imprese e favorito le classi più ricche, di delocalizzazione della produzione e conseguente deindustrializzazione che ha duramente colpito la classe lavoratrice, non vengono neanche marginalmente considerati nel discorso di Blinken.

La continua erosione dei salari, della produttività e della partecipazione della forza lavoro, l’aumento esponenziale delle disuguaglianze, la promozione di un’economia di consumo di massa fondata in ultima analisi sul crescente indebitamento degli USA, sono elementi che il segretario di Stato tralascia completamente.

Trent’anni di avventurismo militare, dall’Iraq, ai Balcani, all’Afghanistan, e di interventi diretti o indiretti in Libia, Siria, Yemen, hanno avuto un ruolo determinante nel delegittimare lo status di potenza egemone, e di “leader del mondo libero”, che gli Stati Uniti si attribuivano.

Blinken non fa alcuna menzione di questi fattori che hanno contribuito ad accelerare il tramonto della supremazia unipolare americana.

La sua spiegazione è molto più semplice: “Una manciata di governi che hanno utilizzato sussidi al di fuori delle regole, proprietà intellettuale trafugata, ed altre pratiche distorsive del mercato per ottenere un vantaggio sleale in settori chiave” sono citati fra i responsabili della progressiva perdita di fiducia nell’ordine economico internazionale.

Altri elementi vengono citati da Blinken – le trasformazioni tecnologiche, le disuguaglianze – ma senza in alcun modo indagarne le cause. Si ha la sensazione che si tratti di eventi ineluttabili che è superfluo approfondire.

La “minaccia delle autocrazie”

Per il segretario di Stato americano, le democrazie “sono minacciate” – non dalle scelte compiute dalle élite politiche che le hanno governate in questi decenni, dalla corruzione del processo democratico, e dalla progressiva limitazione dei diritti sotto la spinta di continue ‘emergenze’ terroristiche, economiche, e di altra natura – ma da leader “che sfruttano risentimenti e alimentano paure, erodono magistrature e media indipendenti, arricchiscono reti clientelari, reprimono la società civile e l’opposizione politica”.

Inoltre le democrazie sono minacciate dall’esterno “da autocrati che diffondono disinformazione, usano la corruzione come arma, interferiscono nelle elezioni”.

Fra questi attori, Blinken individua immediatamente i due principali responsabili:

“La guerra di aggressione della Russia in Ucraina rappresenta la minaccia più immediata e più acuta all’ordine internazionale sancito dalla Carta delle Nazioni Unite e dai suoi principi fondamentali di sovranità, integrità territoriale e indipendenza per le nazioni, e diritti umani universali e indivisibili per gli individui”.

“Nel frattempo, la Repubblica popolare cinese rappresenta la più significativa sfida a lungo termine perché non solo aspira a rimodellare l’ordine internazionale, ma sempre più dispone del potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per far proprio questo”.

Il 2 aprile 1917, il presidente Woodrow Wilson si rivolse a una sessione congiunta del Congresso americano per chiedere una dichiarazione di guerra contro la Germania, allo scopo di “rendere il mondo sicuro per la democrazia” (secondo quello che in realtà era uno slogan creato da Edward Bernays, esperto di marketing e nipote di Freud, considerato il padre delle “pubbliche relazioni”, e uno degli ideatori della propaganda americana durante il primo conflitto mondiale).

Blinken capovolge lo slogan di Wilson e Bernays, affermando che “Pechino e Mosca stanno lavorando insieme per rendere il mondo sicuro per l’autocrazia attraverso la loro ‘partnership senza limiti’”.

“Ci troviamo quindi in quello che il presidente Biden chiama un punto di svolta. Un’era sta finendo, ne sta iniziando una nuova, e le decisioni che prendiamo ora plasmeranno il futuro per decenni a venire”.

La missione “eccezionale” degli USA

Nella visione manichea del segretario di Stato USA, di fronte a questa sfida non vi è altra strada che quella della contrapposizione.

Non avendo compiuto alcuna analisi sulle ragioni della crisi americana, Blinken non ha difficoltà ad affermare che in questa sfida gli Stati Uniti partono da una “posizione di forza”.

Aderendo pienamente ai principi dell’eccezionalismo USA, egli afferma che “abbiamo dimostrato più e più volte che quando l’America si unisce, possiamo fare qualsiasi cosa”,  e che “nessuna nazione sulla Terra ha una maggiore capacità di mobilitare le altre per una causa comune”.

Tale causa consiste nella promozione di un mondo capitalistico idealizzato:

“Un mondo in cui gli individui sono liberi nella vita quotidiana e possono plasmare il proprio futuro, le proprie comunità, i propri paesi”.

“Un mondo in cui ogni nazione può scegliere la propria strada e i propri partner”.

“Un mondo in cui beni, idee, e individui possono circolare liberamente e legalmente per terra, mare, cielo, e cyberspazio, dove la tecnologia viene utilizzata per conferire potere alle persone, non per dividerle, sorvegliarle e reprimerle”.

“Un mondo in cui l’economia globale è definita da concorrenza leale, apertura, trasparenza, e dove la prosperità non si misura solo secondo il livello di crescita delle economie dei paesi, ma secondo il numero di persone che beneficiano di tale crescita”.

“Un mondo che genera una corsa verso l’alto negli standard lavorativi e ambientali, nella sanità, nell’istruzione, nelle infrastrutture, nella tecnologia, nella sicurezza e nelle opportunità”.

“Un mondo in cui il diritto internazionale e i principi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite siano osservati, e in cui i diritti umani universali siano rispettati”.

Che le politiche americane in questi decenni abbiano perseguito e raggiunto obiettivi spesso opposti alla visione idilliaca prospettata da Blinken non è questione che il segretario di Stato ha ritenuto utile affrontare nel suo discorso.

In questa visione in bianco e nero, gli avversari di Washington hanno naturalmente concezioni totalmente contrapposte:

“Essi vedono un mondo definito da un unico imperativo: preservazione e arricchimento del regime. Un mondo in cui gli autoritari sono liberi di controllare, costringere e schiacciare la propria gente, i propri vicini, e chiunque altro ostacoli questo obiettivo totalizzante”.

La visione americana ha valore universale. Chi la contraddice, contraddice principi assoluti:

“I nostri competitori affermano che l’ordine esistente è un’imposizione occidentale, quando in realtà le norme e i valori che lo definiscono hanno un’aspirazione universale – e sono sanciti dal diritto internazionale a cui essi hanno aderito. Costoro affermano che ciò che i governi fanno all’interno dei propri confini è di loro esclusiva competenza, e che i diritti umani sono valori soggettivi che variano da una società all’altra. Essi ritengono che i grandi paesi abbiano diritto a sfere di influenza – che il potere e la vicinanza diano loro la prerogativa di dettare le proprie scelte agli altri”.

Riaffermare il primato di Washington

Una volta appurato che sostanzialmente non vi è dialogo né mediazione possibile con gli avversari dell’America, Blinken passa ad enunciare il piano volto a far prevalere gli Stati Uniti in questa nuova competizione fra grandi potenze.

Nel far ciò, egli elabora ulteriormente i principi enunciati da due suoi colleghi all’interno dell’amministrazione Biden, il segretario al Tesoro Janet Yellen, e il Consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan.

La prima aveva parlato di una forma attenuata di “disaccoppiamento” dalla Cina denominata “de-risking”, ovvero la riduzione dei rischi derivanti da una sovraesposizione delle catene di fornitura occidentali alla Cina.

Il secondo aveva per la prima volta messo in discussione alcuni dogmi neoliberisti del “Washington Consensus”, puntando a “rinnovare la leadership economica americana” attraverso l’introduzione di dazi e sussidi, ed altre misure di politiche industriale (senza tuttavia accennare ad alcuna politica sociale minimamente in grado di affrontare lo squilibrio fra capitale e lavoro in patria).

Partendo da queste basi, Blinken enuncia una strategia volta in primo luogo a rafforzare gli USA al proprio interno, attraverso le già citate misure di protezionismo e politica industriale, a cui affiancare provvedimenti finalizzati al reshoring (ritorno in patria della produzione manifatturiera) e friend-shoring (ridefinizione delle catene di fornitura in modo da riportarle nell’alveo delle alleanze americane).

A questa politica di rafforzamento interno è inscindibilmente legata una strategia di consolidamento delle alleanze all’estero (in primo luogo con gli amici storici di Washington in Europa e nel Pacifico), e di tessitura di nuovi legami con i paesi del Sud del mondo, per sottrarli all’influenza russo-cinese, ed assicurarsi le materie prime necessarie a garantire le catene di fornitura occidentali, la transizione energetica, e gli altri traguardi tecnologici della cosiddetta “quarta rivoluzione industriale”.

Strategia “a geometria variabile”

In questo quadro di rafforzamento delle alleanze, secondo Blinken gli USA devono puntare in primo luogo a rinvigorire la NATO (operazione nella quale il conflitto ucraino gioca un ruolo chiave), il G7 (da egli definito “il comitato direttivo delle democrazie più avanzate al mondo”), e l’UE, oltre a rinsaldare alcune alleanze bilaterali – in particolare con Giappone, Corea del Sud, Israele, Australia, Filippine, India, Vietnam.

In tale sforzo, gli USA devono basarsi su una diplomazia “a geometria variabile” che, nelle parole di Blinken, può essere riassunta così: “per ogni problema, stiamo mettendo insieme una coalizione adatta allo scopo”.

Per il segretario di Stato, più di 50 paesi stanno cooperando per sostenere la difesa dell’Ucraina e costruire un esercito ucraino sufficientemente forte da scoraggiare futuri attacchi.

“Abbiamo coordinato il G7, l’Unione Europea e decine di altri paesi per sostenere l’economia dell’Ucraina e ricostruire la sua rete energetica, più della metà della quale è stata distrutta dalla Russia”.

“Nel frattempo, i paesi europei, il Canada, e altri, si sono uniti ai nostri alleati e partner in Asia per affinare i loro strumenti volti a contrastare la coercizione economica della Repubblica popolare cinese. E gli alleati e i partner degli Stati Uniti in ogni regione stanno lavorando urgentemente per costruire catene di fornitura resilienti, in particolare riguardo alle tecnologie chiave ed ai materiali cruciali per realizzarle”.

Cardine di questa diplomazia a geometria variabile sono i cosiddetti “minilaterals”, accordi “minilaterali” che riuniscono pochi paesi per perseguire obiettivi limitati.

Molti di questi accordi sono in realtà intesi come strumenti che, pur operando distintamente, sono volti nel loro insieme a contenere la Cina, nell’impossibilità di costruire un unico fronte anticinese esteso.

Fra essi spiccano l’AUKUS (patto di sicurezza fra USA, Regno Unito ed Australia volto a far acquisire a quest’ultima sottomarini nucleari), il Quad (partnership diplomatica e militare fra Australia, India, Giappone e USA), e la recente intesa trilaterale fra USA, Corea del Sud e Giappone.

A questi mini-accordi si affiancano partnership più estese come la Partnership of Global Infrastructure and Investment (PGII), il Lobito Corridor in Africa, e l’IMEC, corridoio economico fra India, Medio Oriente ed Europa recentemente lanciato da Wahington al G20.

Tali collaborazioni hanno l’aspirazione di contrastare la Belt and Road Initiative (BRI) cinese, pur non avendone la portata né un equiparabile volume di finanziamenti.

La guerra ucraina come “cardine” del nuovo scontro mondiale

Cerniera essenziale di questa nuova “guerra fredda”, che (sebbene in maniera ancora confusa) vede l’emergere di un’inedita contrapposizione fra blocchi, è il conflitto ucraino.

Nelle già citate parole di Blinken, “la guerra di aggressione della Russia in Ucraina rappresenta la minaccia più immediata e acuta all’ordine internazionale sancito dalla Carta delle Nazioni Unite”.

Egli sottolinea il valore “globale” di tale conflitto, affermando che “l’invasione della Russia ha messo in chiaro che un attacco all’ordine internazionale danneggerà i popoli ovunque”.

E, per certi versi, egli riconosce che, senza questa guerra, gli USA non sarebbero stati in grado di mobilitare i propri alleati nella nuova competizione fra grandi potenze: “Abbiamo sfruttato questa presa di coscienza per riunire i nostri alleati transatlantici e dell’Indo-Pacifico nella difesa della nostra sicurezza, prosperità e libertà condivise”.

Secondo la narrazione di Blinken, “la guerra di Putin continua ad essere un fallimento strategico per la Russia”, anche grazie “al notevole coraggio e alla resilienza del popolo ucraino, e al nostro sostegno”.

La guerra ucraina ha dunque assunto un valore cruciale nella nuova narrazione di Washington.

Avendo l’amministrazione Biden annunciato un inedito scontro globale fra l’Occidente e le potenze “autocratiche e revisioniste” di Russia e Cina, una sconfitta in Ucraina rappresenterebbe un colpo durissimo per la traballante reputazione degli Stati Uniti in questa sfida appena lanciata.

Come ho scritto in un recente articolo,

gli USA hanno a tal punto investito la loro credibilità in questo conflitto, lasciandosi coinvolgere militarmente oltre ogni ragionevole cautela, che un’eventuale vittoria della Russia in Ucraina sarà devastante per il prestigio di Washington e per la coesione del fronte occidentale e della NATO.

Irruzione della realtà

Tuttavia, in Ucraina sono proprio gli eventi sul terreno a non evolvere come Washington si augurava. Pur rifiutando ogni soluzione negoziale, la Casa Bianca non ha una chiara visione di come portare avanti il conflitto.

La controffensiva ucraina estiva ha ottenuto conquiste territoriali minime a fronte di enormi perdite in termini di uomini e mezzi, in massima parte infrangendosi contro l’impressionante sistema di strutture difensive costruito da Mosca.

Se Kiev è ormai drammaticamente a corto di nuove reclute da mandare al fronte, i paesi occidentali che sostengono l’Ucraina stanno seriamente intaccando i propri arsenali, mentre i ritmi di produzione della loro industria bellica non sono al momento in grado di competere con quella russa.

Di fronte a questa realtà, i diversi esponenti dell’amministrazione Biden, da Blinken allo stesso presidente e ad altri, continuano a ripetere il medesimo vago ritornello: gli USA appoggeranno l’Ucraina “per tutto il tempo necessario”.

Dietro l’ostentata sicurezza, vi è tuttavia la crescente (seppur tardiva) presa di coscienza che le tattiche fin qui adottate non hanno funzionato, e che è necessario un cambio di strategia.

La carenza di proiettili di artiglieria e di altri tipi di munizionamento, così come la penuria di uomini, impediranno nei prossimi mesi un’offensiva su vasta scala come quella tentata quest’estate.

Le limitate disponibilità degli arsenali occidentali, e una serie di appuntamenti elettorali che culmineranno con le presidenziali americane del novembre 2024, probabilmente ridimensioneranno il flusso di aiuti militari occidentali diretti a Kiev.

Necessariamente si tornerà ad una guerra di logoramento, nella quale gli ucraini saranno costretti più a difendersi che ad attaccare. Gli strateghi americani stanno già estendendo l’orizzonte temporale del conflitto nelle loro previsioni.

Impasse strategica e rischi di escalation

Allo stesso tempo, l’attenzione dei vertici militari occidentali si sta spostando sugli attacchi con missili a lungo raggio, come gli Storm Shadow britannici, in grado di colpire le retrovie russe e scompaginare le linee di rifornimento di Mosca.

Ciò sta già avvenendo in Crimea. Simili attacchi, tuttavia, non solo vengono effettuati con armi NATO, ma con supporto logistico e di intelligence occidentale, segnando un ulteriore grado di coinvolgimento degli USA e dei loro alleati nel conflitto.

Come ha scritto Hal Brands, docente presso la stessa SAIS dove Blinken ha pronunciato il suo recente discorso, un’intensificazione degli attacchi a lungo raggio, accompagnata dalla prospettiva di una guerra a più lungo termine, comporta l’accettazione di maggiori rischi di escalation.

Tale cambio di strategia, peraltro, molto difficilmente muterà le sorti dello scontro armato. Dopo il fallimento dell’offensiva di quest’estate, Kiev vede crollare le possibilità di riconquistare i territori perduti e si avvia verso una lunga guerra difensiva, che continuerà a prosciugare le sue risorse.

Gli attacchi in profondità in Crimea e in territorio russo, a prescindere dal rischio di escalation che comportano, non altereranno in maniera significativa l’andamento di un conflitto che sta volgendo al peggio per l’Ucraina.

La guerra a oltranza che Washington vuole sostenere nel paese porterà nuove tragedie e un fardello sempre più insostenibile per Kiev, ulteriori rischi di estensione del conflitto, e un progressivo deterioramento del clima internazionale, senza tirar fuori gli USA dal vicolo cieco strategico in cui si sono cacciati.

Gli USA e l’impoverimento dell’Europa, di ROBERTO IANNUZZI

Gli USA e l’impoverimento dell’Europa

Mentre Washington ha nuovamente imposto la sua “indispensabilità” nel continente europeo, l’Europa rischia di diventare la retrovia impoverita di un Occidente in declino.

21 LUG 2023
(Image by pxhere)

Lo scorso aprile, un trionfale articolo dell’Economist intitolato “The lessons from America’s astonishing economic record” affermava che “la più grande economia del mondo sta lasciando i suoi competitori sempre più nella polvere”.

La scomoda verità – ha però osservato Graham Allison, uno dei massimi politologi americani – è che l’Economist giunge a questa sbalorditiva conclusione proprio escludendo l’unico vero competitore degli Stati Uniti: la Cina.

Il paragone a cui si limitava il noto settimanale britannico era fra gli USA e gli altri paesi del G7. In questa competizione, gli Stati Uniti non solo sono avanti ma stanno accrescendo il loro distacco.

Il punto scottante, sottolinea Allison, è che a partire dalla fondazione del G7 circa mezzo secolo fa, la quota del PIL globale a cui contribuisce il gruppo è andata progressivamente diminuendo.

Queste sette economie, che negli anni ’70 del secolo scorso determinavano oltre il 60% dell’output mondiale, oggi ne rappresentano solo il 44% (appena il 30% se misurato a parità di potere d’acquisto).

Mentre la sfida decisiva dei prossimi anni sarà quella fra USA e Cina, ciò a cui stiamo assistendo è una sorta di “cannibalismo” economico fra paesi dell’Occidente.

Se nel 2008 l’economia dell’Unione Europea era poco più grande di quella americana (16,2 trilioni di dollari contro 14,7), nel 2022 l’economia USA ha raggiunto i 25 trilioni mentre quella di UE e Regno Unito insieme non ha toccato neanche i 20 trilioni.

Il divario continua ad aumentare, e non è solo una questione di tenore di vita. E’ la crescente dipendenza europea dagli Stati Uniti in materia di tecnologia, energia, finanza e difesa che sta erodendo ogni residua aspirazione di “autonomia strategica” dell’Europa.

Il panorama tecnologico europeo è dominato da compagnie americane come Microsoft, Amazon e Apple. Mentre la Cina ha sviluppato i propri giganti tecnologici, le poche compagnie europee che emergono vengono spesso acquistate dagli Stati Uniti.

Se nel 1990 l’Europa produceva il 44% dei semiconduttori a livello mondiale, questa percentuale è scesa attorno al 9% nel 2020. Con una quota pari al 12%, gli USA non se la passano meglio.

Ma mentre Washington ha messo in campo un’ambiziosa politica industriale con i provvedimenti dell’Inflation Reduction Act (IRA) e del CHIPS and Science Act, le grandi aspirazioni europee riguardo alla transizione ecologica ed a quella digitale rischiano di rimanere sulla carta.

Di fronte agli ingenti sussidi industriali messi in campo dall’IRA, che rischiano di svantaggiare pesantemente l’industria dell’UE, la Commissione Europea ha mostrato una sconcertante passività.

Nel frattempo, per il tanto sbandierato Green Deal europeo che dovrebbe costare 620 miliardi di euro, la Commissione ha stanziato appena 82,5 miliardi, lasciando presagire che esso rimarrà probabilmente poco più di uno slogan.

E mentre lo status di valuta di riserva mondiale di cui gode il dollaro permette a Washington di finanziare i propri piani, i problemi congeniti dell’unione monetaria europea pongono limiti molto più stringenti all’UE.

Dopo il crollo del muro di Berlino, per alcuni anni era forse sembrato che l’Europa fosse meno dipendente dall’America. Ma, puntando sull’allargamento a est della NATO e dell’UE, Washington ha creato un nuovo serbatoio di paesi strettamente legati agli USA, allo stesso tempo spostando il baricentro dell’Unione e dell’Alleanza Atlantica.

Sfruttando abilmente il conflitto ucraino, gli Stati Uniti hanno nuovamente imposto la loro indispensabilità nel continente europeo, spingendo i propri alleati a rompere ogni rapporto con Mosca ed a rinunciare alle fonti energetiche russe a basso costo.

Ciò ha creato un ulteriore squilibrio fra le due sponde dell’Atlantico. Mentre gli USA dispongono di proprie fonti di gas e petrolio a buon mercato, i prezzi energetici europei sono schizzati alle stelle.

La Germania, motore della crescita UE, ha visto il proprio modello di prosperità fondato sulle esportazioni progressivamente demolito dall’elevata inflazione e da spese quadruplicate a causa della sua improvvisa dipendenza dalle costose fonti energetiche statunitensi. Ciò ha posto il paese in recessione.

Il problema, comune ad altri paesi dell’Unione, accresce ulteriormente il rischio di una migrazione delle imprese europee sull’altra sponda dell’Atlantico, e di una progressiva deindustrializzazione del vecchio continente.

Gli europei hanno cominciato a impoverirsi. A differenza degli Stati Uniti, i consumi in Europa stanno diminuendo. L’Ue ora contribuisce al 18% della spesa globale per i consumi, a fronte di un contributo americano pari al 28%. Quindici anni fa, sia gli USA che l’UE contribuivano a circa un quarto di tale spesa.

Nel frattempo, la militarizzazione dell’Europa a seguito dello scontro con la Russia, in assenza di una robusta industria europea della difesa, è destinata a creare ulteriore dipendenza dall’industria bellica americana.

Già prima del conflitto, circa metà della spesa militare europea andava ad arricchire il complesso militare-industriale statunitense.

E alla luce della competizione con Pechino, Washington sta esercitando pressioni sui paesi europei affinché riducano anche i propri interessi commerciali ed i propri investimenti in Cina.

Nel panorama della nuova competizione globale, l’Europa rischia dunque di diventare la retrovia impoverita (se non addirittura il campo di battaglia) di un Occidente in declino.

https://robertoiannuzzi.substack.com/p/gli-usa-e-limpoverimento-delleuropa

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IL DISADATTAMENTO DELLE ELITES OCCIDENTALI. Intervista a Roberto Iannuzzi

 

Il sito italiaeilmondo.com ha iniziato a rivolgere quattro domande a Aurelien[1], e continua a proporle, identiche, a diversi amici, analisti, studiosi italiani e stranieri.

Oggi risponde Roberto Iannuzzi, che ringraziamo sentitamente per la sua gentilezza e generosità. Roberto Iannuzzi è stato ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). Il suo ultimo libro, Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo, è uscito nell’aprile 2017.

Qui il collegamento con la raccolta di tutti gli articoli sino ad ora pubblicati_Giuseppe Germinario, Roberto Buffagni

 

1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

Per comprendere quali sono state le ragioni degli errori occidentali (e bisogna distinguere quelli americani da quelli europei) nella crisi ucraina, è necessario partire da una premessa: l’Occidente attraversa una profonda crisi politica, economica, sociale e culturale, il cui spartiacque è rappresentato dal tracollo finanziario del 2008. Se l’11 settembre aveva segnato la crisi “culturale” (se mi si passa il termine) della globalizzazione nell’era unipolare americana, allorché l’omogeneizzazione senza precedenti imposta dal modello globalizzato occidentale aveva ceduto il passo alla logica dello “scontro di civiltà”, il tracollo finanziario del 2008 ha fatto emergere le gravi crepe presenti nelle fondamenta economiche di tale modello. Gli americani escono da quella crisi non solo con una credibilità a pezzi – agli occhi soprattutto del mondo non occidentale – riguardo al loro sistema finanziario ed al modello di globalizzazione da essi propagandato, ma anche con due guerre enormemente dispendiose e fallimentari alle spalle, in Iraq e Afghanistan. È l’eredità dell’era Bush, anche se la crisi ha radici più lontane. Da quel momento in poi, due dinamiche prendono corpo: da un lato il dibattito serrato, quasi ossessivo, all’interno dell’establishment USA su come ristabilire la credibilità ed il prestigio americano a livello internazionale. Dall’altro, il “risveglio” del cosiddetto “Sud del mondo”, il mondo non occidentale, trainato in gran parte dalla Cina. Pechino comincia a concepire un progetto per emanciparsi dalla dipendenza da Washington, che ormai viene vista più come un rischio che non come un vantaggio. Da qui prenderanno corpo i BRICS (alla cui nascita la Russia dà un contributo chiave, avendo già compreso con Primakov, alla fine degli anni ’90, di poter sopravvivere solo in un mondo multipolare), la via della seta, e le altre strutture del nascente multipolarismo. Nel frattempo a Washington, la presidenza Obama, che avrebbe dovuto essere quella del riscatto, si risolve in un fallimento. Obama dapprima annuncia il “pivot” verso l’Asia, cioè il ridispiegamento della parte più consistente delle forze navali USA nel Pacifico per contenere la Cina, e lancia l’idea di due gigantesche aree di libero scambio – la Trans-Atlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) e la Trans-Pacific Partnership (TPP) – per isolare Russia e Cina. Quello di Obama è di fatto il primo tentativo americano di smontare la globalizzazione nella quale gli USA non riescono più a primeggiare. Poi però, il presidente che doveva risollevare l’America, “stuzzicato” dalle rivolte arabe del 2011, si lascia “risucchiare” ancora una volta in guerre infruttuose e fallimentari in Medio Oriente, in particolare in Libia e Siria. Soprattutto questo secondo conflitto sarà causa di pericolose tensioni sul terreno, e di aspri confronti in sede ONU, con la Russia. Il pivot verso l’Asia, e le due aree di libero scambio nell’Atlantico e nel Pacifico, resteranno sulla carta. Sotto Obama abbiamo però anche il culmine dell’annoso processo di infiltrazione americana dell’Ucraina, in particolare tramite il costante sostegno statunitense ai nazionalisti del paese, con la rivolta di Maidan nel 2014 (scoppiata naturalmente anche per ragioni economiche e sociali) pesantemente appoggiata dagli USA. Basti ricordare le immagini di Victoria Nuland e John McCain nelle strade di Kiev. Il rovesciamento del presidente ucraino Viktor Yanukovych, e l’insediamento a Kiev di un governo nazionalista e violentemente antirusso, costituiscono il prologo indispensabile per comprendere l’attuale conflitto in Ucraina. La presa della Crimea da parte della Russia e lo scoppio della guerra civile in Donbass, dove il nuovo governo non viene riconosciuto, ne sono la prima conseguenza. Dopo le iniziali avvisaglie avutesi con il conflitto siriano, Maidan 2014 segna il riacutizzarsi di una guerra fredda fra USA e Russia che per gli angloamericani non si era mai realmente conclusa. Il rifiuto di accogliere Mosca, dopo il crollo del muro, in una comune architettura di sicurezza europea, in primo luogo a causa del veto di Washington e Londra, ha progressivamente trasformato i paesi dell’Europa dell’Est, tramite la continua espansione della NATO, nel fronte di un nuovo conflitto con l’erede dell’Unione Sovietica. La brama dell’establishment americano di ristabilire il “primato” degli USA, dopo la drammatica crisi del 2008, ha contribuito ad infiammare questo fronte mai realmente pacificato. Una costante del dibattito interno statunitense dopo il 2008 è stata infatti il dilemma riguardo a quale avversario affrontare e contenere prima: disimpegnarsi dal Medio Oriente o no? Affrontare prima la Russia o la Cina? Dopo la parentesi imprevista della presidenza Trump, manifestatasi proprio a causa del fallimento di Obama anche sul fronte interno, con Biden il confronto con la Russia riacquista la precedenza, mentre quello con la Cina, avviato dalla guerra dei dazi promossa dal suo predecessore, rimane principalmente sul piano delle contromisure economiche. Fin dal tentativo americano di isolare Mosca sia politicamente che economicamente, attraverso l’imposizione delle prime sanzioni, nella crisi internazionale seguita a Maidan 2014, si comprende qual è l’obiettivo di Washington: porre fine alla progressiva integrazione economica fra Russia ed Europa, riconducendo gli europei ad una più stretta fedeltà e dipendenza dall’alleato statunitense. Tale integrazione costituisce infatti un tassello essenziale della più vasta integrazione eurasiatica che rappresenta la principale minaccia al primato americano a livello mondiale. Appena entrato alla Casa Bianca, Biden dà nuovo impulso alla penetrazione della NATO in Ucraina, mai realmente interrottasi dal 2014 attraverso esercitazioni militari congiunte, invio di armi all’esercito ucraino, costruzione di basi navali e fornitura di navi da guerra compatibili con gli standard NATO, sostegno logistico e di intelligence alla campagna militare di Kiev nel Donbass. I preparativi ucraini per un’offensiva militare finalizzata a riguadagnare definitivamente il controllo sul Donbass, e la firma, nel novembre 2021, di una Carta di partnership strategica da parte di Washington e Kiev, che prevedeva fra l’altro l’impegno a ristabilire la “piena integrità territoriale” ucraina (inclusa la Crimea), sono gli ultimi elementi che probabilmente hanno spinto Mosca a ritenere che una guerra fosse inevitabile. Questa lunga premessa sulle fasi storiche che hanno preceduto lo scoppio del conflitto dovrebbe far comprendere, in primo luogo, che lo slogan occidentale della “aggressione non provocata” da parte di Mosca è in realtà un mito privo di fondamento. Un mancato intervento militare da parte del Cremlino avrebbe infatti potuto portare non solo alla totale sottomissione del Donbass, ma anche alla successiva perdita della Crimea e di Sebastopoli, dove risiede la base navale (per Mosca insostituibile) che ospita la flotta russa del Mar Nero. Temporeggiare ulteriormente avrebbe dunque potuto comportare per Mosca l’estromissione di fatto dal Mar Nero e la trasformazione dell’Ucraina in un paese completamente integrato con la NATO, che a quel punto sarebbe potuto diventare membro effettivo dell’Alleanza, eventualmente schierando missili in grado di raggiungere Mosca in 4-5 minuti. Un esito inaccettabile per la Russia qualora non avesse voluto rassegnarsi al proprio inarrestabile declino. Del resto Washington era consapevole del fatto che la Russia sarebbe probabilmente intervenuta, poiché Mosca aveva tentato un ultimo approccio diplomatico nel dicembre 2021, presentando ai negoziatori USA un trattato vincolante, di fatto una sorta di ultimatum, che la Casa Bianca rifiutò. Da ciò segue che i decisori politico-militari occidentali – in particolare quelli americani – dovevano quantomeno aspettarsi che la deflagrazione di un conflitto fosse del tutto plausibile. Ed in effetti, nelle settimane che hanno preceduto l’invasione russa dell’Ucraina, l’intelligence statunitense aveva incessantemente fatto trapelare sulla stampa notizie sull’imminenza dell’intervento di Mosca. Si può dunque concludere che la scelta americana di spingere la Russia verso un possibile conflitto sia stata consapevole. Naturalmente, si può affermare che questo sia stato il principale errore strategico di Washington. Altri sosterranno invece che gli USA hanno ottenuto ciò che volevano, ovvero separare la Russia dall’Europa e riaffermare l’egemonia americana sul vecchio continente. Il punto dirimente, a questo riguardo, sono gli enormi costi che una scelta del genere ha comportato, i quali probabilmente si ritorceranno contro gli stessi Stati Uniti sul lungo periodo. Ma prima di esaminare questo punto, vale la pena sottolineare che gli errori di valutazione “tecnicamente” più gravi i decisori occidentali, ed americani in particolare, li hanno commessi a conflitto iniziato. Naturalmente, almeno un grave errore lo hanno commesso anche i russi, ma gli strateghi statunitensi non hanno saputo interpretarlo. Inizialmente, infatti, l’invasione russa era stata davvero concepita come una “operazione militare speciale”, come l’aveva definita il Cremlino, ovvero un’operazione rapida, compiuta da una forza relativamente esigua (150.000 uomini), che con uno spargimento di sangue contenuto avrebbe dovuto assumere il controllo di alcuni punti nodali del territorio e, grazie alla defezione di parte dell’esercito ucraino e di elementi delle istituzioni, avrebbe spinto il governo di Kiev ad accettare di sedersi al tavolo negoziale (una sorta di replica in grande stile dell’operazione compiuta in Crimea nel 2014). Emblematica a questo proposito la marcia russa su Kiev con una forza di 40.000 uomini, del tutto insufficiente a conquistare militarmente la città, ma utile come strumento di pressione politica. Il piano di Mosca fallì (in particolare, l’esercito ucraino rimase compatto) ma non completamente, se si pensa che russi ed ucraini effettivamente negoziarono fra marzo ed aprile 2022, ed erano prossimi a giungere ad un accordo. Come riferiscono diverse testimonianze, fra cui quella dell’ex premier israeliano Naftali Bennett, il negoziato fallì soprattutto a causa delle pressioni britanniche su Kiev. La chiusura della finestra negoziale comportò di fatto il fallimento dell’operazione militare speciale. A questo punto, Mosca avviò un lungo processo di riorganizzazione militare per prepararsi ad un vero e proprio confronto bellico. Ciò comportò il ritiro da Kiev, poi da Kharkiv ed infine da Kherson, per attestarsi su linee effettivamente difendibili a protezione della Crimea e del corridoio terrestre che la univa al Donbass. Mosse affiancate dalla mobilitazione di 300.000 riservisti nel settembre del 2022. Quella di Mosca, tuttavia, non era stata una sconfitta militare sul campo, bensì una sconfitta dell’intelligence che non aveva saputo valutare la coesione dell’esercito ucraino né la determinazione occidentale ad alimentare lo scontro bellico. Paradossalmente, proprio l’errore russo ha spinto gli occidentali a commettere uno sbaglio ancora più grande, quello cioè di interpretare il fallimento russo come frutto di mera impreparazione militare, e di ritenere conseguentemente di poter sconfiggere militarmente i russi sul campo, in un conflitto aperto. Vi sono indicazioni secondo cui, nell’imminenza dell’invasione, l’intelligence americana si attendeva (proprio come i russi) che il governo e l’esercito ucraini si sarebbero sgretolati, che i russi avrebbero imposto un governo fantoccio a Kiev, e che Washington ed i suoi alleati avrebbero organizzato un’insurrezione armata contro di esso, come avevano fatto in Afghanistan, utilizzando questa volta la Polonia come retrovia. Gli USA avrebbero raggiunto ugualmente il loro obiettivo strategico, ovvero quello di spezzare il legame tra Russia ed Europa imponendo durissime sanzioni contro l’economia russa e creando una nuova cortina di ferro nel vecchio continente, tuttavia con un coinvolgimento militare molto inferiore, lasciando a Mosca l’onere di governare l’Ucraina e la possibilità di “dissanguarsi” contro un’insurrezione armata come era accaduto in Afghanistan. La scelta di Mosca di optare per un’operazione “leggera”, incomprensibile agli occhi di Washington, e il fallimento di questa scelta, hanno paradossalmente attirato gli USA e l’intera NATO in un conflitto militare tradizionale contro la Russia in territorio ucraino, con l’illusione di poter sconfiggere militarmente l’esercito russo e, come taluni politici a Washington hanno vagheggiato, addirittura di provocare un eventuale cambio di regime a Mosca. Il punto è che, mentre la Russia si preparava ad un possibile conflitto armato con la NATO fin dalla guerra in Georgia del 2008, l’Alleanza Atlantica era completamente impreparata ad affrontare un conflitto militare ad alta intensità come quello ucraino, essendo ormai abituata da decenni a combattere al più insurrezioni armate come quella dei talebani. L’altro errore fatale dei decisori occidentali è stato quello di ritenere che l’imposizione di dure sanzioni avrebbe fatto collassare l’economia russa. Ciò non è avvenuto perché, fin dal 2014, cioè dall’imposizione delle prime misure economiche punitive – all’epoca relativamente leggere – contro la Russia, Mosca (traendo insegnamento dall’esperienza dell’Iran e di altri paesi colpiti dalle ritorsioni economiche di Washington) aveva ristrutturato la propria economia così come il proprio sistema finanziario al fine di renderli il più possibile immuni all’eventuale shock delle sanzioni occidentali. Naturalmente, l’economia russa ha resistito anche grazie ad un terzo grave errore commesso dall’Occidente. Quello di confidare nel fatto che il mondo non occidentale lo avrebbe assecondato, applicando alla lettera le sanzioni. Riassumendo, americani, britannici, ed europei continentali, in varia misura, non hanno saputo interpretare militarmente il conflitto, hanno drammaticamente sottovalutato le capacità militari di Mosca e sopravvalutato le proprie, non hanno compreso che la Russia si era preparata anche economicamente all’eventualità di uno scontro con l’Occidente, e non hanno capito che gli equilibri mondiali sono enormemente cambiati dal 2008 e che i paesi occidentali non sono più in grado di dettare la propria volontà al resto del mondo. Gli europei, inoltre, hanno commesso un gravissimo errore strategico ben prima dello scoppio del conflitto. Quello cioè di non rendersi conto che assecondare l’espansione inarrestabile della NATO, e la nuova “guerra fredda” di Washington, avrebbe finito per scardinare il modello produttivo europeo fondato sulle fonti energetiche russe a basso costo. Naturalmente, per certi versi, l’obiettivo strategico che Washington si prefiggeva è invece raggiunto: una nuova cortina di ferro, apparentemente insanabile, spacca il vecchio continente, e gli alleati europei sono tornati sotto l’ala protettrice di Washington. Ma la Russia non è isolata a livello mondiale, come gli Stati Uniti si auguravano. E gli alleati europei hanno pagato un costo economico altissimo, che probabilmente sul lungo periodo finirà per indebolire anche Washington. Inoltre, gli USA hanno a tal punto investito la loro credibilità in questo conflitto, lasciandosi coinvolgere militarmente oltre ogni ragionevole cautela, che un’eventuale vittoria della Russia in Ucraina sarà devastante per il prestigio di Washington e per la coesione del fronte occidentale e della NATO. Difficilmente gli USA – ed ovviamente ancor meno l’Europa – usciranno da questo conflitto con un vantaggio strategico.

2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

Gli errori fin qui enumerati sono ovviamente in primo luogo quelli di una classe dirigente. Tuttavia è evidente che tali errori nascono anche dal retroterra culturale a cui tale classe attinge. Essa non è più in grado di leggere la realtà globale poiché prigioniera della propria convinzione di superiorità, frutto di secoli di dominio sul resto del mondo. Le recenti dichiarazioni dell’alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri, Josep Borrell, che ha definito l’Europa un “giardino”, contrapponendolo alla “giungla” che rappresenterebbe il resto del mondo, sono indicative di un modo di pensare diffuso fra le élite occidentali, che le rende incapaci di attribuire il giusto valore agli enormi progressi compiuti da svariate aree del resto del pianeta. Il “complesso di superiorità” dell’Occidente è un ingrediente essenziale della sua incapacità di reagire alla crisi in cui è sprofondato. A ciò si aggiunge un problema drammatico di incompetenza, clientelismo, corruzione, interessi corporativi delle classi dirigenti, ed in particolare della classe politica, che è frutto dell’assenza di un valido processo di selezione, e in ultima analisi di una gravissima crisi democratica che impedisce il ricambio di tali classi, l’afflusso di idee nuove, e un’azione nel reale interesse della collettività.

3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

Come ho già accennato nella lunga premessa alla prima domanda, le radici di questa crisi vengono da lontano. La globalizzazione avviata negli anni ’70 del secolo scorso ha prodotto enormi trasformazioni nell’economia mondiale. La liberalizzazione del commercio e dei flussi finanziari, e la propensione alla massimizzazione dei profitti da parte delle grandi multinazionali, hanno contribuito alla delocalizzazione della produzione, alla progressiva deindustrializzazione di molti paesi occidentali, alla finanziarizzazione dell’economia angloamericana, e alla precarizzazione del lavoro, favorita anche dall’ingresso nel mercato mondiale di centinaia di milioni di lavoratori cinesi e indiani e dalla crescente immigrazione. L’11 settembre, e la retorica dello scontro di civiltà che ne seguì, hanno messo in evidenza le aporie culturali del mondo globalizzato. Ma quella data ha segnato anche l’inizio della perdita di credibilità delle democrazie occidentali, allorché le “extraordinary renditions” permisero detenzioni arbitrarie e sparizioni forzate. Da Guantanamo a Cuba, ad Abu Ghraib in Iraq, Washington costruì una rete di centri di detenzione dove sono state commesse terribili torture ed altre violazioni dei diritti umani. Contemporaneamente, l’11 settembre ha segnato l’inizio dell’erosione dei diritti democratici negli USA (e in Europa), consentendo la sorveglianza di massa di milioni di americani, permettendo detenzioni senza precisi capi di accusa, e segnando l’introduzione della “logica dell’emergenza” all’insegna dello slogan che garantiva “sicurezza in cambio di libertà”. La crisi del 2008 ha rappresentato un nuovo punto di svolta: le misure di austerità, le crescenti disuguaglianze, l’aumento della corruzione, il potere sempre più incontrollato delle multinazionali, la spettacolarizzazione del processo elettorale, e l’asservimento della politica a interessi e capitali privati, hanno svuotato la democrazia dall’interno. Davanti all’inarrestabile deterioramento del clima economico e sociale, le élite al potere hanno reagito ricorrendo ad un unico schema: la logica dell’emergenza, e la demonizzazione del dissenso. L’attuale crisi sarebbe reversibile se le élite occidentali fossero in grado di “cambiare rotta”, modificando le politiche che l’hanno determinata. Nella pratica, però, gli interessi di casta, il radicamento del sistema, l’impossibilità di rinnovare la classe di governo a causa di un processo elettorale che ripropone invariabilmente figure ritenute accettabili dal sistema di potere dominante, impediscono ogni cambiamento nel breve periodo. La sensazione sconfortante è che questo sistema debba subire altri shock, ed attraversare crisi ancora più gravi, prima di essere scardinato, consentendo l’ingresso di energie nuove.

4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

Premesso che, malgrado la “fase comunista”, entrambi i paesi hanno mantenuto un certo livello di continuità culturale, più che di risposta “reazionaria” parlerei forse di risposta “identitaria”. Non bisogna dimenticare che, oltre alla “fase comunista”, entrambi i paesi hanno vissuto fasi di asservimento semicoloniale. La Cina ne ha vissute addirittura due: il cosiddetto “secolo di umiliazione” (fra il XIX ed il XX secolo) per mano delle potenze occidentali e del Giappone a seguito delle guerre dell’oppio, e l’apertura alla globalizzazione americana a partire dagli anni ’70 del secolo scorso. Questa seconda fase ha visto una “colonizzazione” più morbida, di fatto controllata dal governo cinese. Ciononostante, anch’essa ha comportato l’adozione di modelli produttivi ed anche culturali occidentali. La Russia ha vissuto una fase semicoloniale più breve, ma più recente ed ancora viva nella memoria dei russi, allorché, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, essa fu sottoposta all’arrivo dei capitali occidentali ed alle ricette neoliberiste della cosiddetta “shock economy”. In entrambi i paesi, a mio avviso, la risposta “identitaria” non è che un tentativo di ancorare la modernità così traumaticamente assorbita alle proprie radici culturali. Non si tratta dunque di un – peraltro impossibile – ritorno al passato, ma di una rilettura della modernità secondo le rispettive categorie culturali dei due paesi. Sia Cina che Russia, del resto, si considerano non soltanto delle nazioni, ma delle “civiltà”, ed era inevitabile che si cimentassero nello sforzo di concepire una propria formulazione di modernità. E’ un’altra delle conseguenze del nascente multipolarismo. L’Occidente ha perso il monopolio sulla modernità. Non esiste più solo la versione occidentale di modernità, ma tante versioni quante sono le “civiltà” che l’hanno fatta propria.

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L’espansione dei BRICS e la battaglia per il nuovo ordine mondiale, di ROBERTO IANNUZZI

L’espansione dei BRICS e la battaglia per il nuovo ordine mondiale

L’ascesa dei BRICS, confermata dal recente vertice di Johannesburg, è impressionante, ma il nascente mondo multipolare sarà all’insegna dell’incertezza.

8 SET 2023
Il logo dei BRICS (Wikimedia CommonsCC BY-SA 4.0)

Il vertice dei BRICS, recentemente tenutosi a Johannesburg in Sudafrica, ha attirato grande interesse a livello globale, ed in particolare in Occidente, nel teso contesto internazionale che ha visto il cosiddetto “Sud del mondo” in gran parte dissociarsi dai paesi occidentali sul conflitto tra Russia e Ucraina, e la competizione economica fra USA e Cina inasprirsi fino a divenire un’aperta contrapposizione geopolitica.

Sullo sfondo della crisi del sistema internazionale che si protrae almeno dal tracollo finanziario americano del 2008, molti paesi del “Sud del mondo” (una definizione imperfetta che racchiude gli stati non appartenenti al blocco occidentale) ritengono urgente una riforma dell’ordine globale a guida USA, considerato un residuo della Guerra Fredda discriminatorio e non rappresentativo dell’attuale realtà mondiale.

Alla luce di queste tensioni, l’Occidente ha cominciato a guardare ai BRICS (in realtà un’organizzazione abbastanza informale, che riunisce Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) attraverso la lente della competizione con Cina e Russia.

Al vertice di Johannesburg, la presidenza dei BRICS ha annunciato l’imminente ingresso di ben sei nuovi membri nell’organizzazione: Arabia Saudita, Argentina, Egitto, Emirati Arabi Uniti (EAU), Etiopia e Iran. Essi aderiranno ufficialmente al gruppo il 1° gennaio del 2024.

Soprattutto in Occidente, molti hanno visto l’annuncio come una mossa finalizzata a permettere ai BRICS di competere con raggruppamenti occidentali come il G7 o con istituzioni finanziarie internazionali (dominate dall’Occidente) come la Banca Mondiale.

L’espansione dei BRICS ha un notevole valore simbolico. Per i sostenitori del gruppo, il suo rafforzamento potrà dare una spinta al tentativo di riformare l’ordine mondiale, contribuendo a definire i contenuti del nuovo sistema e avanzando la causa del multilateralismo.

Uno schieramento dei BRICS più forte – si augurano i suoi sostenitori – favorirà la nascita di una nuova architettura finanziaria globale, dedollarizando l’economia internazionale e spuntando l’arma occidentale delle sanzioni.

Potenziale ostacolo al raggiungimento di tali obiettivi è la natura eterogenea del raggruppamento, ulteriormente accentuata dalla recente espansione, e le posizioni divergenti dei suoi membri su svariate questioni, prima fra tutte il rapporto con l’Occidente.

Una formidabile potenza economica

I BRICS hanno già sorpassato le economie “avanzate” del G7 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, e Stati Uniti) in termini di contributo al PIL mondiale. Essi determinano circa un terzo dell’attività economica globale (a parità di potere d’acquisto), mentre l’apporto del G7, in continuo calo dagli anni ’70 del secolo scorso, è oggi sceso al 30%. I due raggruppamenti seguono dunque traiettorie economiche divergenti.

Andamento del PIL dei BRICS e del G7 a confronto (Screenshot, Visual Capitalist)

Con i nuovi membri, il partenariato dei BRICS (che ora alcuni indicano con l’acronimo BRICS+) arriverà a comprendere il 47,3% della popolazione mondiale, contro il mero 10% rappresentato dal G7.

I BRICS+ costituiscono anche un formidabile raggruppamento energetico. Iran, Arabia Saudita ed EAU (membri dell’OPEC), insieme alla Russia (un membro chiave dell’OPEC+), producono 26,3 milioni di barili al giorno, quasi il 30% della produzione mondiale.

Oltre ad includere alcuni fra i maggiori esportatori di petrolio e gas, i BRICS+ comprendono anche due dei maggiori importatori, Cina e India. Produttori e consumatori presenti in questo gruppo hanno un interesse condiviso a creare meccanismi per scambiare le materie prime al di fuori della portata del settore finanziario del G7 e dei suoi sistemi sanzionatori.

Sia Cina che India ed Arabia Saudita si sono opposte all’imposizione di un tetto al prezzo del petrolio, avanzata dai paesi occidentali per colpire la Russia.

Con l’ingresso dei nuovi membri, il BRICS allargato avrà inoltre il controllo sul 72% delle terre rare a livello mondiale (includendo tre dei cinque paesi con le maggiori riserve), sul 75% del manganese, sul 50% della grafite, e sul 28% del nickel – ovvero su molti dei minerali essenziali per la transizione energetica e la cosiddetta “quarta rivoluzione industriale”.

Questo schieramento esteso di paesi potrà investire in progetti e luoghi finora trascurati o esclusi dall’Occidente, come ad esempio l’Iran che possiede quantità significative di minerali strategici, fra cui le maggiori riserve mondiali di zinco e il secondo maggior giacimento di rame.

Nuovi membri, aspiranti candidati, e criteri di adesione

Oltre quaranta paesi hanno manifestato interesse ad aderire ai BRICS, di cui ventitré hanno fatto esplicita richiesta di adesione prima del vertice di Johannesburg (fra essi anche sette delle tredici nazioni che compongono l’OPEC). Rimangono in lista d’attesa paesi come Algeria, Indonesia, Kazakistan, Messico, Nigeria, Turchia ed altri.

BRICS, membri e aspiranti candidati. Blu: stati membri; Azzurro: nuovi membri; Arancione: candidati; Giallo: manifestazione di interesse ( By MathSquare – Author: Dmitry Averin (Дмитрий-5-Аверин), CC BY-SA 3.0)

Data la natura alquanto informale del raggruppamento dei BRICS, non vi erano specifici criteri di adesione. E’ stato perciò necessario stabilire dei parametri e delle procedure. Ma essenzialmente i sei nuovi membri sono stati selezionati attraverso negoziati diretti e decisioni ad hoc, in particolare cercando di conciliare l’approccio più entusiastico della Cina con quello più cauto di India e Brasile.

A giudicare dalle testimonianze, la discussione è stata lunga e tutt’altro che facile.

L’adesione di diversi paesi mediorientali testimonia non soltanto l’interesse del gruppo nei confronti di una regione strategica per le risorse energetiche e le rotte commerciali. E’ anche un’ulteriore conferma dell’intenzione della Cina di rafforzare il suo ruolo regionale dopo che la sua mediazione diplomatica ha favorito il riavvicinamento fra Arabia Saudita e Iran.

Anche grazie a questo riavvicinamento è stata possibile l’inclusione di Teheran, che altrimenti sarebbe forse risultata troppo controversa.

Il peso economico di Arabia Saudita ed EAU potrà essere utile per sostenere la New Development Bank (NDB), istituto fondato dai BRICS per finanziare progetti infrastrutturali e di sviluppo nei paesi membri.

Con la Cina in ascesa e l’Occidente in declino, paesi come Arabia Saudita, EAU ed Egitto, che tuttora subordinano la loro sicurezza ad accordi militari con Washington, hanno puntato a diversificare le proprie scelte di politica estera ed economica entrando nei BRICS.

Integrazione energetica e commerciale

Dal canto loro, i BRICS mirano non solo ad assicurarsi le fonti energetiche, ma anche a controllare le rotte che ne consentono la fruizione. La Belt and Road Initiative cinese (la cosiddetta “nuova via della seta”) ha già creato una rete di snodi energetici e commerciali che collegano il “Sud globale” sfruttando in particolare i porti degli EAU.

L’adesione dell’Egitto non solo introduce nel gruppo la seconda economia dell’Africa e un importante membro dell’Unione Africana, ma anche il paese che controlla lo strategico Canale di Suez.

L’inclusione di Teheran è rilevante soprattutto per la Russia, integrando nelle reti commerciali dei BRICS l’International North–South Transport Corridor (INSTC), corridoio logistico che consente a Mosca di esportare i propri beni verso l’Asia e l’Africa attraverso l’Iran, bypassando il Baltico, il Mar Nero e il Canale di Suez.

L’INSTC (in rosso) e la rotta tradizionale attraverso il Canale di Suez (in blu) (Public Domain)

L’interconnettività e lo sviluppo infrastrutturale dei BRICS costituiranno i temi chiave della presidenza russa del gruppo nel 2024. Il presidente russo Putin intende creare una commissione dei BRICS per i trasporti finalizzata alla creazione di arterie di transito a livello dell’Eurasia e globale.

Altro obiettivo della presidenza russa sarà quello di creare un’Agenzia energetica del gruppo finalizzata ad una maggiore cooperazione dei paesi membri nella definizione degli obiettivi di produzione e dei prezzi energetici.

Le sfide dell’allargamento

Dal canto suo, l’Iran vede l’adesione ai BRICS come un modo per attenuare il peso delle sanzioni occidentali che hanno soffocato la sua economia. La prospettiva che gli scambi commerciali all’interno del gruppo vengano condotti nelle valute nazionali, e quella (più lontana) di una “valuta dei BRICS”, promettono importanti vantaggi a Teheran sotto questo profilo.

L’adesione dell’Etiopia consente ai BRICS di integrare nel gruppo un altro importante paese africano assieme all’Egitto. L’Etiopia è il secondo stato più popoloso dell’Africa ed una delle economie emergenti del continente. Essa occupa una posizione strategica nel Corno d’Africa ed ospita la sede dell’Unione Africana.

Infine vi è l’Argentina, che è stata accolta in quanto importante rappresentante dell’America Latina (e unico nuovo membro dell’emisfero occidentale). L’ingresso di questo paese rappresenta però anche una sfida per i BRICS a causa del suo dissesto economico e della sua valuta in caduta libera.

L’Argentina è la nazione più indebitata con il Fondo Monetario Internazionale (FMI). Inoltre, se il candidato di estrema destra Javier Milei dovesse vincere le elezioni presidenziali di ottobre, ha già promesso di spezzare i legami con la Cina e di riorientare l’Argentina verso l’Occidente – cosa che potrebbe implicare una rinuncia all’adesione ai BRICS.

Potenziali problemi per i BRICS potrebbero emergere anche dall’ingresso di Egitto ed Etiopia. Il primo attraversa una grave crisi economica. Dopo lo scoppio del conflitto ucraino, la valuta egiziana ha perso più del 50% del suo valore mentre l’inflazione ha raggiunto il 36% lo scorso giugno.

L’Etiopia, dal canto suo, deve riprendersi da due anni di devastante guerra civile che ha coinvolto soprattutto la regione settentrionale del Tigray.

E’ importante ricordare anche che esistono annose tensioni fra alcuni dei nuovi membri che i BRICS si apprestano ad accogliere. Abbiamo già ricordato il caso di Iran e Arabia Saudita, che hanno solo da poco riallacciato i rapporti diplomatici grazie alla mediazione cinese. Vi è poi il teso rapporto fra Egitto ed Etiopia a causa della Grand Ethiopian Renaissance Dam, la gigantesca diga sul Nilo Blu che secondo il Cairo rischia di minacciare la sicurezza idrica egiziana.

Sarà interessante vedere se i BRICS rappresenteranno un forum in grado di contenere ed eventualmente risolvere queste tensioni.

Un raggruppamento molto eterogeneo

Complessivamente, tuttavia, tra democrazie vere o presunte (Argentina ed Etiopia), una repubblica autocratica (Egitto), due monarchie (Arabia Saudita ed EAU), ed una teocrazia (Iran), il diversificato schieramento di paesi che si appresta ad entrare nei BRICS è destinato a rendere il gruppo ancor più eterogeneo.

Come ha confermato lo stesso presidente brasiliano Lula da Silva, il criterio di scelta principale nel selezionare i nuovi membri non è stata la loro forma di governo ma il loro rispettivo peso geopolitico.

Quando nel 2009, su iniziativa russa, si tenne a Yekaterinburg il primo vertice dei BRIC (allora ancora privi del Sudafrica, che avrebbe aderito l’anno successivo), vi era un criterio, sebbene non scritto, ad unire i quattro membri del nuovo raggruppamento: quello della piena sovranità, ovvero della capacità di perseguire una politica estera ed economica indipendente.

Il variegato insieme di paesi che sono stati scelti come nuovi membri non risponde pienamente a questo criterio. Da ciò segue – osserva il noto analista russo Fyodor Lukyanov – che i leader dei BRICS, approvando questo allargamento, hanno preferito il principio di diversificazione a quello del consolidamento dell’organizzazione.

Se già in precedenza i BRICS erano un raggruppamento che mancava di un definito meccanismo istituzionale, con la sua espansione a undici membri che hanno visioni spesso divergenti, la creazione di un simile meccanismo appare ancor più lontana.

In realtà, fin dall’inizio i BRICS erano un insieme di paesi con visioni differenti, in particolare riguardo agli Stati Uniti. In contrasto con Russia e Cina, che cercano di riformulare l’ordine globale a guida USA, India e Brasile hanno adottato posizioni più neutrali, e talvolta, soprattutto nel caso indiano, di cooperazione con Washington.

Per l’India, la vicina Cina non è soltanto un competitore economico ma anche un paese con cui i rapporti sono guastati da serie dispute territoriali. Nuova Delhi è invece un partner di Washington all’interno del   Quadrilateral Security Dialogue (Quad), raggruppamento nell’Indopacifico che include anche Giappone ed Australia, a cui gli USA hanno cercato di dare nuovo impulso a seguito della loro crescente rivalità con Pechino.

Né con l’Occidente né contro di esso

Come abbiamo visto, sono molteplici anche le motivazioni che hanno indotto i nuovi membri ad aderire ai BRICS. Un paese come l’Iran è spinto dalla speranza che il suo ingresso nel raggruppamento contribuisca ad alleviare il fardello delle sanzioni (un problema peraltro condiviso anche dalla Russia, e in misura minore dalla Cina) ed a contenere l’egemonia occidentale.

Produttori energetici come l’Arabia Saudita e gli EAU, dotati di ingenti risorse finanziarie, sono motivati dal desiderio di allargare la platea dei propri partner e di diversificare i propri investimenti, ma non hanno interesse a trasformare i BRICS in uno schieramento antioccidentale.

I leader di questi paesi hanno messo in chiaro che non intendono “scegliere” fra Oriente e Occidente, ma fare affari con tutti.

Infine, paesi come Argentina, Egitto ed Etiopia si augurano che l’ingresso nei BRICS possa alleviare le loro difficoltà economiche, anche attraverso la possibilità di accedere ai finanziamenti della NDB, la quale non applica condizionalità come invece fanno la Banca Mondiale e l’FMI. Ma neanche loro sono marcatamente ostili all’Occidente.

Dunque i BRICS+ difficilmente avranno un orientamento spiccatamente antioccidentale, ma piuttosto saranno un insieme di paesi intenzionati a scegliere i propri partner a seconda delle proprie esigenze politiche ed economiche del momento.

Tuttavia, benché il raggruppamento dei BRICS non costituirà mai un’alleanza politica, un forum di paesi determinati ad estendere uno spazio di azione indipendente all’interno dell’attuale sistema internazionale è di per sé in grado di favorire dei cambiamenti importanti – sostiene Lukyanov.

Anche per paesi in aperto conflitto con l’Occidente, come Russia e Iran, il mero ampliamento di uno spazio indipendente nel panorama internazionale, composto da paesi che interagiscono fra loro al di fuori del sistema occidentale di incentivi e sanzioni, è una prospettiva augurabile e in armonia con i loro interessi.

Riformare le istituzioni internazionali, non smantellarle

Conseguentemente, i BRICS non hanno fra i loro principali obiettivi quello di smantellare le istituzioni dell’attuale ordine internazionale, come il WTO, la Banca Mondiale e l’FMI.

Anche nella dichiarazione conclusiva del vertice di Johannesburg, i paesi membri hanno ribadito il loro appoggio ad un sistema commerciale multilaterale ed inclusivo che sia “incentrato sul WTO”.

La dichiarazione ha anche espresso l’approvazione dei paesi membri per una rete di sicurezza finanziaria globale che abbia al proprio centro “un FMI adeguatamente finanziato e basato su quote”.

L’agenda dei BRICS segue dunque due binari paralleli.

Il primo consiste nel cercare di acquisire maggiore influenza e capacità di controllo sulle istituzioni internazionali finora dominate dall’Occidente (ad esempio attraverso la riforma delle quote dell’FMI, e la riorganizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU).

Il secondo sta nel rafforzare proprie istituzioni parallele, come la NDB, alle quali ricorrere laddove le istituzioni consolidate dell’ordine globale non rispondano alle loro aspirazioni e ai loro interessi.

Da ciò si deduce che i BRICS, i quali ovviamente non rappresentano un’alternativa al sistema capitalistico, non incarnano neanche una sfida frontale all’egemonia americana ed occidentale, ma più modestamente il tentativo di ridurre le disparità e gli squilibri dell’attuale ordine.

Dedollarizzazione sì o no?

E’ in questo contesto che si inserisce il dibattito sull’impulso alla dedollarizzazione del sistema finanziario internazionale che i BRICS potrebbero imprimere.

Paesi direttamente sottoposti alle sanzioni americane, come Russia e Iran, certamente sono i primi a voler porre fine alla dipendenza dal dollaro.

Il desiderio di emanciparsi dalla valuta statunitense, e dal fardello che l’indebitamento in dollari comporta (basti pensare all’effetto disastroso che ogni rialzo dei tassi di interesse deciso dalla Federal Reserve americana ha sulle economie dei paesi emergenti), è però generalmente diffuso fra vecchi e nuovi membri del gruppo.

Malgrado ciò, la prospettiva di una valuta di riserva comune dei BRICS non sembra al momento imminente.

Perfino se i membri del raggruppamento fossero geopoliticamente allineati, l’adozione di una valuta comune presenterebbe una serie di problemi, già messi in evidenza dalla natura zoppicante dell’euro: l’esigenza di una convergenza macroeconomica, la scelta di un meccanismo di cambio, la creazione di un sistema di pagamenti e di compensazione multilaterale che sia efficiente, la necessità di disporre di mercati finanziari caratterizzati da liquidità e stabilità.

Una possibile alternativa sarebbe quella di adottare il renminbi cinese come valuta comune dei BRICS. Ma la valuta di Pechino non è sufficientemente convertibile, e non dispone di un mercato finanziario abbastanza liquido. La Cina adotta ancora un regime di controllo dei capitali, a cui non sembra intenzionata a rinunciare. E paesi come l’India non accetterebbero il renminbi come valuta comune per paura di concedere a Pechino un ruolo troppo dominante.

E’ per questa ragione che il vertice di Johannesburg non si è concentrato su una potenziale valuta dei BRICS, ma sulla decisione di promuovere l’impiego delle valute nazionali nelle transazioni transfrontaliere – un fenomeno già in atto da tempo.

Sebbene Cina e India abbiano interessi di sicurezza divergenti, entrambe traggono beneficio da un aumentato ricorso alle valute locali. L’Arabia Saudita, dal canto suo, sta esaminando la possibilità di ricorrere al renminbi per regolare le transazioni petrolifere con Pechino. Nuova Delhi sta invitando molti paesi a intrattenere transazioni commerciali in rupie. Il mese scorso, l’India ha effettuato il suo primo pagamento petrolifero in rupie agli EAU.

Tuttavia, per due paesi ha senso commerciare nelle rispettive valute nazionali (non pienamente convertibili) solo se il saldo commerciale fra essi è più o meno in equilibrio.

A titolo di esempio, la Russia ha recentemente venduto ingenti quantità di petrolio all’India, la quale ha pagato Mosca in rupie. Ma siccome Nuova Delhi esporta in Russia molto meno di quanto importi da essa, Mosca si trova con una grossa somma di rupie che non sa come spendere o convertire, potendo utilizzarle solo per acquistare prodotti dell’India.

A questo problema potrebbe ovviare solo l’introduzione di una valuta comune per l’intero raggruppamento dei BRICS.

Il lento declino del dollaro

Sebbene i volumi commerciali fra i paesi BRICS non siano al momento sufficienti a sostenere una simile soluzione, le cose potrebbero cambiare con un ulteriore allargamento del raggruppamento ad altri paesi.

In tale contesto, si potrebbe passare da sistemi di compensazione bilaterali (che hanno i limiti appena esposti) ad un sistema di compensazione multilaterale, ed infine ad una valuta comune.

In un simile scenario, alcuni ipotizzano la creazione di una valuta condivisa che verrebbe utilizzata solo nelle transazioni fra gli stati membri, mentre i cittadini dei singoli paesi continuerebbero ad impiegare le proprie valute nazionali.

Un ulteriore allargamento dei BRICS tuttavia presenta sfide di altra natura, legate agli interessi eccessivamente divergenti che un numero troppo esteso di paesi potrebbe determinare, mettendo a rischio la coesione del gruppo.

Per queste ragioni, il dollaro è destinato a rimanere ancora per diversi anni la valuta dominante a livello internazionale.

Il biglietto verde comincerà a perdere sensibilmente potere nel momento in cui i prezzi di gas e petrolio non saranno più fissati in dollari. Ed è questa probabilmente una delle principali considerazioni che hanno spinto i membri fondatori ad includere nei BRICS l’Arabia Saudita, l’Iran e gli EAU. Tuttavia, Riyadh e Abu Dhabi hanno ancora un legame abbastanza stretto con Washington.

Dunque sul medio periodo, piuttosto che una singola alternativa al dollaro, emergeranno probabilmente blocchi regionali di valute, mutevoli e porosi, fondati su scambi commerciali bilaterali e multilaterali, accompagnati da una lenta perdita di influenza da parte del biglietto verde.

Un caotico mondo multipolare

Il nascente mondo multipolare sarà quindi, ancora per anni, segnato dal disordine e dall’incertezza. Esso sarà caratterizzato da alleanze variabili e da paesi – le cosiddette “medie potenze” – che cercheranno di giostrarsi fra tali alleanze senza aderirvi pienamente, mantenendo una posizione “non-allineata”.

Si è parlato a tale proposito di swing states (paesi “oscillanti fra i vari schieramenti) e di mondo à la carte.

Raggruppamenti come i BRICS e il G20 (più vicino agli USA) competeranno fra loro per assicurarsi la lealtà dei paesi in via di sviluppo.

Per diverso tempo i paesi emergenti continueranno ancora a dipendere dal loro debito denominato in dollari, e persino istituzioni finanziarie dei BRICS come la NDB (finché saranno legate all’impiego della valuta americana) resteranno potenzialmente esposte alle sanzioni secondarie di Washington.

Mentre la Cina rimarrà al centro delle catene di fornitura, e dunque del sistema produttivo mondiale, gli USA, più deboli dal punto di vista industriale, resteranno però almeno per qualche tempo al centro di forti alleanze geopolitiche nell’Atlantico e nel Pacifico.

La debolezza del sistema americano sta però nel fatto che, per molti alleati degli USA, sarà virtualmente impossibile sganciarsi dalle catene di fornitura e dai nodi di produzione legati alla Cina, se non vorranno andare incontro ad un repentino declino industriale e tecnologico.

In assenza di alternative industriali e di sviluppo, un’eccessiva fedeltà agli USA impedirà agli alleati di Washington di accedere alle reti produttive più avanzate e ai prodotti più competitivi, ed allo stesso tempo a rinunciare ad importanti mercati di esportazione.

La divergenza fra interessi economici e fedeltà politiche creerà tensioni e fratture che caratterizzeranno la transizione verso il nuovo ordine multipolare, e che sono destinate ad accrescere il rischio geopolitico e la possibilità di conflitti.

https://robertoiannuzzi.substack.com/p/lespansione-dei-brics-e-la-battaglia?utm_source=post-email-title&publication_id=727180&post_id=136847064&isFreemail=true&r=9fiuo&utm_medium=email

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La misteriosa morte di Prigozhin, l’Africa, la Russia e Putin, di ROBERTO IANNUZZI

La misteriosa morte di Prigozhin, l’Africa, la Russia e Putin

La scomparsa del leader della Wagner è una vicenda ben più complessa della narrazione propagandata dai media occidentali.

Funerali di Prigozhin (War Monitor, Twitter)

Chi ha ucciso Yevgeny Prigozhin, volto pubblico e storico finanziatore del gruppo Wagner, insieme ai suoi più stretti collaboratori, in pieno territorio russo fra Mosca e San Pietroburgo?

Chi ha scelto la giornata del 23 agosto, per abbattere, probabilmente tramite un ordigno piazzato a bordo, l’aereo privato su cui egli viaggiava, esattamente due mesi dopo l’ammutinamento di una parte consistente del suo gruppo lo scorso giugno?

Chi ha deciso che Prigozhin andava eliminato nel pieno di una delicata campagna di influenza russa in Africa (Prigozhin era per l’appunto appena tornato dal continente africano), e mentre era in corso un importantissimo vertice dei BRICS in Sudafrica?

“L’apostolo della vendetta”

Per la stampa occidentale non vi sono dubbi. Il presidente russo Putin, uscito fortemente indebolito dall’ammutinamento di giugno e dalla decisione di “perdonare” Prigozhin malgrado il mancato pentimento di quest’ultimo, avrebbe deciso di eliminarlo per ristabilire il proprio potere e la propria reputazione di “spietatezza”, incrinata dalla sua “risposta esitante” di fronte agli eventi di due mesi fa.

Putin, definito “l’apostolo della vendetta” dal direttore della CIA William Burns, avrebbe in questo modo lanciato un terrificante messaggio all’élite russa, in base al quale nessun dissenso sarà tollerato e chiunque oserà sfidare il Cremlino pagherà con la propria vita.

Sebbene gli autori di queste teorie invariabilmente debbano ammettere che “forse non sapremo mai se ciò è vero o no”, che “l’esatto sviluppo degli eventi che hanno portato alla morte di Prigozhin non è chiaro e forse non lo sarà mai”, e che “nessuna prova è stata presentata che indichi un deliberato atto di omicidio da parte del Cremlino o dei servizi di sicurezza russi”, tali ammissioni restano in secondo piano, e le teorie esposte solitamente vengono accettate come verità incondizionata.

La realtà dei fatti è probabilmente ben più complessa e difficile da decifrare.

Nemici interni ed esterni

E’ evidente che, dopo il tentato colpo di mano di giugno, Prigozhin aveva accresciuto il numero dei propri nemici all’interno del paese, oltre ad averne molti all’estero.

Sebbene egli godesse di simpatie in alcuni settori dell’esercito, nelle istituzioni russe tutti si erano dissociati dal suo ammutinamento, incluso il generale Sergei Surovikin, comandante delle forze aerospaziali russe considerato a lui vicino (un’interessante coincidenza vuole che Surovikin sia stato sollevato dal suo incarico proprio nel giorno in cui l’aereo di Prigozhin è precipitato).

Dopo gli eventi di giugno, il leader del gruppo Wagner aveva certamente perso il favore del governo e del presidente Putin (sebbene quest’ultimo avesse stipulato una sorta di armistizio con lui), e ciò lo ha probabilmente reso un più facile bersaglio.

Tra i suoi nemici esterni Prigozhin contava senz’altro il governo di Kiev e quello americano. Quest’ultimo aveva posto una taglia di 10 milioni di dollari sulla sua testa nel 2022 per la sua presunta interferenza, attraverso la sua “fabbrica di trolls”, nelle elezioni presidenziali del 2016.

Sia Kiev che Washington (o Londra) potevano aver interesse ad eliminarlo per aggravare le fratture che il colpo di mano di giugno aveva messo a nudo nell’establishment militare russo. Gli USA erano anche intenzionati a contrastare la crescente influenza della Wagner in Africa.

Gli ucraini hanno dimostrato di avere agenti in Russia e di essere in grado di compiere attacchi con droni in profondità nel territorio russo, arrivando a minacciare la capitale. Hanno anche compiuto omicidi come quello di Daria Dugina, figlia del noto filosofo nazionalista Aleksandr Dugin. La CIA ha recentemente lanciato in Russia una campagna di reclutamento fra i cittadini che si oppongono al governo.

Tuttavia, un’operazione ucraina o americana, o più in generale straniera, avrebbe comportato rischi e implicherebbe una grave falla nella sicurezza russa, sebbene Prigozhin fosse un personaggio ormai in disgrazia.

Ipotesi sull’incidente

La possibilità che l’aereo su cui viaggiava sia stato abbattuto dall’esterno sembra da escludere. Esso volava ad un’altezza di circa 30.000 piedi (oltre 9.000 metri) prima di precipitare, dunque troppo in alto per poter essere colpito da sistemi missilistici trasportabili a spalla (Manpads) o da piccoli droni.

Solo un missile Buk, un S-300, o sistemi analoghi, avrebbero potuto raggiungere quell’altitudine, ma sistemi del genere sono difficili da impiegare senza lasciare tracce. La probabilità che l’aereo sia stato abbattuto dall’esterno, come pure era stato ipotizzato nelle prime fasi successive all’incidente, rimane dunque bassa.

Appare più probabile che l’aereo sia precipitato a causa di un ordigno piazzato all’interno. Pur non escludendo la possibilità di un attore straniero, ciò accresce la probabilità che l’attentato sia stato compiuto da attori interni alla Russia.

Braccio di ferro con il ministero della difesa

Nel paese, a causa dei suoi affari spregiudicati, Prigozhin senza dubbio aveva avversari tra gli uomini d’affari e gli oligarchi, così come fra le organizzazioni del crimine organizzato. Ma, più significativamente, egli aveva nemici all’interno degli apparati dello stato, dei vertici militari e dei servizi segreti.

Innanzitutto vi era la rivalità fra il gruppo Wagner da un lato e il ministero della difesa e lo stato maggiore dell’esercito dall’altro, che risale ai tempi del coinvolgimento dell’organizzazione nel conflitto siriano.

Prigozhin aveva apertamente invocato la sostituzione del ministro della difesa Sergei Shoigu e del capo di Stato maggiore Valery Gerasimov. A seguito dell’acuirsi della rivalità fra la Wagner e il ministero della difesa durante la battaglia di Bakhmut, quest’ultimo aveva emanato un decreto che ingiungeva ai membri di tutte le compagnie militari private di firmare contratti direttamente con il ministero, praticamente sancendo l’integrazione di queste compagnie nell’esercito.

Di fronte alla prospettiva di perdere i suoi lucrosi affari, Prigozhin aveva tentato il tutto per tutto con il fallito colpo di mano di giugno. Malgrado la soluzione di compromesso, quasi incruenta, raggiunta con Putin il 24 di quel mese, vi sono indicazioni che il braccio di ferro con i vertici militari sia proseguito nei mesi successivi.

Non è però solo il ministero della difesa che potrebbe essere intervenuto per sbarazzarsi definitivamente dell’irriducibile Prigozhin e del suo staff. Altri possibili candidati sono il GRU, il servizio segreto militare del quale la Wagner era essenzialmente una costola (divenuta però troppo indipendente), e l’FSB, il servizio di sicurezza federale e principale erede del sovietico KGB (da cui proviene la principale base di potere del presidente Putin).

Per comprendere chi di questi attori potrebbe aver provocato l’incidente che ha portato alla morte di Prigozhin (e se Putin abbia giocato un ruolo in essa) è dunque necessario ripercorrere brevemente gli eventi successivi al 24 giugno.

Il “perdono” di Putin

Nella sciagura aerea, insieme al leader della Wagner sono rimasti uccisi Dmitry Utkin (fondatore militare dell’organizzazione ed ex ufficiale del GRU che aveva preso parte alle guerre cecene e poi al conflitto in Siria) e Valery Chekalov (socio di Prigozhin che curava i suoi affari in Siria e nel continente africano),oltre a quattro combattenti del gruppo ed ai tre membri dell’equipaggio.

E’ utile ricordare che solo una parte della Wagner (4-5.000 combattenti, secondo alcune stime) aveva accettato, in parte perché ingannato, di seguire Prigozhin nel suo tentato colpo di mano a giugno. Fra i pochi ufficiali che lo avevano seguito spiccava proprio Utkin, che avrebbe poi guidato la colonna del gruppo diretta a Mosca mentre Prigozhin era rimasto asserragliato a Rostov.

Nell’accordo di compromesso sancito il 24 giugno per risolvere pacificamente la crisi, Putin aveva affermato che coloro che avevano seguito Prigozhin nel suo ammutinamento avrebbero potuto accompagnarlo in esilio in Bielorussia, mentre gli altri combattenti del gruppo avrebbero potuto firmare contratti con il ministero della difesa o tornare alle rispettive famiglie. Il presidente russo aveva sottolineato che avrebbe mantenuto la propria promessa.

Cinque giorni dopo, Putin aveva anche ricevuto al Cremlino 35 alti ufficiali della Wagner, incluso Prigozhin, per tre ore di colloquio durante le quali egli ascoltò le loro spiegazioni ed offrì loro altre opzioni di impiego per il futuro.

Secondo la versione dello stesso Putin, fra le varie opzioni egli avrebbe proposto quella di continuare a combattere nei ranghi della Wagner agli ordini del loro comandante soprannominato “Sedoy” (“capelli grigi”), l’ex colonnello Andrey Troshev, veterano dei conflitti in Afghanistan, Cecenia e Siria, che non aveva aderito al colpo di mano di Prigozhin. La maggior parte degli ufficiali avrebbe accettato la proposta, ad eccezione dello stesso Prigozhin.

Il 30 giugno, ovvero il giorno dopo l’incontro al Cremlino con Putin, la Wagner dava notizia del licenziamento di Troshev poiché, secondo alcune fonti, egli aveva deciso di firmare un contratto con il ministero della difesa.

Malgrado queste contese, l’accordo del 24 giugno era andato avanti lo stesso. Prigozhin aveva spostato le sue forze in Bielorussia, mentre il ministero della difesa aveva progressivamente cercato di assumere il controllo degli affari del gruppo e inviato delegazioni presso i paesi stranieri che avevano rapporti con l’organizzazione per invitarli a trattare direttamente con il governo di Mosca.

Putin come arbitro

In Occidente si è molto discusso sulle ragioni per cui Putin avesse “perdonato” Prigozhin. Ma la stampa occidentale – la stessa che oggi sostiene che il presidente russo abbia “consumato” la sua vendetta sbarazzandosi del leader della Wagner e ristabilendo il proprio “governo del terrore” – era giunta invariabilmente alla conclusione che quello di Putin fosse un sintomo di debolezza, una “indecisione” che denotava una perdita di controllo e di potere.

Una simile valutazione si basa sul radicato malinteso occidentale per cui il presidente russo viene descritto come una specie di dittatore assoluto, un accentratore del potere che controlla ogni aspetto della Russia, oppure come uno spietato boss mafioso.

Molto più corretta e pertinente la descrizione fatta da Gordon Hahn, noto ricercatore ed esperto di questioni russe, il quale ha sottolineato come Putin non sia un autocrate impulsivo e irrazionale, ma un leader moderatamente autoritario, attento alla stabilità politica ed all’integrità dello stato.

Hahn descrive Putin come un equilibratore di poteri, un ago della bilancia che cerca contrappesi tra le varie forze politiche invece di schiacciarne alcune a vantaggio di altre. Consapevole dei rischi della ribellione per la stabilità dello stato, egli è un estimatore del giusto mezzo e di un equo compromesso.

“Gli intransigenti e i russi meno perspicaci si chiederanno perché egli non ha schiacciato Prigozhin o non ha accolto le sue lamentele”, aveva scritto Hahn dopo l’accordo di giugno. “Altri diranno giustamente che Prigozhin e la sua rivolta sono una conseguenza del malaccorto patrocinio di Putin […] nei suoi confronti”.

Tuttavia, aveva concluso Hahn, ogni analisi obiettiva della crisi di giugno deve riconoscere che egli l’ha gestita con capacità, con calma e moderazione, evitando mosse affrettate e trovando una soluzione di compromesso ad un conflitto che avrebbe potuto sfociare in un bagno di sangue.

Unitarismo russo

In un successivo articolo, Hahn aggiunge interessanti osservazioni sul retroterra culturale russo che rende il modo di governare alquanto differente da quello occidentale – soprattutto la propensione ad un certo “particolarismo” che adatta le decisioni alla situazione invece di sottometterle alla lettera della legge, e una predilezione culturale per l’unità o l’integrità piuttosto che per la divisione, il pluralismo e il conflitto.

Lungi dall’avere il monopolio incontrastato del potere, Putin doveva poi soppesare le conseguenze politiche di una repressione dura nei confronti di Prigozhin e dei combattenti della Wagner, considerati dai russi – e da lui stesso – patrioti che avevano servito mirabilmente la Russia nel conflitto ucraino. Scartare una soluzione di compromesso avrebbe potuto costargli l’appoggio di alcuni suoi sostenitori chiave, in particolare nei settori più tradizionalisti e nazionalisti.

Ma allora cos’è che ha portato al fallimento della soluzione di compromesso raggiunta a fine giugno, ed alla tragica uccisione di Prigozhin e di alcuni fra i suoi più stretti collaboratori?

Probabilmente il fatto che tale compromesso non è stato in grado di porre fine al braccio di ferro tra Prigozhin e gli apparati militari.

Prigozhin l’irriducibile

Fin dalla fine di giugno, questi ultimi avevano cercato di prendere il controllo delle operazioni della Wagner. Concord, la compagnia di catering di proprietà di Prigozhin, aveva perso i suoi lucrosi contratti con il ministero della difesa. I siti di notizie che operavano sotto l’ombrello del Patriot Media Group (a capo del cui consiglio di amministrazione fino a maggio figurava lo stesso Prigozhin) erano stati bloccati.

Nel frattempo il ministero della difesa guidato da Shoigu aveva inviato delegazioni in Siria e in Africa per informare i governi di quei paesi che da quel momento in poi avrebbero trattato direttamente con lo stato russo.

Ma Prigozhin non si era rassegnato al declino ed aveva continuato a viaggiare in Russia, in Africa e in Medio Oriente per mantenere in vita i propri rapporti d’affari. I suoi principali collaboratori, Utkin e Chekalov, avevano continuato a lavorare per mantenere i mercenari della Wagner in Siria, in Libia e nel Sahel.

Campagna d’Africa

Prigozhin aveva anche fatto la propria comparsa a margine dei lavori del vertice Russia-Africa di San Pietroburgo a luglio. I leader africani erano stati avvertiti dal governo russo di evitare di incontrare il capo della Wagner, ma quest’ultimo era riuscito ad avere un abboccamento con un alto funzionario della Repubblica Centrafricana, dove i mercenari del gruppo avevano registrato particolari successi.

Il vertice di San Pietroburgo aveva però anche visto per la prima volta la partecipazione di Andrei Averyanov, vicecapo del GRU, nella delegazione ufficiale russa. Secondo alcune fonti, Averyanov stava sviluppando un piano per rimpiazzare la Wagner in Africa con un corpo militare di 20.000 uomini. Prigozhin aveva tentato in ogni modo di ostacolarlo.

“Non ci stiamo ritirando, ed anzi, siamo pronti ad andare oltre e ad accrescere i nostri vari contingenti”, aveva dichiarato il leader della Wagner a luglio in Camerun. Egli aveva anche offerto i propri mercenari alla giunta militare recentemente insediatasi in Niger.

Pochi giorni prima di andare incontro al suo tragico destino, Prigozhin si era recato di nuovo nella Repubblica Centrafricana per garantire la continuità dei suoi affari di maggior successo. Egli aveva anche incontrato esponenti delle Forze di Supporto Rapido (FSR) che in Sudan stanno combattendo una guerra fratricida con l’esercito regolare.

Mentre la Wagner ha assicurato appoggio alle FSR, la posizione ufficiale di Mosca nel conflitto sudanese è una più equilibrata scelta di neutralità, intrattenendo il governo russo buoni rapporti anche con l’esercito di Khartoum.

L’influenza russa sta crescendo in molti paesi africani, ma Mosca deve anche tener conto dei delicati equilibri nel continente, ad esempio cercando di prevenire lo scoppio di un conflitto regionale in Niger, dove la giunta militare che ha preso il potere minaccia gli interessi di Francia e USA.

Non si può escludere che esponenti militari e diplomatici a Mosca abbiano ritenuto che l’irruenza e la spregiudicatezza di Prigozhin rappresentassero un rischio per gli interessi russi nel continente africano.

Resa dei conti

Mentre il leader della Wagner tesseva la sua tela toccando il suolo del Mali (da dove probabilmente ha pubblicato il suo ultimo video) dopo quello della Repubblica Centrafricana, una delegazione del ministero della difesa russo giungeva in Libia, proveniente dalla Siria, per definire le modalità con cui rimpiazzare il gruppo di Prigozhin nel paese.

La delegazione era guidata dal viceministro della difesa Yunus-Bek Yevkurov, già leader dell’Inguscezia (repubblica caucasica a maggioranza musulmana), brevemente fermato dai combattenti della Wagner nel quartier generale di Rostov durante il loro ammutinamento di giugno.

Il giorno dopo l’arrivo di Yevkurov in Libia, Prigozhin, appena rientrato dall’Africa, si schiantava con il suo aereo insieme a Utkin, Chekalov e alla sua scorta personale, a due mesi esatti dal tentato colpo di mano di giugno.

La Wagner condivide una base con il GRU a Molkino, nel distretto di Krasnodar, annovera tra i suoi ufficiali molti uomini provenienti dal GRU – fra cui lo stesso Utkin – e dall’esercito, ed ha ricevuto gran parte dei propri armamenti dal ministero della difesa.

E’ possibile che esponenti militari, all’interno del ministero della difesa o del GRU, abbiano deciso di infliggere una “punizione esemplare” a Prigozhin, in una data fortemente simbolica, per richiamare all’ordine un’organizzazione che, emersa come una costola degli apparati militari, era divenuta troppo indipendente e spregiudicata?

La possibilità esiste. Meno probabile è una responsabilità dell’FSB, che non sembra aver giocato un ruolo di rilievo nella vicenda. Di conseguenza, anche un ordine direttamente impartito da Putin appare meno plausibile. Il presidente russo aveva tentato una soluzione di mediazione che potrebbe essere stata ritenuta insoddisfacente dai ranghi militari, alla luce della “irriducibilità” di Prigozhin.

Putin potrebbe essere stato messo di fronte al fatto compiuto. Sembra non del tutto verosimile che egli, sempre attento agli equilibri internazionali ed all’immagine della Russia nel mondo, abbia ordinato un’operazione così brutale e definitiva proprio mentre era in corso un importantissimo vertice come quello dei BRICS in Sudafrica, nel quale Mosca era sotto i riflettori internazionali.

Se le cose sono andate così, ciò confermerebbe fra l’altro il carattere tutt’altro che assoluto del potere detenuto dal presidente russo, ed il ruolo via via più assertivo degli apparati militari in un paese impegnato in una guerra esistenziale con l’intero Occidente.

Epilogo

Il giorno dopo l’incidente, un Putin apparentemente in tono minore ha offerto le proprie condoglianze alle famiglie delle vittime, soffermandosi in particolare sulla figura di Prigozhin, definito come “un uomo dal destino difficile” che egli aveva conosciuto fin dagli anni ’90, un uomo che aveva commesso “gravi errori” nella sua vita, e che però aveva ottenuto “i risultati necessari per se stesso ma anche per il bene comune quando gliel’ho chiesto”.

Naturalmente, numerosi interrogativi restano senza risposta. Si è parlato di altri ufficiali della Wagner forse presenti su un secondo aereo privato che volava con quello di Prigozhin al momento della catastrofe. Si è detto che il leader della Wagner utilizzava sempre due aerei e decideva all’ultimo momento con quale viaggiare. Altre fonti negano però che questo secondo aereo fosse legato all’organizzazione.

Vi sono sostenitori del gruppo che ritengono che l’incidente ancora una volta sia stato un trucco, una maskirovka, l’ultimo supremo inganno del trickster Prigozhin che gli avrebbe permesso di uscire di scena.

Storie e leggende continueranno a fiorire attorno alla figura del leader della Wagner, ma la sua parabola sembra essersi ormai definitivamente conclusa.

E’ possibile che l’organizzazione gli sopravviverà, anche se ridimensionata e di nuovo sottoposta al controllo dei vertici militari russi. Sicuramente Mosca continuerà ad impiegare lo strumento delle compagnie militari private in Africa e in altri teatri.

Non è da escludere, infine, che contraccolpi della vicenda Wagner si avvertiranno ancora nelle gerarchie militari, dove essa ha già messo a nudo alcune fratture.

Basti ricordare la rimozione del già citato generale Surovikin, dopo che egli aveva giocato un ruolo chiave nella riorganizzazione della campagna militare russa in Ucraina e nella costruzione di quelle linee difensive finora rivelatesi insuperabili per l’esercito di Kiev.

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