PREPARAZIONI INVERNALI, di Pierluigi Fagan

PREPARAZIONI INVERNALI.
Impazzano le analisi ed i commenti sulla mossa referendaria voluta dai russi per i territori sin qui sottratti all’Ucraina, oggi accompagnata da un discorso di Putin con Shoigu a seguire. Poiché rappresenta una parziale novità rispetto alla guerra in corso su cui avevamo sospeso i discorsi fino, appunto, a novità di rilievo, ne diamo un commento.
La mossa referendaria era stata annunciata più e più volte sin dai primi mesi di guerra. Arriva a fine settembre e ciò induce a pensare in rapporto al tempo. Nei fatti, l’operatività militare su terra in quel di Ucraina sud-est, da ottobre quantomeno sino ad aprile inoltrato, sarà fortemente condizionata dal tempo atmosferico, pioggia, neve, gelo. Questo porta a diversi problemi operativi in termini di logistica militare, a parte lanciarsi l’un l’altro missili in testa. Nei fatti, la blocca o la limita fortemente. Per i mezzi pesanti, escluso l’off-road, rimane l’utilizzo delle strade o autostrade, praticamente un invito a farsi bombardare su coordinate certe, lo abbiamo visto già all’inizio del conflitto che era appunto marzo-aprile. A scanso d’equivoci, anche per turnare le truppe nei lunghi mesi freddi e bui, il Cremlino mobilita la riserva ovvero ex soldati già formati, da aggiornare.
Ammetto di non esser un analista militare, leggeremo i contributi di chi ne sa di più, ma ad occhio mi sembra che tempistica e contenuto degli annunci siano così leggibili. Si tratta di quel “congelamento del conflitto” ovvero consolidare le posizioni difendendole e senza nuove iniziative, iniziative problematiche anche per l’avversario, di cui già parlammo. Mosca avrebbe preferito senz’altro conquistare tutto il Donbass, ma non è stata in grado, tanto vale allora prenderne atto ed attestarsi.
Passiamo allora al piano strategico e politico. Mosca ha dichiarato i suoi obiettivi in tre più due punti sin dai primissimi giorni. Si trattava della famosa intervista Peskov a Reuters basata su. 1) riconoscimento autonomia Donbass; 2) riconoscimento sovranità di Mosca su Crimea; 3) neutralità in Costituzione ucraina con, in aggiunta, de-militarizzazione sostanziale dell’Ucraina (di cui Shoigu ha appena detto esser nei fatti stata realizzata, al netto degli apporti successivi NATO) e la quanto mai vaga denazificazione. Poiché questi due ultimi punti erano e rimangono vaghi, sembrano messi lì apposta per trattare di modo l’uno possa dire “ho vinto” e l’altro “ho vinto o comunque non ho perso e comunque non ha vinto lui”. I punti 2) e 3) dovrebbero esser in qualche modo trattabili, l’1) no. Direi che l’impianto rimane valido dopo quasi sette mesi di conflitto anche perché così è continuamente ribadito dai russi nella formula “obiettivi dell’operazione militare speciale” e quindi lo assumerei come posizione russa alla base della strategia del congelamento operativo del conflitto.
Sul piano politico ci sarebbe da parlare degli equilibri interni alla Russia nonché tra Russia ed amici SCO, ma lo faremo in altro momento.
Alla luce di ciò, anche le consultazioni nelle aree non Donbass che costituiscono oggi l’area della cartina aggiornata, avrebbero un valore successivamente trattabile, trattabile -nella mente dei russi- in un quadro più ampio in cui vanno messe sanzioni, ostracismo, forniture gas et varia. Ogni area avrebbe un suo peso e prezzo in una ipotetica trattativa. Ovviamente, ad oggi, non si vede la minima prospettiva di trattativa, fra sette mesi, chissà. Personalmente e contrariamente a molti, non vedo escalation di fatto, vedo anzi congelamento situazione di fatto e scommessa su i tempi lunghi.
Non so dire se hanno o meno ragione, ma a me pare che i russi sapessero sin dall’inizio che la questione sarebbe stata lunga, quindi immagino si siano attrezzati relativamente. Occorre scorporare tutto ciò che cediamo di sapere perché lo hanno detto le fonti informative occidentali dalla blitzkrieg a Kiev, all’invasione fino ai confini della Romania, la Novorussia con Odessa ed altre intenzioni attribuite in statuto ampiamente ipotetico. Nei fatti, nulla di tutto ciò potevi ottenerlo con 100-150.000 uomini quindi nulla di tutto ciò era nelle strategie russe.
Le strategie poi debbono declinarsi e le si declinano anche rispetto all’avversario, non puoi farle tutte a priori. Mi sembra probabile i russi vogliano vedere come staranno le cose tra sette mesi e cosa faranno ucraini ed euro-anglo-americani in questi sette mesi. Mi pare un gioco su un tavolo in cui le fiches sono appunto “tempo”. Chi ha più tempo e resistenza? I russi vantano di poter mettere sul piatto altri 300.000 riservisti per turnare al fronte, difesa, presidio, nulla di particolarmente impegnativo se non rischiare la pelle sotto le bombe ed i missili che continueranno a piovere. Gli ucraini al fronte e la popolazione verso la quale si potranno avere altri disagi come il riscaldamento e la luce, come staranno tra sette mesi? E cosa succederà alle elezioni americane di novembre? Gli americani daranno missili a lungo raggio o addirittura aerei il che li porterebbero ufficialmente in guerra? E l’Europa, quale sarà la geografia politica europea dopo il lungo e problematico inverno e relativa tenuta delle opinioni pubbliche? La partita è ancora lunga.
Credo i russi vogliano comprare tempo, vedremo, è una ipotesi. A poker corrisponderebbe non a “rilancio” ma allo “sto”, “arrocco” se preferite gli scacchi. Certo, ogni ipotesi deve fare i conti con la consistenza di deduzioni ed induzioni su informazioni che però non sono certo quelle date in pubblico dalla stampa occidentale. Vedremo quindi quale tra questa ed altre ipotesi avrà più consistenza.
[Non mi sfugge il tintinnio di atomiche ovvio, solo che parlarne è un conto, usarle un altro. La M.A.D, secondo me, di base vale ancora, com’è ovvio che sia]

Roberto Buffagni

Buona ipotesi ma perché si verifichi bisogna essere in due, ossia bisogna che l’Ucraina, dopo aver messo in campo l’esercito ucraino 1 e l’esercito ucraino 2 (quello della controffensiva), non metta in campo l’esercito ucraino 3. Io purtroppo temo che lo faccia, perché a giudicare o meglio a improvvisare un giudizio sulla base di quel che si vede, ho l’impressione (NON le prove) che già nell’esercito ucraino 2 ci siano interi reparti – non singoli, reparti – NATO a cui sono state cambiate le mostrine e organizzato un quadro giuridico sufficiente a inquadrarli formalmente nell’esercito ucraino. Se le cose stanno così per la Russia questa storia non finisce mai, la “demilitarizzazione” dell’Ucraina è impossibile senza un dispiegamento di forze molto rilevante. E più dura la guerra, più sale di intensità, più si fanno probabili improvvise escalations, anche per semplici incidenti. 
DUE È FACILE, TRE È COMPLESSITA’.
[All’inizio non sembra, ma è un post di geopolitica]. Questo il titolo di un libro scritto ormai qualche anno fa da un fisico inglese. Il concetto proviene da un problema matematico-astrofisico, detto “problema dei tre corpi” analizzato dal grande matematico francese Henry Poincaré. Analizzando il corpo delle equazioni, si arriva alla Teoria del caos ed altri sviluppi la cui gran parte entra nella cultura della complessità.
Da un po’ di tempo seguo delle lezioni on line di fisica sul problema della gravità quantistica. Naturalmente non capisco granché di quello che dicono. Vi domanderete: allora perché butti via così il tuo tempo? Perché seguo abbastanza per capire come ragionano, che forma ha il ragionamento. Il ragionamento è il funzionamento di quella che qui chiamiamo immagine di mondo. L’immagine di mondo è una proprietà sistemica della mente umana. Naturalmente essa ha varietà in base al sesso, l’età, l’etnia, il cumulo di esperienze, la formazione e il campo specifico in cui opera il portatore. Tuttavia, è sempre possibile individuare dei gradi di generalità. Ad esempio, seguire i modi di ragionare in questo campo della fisica, trovandone corrispondenza in generale nel pensiero scientifico, ma anche nel pensiero non scientifico. Al livello più generale, sono sempre, tutte, “menti umane”.
Nel pensiero generale, specie quello occidentale, si privilegia il discorso sull’Uno. A volte e recalcitrando, si affronta il problema del Due che è poi la relazione tra due Uno. Ma a Tre scoppia il casino. Il “casino” qui è la nostra pretesa di perfetta calcolabilità delle cose, una sorta di sindrome da controllo. La sindrome è una nostra minorità, le cose là fuori, ma anche dentro di noi, sono collegate tra loro in matasse 4D, per cercar di domare il casino lo semplifichiamo. La semplificazione è la nostra procedura di riduzione della complessità intrinseca affinché il tanto degli oggetti e fenomeni osservati, possa entrare nelle nostre limitate facoltà. La procedura non ha alternative, la mente umana è quello che è, quindi è legittima. È però un problema quando ci convinciamo non di far qualcosa di arbitrario per quanto necessario, ma che il mondo è proprio così come lo riduciamo per farcelo entrare nella testolina.
Passiamo allora alla geopolitica partendo da un articolo di Le Monde.
L’articolo segnala che nella dinamica sempre più conflittuale tra Ucraina con dietro allineato l’Occidente (Europa ed Anglosfera) e Russia con dietro i meno allineati ma non per questo contrari SCO-BRICS etc., una grande e sempre crescente parte del mondo, decide di chiamarsi fuori, di non allinearsi.
L’articolo cita un funzionario UN, secondo il quale, questo gruppo crescente di Paesi che pesa “metà del mondo”: 1) ritiene la guerra russo-ucraino un conflitto regionale intra-europeo quindi a loro estraneo; 2) questo gruppo di paesi ha legami diretti o indiretti con la Russia e con l’area SCO-BRICS che vengono vissuti come meno imperativi dell’Occidente; 3) questo gruppo ha memoria e percezione del fatto che l’Occidente manipoli a piacimento i principi della convivenza planetaria come più gli fa comodo. Secondo me si è dimenticato un quarto punto, forse il più importante. Questi Paesi hanno un loro elenco di problemi e priorità che nulla hanno a che vedere con lo stato di conflitto in essere e in Ucraina e, più in generale, nella fase storica di transizione o meno ad un ordine multipolare. Detto altrimenti, questo gruppo di Paesi non ha alcuna sensibilità all’interferenza ideologica nel giudizio, avendo davanti una lunga lista di problemi concreti di ben altro peso e natura.
Uno studioso francese dell’IFRI (Istituto di Relazioni Internazionali Francese), nota giustamente che la Russia pur essendo solo l’undicesima economia al mondo, ha grande rilevanza in: gas, petrolio, armi, energia nucleare civile ed alcuni alimenti tra cui grano. Quindi ha facoltà di contro-sanzionare turbando in profondo mercati strategici dai quali essi stessi dipendono.
Pare che i francesi, vecchie volpi di colonialismo anche culturale, siano particolarmente sensibili a questi smottamenti, si pensi al loro ruolo in Africa. Pare dunque che Macron, dice Le Monde, sia impegnato a sensibilizzare europei ed alleati a non perdere questa “metà del mondo” che se ne sta andando per conto suo. L’articolo non è un saggio, quindi si limita a esortare a nuovi sforzi diplomatici. Temo però non si tratti di far chiacchiere più o meno sensibili e sintoniche, ma di analizzare nel concreto obiettivi, interessi e nuova concorrenza nel soddisfarli.
Altri articoli anche sul Guardian, segnalano che tra MBS e Biden ormai è partita persa, i due divergono senza mediazione. Sintomatica altresì, la recente uscita sincronica di più articoli critici su quella che gli occidentali cominciano a chiamare “l’ambiguità indiana”, la quinta nazione al mondo per Pil ma la prima per popolazione tra qualche mese. Gli indiani, com’è ovvio, fanno gli indiani. Comprano armi ed energia dai russi salvo poi dirgli di smetterla con la guerra. Litigano a 4000 metri coi cinesi per confini delle reciproche sfere di orgoglio nazionale ma poi ci fanno assieme cose nella SCO e nei BRICS. Comprano navi dagli americani e ci fanno esercitazioni militari assieme, ma le fanno anche coi russi ed i cinesi. Incassano le profferte che piovono da più parti (ultimo Biden qualche giorno fa) di includerli nella riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di cui tanto di parla ma che nessuno è davvero in grado di promuovere a breve dato che siamo in modalità conflitto planetario e non stagione diplomatica.
Poiché credo tutto ciò sia stranoto e previsto dagli strateghi di Washington, per quanto è possibile scontino un certo grado di cecità selettiva che porta a concentrarsi sulle cose che gli danno ragione e minimizzare quelle che gli danno torto, sindrome di perdita di realismo che colpisce fatalmente ogni sistema in parabola dis-adattativa, se ne dovrebbe trarre una inferenza. A Washington, il problema mondo è diagnosticato come irrisolvibile in prospettiva, tanto vale serrare i ranghi e prepararsi al conflitto su larga scala, il più forte sopravviverà.
Cosa nota diranno alcuni, così come altrettanto noto è il fatto che questa posizione forse inevitabile per USA ed anglosfera, non sembrerebbe coincidere nel campo degli interessi e delle possibilità con quella europea. Tant’è che la più alta sensibilità geopolitica notoriamente francese, tra quelle subcontinentali, se ne preoccupa.
Sarà che Poincaré era francese, ma i transalpini sembrano preoccuparsi del problema dei tre corpi e relativa complessità tendente al caos a dimensione mondo, tanto da avere una intera testata votata a questo oggetto. Noi abbiamo il Corriere di Milano e la Repubblica di Roma. Quindi inutile parlare di queste cose qui nel Paese che pensa che il mondo è tutta quella sfocata roba intorno alle cose che davvero contano. È proprio in base a ciò che ritieni conti davvero che poi conterai o meno nel grande gioco di tutti i giochi.

INVECCHIARE MALE, di Pierluigi Fagan

INVECCHIARE MALE. La chart mostra lo sviluppo progressivo della Shanghai Cooperation Organization, nata nel 2001, l’anno dell’entrata nel WTO della Cina e del 11/9. Originariamente fondata da Cina, Russia ed i quattro “-stan” centroasiatici, ha poi aggiunto India e Pakistan tra i membri, più una periferia a gironi. Ci sono Stati in procedura di cooptazione (Iran e Bielorussia), osservatori (Mongolia, Afghanistan) e partner di dialogo (oggi ben 14 tra cui Turchia, Egitto, quasi tutto il Medio Oriente). Al momento, rimane fuori il vivace sud est asiatico (ASEAN), ma non cedo rimarrà tale a lungo per ragioni di logica materiale.
L’Asia, complessivamente, conta oggi il 60% della popolazione mondiale, quasi il 50% del Pil mondiale, per circa 50 Stati. Sono, in media, Stati grandi e massivi, tant’è che in numero sono praticamente pari a quelli europei (49 a 45), con la differenza che l’Asia conta 4,5 miliardi di persone mentre l’Europa ne conta solo 750 milioni, ma ci sono vari modi contare (ad esempio in queste cifre la Russia è contata come europea perché fino ad oggi in geografia così s’è ritenuto di fare, ma si può dubitare così si continuerà a fare).
Questa la statica. La dinamica mostra un futuro incremento di popolazione per l’Asia ed un ancor più pronunciato incremento della percentuale di Pil mondiale, consenso unanime di tutti gli analisti. Eccetto il Giappone, tutti gli stati asiatici hanno adottato le forme dell’economia moderna (tecnoscienza-mercato-capitale), solo dal dopoguerra e progressivamente rispetto anche allo sviluppo del lento processo di de-colonizzazione. La Cina, ad esempio, s’incammina lungo i percorsi di economia moderna solo da fine anni ’70, l’India anche dopo.
Quest’ultimo punto va meglio spiegato. Lo sviluppo portato dall’utilizzo dei principi di economia moderna è una curva. Poiché è fatto storico relativamente recente (XIX secolo, in Europa e Stati Uniti), nessuno ha mai chiarito se tale curva che indubbiamente mostra una linea ascensionale più o meno pronunciata, arriva poi ad un tetto, lì rimane un po’ e poi tende a calare o come i più implicitamente pensano, scambiando la logica della fisica con quella metafisica, cresce all’infinito. Purtroppo, questo argomento è viziato dalle ideologie e l’economia è oggi il campo preferito delle ideologie che si sono dichiarate morte in politica, per altro assai prematuramente. Nei fatti, i fatti si misurano in dati (numero-peso-misura), la crescita delle principali economie moderne (o capitalistiche o OCSE o peggio ancora G7), negli ultimi cinquanta anni, tende a flettere in intensità, a volte in assoluto. Sembrerebbe quindi che, come logica delle curve logistiche impone, quello dell’economia moderna sia un ciclo che per lunga fase iniziale sviluppa, poi si ferma, poi tende a sgonfiarsi. Si può discutere se si possa allungare come e quanto il raggiunto livello del momento ottimale, ma pare che l’idea di una crescita e sviluppo infinito è inconsistente, come ben sanno i fisici che quando trovano “infiniti” nelle equazioni, sanno che stanno sbagliando qualcosa.
Tutto ciò non ha solo direttamente a che fare con le obiezioni sulla crescita infinita fatte già negli anni ’50 da un economista della complessità (Kenneth Boulding) e ripetute poi da decrescisti armati di Secondo principio della termodinamica. Ha a che fare col “sottostante” dell’economia, del ciò che compone il fare economico. L’economia produce beni e servizi, ma la quantità di beni e servizi utili o quasi utili o superflui ma piacevoli, fino ai superflui insensati come la televisione 3D o i monopattini elettrici, è comunque tendente alla saturazione, ad un limite. Si dirà: ma il desiderio umano è un motore infinito, già, ma forse la sua conversione in prodotti e servizi che promettono di soddisfarlo (in realtà non soddisfacendolo mai altrimenti il sistema collassa), no. A dire che se prendete in storia sociale dell’economia l’Europa dell’inizio del XIX secolo, scorrete fast-forward il film, vedrete spuntare edifici, palazzi, strade, fogne, ferrovie, porti, aeroporti, macchine, moto, televisioni, radio, computer, ogni altro ben di dio materiale e molti servizi connessi poi -ad un certo punto- vi accorgerete che c’è già più di tutto e non si vede cos’altro manchi per trainare la curva in su. Non che non ci sia più nulla da inventare o produrre, certamente si può fare ancora molto ad esempio in termini di economia pubblica piuttosto che privata, ma quando andrete a fare i conti, non troverete più le vivaci condizioni di possibilità che c’erano nella fase ascensionale della curva. Tutto ciò lo stiamo scoprendo, a fatica, ora, poiché è la prima volta nella storia che si presenta il fenomeno dell’economia moderna. Quasi tutti, liberali non meno che keynesiani ovvero teorici interni il campo “economia moderna”, danno per scontata l’infinità della curva prodotta dall’utilizzo dei principi e delle forme di economia moderna. Ne consegue la loro difficoltà esistenziale ad ammettere che la curva non è infinta e quando comincia a flettere occorrerebbe ripensare non solo le forme dell’economia in generale, ma il suo ruolo nell’ordinamento delle nostre società.
Quest’ultimo punto però porterebbe a dover la lasciar il campo ai teorici socio-politici e questo per un economista non si dà. O quantomeno ad un fertile dialogo multidisciplinare per capire “quanto” si deve lavorare (lavoriamo più o meno secondo gli standard fissato nella convenzione internazionale del 1919, pensate un po’ quanto è assurdo il mondo), chi e come, con quale reddito, con quali servizi pubblici, dedicando a cosa il restante tempo etc. La questione non è solo tecnica ovvio, è l’ordine complessivo della società e dei poteri che finirebbe con l’essere trasformato, da cui una certa resistenza ad accettare la realtà.
Tutta questa lunga digressione, per sottolineare come l’Asia sia complessivamente nella fase iniziale della curva di sviluppo, noi nella fase terminale. Loro con sotto 4,5 miliardi di produttori-consumatori giovani che hanno spesso ancora bisogno dei fondamentali, noi con 0,7 miliardi di tendenzialmente anziani, sempre meno produttivi, annegati nel superfluo ma anche meno consumanti visto che le aspettative passano dalla spider ai pannoloni.
Tutto ciò in novelle condizioni perigliose quanto ad ambiente, ecologie e clima ovvero stato del tavolo di gioco.
Tutto ciò è un problema? Non lo so, so che è un fatto ed a ogni fatto dello stato del mondo in cui viviamo, ci si dovrebbe adattare. Come ci adattiamo? Revochiamo la globalizzazione per impedire che la loro crescita ci superi, li trattiamo come paria perché non sono bianchi, profumati e democratici, eleviamo sanzioni per correggere la loro endemica tendenza al dispotismo asiatico, aumentiamo la spesa in armi, espandiamo le nostre alleanze militari e riempiamo le nostre popolazioni di cazzate emesse a banda larga 24/7. Così, a naso, non mi pare una grande strategia.
A poker, non so se l’espressione è valida in tutta Italia, si dice “piatto ricco mi ci ficco” a dire che quando il piatto promette vincite consistenti, varrebbe la pena di rischiare e stare al gioco. Noi che siamo nella curva flettente, sia dell’esistenza che dello sviluppo economico che, forse, della nostra stessa civiltà, invece di partecipare allo sviluppo asiatico, alziamo muti, barriere, emaniamo fatwe, ostracizziamo, ci armiamo. Invecchiamo male, acidi, rancorosi, ottusi.
Di solito, in Storia, va sempre così e nonostante ciò -credo di non spoilerare nulla di inaspettato-, di solito finisce molto male. Regoliamoci.
PEACE WITHOUT LOVE. [Post lungo]. Come esseri umani siamo un amalgama di razionalità e sentimento. E’ culturale la divisione che facciamo tra i due modi di essere che condividiamo come umani. Significa che facciamo questa divisione in descrizione, più o meno accentuata e problematica, ma tale distinzione in natura non c’è affatto.
Nulla più che la politica e di conseguenza la geopolitica (ed altri casi tribali come il calcio), eccita entrambi i modi umani. Tuttavia, ci sono buone ragioni per suggerirci di tenere a bada questa commistione o meglio, la sua parte emotiva.
In effetti, se la politica è il trovare il modo di convivenza entro un popolo, la geopolitica potrebbe essere il trovare il modo di convivenza tra i popoli. A livello epistemologico non è esattamente così, geopolitica va sovrapposta ad un’altra disciplina, le Relazioni Internazionali e forse anche altre più normative, per ampliare il suo statuto da descrittivo a prescrittivo. Tuttavia, regge l’idea che come la politica cerca di trasformare conflitti e caos potenziale in un regolamento per le relazioni interne, “geopolitica” -nel senso più ampio datole- dovrebbe cercare di trovare il modo di gestire conflitto e caos potenziale nelle relazioni esterne.
Messa così, che sia politica interna o politica estera, le discipline che studiano le relazioni interne esterne delle poleis (gli Stati), dovrebbero essere razionali e governare l’emotività intrinseca che ci connota e che viene eccitata quando abbiamo a che fare con “l’Altro”.
Da quando siamo finiti a vivere assieme agli estranei, agli albori della civiltà cinque-seimila anni fa circa, s’è posto questo problema del trovare ordine interno ed esterno, problema che prima non c’era. Prima non c’era questo problema quanto agli ordini interni perché i gruppi umani, la vita associata, era basata su longeve interrelazioni tra persone che si conoscevano bene, figli e figlie di altri che si conoscevano bene. Questo “conoscersi” significava -di minima- sapere cosa aspettarsi dall’altro, se non avere un congruo set di comuni valori, mentalità, tradizioni unificanti. Ordine, insomma, in senso ampio. Non così nell’andare a vivere con “estranei” quindi “diversi” come accadde quando sorsero le prime città con decine di migliaia di reciproci estranei.
Quanto alle relazioni esterne, prima della civiltà e per lo più, c’era abbastanza spazio che divideva i gruppi umani, non troppo e quindi favorevole all’interrelazione e scambio (idee, persone, cose), non troppo poco da farli urtare l’un con l’altro. In più, il rapporto tra dotazioni di sussistenza dei territori ed esigenze dei gruppi umani e soprattutto loro dimensione, era ben bilanciato e quindi non c’era il conflitto per lo “spazio vitale”.
L’avvento della “civiltà” che non fu una condizione piovuta da non si sa dove, ma il compimento di una serie di traiettorie soprattutto demografiche ed ecologiche (che nulla avevano a che fare con l’invenzione dell’agricoltura che risale a millenni prima dell’avvento della civiltà), ci mise però in altra condizione. Appunto, trovare regolamenti di convivenza interni ai gruppi umani ed esterni tra gruppi umani. I gruppi non si auto-organizzavano più per eccesso di complessità. Per cinquemila anni, questi due regolamenti dell’interno e dell’esterno, prevalentemente, sono stati forme interne di stretta gerarchia, con un piccolo gruppo di maschi anziani di potere a capo e per lo più la guerra tra gruppi umani, intervallata da periodi di relazioni pacifiche a base di scambi di idee, persone e cose per l’esterno.
La guerra, nonostante gli sforzi di certi “scienziati” bio-sociali anglosassoni che dominano la formazione della nostra immagine di mondo, gente capace di scriverti un libro sul “gene delle guerra” o tirar fuori improbabili teorie sull’aggressività primate trasferita a noi, non è un istinto umano, anche perché mette a rischio la vita e tutta la nostra complessione raffinata in più di tre milioni di evoluzione e cambiamenti, è fatta per evitare la morte il più a lungo possibile. E’ fatta anche di continuo affinamento della capacità di gestire gli istinti, per altro. Da cui la razionalità.
Non solo siamo emotivamente avversi a correre rischi di morte, ma dotati di razionalità, dovremmo esserlo anche sul piano della consapevolezza cosciente. L’aggressività animale a livello inter-individuale, che senz’altro c’è, non porta di per sé all’aggressività di gruppo se non sollecitata intenzionalmente. Tant’è che il registro etno-antropologico è pieno di casi di conflitto tra gruppi simulato, non veramente agito, senza vero spargimento di sangue. Se non mediazioni a base di scambi fino all’andare a vivere da un’altra parte. Negli studi storici, poi, si può apprezzare la sofisticata fantasia narrativa con cui i vari gruppi di potere hanno convinto o costretto i propri giovani ad andar a morire per motivi spesso assai bizzarri.
Tuttavia, l’estrema primitività del nostro grado di civiltà (si ricordi che il genere homo ha tre milioni di anni, il sapiens trecentomila, la “civiltà” solo cinquemila, lo 0,16% del tempo totale) è ancora basata sul fatto che le oligarchie che dominano l’ordine delle nostre società, tali sono per via di sistemi di ordine interno che richiede spesso il dominio esterno, il che porta a conflitto. Il fenomeno non si forma per libera decisione razionale a livello di popolazioni, è formato per via emotiva, l’odio per l’Altro diretto dall’alto.
Molti storici della mentalità hanno osservato sbigottiti la repentina trasformazione di pacifici idraulici e ragionieri europei in quel dei primi del Novecento, in esagitati e schiumanti belve pronte all’assalto con la baionetta. Ancora ci si domanda come sia potuto avvenire nel cuore della “civiltà europea”, Francia, Germania ed altri.
Alcuni che non hanno le idee molto chiare, i “pacifisti” in genere, sono per principio contro la guerra e quindi il conflitto esterno, ma ne deducono improvvidamente la necessità di amare l’Altro. In genere, solo gli stessi che dicono di amare l’Altro che viene occasionalmente a vivere con loro, lo “straniero” o il “migrante”. Meglio senz’altro delle élite conflittuali, non c’è dubbio, ma temo che tali atteggiamenti non aiutino a risolvere il problema della “convivenza con gli estranei”.
In Svezia hanno “amato” democraticamente l’Altro migrato da loro, fino a che questi non hanno raggiunto una massa critica, si sono determinati in enclave culturalmente diversa, creando attriti e potenzialità di conflitto interno. Capita così che la media della popolazione cominci a soffrire di mille piccoli attriti di convivenza con estranei, arriva un partito post-fascista che dice loro “avete ragione! Ora mettiamo ordine, con le buone o con le cattive!” e dopo decenni di serena social-democrazia, vince le elezioni. Che poi, ironia della sorte storica, questo evento di politica interna, è sincronico ad uno di politica estera ovvero la rinuncia allo stato di neutralità che la Svezia ha coltivato per ben due secoli, a partire dalle guerre napoleoniche. Paura, politica della paura, usata da politici diversi, per intenti diversi.
Fare politica o geopolitica coi sentimenti non è buona guida. Con la razionalità, invece, si possono ottenere risultati molto migliori come quelli che ottenne Kissinger che portò il suo presidente, un ultra conservatore americano, a Beijing a stringere la mano a Mao Zedong, pur di dividere la comunista Cina dalla comunista Unione Sovietica che preoccupava gli americani ben di più, impensabile oggi.
Così anche nei problemi di convivenza interna non c’è da amare o da odiare l’Altro, c’è solo da provare e riprovare a trovare una forma di utile convivenza gestita, gestita come lo scopriremo provando e riprovando formule varie. Formule non semplici e naturali, c’è da saperlo senza scandalizzarsi ed accendere l’emotività, farla facile o farsi prender dalla scoramento. Quanti stranieri, di che tipo, in quale congiuntura economica, studiando spesso questioni culturali che i più ignorano, come ad esempio non far finanziare le moschee da sauditi e qatarioti (centri di reclutamento al Qaida e Isis nel primo caso, Fratelli musulmani nel secondo). Se si decidesse di ospitare musulmani sarebbe meglio finanziarle noi le moschee, magari a prestito pluridecennale, il 98% dell’islam non è affatto salafita, basta andare in Oriente per notarlo. Con-vivenza non è né assimilazione, né ostracismo, è lenta e paziente mediazione razionale.
Tutto ciò a seguito della lettura di alcuni commenti sul mio ultimo post a sua volta ripostato da alcuni di Voi sulla propria pagina. Ho letto di gente che pensava esser l’autore del post un amico di Putin o Lukashenka o Xi Jinping o Bin Laden o forse il diavolo in persona, probabilmente anche un po’ razzista e xenofobo con venature orbaniane e criptofasciste, il che per un democratico radicale è ben curiosa misinterpretazione.
La misinterpretazione non credo sia colpa di ciò che scrivo, ma di ciò che molti si sono fatti ficcare in testa. C’è una crescita di sentimenti di odio, interni alla comunità e sincronicamente esterni. Sulla stampa di oggi si trova: a Samarcanda si riunisce il club dei dittatori che vogliono distruggere l’Occidente, il Sauron di Mosca è avido del nostro sangue, Il subdolo cinese ci vuole irretire coi suoi involtini primavera ma poi tirerà fuori la scimitarra per far volar le nostre teste democratiche (dopo aver invaso Taiwan), ci sono addirittura gli iraniani! Se non li odi allora vuol dire che li ami! Principio di non contraddizione applicato a vanvera.
Ricordate, la storia mostra che ogni volta un ordine interno sta per crollare, si irrigidisce internamente (l’Inquisizione non è un fenomeno del pieno Medioevo, solo della sua lunga fine) ed esternamente, il che porta alla guerra.
Per i livelli tecnologici applicati alle armi che abbiamo raggiunto, questa volta la guerra sarebbe da evitare in ogni modo. C’è da trovare il come, non facile. Ma impossibile se non stiamo attenti a sospendere i sentimenti di odio e di amore per l’Altro e non trattiamo la faccenda in modo razionale.
[Non sono sicuro esista davvero in Senegal questo proverbio, ma dovevo mettere una immagine ed è trovato questa che mi sembrava ben precisa rispetto al post]

NEL MONDO DEI CECHI BEATO CHI HA UN OCCHIO, di Pierluigi Fagan

NEL MONDO DEI CECHI BEATO CHI HA UN OCCHIO. Giunge notizia della prima manifestazione europea contro l’atteggiamento di un governo, ergo dell’Unione europea, verso il conflitto ucraino. A Praga erano 70.000 secondo la polizia, stante che in Repubblica Ceca sono 10 milioni, un sesto di noi. I temi erano il costo dell’energia, l’inazione del Governo verso l’inflazione e l’imminente disastro economico, neutralità nel conflitto e contratti sul gas diretti con la Russia.
L’informazione attribuisce la piazza all’estrema destra e comunisti, forze non parlamentari (cioè neanche l’opposizione parlamentare che pure c’è), in Cechia il governo è di centro-destra. La Repubblica Ceca ha la presidenza di turno dell’’UE. Da notare che una parte di questi contenuti si stanno manifestando già, ma gli stessi manifestanti davano segno di disagio soprattutto per l’aspettato autunno-inverno. Sono rare le manifestazioni preventive e se a Praga vanno in piazza ai primi di settembre, chissà cosa faranno la fine di dicembre o gennaio, li butteranno giù dalle finestre?
Analisti e commentatori, temono in prospettiva reazioni forti anche in UK e Francia. Domani in UK, dovrebbe esser eletta Liz Truss come nuovo primo ministro nelle primarie interne al partito conservatore. La Truss è una ex liberale ed è ultraliberista, quindi pensa di affrontare la situazione, che in Britannia è non poco critica dal punto di vista economico-sociale, con taglio delle tasse e corollario tipico di quella ideologia. Va però detto che: a) i conservatori in generale oggi risulterebbero perdenti in una eventuale elezione secondo i sondaggi: b) la posizione di Truss non è solidamente maggioritaria nel partito. La sua eventuale elezione risulterebbe dalla convergenza di casualità, dall’inciampo di Boris Johnson al fatto che l’avversario di Truss convince anche meno di lei per varie ragioni (tra l’altro è di origine indiana) oltre all’indubbia abilità adattativa anche in termini di metalinguaggi della Truss. A dire che la “nuova Thatcher” non ha dietro il momento storico della vera Thatcher.
Macron, dopo aver annunciato la fine dell’”era dell’abbondanza”, pare abbia fatto lunghe riunioni con il Consiglio di Sicurezza anche per prevedere le misure di emergenza per le questioni energetiche incluso, forse, l’utilizzo delle scorte strategiche nell’eventualità più grave. Macron non ha maggioranza parlamentare e sappiamo quanto i transalpini siano indocili nei momenti di crisi acuta.
Dell’Italia sappiamo e sappiamo in anticipo che difficile sarà per la Meloni tenere unita una coalizione che quanto a Lega, ma anche Forza Italia, non sopporteranno in silenzio la tortura economica (in particolare della loro base elettorale) del fatidico “combinato disposto” che si abbatterà sulla nostra struttura economico-sociale. Poi si potrebbe parlare di Germania ed Olanda ma il post aveva un altro intento.
Il post voleva invitare a riflettere su un fatto. Era noto a tutti che: a) gli “europei” intesi qui come totale indifferenziato delle popolazioni, si sarebbero trovati nella famose “condizioni storiche che non avete mai provato” come aveva minacciato Putin nel suo discorso della sera prima del 24 febbraio; b) le condizioni storiche sarebbero state un collasso di inflazione (dovuto anche a dinamiche pre-guerra ma che la guerra e la nostra reazione politico-economica certo non migliorava), più severi problemi energetici, più altri problemi indotti da volatilità di molte materie prime proprie di russi e di ucraini, in un più generale “momento” geoeconomico complicato e turbolento. Ovvero impatto diretto su attività produttive (dall’industria al semplice commercio) e vita di tutti i giorni (riscaldamento ed energia elettrica). Cosa ha fatto pensare ai decisori politici e geopolitici che tutto ciò si sarebbe potuto gestire come hanno deciso e stanno decidendo di gestirlo?
Solo per amor di storia del pensiero, Alexis de Tocqueville, pensava che le “rivoluzioni” potessero scoppiare non quando le cose andavano male, ma quando cominciavano ad andare drasticamente peggio in poco tempo. Non importava il livello delle condizioni originarie, era il brusco scalino il problema.
I “decisori” davvero si sono convinti che sarebbe bastato un bombardamento ideologico in favore della resistenza all’aggressione russa, la difesa dei nostri “valori”, la solidarietà con il prima ignoto e se noto neanche così ben considerato “popolo ucraino”, per motivare la sopportazione della crisi indotta? Mi rivolgo anche a coloro che leggendo questo post, sono in effetti convinti che tutto ciò non solo sia “giusto” ma possa davvero funzionare. Li invito a non concentrarsi sul fatto che sia giusto o meno pensando qui si sostenga che non è giusto, non è questo il problema. Il problema che volevo porre era: davvero qualcuno pensava e pensa che tutto ciò potesse funzionare? Ovvero sopportare sulla propria pelle i costi di questa guerra stante che proveniamo da sette decenni senza concetto diretto di guerra, questa guerra è sì vicina ma in fondo anche lontana, non sempre sono chiari i suoi contorni al di là delle semplificazioni somministrate a forza in questi sei mesi, tra lunga crisi del secondo decennio del secondo millennio, Covid shock, congiuntura globale assai impegnativa e stati d’anima perturbati per varie ragioni, alte e basse, la “gente” è sfiduciata, stanca, smarrita e spesso in condizioni concrete problematiche e senso delle prospettive future anche peggio?
Qui si aprono due possibilità. Sì, c’era qualcuno che era ed è davvero convinto che tutto ciò potesse e possa funzionare, resisteremo, la società non si strapperà tragicamente ed alla lunga vinceremo la sfida. “Alla lunga” poi è concetto forse poco chiaro. Roubini, ad esempio, parla di un prossimo “decennio perduto” in Europa come di cosa certa ed incontrovertibile dati i numeri ed il buonsenso e non mi è chiaro su cosa si possa fondare una previsione contraria. Quindi per tornare alla teoria della tenuta sociale di Tocqueville, non solo un vistoso gradino da scendere in breve tempo, ma una scala di vistosi gradini a scendere per un tempo lungo. Come diagnosticare questa fiducia? Ignoranza? Lontananza dalla vita reale della gente normale, condizione ignota alle varie élite di governo, decisionali e della informazione? Cecità dell’interesse personale che ignora ciò che ha determinato il proprio fortunato status sociale? Mancanza di minima conoscenza della Storia?
No, in fondo non ci credeva davvero nessuno e tuttavia non si è potuto fare diversamente. Cosa s’intende allora per “non si poteva fare diversamente”? Non eravamo in grado o non c’era proprio una alternativa possibilità anche solo teorica? Mi rifiuto di pensare alla mancanza di alternative per quanto difficili da perseguire, la politica è l’arta del possibile, non è deterministica e francamente non vedo nulla di solidamente inevitabile in questa vicenda. Né per il come la nostra insipienza geopolitica ha permesso che per otto lunghi anni la faccenda ucraina degenerasse progressivamente, né nel come una volta accaduto lo scandaloso fatto del 24 febbraio l’abbiamo gestita e l’abbiamo comunicata. Rimane allora il “non eravamo in grado”. Perché? Incapacità? Ricatti a livello dei grandi giochi geopolitici? Siamo arrivati al nodo in cui si condensano decenni di nostri errori strategici in ambito politico, unionista, economico, di stile di vita, culturale, di incoscienza storica del grave momento cui andavamo incontro al di là del precipizio poi presentatoci da Putin?
E su tutto ciò, che riflessione possiamo fare? Se fossimo tedeschi della Repubblica di Weimar, se fossimo nel prima che porta ad Hitler, ci consolerebbe sapere che le nostre élite stanno fallendo l’adattamento storico portandoci a correre rischi di gravità assoluta i cui prezzi toccheranno le nostre vite in modi insopportabili? E quali le nostre responsabilità a parte quelle delle élite che poi sono lì perché così abbiamo acconsentito fosse.
Insomma, il post invitava a fare una riflessione sul presente che ha in vista un futuro. In tempi ciechi e di pazzi che guidano ciechi, beato chi ha un occhio. L’occhio serve e vedere, vedere viene dal greco antico οἶδα, dal latino video, dal sanscrito veda, dall’avestico vaēdha e tutti significavano “il sapere”, la conoscenza, la saggezza”. Tutte cose selezionate dal nostro lungo processo evolutivo per farci essere ciò che siamo. Vedere bene è vivere meglio e più a lungo. Abbiamo bisogno di una rivoluzione ottica?

Roberto Buffagni

Bella analisi che condivido. Mia opinione sul perché di questa cazzata epocale dei governanti europei (per gli americani il discorso è diverso). Secondo il mio avviso, all’origine sta una cosa semplice, situata anzitutto dentro le teste dei dirigenti europei. Ossia, la cristallizzazione pluridecennale di una lunga serie di presupposti: superiorità assoluta degli americani, economicismo terminale, fiducia assoluta nei numeretti della Bocconi e nelle gabole amministrative della UE, politically correct con il corollario del giudizio moralistico applicato ai fatti politici, più incompetenza e ignoranza pittoresche di tutto ciò che è guerra, arte militare, etc. (v. ” ci pensano gli americani”). Questo compost di presupposti circoscrive il perimetro dell’ufficialità, e chi si trova nell’ufficialità e vuole restarci sperimenta una forte resistenza anzitutto interiore a uscirne, perché uscendone rischia reputazione e status. Quindi ignora o svaluta o attacca tutte le idee, atteggiamenti, proposte che non vengano dall’ufficialità, anche se non originano da marginali o estremisti. Un indizio che in questa opinione c’è almeno un po’ di verità è la reazione IMMEDIATA all’invasione russa dell’Ucraina, questi hanno IMMEDIATAMENTE votato sanzioni suicide senza discuterne neanche cinque minuti. Non credo neanche a pressioni terrificanti degli americani, è chiaro che dire di no o anche ni avrebbe avuto gravi costi politici, ma non credo proprio che gli americani abbiano fatto arrivare pizzini tipo “Ti stermino la famiglia”. Non ce n’era alcun bisogno: è questo il dramma, anzi la tragicommedia.

Pierluigi Fagan

Roberto Buffagni Sì concordo. Un fallimento adattivo storico è sempre un fallimento combinato di uomini e mentalità che li guidano, nonché distanza e mancanza di contrasto e controllo tra popolo ed élite. Anche se, qualcosina dietro le quinte non la escludo. A quei livelli è incenerire la carriera politica più che lo sterminio famigliare la leva. Ci ricordiamo dell’affaire del cellulare della Merkel ed abbiamo saputo che il presidente americano ha rapporti riservati anche su i comportamenti sessuali degli altri presidenti. Se ci aggiungi cose tipo Panama papers ovvero la correttezza fiscale o qualsiasi altra inezia che però tocca la “credibilità, onestà, mancanza di conflitti di interessi, tracce scabrose del passato (vedi Corbyn impiccato per il suo presunto anti-semitisimo)” sappiano bene che tali cose esistono. Certo però non possono spiegare tutto.

BILANCIO PROVVISORIO PRIMI SEI MESI DI GUERRA IN UCRAINA …e altro, di Pierluigi Fagan

BILANCIO PROVVISORIO PRIMI SEI MESI DI GUERRA IN UCRAINA. Fare un bilancio implica stabilire un parametro, ma qui i parametri sono almeno quattro, come i contendenti coinvolti.
Dal punto di vista ucraino, s’è perso non poco territorio ed è molto improbabile tornerà mai a casa. Al di là dei proclami, potrebbe tornare a casa solo con una catastrofica sconfitta russa, ma tale sconfitta è molto improbabile mai possa avvenire per ragioni di consistenza militare sul campo presente e futuro oltreché per il fatto che la Russia potrebbe reagire in maniera molto forte al manifestarsi di una tale situazione negativa. Nel senso che c’è sempre l’arma pesante da mettere sul piatto prima di anche solo iniziare a perdere la partita. Tutte le parti sanno di questa ultima ratio, quello che vediamo e sentiamo nelle dichiarazioni e negli articoli di analisti che più che analisti sono propagandisti, è solo guerra nel campo delle opinioni pubbliche. Di contro, gli ucraini possono contare ancora sul supporto americano, inglese ed europeo. Quello americano è solido e continuo (si parla di soldi e di armi che sono sempre soldi). Biden sta recuperando in patria e con lui anche il suo partito, rispetto alle elezioni di mid-term. Mancano ancora due mesi e poco più, ma ora la sconfitta DEM non è più scontata ed anzi cominciano a sperare in una doppia vittoria. Questa dinamica non ha nulla a che fare con la guerra ovviamente, sono altre le questioni che sviluppano la politica interna americana. Quanto ai britannici, a giorni (5 settembre) sapremo se la leadership conservatrice andrà a Sunak o Truss. Per gli ucraini, meglio la seconda molto aggressiva in politica estera. A riguardo, va detto che i brit se la passano piuttosto male in generale, nei sondaggi il Labour (ora in moderata versione “terza via”) oggi batterebbe di netto i conservatori, molti prevedono peggio andrà se vincesse Truss troppo sbilanciata e divisiva. Purtroppo, questa crisi interna rischia di diventare il classico ottimo motivo per peggiorare una crisi esterna e richiamare tutti all’unità di patria ovvero di supporto ad un governo aggressivo. Quanto agli europei essendo uno dei quattro attori vanno analizzati a parte.
Come al solito, non c’è un punto di vista europeo ma singoli punti di vista dei suoi vari attori principali o gruppi regionali. In macro, l’Europa s’è infilata in un dispositivo di tortura economica, finanziaria, politica e sociale che ha cominciato a tormentarla e che promette di intensificare e prolungare il dolore procurato. Perché l’ha fatto rimane il grande punto interrogativo. Rimango dell’idea che, oltre l’insipienza geopolitica con cui gli europei hanno gestito gli anni e decenni passati, ci sia stata da parte del socio americano un’azione molto dura e pesante i cui contenuti non conosciamo e forse non consoceremo mai, ai primissimi giorni da inizio conflitto. Un ricatto probabilmente, da cui era impossibile divincolarsi anche volendo e stante che davvero nessuno lo voleva o anche solo poteva pagarne gli eventuali prezzi molto alti. Da parte delle élite di potere in Europa, meglio accettarlo, restare in sella e far pagare i prezzi del gioco alle popolazioni. I prezzi sono e saranno sempre più alti. Si tratta di costi di quantità di energia che andrà scarseggiando ma anche costi alti per quella che comunque si avrà. Costi alti si riflettono su costi alti di produzione e quindi costi alti di merci e servizi. Aumento di inflazione internamente, diminuzione di esportazioni esternamente, quindi poi costi sociali e distruzione di alcune filiere produttive. Si badi che l’opzione rigassificatori, che semmai diventerà operativa non prima di un anno e mezzo, potrebbe migliorare la situazione (GNL comprato dagli USA, ma non è del tutto detto), ma sempre a costi più alti del passato e di quanto pagano l’energia gli americani. Il che creerà un gradino di costo permanente in termini competitivi. A ciò si aggiungerà l’equivalente su molte materie prime, nonché la perdita del mercato russo. Ne risente anche l’euro e chissà se questa precaria istituzione europea varata negli splendenti anni Novanta; quindi, votata ai fasti del big bang della allora irresistibile globalizzazione, resisterà ancora a lungo. La sua presenza percentuale nelle riserve delle banche centrali mondiali potrebbe diminuire a tutto vantaggio del dollaro. Intanto i capitali emigrano e vanno a rifugiarsi nei bond americani a tassi apprezzabili, un classico alla base di molte guerre “by americans”, oltre al commercio di armi e stante l’aumento delle spese di difesa deliberate e ritenute ormai essenziali. Sul piano narrativo potrebbe esser d’effetto qui dire che tutto ciò scatenerà reazioni, ma temo che sul piano del potere concreto, quello di cui abbiamo di solito solo una pallida idea, qualsiasi tentativo di reazione verrà soffocato prima di diventare davvero problematico. Sarebbe ad esempio utile conoscere quanti, chi e come si sta adoperando per far digerire la Meloni agli americani e gli interessi americani alla Meloni che non essendo stupida pagherà la cambiale atlantista per ottenere il suo quarto d’ora di governo.
E veniamo ai russi. S’era qui ipotizzato che a fine agosto i russi potevano arrivare ai confini del Donbass e quindi prendersi una pausa per congelare il conflitto (militare) per l’inverno, dato anche che la logistica da quelle parti diventa molto problematica nella lunga stagione piovosa, fredda, nevosa. Non ci arriveranno, la concentrazione delle difese ucraine nel nord del Donetsk è insuperabile, al momento. Sappiamo che i russi continuano ad incassare bei soldi dalla vendita del gas, hanno in parte riorientato i flussi verso est, non manifestano gravi danni dalle sanzioni, almeno per il momento. Non sappiamo quanta riserva d’arma abbiano e sebbene alcuni c.d. “analisti” abbiano previsto la consunzione a breve ormai da mesi, tale consunzione non pare ci sia ed è improbabile ci sarà. I russi non s’imbarcavano in tale operazione ragionando come ragionano i c.d. “analisti” occidentali, avranno fatto i loro calcoli visto che da subito hanno accettato e promesso un conflitto molto lungo. Solo gli sprovveduti fan amatoriali dei wargames da tavolo, sin delle prime settimane, hanno creduto alla strategia blitzkrieg. Non parliamo di quelli che vedevano i russi al confine con la Romania in pochi giorni (Macron) o a Berlino (Zelensky). Altresì non c’è stato alcun vero isolamento dei russi sul piano diplomatico globale, tranne la rescissione del corpo calloso che univa l’emisfero russo a quello europeo. Tuttavia, rimane del tutto non conoscibile per noi, gli effetti medio lunghi del dispositivo sanzionatorio a molti livelli, si tratta come sempre in questi casi di questioni di tempo e di calcolo su cose che non consociamo. Certo è che avranno fatto i loro calcoli a riguardo per cui non è escluso che semmai vedessimo una improvvisa e massiccia azione sul campo nei prossimi mesi, si potrà dedurre si trovino nel momento “ora o mai più”. Vedremo.
E chiudiamo con gli americani veri master of game del caso in questione. È tutta una questione di tempo. L’Ucraina diventa nei fatti un satellite americano per sempre, tutti i soldi liquidi e solidi in forma di armi non sono donazioni, sono prestiti da rimborsare, debiti visti dalla parte di Zelensky, debiti inestinguibili per l’eternità (UDD Land-Lease Act ’22). Per questo la guerra non potrà aver fine perché, sotto ricatto di debito, gli ucraini non potranno mai decidere altrimenti a meno di un colpo di stato interno che poi sopravviva alla reazione americana. Quindi gli USA si sono comprati l’Ucraina e la useranno come spina dolorosa nel fianco russo per sfinirli, ovvero il “più a lungo” possibile. Quindi, in sostanza, è da vedere come hanno calcolato il tempo gli americani ed i russi per capire come andrà a finire. Per il resto la cattura egemonica dell’Europa appare forte, irreversibile e duratura, le questioni interne di elezioni di stanno aggiustando (c’è anche una sfida per la leadership del GOP di modo che i neocon vincano in ogni caso, ma questa è una faccenda complicata). La vera partita principale diventa Taiwan ma su questo dovremo riflettere a parte.
Sarebbe utile alcuni potessero onestamente riflettere su ciò che hanno detto e scritto in questi sei mesi, per domandarsi cosa davvero hanno compreso della questione ucraina. Ma tanto non lo faranno, molti discorsi pubblici hanno a traguardo solo la guerra virtuale delle opinioni combattenti, la mia contro l’opinione altrui, senza passare per la bruttezza concreta della guerra reale.
AMBASCIATOR PORTA PENA. Come previsto, la questione dell’Artico procede inesorabile. Gli Stati Uniti hanno previsto di nominare un Ambasciator-at-Large per l’Artico. La carica che si può tradurre come “Ambasciatore generale” verrà data ad un diplomatico con ampi poteri che rappresenterà gli USA per le questioni artiche presso tutte le istituzioni, formali ed informali, presenti o che si occupano della regione.
Scatta subito sull’attenti il fido Stoltenberg, annunciando che “La NATO deve aumentare la sua presenza nell’Artico” perché i russi stanno trafficando nelle loro basi portando missiloni di ultima generazione. In più, sappiamo degli appetiti cinesi verso questa regione che permetterebbe loro di aggirare le forche caudine degli stretti indo-pacifici. Insomma, si sta apparecchiando il nuovo gioco che porterà la nuova guerra fredda sottozero. O visto che da quelle parti non c’è praticamente nessuno, molto soprazero tanto l’ambiente lì si sta già scaldando di suo. Motivo per il quale poi tutti si stanno agitando visto che sottacqua è pieno di minerali appetitosi ed energie fossili molto poco green.
Finalmente, anche i più tonti potranno così capire cosa c’era sotto l’urgenza inderogabile ad accorpare la Finlandia e la Svezia nella NATO, due nazioni storicamente non allineate, pacifiche, conviventi da tempo col vicino russo, prive di materie prime che non siano alberi e renne, senza apparente alcun rilievo strategico che non sia il Mar Baltico che è praticamente un mare chiuso, ma membri del Consiglio dell’Artico.
Si noti invece come la punta nord-est della Finlandia sia ad un tiro di schioppo (si fa dell’ironia) dalla città (Murmansk) più grande al mondo sopra il Circolo polare Artico ed unico porto russo che non ghiaccia d’inverno, quindi strategica base militare navale.
Ma tanto non serve a niente dirlo, quando scoppierà il casino annunciato, torme di invasati caricati a molla dai media brain-washing, presi da una aggressiva emotività ingestibile ed insopprimibile, ci faranno sapere la loro inutile opinione formata il giorno stesso in cui succederà qualcosa, ignari che ogni storia ha cause pregresse che loro ignorano, come ignorano tutto l’argomento della politica di potenza in questa fase storica. Così come hanno fatto e fanno per l’Ucraina. Ci vuole pazienza, tanta.
REALISMO STRATEGICO. Charles A. Kupchan è un più che noto studioso di relazioni internazionali americano. Già direttore degli affari europei per il Consiglio Nazionale di Difesa degli Stati Uniti nonché Consigliere capo per gli affari europei della presidenza Obama, Senior fellow del Council on Foreign Relations, insegna alla Georgetown di Washington. In italiano, il suo interessante “Nessuno controlla il mondo”, Il Saggiatore, 2013.
L’articolo allegato esce su The National Interest, rivista bimestrale di IR di taglio conservatore, repubblicano diciamo in senso largo. Come si intuisce, in America, un democratico può pubblicare su testata avversaria, anche perché in incrocio condivide più l’impostazione realista che idealista (detta “liberal”, ma in sostanza e per simmetria se uno è realista l’altro è idealista per potare i fronzoli terminologici), di solito fortemente radicata proprio in campo democratico.
Per comprendere meglio questo incrocio ed il suo riflesso epistemologico (sebbene una epistemologia della disciplina sia rimasta al compianto Morghentau e poco poi sviluppata come del resto è capitato all’economics vista l’ampia funzione ideologica più che “scientifica” -sempre si possa dare “scienza” delle discipline socio/umane- delle due discipline), va ricordato che la disciplina di Relazioni Internazionali è prettamente americana, tanto quanto la geopolitica nacque europea. Ma il punto epistemologico interessante da notare è che realisti o idealisti, sono sempre americani, condividono cioè fortemente e senza alternative il punto di vista sull’interesse americano. Ora, il punto di vista su un problema come i soggetti di potenza nel loro sviluppo di relazioni internazionali dovrebbe esser almeno un po’, se non tanto, diverso a seconda che lo studioso sia francese o britannico, o tedesco o italiano. E ciò vale anche per la geopolitica. Così non accade quasi mai, salvo rare eccezioni per lo più francesi.
Quelli di Limes, hanno spesso notato e giustamente, la mancanza di un fondato punto di vista italiano su queste faccende, punto di vista cioè tornito intorno ad un ben definito punto di interesse nazionale nostro proprio. L’interesse nazionale, in genere, è semplice quanto unitario, si divergerà poi sul come perseguirlo. A riguardo, permettetemi una punta che suonerà polemica ma non lo è, è un semplice fatto.
Consocerete l’esperta di IR Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari Internazionali di ampia visibilità mediatica, che tuonava con il prof. Orsini negandogli il diritto di parlare di Ucraina perché non ci era mai stato fisicamente. Ha poi detto che non sarebbe più andata in televisione se ci fosse stato lui, quindi, lui è stato ostracizzato e lei salta da un programma all’altro. Vabbe’, non era questo il punto, il punto è che se andate sul sito del suo istituto, sotto Istituto, Chi Siamo, Amministrazione trasparente, trovate l’ultimo bilancio pubblico che chissà perché è ancora solo quello del 2019. Alla pagina 3, Ricavi, l’IAI denuncia di ricevere il 61% dei suoi fondi da “Fondazioni ed Enti Internazionali”. Più o meno la stessa percentuale del 2018 sembra un fatto strutturale. Che munificenza! Ma chi sono questi enti e fondazioni estere che hanno così tanto interesse a finanziare il lavoro di un istituto italiano di relazioni internazionali? E quanto dovremmo prender sul serio un’analista che sicuramente è stata in Ucraina a differenza di Orsini ma il cui stipendio e status professionale è per lo più mantenuto da interessi stranieri? Ce lo vedete uno studioso americano che parla a nome di un istituto finanziato dai cinesi o dai russi?
Be’ così va il mondo dietro le quinte dello spettacolo cui molti contribuiscono lanciandosi fatwe al veleno radioattivo sui social, basandosi su quello che ha detto tizio e caio, senza domandarsi chi sono tizio e caio, cosa sanno, cosa credono di sapere, come lo sanno, a chi parlano, da chi sono pagati, come tutto ciò incide sulla loro immagine di mondo da cui traggono giudizi che zelanti zeloti rilanciano ed amplificano, senza neanche esser stipendiati da “enti e fondazioni estere”.
Pazienza, indispensabile materia prima dei tempi che ci sono toccati in sorte di vivere.
Ad ogni modo, l’americano da cui siamo partiti, sviluppa una sua analisi compiuta della strategia americana, nel tempo e nello specifico dell’affare ucraino. Leggetela, fa cultura del campo se vi interessa coltivarlo. Ovviamente avrei da discutere diversi suoi punti. Tuttavia, ne consiglio ugualmente la lettura, non è che si debba leggere solo l’intemerata consonante i nostri apriori ideologici.
Il succo però va riportato. In sintesi, Kupchan dice al decisore americano che sarebbe meglio contenere le velleità di egemonia esterna perché si rischia troppo e troppe brutte cose. Tra cui effetti molto negativi interni al campo delle c.d. “democrazie di mercato” occidentali e non solo, che pure sono uno dei più solidi successi della strategia egemonica americana di questi ultimi decenni. In particolare, ricorda l’ovvio ovvero che si chiamano “relazioni internazionali” perché riguardano due o più soggetti di potenza. Essendo una relazione c’è un emittente ed un ricevente. L’emittente che dice “guarda sto portando la mia alleanza militare ai tuoi confini ma non ti preoccupare, è solo un’alleanza difensiva”, in una relazione consapevole ed onesta, dovrebbe tener conto che il ricevente potrebbe inquietarsi comunque dal momento che rampe di missili sono sempre rampe di missili e le intenzioni con cui tu puoi usarli possono cambiare com’è ovvio che sia. Ed anche come tutte le dottrine difensive americane prevedono impedendo in via di principio che supposti o potenziali avversari si presentino, non ai confini, ma nell’intero continente e nei suoi due oceani adiacenti.
Questa si chiama “reciprocità” tema del mio secondo post dopo il 24 febbraio ed è considerata etica universale, molto più universale di ogni diritto umano o altro valore che a noi sembra universale quando non è affatto detto che lo sia. Lo hanno certificato 143 rappresentati di altrettante religioni (wow, i religiosi di etica qualcosa sanno, no?), riuniti nel parlamento delle religioni mondiali nel 1993, definendolo l’unico punto incontrovertibile di una etica mondiale!
Lo si è detto e ripetuto più volte all’inizio del conflitto ma molti pupazzi caricati a molla continuano a scrivere post ed articoli che sostengono che questa è una falsa argomentazione. Chissà se leggendolo detto da un americano personalità riconosciuta del campo e della disciplina, consigliere di Obama, gli entra in testa. Non credo, la fede dello zelante zelota è impermeabile all’argomentazione logica, però perché non tentare? Buona lettura.

La guerra in Ucraina e il ritorno della Realpolitik

(riprodotto con traduttore_Giuseppe Germinario)

Il ritorno di un mondo a due blocchi che gioca secondo le regole della realpolitik significa che l’Occidente dovrà ridurre i suoi sforzi per espandere l’ordine liberale, tornando invece a una strategia di paziente contenimento volta a preservare la stabilità geopolitica ed evitare una grande guerra di potere .

La competizione GREAT POWER è tornata. L’alleanza transatlantica deve rivedere di conseguenza la sua grande strategia e ridimensionare le sue ambizioni idealistiche a favore di un realismo pragmatico. Durante la crisi sull’Ucraina, la stella polare ideologica dell’Occidente – la promozione della democrazia – ha guidato l’arte di governo, con la NATO che ha sostenuto e incoraggiato le aspirazioni di Kiev di unirsi all’alleanza occidentale. Ma il presidente russo Vladimir Putin, non volendo lasciare che l’Ucraina lasci l’ovile russo ed emerga come una democrazia ancorata in Occidente, ha lanciato una guerra per riportare Kiev sotto il dominio di Mosca. Putin possiede questa guerra , con la morte e la distruzione che ha prodotto.

La reazione dell’Occidente – armare l’Ucraina, sanzionare la Russia, rafforzare il fianco orientale della NATO estendendo l’adesione a Finlandia e Svezia – è pienamente giustificata. Tuttavia, il legittimo indignazione per la presa a pugni dell’Ucraina da parte della Russia minaccia di oscurare la necessità di trarre sobrie lezioni dalla guerra. Forse la cosa più importante è che il mondo stia tornando alle regole della politica di potere, richiedendo che l’ambizione ideologica ceda più regolarmente alle realtà strategiche per garantire che gli scopi dell’Occidente rimangano sincronizzati con i suoi mezzi. Questo adeguamento significa che l’Occidente dovrà concentrarsi maggiormente sulla difesa, anziché sull’espansione, della comunità democratica. Certamente, combinando i suoi valori con il suo potere, l’Occidente ha piegato l’arco della storia lontano dalla pratica della realpolitik e verso una maggiore libertà, dignità umana e pace.

Il mondo indisciplinato e più competitivo che sta prendendo forma rafforzerà naturalmente l’unità transatlantica, proprio come la minaccia rappresentata dall’Unione Sovietica ha contribuito alla coesione della NATO durante la Guerra Fredda. Eppure i mali politici che hanno afflitto l’Occidente non si sono dissipati; L’invasione della Russia, insieme alla prospettiva di una nuova guerra fredda, non è sufficiente a curare gli Stati Uniti e l’Europa dall’illiberalismo e dalla disfunzione politica. In effetti, la guerra in Ucraina ha prodotto effetti di ricaduta economica che potrebbero indebolire ulteriormente il centrismo politico. Di conseguenza, l’America e l’Europa affrontano una doppia sfida: devono continuare a mettere in ordine le proprie case anche mentre stanno insieme per resistere alla guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina.

QUESTA TENSIONE tra alta ambizione e realtà strategica non è una novità, in particolare per gli Stati Uniti. Fin dai primi giorni della repubblica, gli americani hanno compreso che lo scopo del loro potere implicava non solo la sicurezza, ma anche la diffusione della democrazia liberale in patria e all’estero. Come scrisse Thomas Paine nel 1776, “abbiamo il potere di ricominciare il mondo. Una situazione, simile a quella attuale, non si è verificata dai giorni di Noè fino ad ora”.

Paine si stava sicuramente impegnando nell’iperbole, ma le generazioni successive di americani hanno preso a cuore la vocazione eccezionalista della nazione, con risultati piuttosto impressionanti. Grazie al potere del suo esempio e ai suoi numerosi sforzi all’estero, tra cui la prima, la seconda guerra mondiale e la guerra fredda, gli Stati Uniti sono riusciti a espandere l’impronta della democrazia liberale. Al momento della fondazione della nazione, le repubbliche erano lontane tra loro. Oggi, più della metà dei paesi del mondo sono democrazie totali o parziali. Gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo di primo piano nell’attuazione di questa trasformazione.

Ma queste aspirazioni ideologiche hanno a volte alimentato il superamento, producendo risultati che compromettono le ambizioni idealistiche della nazione. La generazione fondatrice era determinata a costruire una repubblica estesa che si estendesse fino alla costa del Pacifico, un obiettivo che la nazione raggiunse a metà del diciannovesimo secolo. Gran parte dell’espansione verso ovest degli Stati Uniti ha avuto luogo sotto la bandiera esaltata del Destino manifesto, che ha fornito una giustificazione ideologica per espandere la frontiera, ma anche una copertura morale per calpestare i nativi americani e lanciare una guerra d’elezione contro il Messico che ha portato all’annessione degli Stati Uniti di circa la metà del territorio messicano.

Il presidente William McKinley nel 1898 intraprese una guerra per espellere la Spagna da Cuba, una delle poche colonie rimaste nell’emisfero, insistendo sul fatto che gli americani dovevano agire “per la causa dell’umanità”. Eppure la vittoria nella guerra ispano-americana trasformò gli stessi Stati Uniti in una potenza imperiale, poiché affermò il controllo sui possedimenti spagnoli nei Caraibi e nel Pacifico, comprese le Filippine. “Non ci restava altro da fare che prenderli tutti, educare i filippini, elevarli, civilizzarli e cristianizzarli”, ha insistito McKinley mentre le forze statunitensi occupavano le Filippine. L’insurrezione che ne è derivata ha portato alla morte di circa 4.000 soldati statunitensi e centinaia di migliaia di combattenti e civili filippini. Gli Stati Uniti resistettero alle Filippine fino al 1946.

Mentre preparava il paese all’ingresso nella prima guerra mondiale, il presidente Woodrow Wilson dichiarò davanti al Congresso che “il mondo deve essere messo al sicuro per la democrazia”. Dopo che le forze statunitensi hanno contribuito a portare a termine la guerra, ha svolto un ruolo di primo piano nei negoziati sulla Società delle Nazioni, un organismo globale che doveva preservare la pace attraverso l’azione collettiva, la risoluzione delle controversie e il disarmo. Ma tali ambizioni idealistiche si sono rivelate eccessive anche per gli americani. Il Senato ha respinto l’appartenenza degli Stati Uniti alla Lega; Il superamento ideologico di Wilson aprì la strada al testardo isolazionismo dell’era tra le due guerre.

Poco prima di lanciare l’invasione americana dell’Iraq nel 2003, il presidente George W. Bush ha affermato che “riteniamo che il popolo iracheno meriti e sia capace della libertà umana … può dare l’esempio a tutto il Medio Oriente di una vita vitale, pacifica e nazione autonoma”. Il risultato della guerra in Iraq è stato molto diverso: sofferenze a livello regionale e conflitti settari pronti a continuare per generazioni. Quanto all’Afghanistan, ha proclamato Bush nel 2004: “Ora il Paese sta cambiando. Ci sono i diritti delle donne. C’è uguaglianza sotto la legge. Le ragazze ora vanno a scuola, molte per la prima volta in assoluto, grazie agli Stati Uniti e alla nostra coalizione di liberatori”. Ma due decenni di esaurienti sforzi degli Stati Uniti per portare stabilità e democrazia in Afghanistan sono stati imbarazzanti, con il ritiro degli Stati Uniti la scorsa estate che ha lasciato il posto al governo talebano e a un incubo umanitario. In questi episodi storici, le nobili ambizioni si sono ritorte contro con conseguenze terribili.

La questione UCRAINA ha allo stesso modo messo in luce le inevitabili tensioni tra alte ambizioni e realtà geopolitiche. Queste tensioni erano, per la maggior parte, sospese nel bipolarismo della Guerra Fredda, quando l’espediente geopolitico guidava la strategia di contenimento degli Stati Uniti. L’accordo di Yalta raggiunto da Franklin D. Roosevelt, Winston Churchill e Joseph Stalin alla fine della seconda guerra mondiale fu l’ultimo compromesso realista, lasciando gran parte dell’Europa orientale sotto il dominio sovietico. Roosevelt e Churchill stavano saggiamente cedendo i principi al pragmatismo fornendo alla Russia sovietica una zona cuscinetto sul fianco occidentale. Tale moderazione strategica ha dato buoni frutti; ha contribuito alla stabilità durante i lunghi decenni della Guerra Fredda,

L’espansione verso est della NATO iniziò quindi negli anni ’90, l’era dell’unipolarità, quando Washington era fiduciosa che il trionfo del potere e degli obiettivi americani avrebbe inaugurato l’universalizzazione della democrazia, del capitalismo e di un ordine internazionale liberale e basato su regole. L’amministrazione Clinton ha abbracciato una grande strategia di “allargamento democratico” – un punto chiave della quale era aprire le porte della NATO alle nuove democrazie europee e accogliere formalmente in Occidente gli stati del defunto e screditato Patto di Varsavia.

L’allargamento verso est della NATO ha favorito guadagni sia morali che strategici. L’Occidente ha sfruttato l’opportunità di invertire Yalta; I membri della NATO potrebbero riaffermare la loro autorità morale integrando le ultime democrazie europee. Il fascino di soddisfare gli standard politici per l’ingresso nell’alleanza occidentale ha aiutato a guidare attraverso le transizioni democratiche più di una dozzina di paesi che hanno sofferto a lungo sotto il dominio comunista. L’apertura delle porte della NATO ha anche fornito all’alleanza profondità strategica e una maggiore forza militare aggregata. La garanzia di difesa che viene fornita con l’adesione funge da forte deterrente all’avventurismo russo, un bene prezioso dato il rinnovato appetito di Mosca di invadere i suoi vicini. Finlandia e Svezia, infatti, si sono lasciate alle spalle decenni di neutralità per avvalersi di tale garanzia.

Ma nonostante questi vantaggi pratici e di principio, l’allargamento della NATO ha comportato anche un significativo svantaggio strategico: ha gettato le basi per un ordine di sicurezza post Guerra Fredda che escludeva la Russia mentre avvicinava sempre più ai suoi confini l’alleanza militare più formidabile del mondo. Proprio per questo motivo l’amministrazione Clinton ha inizialmente lanciato il Partenariato per la Pace, un quadro di sicurezza che ha consentito a tutti gli Stati europei di cooperare con la NATO senza tracciare nuove linee di divisione. Ma quell’alternativa cadde nel dimenticatoio all’inizio di gennaio 1994, quando il presidente Bill Clinton dichiaròa Praga che “la domanda non è più se la NATO assumerà nuovi membri, ma quando e come”. La prima ondata di espansione ha esteso l’adesione alla Repubblica Ceca, all’Ungheria e alla Polonia nel 1999, seguita da allora da quattro ulteriori periodi di allargamento. Finora, la NATO ha ammesso quindici paesi (che comprendono circa 100 milioni di persone) che erano precedentemente nella sfera di influenza della Russia.

Il Cremlino si è opposto fin dall’inizio all’allargamento della NATO. Già nel 1993, il presidente russo Boris Eltsin avvertì che i russi di tutto lo spettro politico “lo percepirebbero senza dubbio come una sorta di neo-isolamento del nostro paese in diametralmente opposta alla sua naturale ammissione nello spazio euro-atlantico”. In un incontro faccia a faccia con il presidente Clinton nel 1995, Eltsin è stato più diretto:

Non vedo altro che umiliazione per la Russia se procedi… Perché vuoi farlo? Abbiamo bisogno di una nuova struttura per la sicurezza paneuropea, non di quelle vecchie! … Per me accettare che i confini della NATO si espandano verso quelli della Russia – ciò costituirebbe un tradimento da parte mia del popolo russo.

Il disagio di Mosca è cresciuto solo quando Putin ha preso il timone nel 1999 e ha ribaltato il flirt di Eltsin con un tipo di governo più liberale. Alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco nel 2007, Putin dichiarò che l’allargamento della NATO “rappresenta una seria provocazione” e chiese: “Perché è necessario mettere infrastrutture militari ai nostri confini durante questa espansione?”

La Russia iniziò presto sforzi concreti per fermare un ulteriore allargamento. Nel 2008, non molto tempo dopo che la NATO aveva promesso che Georgia e Ucraina “diventeranno membri della NATO”, la Russia è intervenuta in Georgia. Nel 2012, Mosca avrebbe tentato di organizzare un colpo di stato in Montenegro per bloccarne l’adesione all’alleanza , e in seguito avrebbe lavorato per impedire l’adesione della Macedonia del Nord. Questi sforzi nei Balcani furono inutili; Il Montenegro ha aderito all’alleanza nel 2017 e la Macedonia del Nord ha seguito l’esempio nel 2020. Ora Putin ha invaso l’Ucraina, in parte per bloccare il suo percorso verso la NATO. Nel suo discorso del 24 febbraioalla nazione che giustifica l’inizio della “operazione militare speciale”, Putin ha indicato “le minacce fondamentali che i politici occidentali irresponsabili hanno creato per la Russia … Mi riferisco all’espansione verso est della NATO, che sta spostando le sue infrastrutture militari sempre più vicino a il confine russo”.

Gli Stati Uniti hanno in gran parte respinto le obiezioni della Russia. Mentre il Cremlino osservava con ansia l’avanzata della NATO, Washington ha visto l’espansione della NATO verso est principalmente attraverso la lente benevola della vocazione eccezionalista dell’America. L’allargamento dell’alleanza ha significato diffondere i valori americani e rimuovere le linee di divisione geopolitiche piuttosto che tracciarne di nuove.

Quando ha lanciato la politica della porta aperta della NATO, il presidente Clinton ha affermato che ciò avrebbe “cancellato la linea artificiale in Europa tracciata da Stalin alla fine della seconda guerra mondiale”. Madeleine Albright, la sua segretaria di stato, ha affermato che “la NATO è un’alleanza difensiva che … non considera nessuno stato come suo avversario”. Lo scopo di espandere l’alleanza, ha spiegato, era costruire un’Europa “intera e libera”, osservando che “la NATO non rappresenta un pericolo per la Russia”. Questa è la linea che Washington ha adottato da allora, anche per quanto riguarda la potenziale adesione dell’Ucraina. Con l’aumentare della crisi sull’Ucraina, il presidente Joe Biden ha insistito su questo, “gli Stati Uniti e la NATO non sono una minaccia per la Russia. L’Ucraina non sta minacciando la Russia”. Il segretario di Stato Antony Blinken ha convenuto: “La stessa NATO è un’alleanza difensiva … E l’idea che l’Ucraina rappresenti una minaccia per la Russia o, se è per questo, che la NATO rappresenti una minaccia per la Russia è profondamente sbagliata e fuorviante”. Gli alleati dell’America sono stati per lo più sulla stessa pagina. Jens Stoltenberg, segretario generale della NATO, ha affermato durante il periodo che precede l’invasione della Russia che: “La NATO non è una minaccia per la Russia”.

Eppure la Russia vedeva le cose in modo molto diverso, e non senza ragione. La geografia e la geopolitica contano; Le grandi potenze, indipendentemente dalla loro inclinazione ideologica, non amano quando altre grandi potenze si allontanano nei loro quartieri. La Russia nutre comprensibili e legittime preoccupazioni per la sicurezza riguardo all’apertura di un negozio da parte della NATO dall’altra parte del suo confine di oltre 1.000 miglia con l’Ucraina. La NATO può essere un’alleanza difensiva, ma mette in atto una potenza militare aggregata che la Russia, comprensibilmente, non vuole parcheggiare vicino al suo territorio.

In effetti, le proteste di Mosca sono state, ironia della sorte, molto in linea con la stessa politica americana, che ha cercato a lungo di tenere le altre grandi potenze lontane dai propri confini. Gli Stati Uniti trascorsero gran parte del diciannovesimo secolo a far uscire Gran Bretagna, Francia, Russia e Spagna dall’emisfero occidentale. Da allora in poi, Washington si è regolarmente rivolta all’intervento militare per dominare le Americhe. L’esercizio dell’egemonia emisferica continuò durante la Guerra Fredda, con gli Stati Uniti determinati a cacciare l’Unione Sovietica ei suoi simpatizzanti ideologici dall’America Latina. Quando Mosca dispiegò missili a Cuba nel 1962, gli Stati Uniti lanciarono un ultimatum che portò le superpotenze sull’orlo della guerra. Dopo che la Russia ha recentemente lasciato intendere che potrebbe schierare nuovamente le sue forze armate in America Latina, il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha risposto: “Se vediamo qualche movimento in quella direzione, risponderemo in modo rapido e deciso”. Data la propria esperienza, Washington avrebbe dovuto dare maggiore credito alle obiezioni di Mosca all’ingresso dell’Ucraina nella NATO.

Per quasi tre decenni, la NATO e la Russia si sono parlate l’una contro l’altra. Come ha scherzato il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov in mezzo alla raffica di diplomazia che ha preceduto l’invasione russa, “stiamo conversando da una persona muta con una persona sorda. È come se ci ascoltassimo, ma non ci ascoltassimo”.

L’invasione russa dell’Ucraina chiarisce che questa disconnessione tra Russia e Occidente è esplosa allo scoperto, finalmente per una serie di motivi. Mosca ha considerato l’ingresso nella NATO di una banda di paesi che si estende dai Baltici ai Balcani come una battuta d’arresto strategica e un insulto politico. L’Ucraina, in particolare, appare molto più grande nell’immaginario russo; nelle stesse parole di Putin, “Russi e ucraini sono un popolo. Kiev è la madre delle città russe”. La scissione nel 2019 della chiesa ortodossa ucraina dalla sua controparte russa è stata una pillola particolarmente amara; la chiesa ucraina era subordinata al patriarca di Mosca dal 1686. La Russia oggi è molto più capace di respingere di quanto non lo fosse all’inizio del dopoguerra, rafforzata dalla sua ripresa economica e militare e dalla sua stretta collaborazione con la Cina.

Eppure il Cremlino ha commesso diversi gravi errori di calcolo nel procedere con la sua invasione dell’Ucraina. Ha ampiamente sottovalutato la volontà e la capacità degli ucraini di reagire, producendo le prime battute d’arresto russe sul campo di battaglia. Mosca ha visto numerose fonti di debolezza occidentale – Brexit, il ritiro caotico dall’Afghanistan, la pandemia di COVID-19, l’inflazione, la polarizzazione in corso e il populismo – portando a una sottovalutazione della forza e della portata della risposta dell’Occidente. Nella mente di Putin, una combinazione di forza russa e fragilità occidentale ha reso il momento opportuno per lanciare la sfida in Ucraina. Ma Putin aveva torto; l’Occidente ha dimostrato una notevole fermezza poiché ha armato l’Ucraina e imposto severe sanzioni contro la Russia.

Questi errori di calcolo aiutano a far luce sul motivo per cui Putin ha scelto di affrontare le sue lamentele attraverso la guerra piuttosto che la diplomazia. In effetti, Putin ha avuto l’opportunità di dirimere le sue obiezioni all’adesione dell’Ucraina alla NATO al tavolo dei negoziati. L’anno scorso, il presidente Biden ha riconosciuto che se l’Ucraina si unirà all’alleanza ” resta da vedere “. In mezzo alla raffica di diplomazia che ha preceduto l’invasione russa, il presidente francese Emmanuel Macron ha lanciato l’idea di “finlandizzazione” per l’Ucraina – neutralità effettiva – e sono circolate proposte per una moratoria formale su un ulteriore allargamento. Lo ha ammesso il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyyche la prospettiva che l’Ucraina aderisca alla NATO possa essere “come un sogno”. Il suo ambasciatore nel Regno Unito ha indicato che Kiev voleva essere “flessibile nel tentativo di trovare la migliore via d’uscita” e che un’opzione sarebbe quella di abbandonare la sua offerta per l’adesione alla NATO. Il Cremlino avrebbe potuto raccogliere queste piste, ma invece ha optato per la guerra.

LA SAGA dell’allargamento della NATO mette in luce il divario tra le aspirazioni ideologiche dell’Occidente e le realtà geopolitiche che si è allargato dagli anni ’90. Durante l’entusiasmante decennio successivo alla fine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti ei loro alleati erano fiduciosi che il trionfo del loro potere e del loro scopo avrebbe aperto la strada alla diffusione della democrazia, un obiettivo che l’allargamento della NATO avrebbe presumibilmente contribuito a garantire.

Ma fin dall’inizio, l’establishment della politica estera occidentale ha permesso al principio di oscurare gli aspetti negativi geopolitici dell’allargamento della NATO. Sì, l’adesione alla NATO dovrebbe essere aperta a tutti i paesi che si qualificano e tutte le nazioni dovrebbero essere in grado di esercitare il loro diritto sovrano di scegliere i propri allineamenti come meglio credono. E sì, la decisione di Mosca di invadere l’Ucraina è stata in parte informata dalle fantasie di ripristinare il peso geopolitico dei giorni sovietici, dalla paranoia di Putin su una “rivoluzione colorata” insorta in Russia e dalle sue delusioni sui legami indissolubili di civiltà tra Russia e Ucraina.

Eppure l’Occidente ha commesso un errore continuando a respingere le obiezioni della Russia all’allargamento in corso della NATO. Nel frattempo, la politica delle porte aperte della NATO ha incoraggiato i paesi dell’Europa orientale a sporgersi troppo dai loro sci strategici. Mentre il fascino dell’adesione all’alleanza ha incoraggiato gli aspiranti a realizzare le riforme democratiche necessarie per qualificarsi per l’ingresso, la porta aperta ha anche spinto i potenziali membri a impegnarsi in comportamenti eccessivamente rischiosi. Nel 2008, subito dopo che la NATO ha ignorato le obiezioni russe e ha promesso un’eventuale adesione alla Georgia e all’Ucraina, il presidente della Georgia, Mikheil Saakashvili, ha lanciato un’offensiva contro i separatisti filo-russi nell’Ossezia meridionale con cui il paese combatteva sporadicamente da anni. La Russia ha risposto prontamente prendendo il controllo di due parti della Georgia: l’Ossezia meridionale e l’Abkhazia.

In modo simile, la NATO ha esagerato incoraggiando l’Ucraina a aprire la strada verso l’alleanza. La rivoluzione di Maidan del 2014 ha rovesciato un regime pro-Mosca e ha portato l’Ucraina su una rotta verso ovest, provocando l’intervento della Russia in Crimea e nel Donbas. La porta aperta della NATO ha fatto cenno, spingendo gli ucraini nel 2019 a sancire le loro aspirazioni NATO nella loro costituzione, una mossa che ha fatto scattare nuovi campanelli d’allarme al Cremlino. Data la sua vicinanza alla Russia e la devastazione causata dall’ulteriore aggressione di Mosca, l’Ucraina avrebbe fatto meglio a giocare sul sicuro, costruendo in silenzio una democrazia stabile pur mantenendo lo status neutrale che aveva abbracciato quando è uscita dall’Unione Sovietica. In effetti, il potenziale ritorno dell’Ucraina alla neutralitàha avuto un ruolo di primo piano nei colloqui sporadici tra Kiev e Mosca per porre fine alla guerra.

La NATO ha saggiamente evitato il coinvolgimento diretto nei combattimenti per scongiurare la guerra con la Russia. Ma la riluttanza dell’alleanza a difendere militarmente l’Ucraina ha messo in luce un preoccupante disconnessione tra l’obiettivo dichiarato dell’organizzazione di rendere il paese un membro e il suo giudizio secondo cui proteggere l’Ucraina non vale il costo. In effetti, gli Stati Uniti ei loro alleati, anche se impongono severe sanzioni alla Russia e inviano armi all’Ucraina, hanno rivelato di non ritenere la difesa del Paese un interesse vitale. Ma se è così, allora perché i membri della NATO hanno voluto estendere all’Ucraina una garanzia di sicurezza che li obbligherebbe a entrare in guerra in sua difesa?

La NATO dovrebbe estendere le garanzie di sicurezza ai paesi che sono di importanza strategica intrinseca agli Stati Uniti e ai suoi alleati, non dovrebbe rendere i paesi strategicamente importanti estendendo loro tali garanzie. In un mondo che sta rapidamente tornando alla logica della politica di potenza, in cui gli avversari possono regolarmente mettere alla prova gli impegni degli Stati Uniti, la NATO non può permettersi di essere dissoluta nel fornire tali garanzie. La prudenza strategica richiede di distinguere gli interessi critici da quelli minori e di condurre di conseguenza l’arte di governo.

La PRUDENZA STRATEGICA richiede anche che l’Occidente si prepari al ritorno di una continua rivalità militarizzata con la Russia. Alla luce della stretta collaborazione emersa tra Mosca e Pechino e delle ambizioni geopolitiche della Cina, la nuova Guerra Fredda che sta prendendo forma potrebbe benissimo mettere l’Occidente contro un blocco sino-russo che si estende dal Pacifico occidentale all’Europa orientale. Come la Guerra Fredda, un mondo di blocchi rivali potrebbe significare divisione economica e geopolitica. Il grave impatto delle sanzioni imposte alla Russia sottolinea il lato oscuro della globalizzazione, portando potenzialmente a casa sia la Cina che le democrazie occidentali che l’interdipendenza economica comporta rischi piuttosto considerevoli. La Cina potrebbe prendere le distanze dai mercati globali e dai sistemi finanziari, mentre gli Stati Uniti e l’Europa potrebbero scegliere di espandere il ritmo e la portata degli sforzi per disaccoppiare dagli investimenti, dalla tecnologia e dalle catene di approvvigionamento cinesi. Il mondo potrebbe entrare in un’era prolungata e costosa di de-globalizzazione.

Il ritorno di un mondo a due blocchi che gioca secondo le regole della realpolitik significa che l’Occidente dovrà ridurre i suoi sforzi per espandere l’ordine liberale, tornando invece a una strategia di paziente contenimento volta a preservare la stabilità geopolitica ed evitare una grande guerra di potere . Un nuovo conservatorismo strategico dovrebbe cercare di stabilire equilibri stabili di potere e deterrenza credibile nei teatri europei e dell’Asia-Pacifico. Gli Stati Uniti hanno un playbook per questo mondo: quello che gli ha permesso di prevalere nella prima Guerra Fredda.

Quello per cui Washington non ha uno stratagemma è navigare nella divisione geopolitica in un mondo che è molto più interdipendente di quello della Guerra Fredda. Anche se resiste alle autocrazie, l’Occidente dovrà superare le linee di divisione ideologiche per affrontare le sfide globali, tra cui l’arresto del cambiamento climatico, la prevenzione della proliferazione nucleare e il controllo degli armamenti, la supervisione del commercio internazionale, il governo della cybersfera, la gestione della migrazione e promuovere la salute globale. Il pragmatismo strategico dovrà temperare la discordia ideologica.

Washington manca anche di uno stratagemma per operare in un’era in cui l’Occidente deve affrontare minacce nostrane alla democrazia liberale che sono almeno altrettanto potenti delle minacce esterne poste da Russia e Cina. Durante la Guerra Fredda, l’Occidente era politicamente sano; le democrazie liberali su entrambe le sponde dell’Atlantico godevano di moderazione ideologica e centrismo, sostenute da una prosperità ampiamente condivisa. Un marchio fermo e mirato della grande strategia statunitense poggiava su solide fondamenta politiche e godeva di un sostegno bipartisan.

Ma l’Occidente oggi è politicamente malsano e il populismo illiberale è vivo e vegeto su entrambe le sponde dell’Atlantico. Negli Stati Uniti, il patto bipartisan dietro l’arte di governo statunitense è crollato, così come il centro politico della nazione. La moderazione ideologica e il centrismo hanno lasciato il posto a un’amara polarizzazione in mezzo a una prolungata insicurezza economica e a una disuguaglianza spalancata. La guerra in Ucraina non ha aiutato le cose; L’ambiziosa agenda di Biden per il rinnovamento interno, già ridimensionata a causa dell’ingorgo al Congresso, ha ulteriormente sofferto a causa dell’attenzione di Washington sul conflitto. E gli alti tassi di inflazione, alimentati in parte dalle perturbazioni economiche derivanti dalla guerra, stanno alimentando il malcontento pubblico, probabilmente costando ai Democratici il controllo del Congresso nel prossimo semestre di novembre.

In Europa, il centro politico ha tenuto largamente. I partiti tradizionali di centrosinistra e centrodestra hanno perso terreno rispetto ai partiti anti-establishment, ma sono rimasti ideologicamente centristi e, per la maggior parte, sono rimasti al potere. Eppure i populisti illiberali continuano a governare l’Ungheria e la Polonia, ei loro compagni di viaggio esercitano un’influenza politica nella maggior parte degli stati membri dell’Unione Europea (UE). In effetti, il governo centrista italiano è crollato a luglio e l’estrema destra potrebbe benissimo impennarsi in vista delle elezioni. Il Regno Unito si è impegnato in uno straordinario atto di autoisolamento e autolesionismo uscendo dall’UE: Londra rimane coinvolta in difficili negoziati con Bruxelles sui termini della Brexit. Il danno economico provocato dall’inflazione, dall’aumento dei prezzi dell’energia e dalla potenziale carenza di energia favorita dalle sanzioni occidentali alla Russia,

Mentre gli Stati Uniti ei loro alleati contemplano l’aumento della tensione con un blocco sino-russo, devono assicurarsi di continuare a correggere le vulnerabilità interne dell’Occidente. È vero che durante la Guerra Fredda, la disciplina che la minaccia sovietica imponeva alla politica americana contribuì a smorzare il conflitto partigiano sulla politica estera. Allo stesso modo, l’attuale prospettiva di una nuova era di rivalità militarizzata con Russia e Cina sta facendo rivivere la cooperazione bipartisan in materia di governo.

È tuttavia probabile che questo ritorno al bipartitismo sia di breve durata, proprio come è stato dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Gli americani non dovrebbero operare nell’illusione che un ambiente internazionale più competitivo ripristinerà di propria iniziativa il paese salute politica, soprattutto in mezzo al tasso di inflazione statunitense più alto degli ultimi quarant’anni. In modo simile, anche se l’Europa ha dimostrato unità e determinazione impressionanti durante la guerra in Ucraina, indubbiamente dovrà affrontare nuove sfide politiche mentre affronta un enorme afflusso di rifugiati ucraini e affronta ulteriori oneri economici, incluso lo svezzamento dall’energia russa .

Entrambe le sponde dell’Atlantico hanno quindi un duro lavoro da fare se vogliono mettere in ordine le proprie case e rinvigorire l’ancora dell’ordine liberale del globo. Dato il potenziale ritorno della politica del risentimento negli Stati Uniti, l’amministrazione Biden ha urgente bisogno di continuare a portare avanti la sua agenda interna. Investire in infrastrutture, istruzione, tecnologia, assistenza sanitaria, soluzioni per il clima e altri programmi interni offre il modo migliore per alleviare il malcontento dell’elettorato e far rivivere il centro politico malato del paese . L’agenda di rinnovamento dell’Europa dovrebbe includere la ristrutturazione economica e gli investimenti, la riforma della politica di immigrazione e il controllo delle frontiere e una maggiore spesa e messa in comune della sovranità sulla politica estera e di difesa.

L’invasione russa dell’Ucraina annuncia il ritorno di un mondo più realistico, che richiede che le ambizioni idealistiche dell’Occidente cedano più regolarmente alle fredde realtà strategiche. Anche se la guerra ha certamente contribuito a rilanciare l’Occidente e la sua coesione, le minacce interne alla democrazia liberale che erano al centro prima della guerra richiedono ancora un’attenzione urgente. Sarebbe ironico se l’Occidente riuscisse a trasformare la scommessa di Putin in Ucraina in una clamorosa sconfitta, solo per vedere le democrazie liberali soccombere al nemico interiore.

Charles A. Kupchan è Professore di Affari Internazionali alla Georgetown University e Senior Fellow presso il Council on Foreign Relations. Il suo libro più recente è Isolationism: A History of America’s Efforts to Shield Itself from the World .

I POZZI ED IL PENDOLO, di Pierluigi Fagan

I POZZI ED IL PENDOLO. Era noto da anni che i fondali del Mediterraneo orientale fossero pieni di gas, basta vedere una cartina altimetrica delle profondità. Ma i trivellamenti davanti la costa di Egitto e poi davanti Israele hanno poi anche dato conferma probante. Ieri ENI ha confermato che assieme a Total (cartina nel primo commento), hanno trovato bei giacimenti al largo di Cipro. Altrettanti ce ne sono ancora di trivellare, anche davanti al Libano e Siria, nell’Egeo e nelle isole davanti la Turchia che però sono greche. La questione ucraina che ha imposto il nostro de-linking con la Russia accelera ora la ricerca e sfruttamento di questa ghiotta alternativa. Era tutto noto da tempo, ma si preferiva lasciare le cose come stavano anche perché nuovi giacimenti in zone condivise da sei stati, con di mezzo greci e turchi, ciprioti, siriani e libanesi (tra cui Hezbollah) con israeliani solo per parlare dei pozzi, poi si dovrebbe parlare delle condotte, dei diritti di trivellazione e di molto altro, promettevano conflitti certi. Ora ci siamo tolti il problema perché abbiamo un altro conflitto certo in Ucraina e quindi visto che abbiamo sdoganato il conflitto, diamoci sotto!
A me non va di scrivere un articolo di dettaglio, a voi probabilmente di leggerlo. Resto quindi sulle generali per dire una cosa più generale. Non dico su facebook e non dico a fini politici immediati, però direi che qualcuno tra gli studiosi di cose politiche dovrebbe forse rendersi conto della infondatezza degli attuali paradigmi entro i quali pensiamo.
Il mondo è sempre più complesso, imprevedibile, competitivo e rissoso. In questo scenario si muovono soggetti massivi (Stati grandi e potenti) di prima ed ormai anche di seconda potenza. Ogni questione con la quale abbiamo a che fare ci chiede o di esser interpretata a nostro modo, se ne abbiamo la forza (potenza) o di esser subita secondo convenienza altrui. Le questioni mondo sono analizzate e previste dai centri di intelligenza geo-strategica delle prime e seconde potenze. Noi non abbiamo nulla di tutto ciò.
Noi prendiamo il gas dai russi, poi qualcuno decide che no, allora scopriamo che “fortuna!” c’è un sacco di gas nel Mediterraneo. Che bello! Pensiamo ora, poi tra qualche anno quando ci saranno battaglie navali, colpi di stato qui e lì, migranti disperati, sofferenza e dolore per disputarsi i diritti sui nuovi giacimenti, diremo “che brutto!”. Segue donazione Save the Children e profluvio di articoli critici che criticano il perché piove mentre casca l’acqua. Noi ci stupiamo come bambini della pellicola di un film che qualcuno fa scorrere davanti a noi, gioendo, preoccupandoci, polemizzando, credendo di aver capito cose che non capiamo affatto. Noi pendoliamo emotivamente partecipando e giudicando eventi che però hanno noi dentro, non sullo schermo. Eventi che non spuntano fuori uno dopo l’altro come acqua da fontana sono serie di catene causative note e previste, a volte manipolate secondo altrui intenzione. La sola urgenza che molti sentono e giudicare, chi sono i cattivi, chi i buoni, chi quelli come me, chi quelli diversi e quindi contro di me. Noi non ci occupiamo di fatti ma di quello che altri pensano su quei fatti che siamo convinti di conoscere e non conosciamo affatto.
Trivelle, ecologia, nucleare, energia, produzione industriale, armi, fondi di ricerche, alleanze, sovranità, autonomie strategiche, culture strategiche, come tutto ciò va con “democrazia” sono speso argomenti che ci urtano, non ci piacciono, ci impongono studi che non sappiamo e vogliamo o possiamo fare. Soprattutto, ci imporrebbero il sacrificare valori per voleri. Eppure, è ciò che promana dalla realtà.
Il campo del pensiero ha una urgenza forte, riflettere sulle nostre categorie, sulle logiche, sugli strumenti, gli spazi ed i fondi necessari, l’organizzazione stessa visto che queste forme di pensiero invocano lavoro collettivo. Se non riformiamo il campo del pensiero, non avremo piani di azione realistica da condividere e senza questi non avremo massa critica per far cose che non sono facili affatto e sempre che siano anche solo possibili.
Se volete, potete senz’altro fare l’elenco dei desideri, via dall’UE, dall’euro, dalla NATO, dal neoliberismo, dal capitalismo, dall’Occidente brutto e cattivo, dalla Terra anche. Tanto più la realtà è brutta tanto più pendolerete verso le storie belle. Ma il “cosa” non vale nulla senza il “come” come disse quello …

La cornice, di Pierluigi Fagan

CORNICE. Siamo tutti persi in un oceano di notizie relative a fatti. Ma in natura, nella realtà, i fatti sono connessi tra loro a fare il “mondo” e nel mondo ci sono attori intenzionali con strategie, strategie che vogliono far fronte a previsioni. Questi ultimi due elementi, strategia fatte su previsioni, fanno la cornice in cui s’inquadra il groviglio dei fatti del mondo. Vorrei fornire una versione interpretativa di questa cornice, poiché i molti fatti interagiscono proprio con la cornice, anche se spesso non la vediamo.
Il periodo moderno dura un po’ più di tre secoli. In esso, la parte che chiamiamo Occidente, prima solo Europa, poi Stati Uniti con Europa, ha dominato questo periodo storico. Colonialismo, imperialismo, sviluppo scientifico e tecnico (o forse il contrario), modo economico moderno, armi, conoscenza hanno garantito al sistema occidentale un incredibile potere sul resto del mondo. Questo ha permesso il poter importare materie, energie e lavoro a bassi costi per alimentare il modo economico che ha dato ordine dinamico alle nostre forme di vita associata. In questo mondo al nostro servizio, abbiamo poi esportato resti di produzione, scarti, disordine. Ogni forma di ordine, e la nostra lo è stata ai massimi livelli, paga un tributo di disordine che noi abbiamo esternalizzato.
Settanta anni fa, tre dinamiche della nostra parte di mondo, hanno agito non intenzionalmente sul mondo più ampio. La prima è stata il progresso tecno-scientifico che ha in parte debellato malattie che falcidiavano le natalità. La seconda è stata una parte specifica di questo progresso, nata in Giappone e poi ripresa da laboratori americani, ovvero la manipolazione genetica delle piante, prima il frumento, poi il riso. Non solo quindi le persone che nascevano morivano di meno di prima, ma poi crescevano alimentate e più sane, ampliando il registro dei viventi. Infine, la terza, è stata la spinta automatica al nostro modo economico di andare a colonizzare questo nuovo mondo di genti in inflazione demografica per cooptarle nell’economia di mercato cantando l’inno della “globalizzazione”. Tutte e tre le dinamiche, per quanto in larga parte non intenzionali, hanno però avuto anche un agente intenzionale, gli Stati Uniti d’America. Questo perché gli USA, nel dopoguerra, divennero presto consapevoli che il mondo più ampio andava in qualche modo curato e stabilizzato visto che in vari modi vi dipendevamo, non certo per bontà d’animo, per interesse.
Capitò così di esserci triplicati in soli settanta anni, cosa mai avvenuta nella storia umana planetaria, in così poco tempo, partendo da già 2,5 miliardi di persone. Non si è trattata solo di una trasformazione quantitativa, ma anche qualitativa anche perché è proprio questa nuova qualità sanitaria ed alimentare in primis, ad aver prodotto questo nuova quantità. Ma il modo economico moderno che è il nostro ordinatore, imponeva anche una nuova dinamica globale. Tale modo funziona con uno scalino, una asimmetria per la quale un maggiore domina e sfrutta un minore mentre “risolve problemi” (dei quali alcuni li inventa, altri li risolve ma creandone di nuovi). Ma tale assetto asimmetrico non deve esser troppo pronunciato, il minore deve comunque avere facoltà di giocare lo stesso gioco del maggiore. Il maggiore, per esser tale, deve portare il minore dentro il gioco altrimenti senza gioco non ordina il mondo mentre acquisisce l’ordine di cui si alimenta per esser il maggiore.
Così s’è seguita la logica di questo ordinatore che è appunto l’economico nella sua forma moderna che alcuni chiamano capitalismo. Purtroppo, ogni ordinatore è solo una parte della complessità del tutto. Altre volte, nella storia, qualcuno s’era convinto che l’ordine potesse esser militare e così fece imperi dalla brillante crescita repentina ed altrettanto repentino collasso. Qualcun altro si convinse si potesse usare l’ordinatore religioso, ma anche qui non s’erano fatto i conti con i più prosaici problemi della complessità della vita umana in società. L’economico prometteva invece, ed oltretutto spalleggiato dal militare e dalla cultura ora in senso più ampio che non solo quella religiosa, di poter far da ordinatore efficiente tenendo nello stesso gioco il maggiore ed il minore a debita distanza, ma non troppo distante.
Il calcolo si rivelò giusto per un tratto, poi non più idoneo, perché? Allargato il circuito della ricchezza e condiviso il modo economico moderno, altre parti del mondo hanno cominciato a crescere da par loro. Ad un certo punto recente, alcuni hanno intuito con sbigottimento e terrore che la dura logica della massa numerica, avrebbe fatto sì che a parità crescente di altre condizioni, il minore era destinato a diventare il maggiore. Gli economisti occidentali, i sacerdoti della nuova religione ordinativa, hanno prodotto un paio di teorie sulla crescita economica che però saltano a piè pari l’ovvietà per la quale, a parità (più o meno) di altre condizioni, la massa del sistema su cui si applica il modo economico moderno, fa la differenza. Oggi tutto l’Occidente, Europa ed Anglosfera, pesa solo il 16% del mondo, era più del 30% ai primi del Novecento ma al di là della numerica, allora la distanza qualitativa di tutti i fattori di potenza tra Occidente e resto del mondo era inarrivabile. Oggi quella numerica è tracollata e continuerà a scendere nei prossimi decenni e la distanza qualitativa si sta accorciando in fretta. Vi sono poi altri problemi legati al fine ciclo di crescita delle economie ipersviluppate (lo sviluppo non è infinto e non solo per ragioni termodinamiche), ma non ci soffermiamo. Il maggiore è quindi inesorabilmente destinato a non esser più tale. Che fare?
L’attuale vertice del potere del capobranco occidentale ovvero gli Stati Uniti d’America, ha varato una strategia per far fronte al problema. Almeno in termini di “comprare tempo” ovvero diluire in un più ampio tempo, questa contrazione di potenza che era ciò che garantiva la posizione del maggiore. Poi si vedrà. La strategia prevede di tagliare il mondo in due, da una parte rimane il maggiore ovvero l’Occidente con al centro gli Stati Uniti ed una più ampia possibile costellazione gravitante, dall’altra si vorrebbe confinare il minore che sta crescendo minacciando i rapporti di forza, quindi di potenza. La potremo dire una strategia sistemica.
Gli Stati Uniti, giustamente, ragionano per sistemi poiché sanno che la complessità di un mondo oggi a 8, tra trenta anni 10 miliardi di persone in 200 stati, con una crescente caterva di problemi endogeni ed esogeni (tra cui problemi davvero molto seri di tipo ambientale di cui si parla troppo poco e climatici di cui spesso si parla ma male), non si può tentar di ordinare se non attraverso sistemi che dominano sistemi.
Così, dall’inizio di questo anno, siamo finiti in questa Grande Accelerazione, che è solo la reazione alla Grande Accelerazione avvenuta nel mondo negli ultimi settanta anni. Con la tecnica del “c’è un provocatore ed un provocato”, gli USA hanno finalmente ottenuto -dopo essersi impegnati per anni- che la Russia invadesse l’Ucraina. Questo ha spinto, volenti o nolenti, gli europei a stringersi a coorte con gli Stati Uniti. L’accorpamento organico tra Stati Uniti ed Europa era il primo requisito della strategia poiché fa “sistema” e sistema obiettivamente di grande peso. Poiché i due attori hanno molto in comune, ma anche qualche altrettanto obiettiva potenziale divergenza di interessi, per storia, geografia, assetto economico e soprattutto forma visto che uno è uno Stato e l’altra è un Mercato con un po’ di istituzioni di servizio, questo accorpamento “senza se e senza ma” era, appunto, essenziale.
Ora gli Stati Uniti stanno cercando di replicare la strategia “c’è un provocatore ed un provocato” in Asia per accorpare i già organici alleati (Giappone ed Australia), quelli più titubanti (Corea del Sud), quelli potenziali ma molto ambigui o meglio con una loro strategia di più equilibrato bilanciamento (India) per poi scalare la piccola Europa sud-est asiatica ovvero i dieci stati ASEAN. Questo quadrante è assai più complicato del precedente, per varie ragioni e la Cina non è la Russia sotto tanti e diversi aspetti strutturali e culturali (cosa che a gli strateghi americani tenderà a sfuggire). E’ proprio il contesto asiatico (60% del mondo) ad essere per certi versi alieno all’esperienza e conoscenza profonda occidentale, viepiù quella americana.
Se in quello europeo la stanchezza per la guerra ucraina e le contraddizioni economiche che tenderanno a riflettersi in problemi sociali e quindi politici dovesse allentare la tensione, è pronta la versione “c’è un provocatore ed un provocato” a base di targhe automobilistiche serbe-kosovare. Poi ci sarà l’Artico.
Seguono poi tanti altri fatti geopolitici in Medio Oriente e Sud America ed altri a più dimensioni, tra cui il come detto “Artico”, lo spazio, la corsa tecnologica, ma non possiamo soffermarci.
Quindi, in conclusione, questa è la cornice dei fatti, i fatti sono tra loro intrecciati, il tutto -piaccia o no- è molto complesso, non ha alcun senso trattarlo con codici morali poiché è un problema concreto e, come si sarà capito, strategico ai massimi livelli, storico, epocale ed esiziale.
Fatta la cornice, a Voi metterci l’immagine di mondo.
SINCRONIE. Giusto oggi ricorre l’annuale Overshoot Day, il giorno statisticamente calcolato in cui abbiamo consumato tutte le risorse naturali che avremmo dovuto consumare in un anno. Giusto stamane ho terminato “Dove sono?”, una riflessione sui temi del nuovo Regime Ambientale portata avanti da Bruno Latour. Proprio Latour, è stato colui che ha ripreso, da qualche anno, il concetto di Gaia a tema delle sue riflessioni socio-antropo-filosofiche. E proprio l’altro ieri, è morto il padre del concetto di Gaia, James Lovelock, anch’egli in stato di sincronia avendo deciso esser giunto il momento di non più resistere all’entropia, ovvero morire, proprio il giorno del suo centotreesimo compleanno. Giusto ieri, stavo rileggendo il testo di un mio intervento ad un convegno tenuto tre anni fa proprio per i cento anni di Lovelock. Ne consegue questo post che però non ha alcuna ambizione se non condividere i ragionamenti stimolati da queste sincronie.
Lovelock presentò il concetto di Gaia negli anni Sessanta, decennio in cui nacque l’ecologia moderna e da cui oggi pensiamo partì la Grande Accelerazione. Latour riassume il concetto in quella fascia di circa sei chilometri, tre sopra il nostro suolo e tre sotto, che forma la pellicola dei viventi sul pianeta.
Lovelock, di base, era un chimico e chimico è il minimo comun divisore di tutto ciò che si trova in quella fascia, animali, piante, microbi e virus, acque, arie, terre, elementi. La chimica non ha mai sviluppato una sua filosofia importante, come le attigue fisica e biologia. Peccato perché: a) è natura e grammatica di ogni cosa che è, ad un livello più complesso della fisica ed oltretutto a cavallo dai regni del vivente e non vivente che sono nostre categorie; b) è base di complessità avendo almeno 98 varietà base (almeno sulla Terra) che tendono ad unirsi in molecole (a parte i gas “nobili” che se ne stanno ostinatamente per conto loro ma sono solo sei) dando vita, appunto, al tutto ciò che è.
L’idea originaria di Lovelock ha avuto vita travagliata. Lui stesso ne ha offerto diverse versioni, non quanto a forma, ma quanto a comportamento. Nata come “ipotesi” poi l’ha intesa “teoria” con varianti pensate da lui o contro di lui o partendo dalla sua intuizione ma andando per altre vie. Il catalogo sommario dice: Gaia influente, Strong o moderate hypotesys, omeostatica o omeodinamica con equilibri successivi (Daisyworld), con approfondimenti di geochimica, degli accoppiamenti coevolutivi, fino alla nascita di contro ipotesi come la Snowball Earth, la CLAW poi anti-CLAW, la nemesi di Gaia ovvero l’Ipotesi Medea etc.
Trattata e screditata addirittura come idea new age (il termine Gaia venne suggerito da un romanziere come altro nome di Gea che poi è desinenza di Geologia, Geografia, Geopolitica etc.) quando ancora il Capitale vedeva questi argomenti come intralci per la propria libera riproduzione ovvero quando ancora non aveva capito come sfruttarne la problematicità per alimentare una nuova “rivoluzione industriale”. La co-autrice dell’idea, Lynn Margulis, a sua volta considerata a lungo eretica per le sue idee che oggi sono assunte nel mainstream bio-evoluzionistico, la definiva “Tendenza del Sistema Biocibernetico Universale all’ Omeostasi”, sistema composto dai sottosistemi di geo-idro-pedosfera + biosfera + atmosfera.
Idea per altro già intuita da von Humboldt e Vernadskj. Lovelock, come detto, era un chimico e chimico era anche Vernadskj e prima ancora James Hutton, padre della geologia moderna che pure aveva proferito intuizioni simili, così come Crutzen a cui si deve l’ipotesi del concetto di Antropocene. Pare che i chimici vedano sistemi come loro prima ontologia spontanea, peccato non abbiano filosofato di più.
Non è un caso che Goethe parlasse di affinità elettive per un romanzo di coppia che poi si scinde e si riassortisce e non è un caso che tanto per la chimica che per i rapporti umani si parli di legami. Ma le variegate versioni e forme dell’eterno idealismo occidentale che nasce da Platone, ha vertice invece nel concetto di assoluto, “ab solutus” cioè sciolto da legami. Concetto poi erroneamente attribuito ad atomo, visto che dei 98 naturali solo sei hanno questo comportamento repulsivo, gli altri si accoppiano all’impazzata spinti da una certa bramosia a cercar stabilità attraverso le formazioni di interrelazione stabile che chiamiamo molecole. O se poi sciolgono legami è solo per allacciarne di nuovi.
Lasciamo ora il Lovelock, diventato poi nel tempo critico verso certo ambientalismo catastrofista, a favore del nucleare, della geoingegneria spinta e da ultimo, innamorato delle ipotesi neo-coscienziali dell’Artificial Intelligence. Passiamo allora a Latour che va da tutt’altra parte. Innanzitutto, avendo origini socio-antropologiche, ci mette dentro noi umani come “forma di vita” che, nella definizione di Lovelock è: un sistema dotato di perimetro entro il quale l’energia è usata per formare ordini dinamici (diminuendo l’entropia) e fuori del quale si ricava energia ordinata e si espelle energia disordinata aumentando l’entropia generale. un sistema dotato di perimetro entro il quale l’energia è usata per formare ordini dinamici (diminuendo l’entropia) e fuori del quale si ricava energia ordinata e si espelle energia disordinata aumentando l’entropia generale.
La definizione vale per l’individuo vivente (animale o pianta), l’uomo, la società umana, l’economia moderna, i nostri Stati-nazione. Ognuno dei quali è “nel” mondo in cui viviamo, ma al contempo e poco notato, nel mondo “di cui” viviamo. A dire che a parte le specie autotrofe (in sostanza i vegetali) noi altri animali siamo eterotrofi e quindi il mondo di cui viviamo è molto più ampio di quello in cui viviamo. Il che ci interroga su che tipo di relazioni averne.
Latour ne conclude una nuova classificazione politica tra Estrattori (chi vuole continuare ostinatamente nel modo moderno infischiandone dei limiti di compatibilità che ormai non sono più solo ecologici ma anche geopolitici, ad esempio: chi ha diritto di emettere CO2 in eccesso?) e Rammendatori, secondo una linea che va verso la “comunità di destino” alla Morin, una sorta di nuovo “in comune” sul piano eco-politico (geopolitico) ed inaspettato universale basato su realismo, materialismo e pragmatismo. Ma la riflessione è più ampia coinvolgendo concetti di sovranità, autonomia ed eteronomia, identità, sovrapposizione, sconfinamento, limiti, interdipendenze, intersezionalità, sussistenza e riproduzione, vari tipi di crisi inclusa quella pandemica. Il tutto con vari ricorsi paralleli a Gregory Samsa e la sua kafkiana Metamorfosi, in una sorta di trasvalutazione dei valori che connota la nostra epoca quanto ad immagini di mondo, ancora ampiamente riferite ed un mondo che non c’è più, non ancora idonee a quello in cui siamo capitati ed in cui di orientiamo a fatica.
Nel frattempo, secondo gli statistici dell’Overshoot Day, ci siamo mangiati in sette mesi, il necessario dei dodici, ma solo perché siamo ancora nell’onda lunga del lockdown planetario, una mano santa dal punto di vista del “rallentamento”, un rallentamento da alcuni gradito, da altri -alcuni insospettabili- rifiutato al grido arrabbiato di “ridateci la normalità”.
Chiudo. Non c’è alcuna conclusione, né nel post, né nel libro di Latour (sebbene faccia finta di scriverne una, così tanto per non lasciare troppa roba per aria). Una, forse, potrebbe esser l’invito a considerare questi temi espressi e quelli connessi che abbiamo dovuto tagliare per ragioni di spazio. Sono tanti, complessi cioè non solo tanti ma intrecciati ed interdipendenti tra loro, non lineari nel comportamento, autoriflessi, un vero marasma. A fronte di tutto ciò, evitate come la peste gli eccessivamente ansiosi, i negazionisti di principio, quelli che non vedono i problemi ma solo chi se ne approfitta, i riduzionisti, quelli che hanno una forma mentale non in grado di ospitare l’argomento e tuttavia giudicano o sentenziano.
Siamo in un nuovo stato del mondo (a 8 miliardi tra tre mesi e mezzo), l’immagine che ne abbiamo (l’assieme di categorie, logiche, teorie, ideologie, conoscenze, memorie etc.) è vecchia, dei secoli precedenti, non tutto cambia ma molto sì. È necessario continuare l’esplorazione ovvero tenere l’argomento aperto ed esplorarlo in quanti più è possibile, ci metteremo decenni a formulare una nuova mentalità prima, nuove società e modi di viverle poi, come è sempre stato nelle grandi transizioni storiche. Perché farlo? Non lo so.
“Resterà sempre sconcertante che per prime generazioni sembrino aver portato il fardello della loro fatica a beneficio esclusivo delle generazioni future … e che solo l’ultima avrà la fortuna di abitare nell’edificio compiuto” diceva un prussiano. Questa generosità verso i futuri forse ha a che fare col senso di essere umani, ma lascio a voi la risposta.
[La foto NASA è ritoccata, ma ci serve come concetto visivo in accordo al testo, a proposito di immagini di mondo]

IL RITRATTO DI ITALIAN GRAY, di Pierluigi Fagan

IL RITRATTO DI ITALIAN GRAY. Conoscerete la trama del famoso romanzo di Oscar Wilde in cui un tizio ottiene di rimanere giovane e bello purché non si specchi mai verificando così che la sua immagine reale è quella di un vecchio incartapecorito. Noi italiani, da trenta anni, funzioniamo nella stessa maniera.
Nello specchio c’è la nostra classe politica, lì in pubblico stante l’ampia classe dirigente che gli fa da coorte e non appare. Noi italiani siamo i giusti, giovani, belli, saggi che per lo più si fanno i fatti loro, individualmente o per famiglie o per bande, salvo talvolta incrociare qualche specchio e rimanere disgustati dall’orribile riflesso. Ma non capiamo che quello che vediamo è il nostro riflesso, pensiamo sia qualcun altro che ha preso il nostro legittimo posto.
Noi italiani siamo diventati una massa informe di gente che ha l’intestino al posto del cervello, con tutte le conseguenze della metafora in termini di fori eiettivi.
Quattro anni fa, vinse le elezioni una inedita forza politica che molti hanno salutato come il necessario superamento della vetusta dicotomia “destra-sinistra”, un trucco per dividere il popolo. Oggi, molti degli eletti sono in un vasto arco di forze politiche che vanno dall’estrema sinistra alla destra, ieri una deputata è andata addirittura con Renzi. Perché? Perché presupporre ci sia un modo di decidere sulle cose di governo di un Paese che sia “popolare” è una illusione pari a quella che esista un modo di deciderle giusto perché “tecnico”. I popolari (non uso qui populisti per disgusto epistemico verso il termine, poi vi sarò costretto per ragioni di pubblico intendimento) e i tecnicisti si corrispondono, sono illusioni politiche figlie della confusione vastamente diffusa e non figlia del long-Covid che gli è successivo.
In Italia abbiamo una destra post-fascista nel senso che non è fascista ma sentimentalmente non è poi così critica verso quella esperienza. In effetti non la conosce affatto, non è un giudizio di merito, è un giudizio confuso anch’esso, come quelli che palpitano a vedere bandiere con falce e martello nel Donbass, un giudizio sentimentale, una identità non precisa ma dal vago sapore, una parentela di quinto grado, ma pur sempre una parentela.
Poi abbiamo una destra popolare, a metà tra un partito di destra con venature sociali ed uno non saprei dire se non che deriva da un posizionamento cultural-geografico legato al Nord (?) poi apertosi ad istanze “populiste”. Una di quelle pietanze con decine di verdure fatte a lungo a cuocere assieme così che alla fine non sa di niente pur essendo fatta di tutto. C’è chi ha studiato alla Bocconi o chi rappresenta la piccola-media imprenditoria che opera dentro la catena del valore tedesca e chi ha fatto fortuna scrivendo libri avvelenati contro l’euro e l’Europa e la Germania. Antistatalisti, quindi fondamentalmente liberisti, ma sovranisti ma anche un po’ euristi, purché senza migranti e altre diavolerie post-moderne. Soprattutto senza mascherine.
Poi abbiamo una destra implicita, piccola borghesia che ha un solo interesse nella vita: poche norme e niente tasse, libertariana la si direbbe. Per lo più vota una forza politica inventata di sana pianta a tavolino da un signore multimiliardario con tre canali televisivi e qualche giornale, che è adorato come si adora l’idealtipo, l’eroe simbolico che assume in sé tutte le essenze bramate: soldi, figa e botox, barzelletta e risate, chiagni e fotti, un classico. Metà commedia dell’arte, metà “fatti li caxxi tui e goditi la vita”.
Poi abbiamo una destra conservatrice. In fondo “classica”, i valori fondamentali, l’ordine fondamentale, la tradizione fondamentale. Sono pochi o forse più che pochi meno del passato, ma tenaci, se non altro dal chiaro profilo che non va a mode ma a radici (tradizionale, appunto).
Poi abbiamo una destra che sarebbe già qualcosa se fosse solo liberale ma in realtà non discende propriamente dal liberalismo politico che non ha alcuna tradizione nel Bel Paese. A volte si abbina a forme liberali che chiamano “progressiste” creando così una parziale sovrapposizione con certa sinistra nominale che ha perso il significato del termine, spostandosi verso il liberalismo che di suo ha in effetti un campo molto largo che va da Hayek a Stuart Mill. Non avendo però alcuna reale competenza politica ma scimmiottando posizione politiche di ben altra levatura in Europa o Gran Bretagna, a volte si rende conto di non saper che pesci pigliare e quindi propende per il “governo dei tecnici”, come ci fosse un modo solo “tecnico” di prender decisioni politiche, un assurdo mai verificatosi o tale teorizzato in duemila anni e passa di filosofia politica occidentale. Ma a loro questa cosa piace in particolare poiché anelano il “Nuovo” come una volta si anelava il “Giusto”, che per loro sono sinonimi.
C’è poi un centro. Il centro è una posizione geometrica ovvero il luogo intermedio tra una destra ed una sinistra. Il loro vantaggio è prender o non prender il meglio o il peggio dei due mondi, ma senza averne fatta sintesi effettiva, non hanno teoria, hanno solo l’istinto a mettersi nel mezzo quando forze opposte spingono di qui e di là. Nell’ansia che crea il conflitto e la disputa sul dover prender decisioni, loro sono l’ansiolitico, né-né o sia-sia, sono “emergenti” dal conflitto di paradigmi, non hanno consistenza autonoma e quindi galleggiano con la leggerezza del sughero. Inaffondabili.
Poi c’è un centro-sinistra simmetrico l’altro centro-destra ovvero le due categorie paradossali della tradizione politica anglosassone che però ci si dimentica esser interna ad imperi. Avere un impero migliora molto la competizione tra classi sociali così si davano due modi, un po’ più conservatori o un po’ più liberali di declinare il bottino. Questo “centro-sinistra” è in realtà un “liberalismo di sinistra stuartmilliano” (ma dato che in Italia, come detto, non si conoscono i fondamentai plurali della composita tradizione liberale, nessuno se ne rende conto e si continua ad usare una etichetta sbagliata) che invero, di sinistra non ha che tracce, a volta solo sentimentali ma sempre più sbiadite ancorché vergognose e ultra-minoritarie.
Poi c’è una sinistra che per lo più non ha partito e stante che di tradizione era solita averne qualche decina poiché il settore è molto litigioso al suo interno e pieno di sfumature che si ritengono esiziali e decisive quando il resto del quadro politico va sempre più dall’altra parte. Ma poiché questa tradizione fa più riferimento agli ideali declinati in opere scritte di un secolo e mezzo fa che alla realtà e poiché ha perso ogni facoltà di salvare un nocciolo della posizione politica da rideclinare in concreto in un mondo nel frattempo piuttosto cambiato che non comprendono, è indifferente alla deriva. L’anagrafe ne sta falcidiando le fila e fra un po’ rimarrà solo il ricordo o una confusa “nostalgia canaglia”.
Infine, c’è una quasi-sinistra dalle ambizioni popolari senza però una chiara percezione di cos’è davvero oggi il popolo italiano, né il mondo. Soprattutto dedita a recitare il mantra penitenziale “non c’è più la destra e la sinistra”, per celare la propria identità di cui ha introiettato la vergogna visto sia le confuse manifestazioni pubbliche del concetto (del centro-sinistra che in realtà è un liberalismo progressista, della sinistra teorica surreal-patetica) e visto il bombardamento trentennale delle destre che ne hanno ridicolizzato le aspirazioni in un mondo che “non è più quello di una volta”. Essa è contro per principio ma quando è a favore, è a favore di cose per lo più irrealizzabili o a scadenza pluri-decennale, così quando fa opposizione va tutto bene, semmai ha la ventura di dover governare qualcosa non sa bene che pesci prendere anche perché la complessa realtà coi suoi attriti disordinati e contradditori le sfugge.
Quest’ultima e la precedente, condividono l’assoluta mancanza di cognizione su cosa dovrebbe esser una democrazia. I primi perché a lungo flirtanti col romanticismo rivoluzionario, i secondi perché attratti della teoria populista che si farebbe fatica a definire una vera e propria teoria, ma di questi tempi nessuno se ne accorge, è “nuova” e quindi sembra idonea per simpatia a corrispondere alla novità dei tempi.
Così questa Italia fatta da persone assai confuse che scambiano qualche scabroso pseudo-leader per la parte di popolo che l’ha votato, per quanto in condizioni oggettive sempre più precarie o negative (non tutti, c’è una piccola Italia che è sempre più ricca e gode di tale confusione che alimenta attivamente tramite i super-media e i circuiti di riproduzione culturale di cui è proprietaria o su cui ha influenza decisiva, quell’Italia che ha i soldi che però a nessuno viene in mente di andargli a prendere, per carità, il problema è altrove -euro-UE-neoliberismo-globalismo-capitalismo-postmodernismo altri oggetti della mente teorizzante), andrà a votare chissà cosa, pensando cosa, aspettandosi cosa. Andrà a votare più spesso contro qualcuno che non a favore di qualcosa.
Dati i presupposti confusi, ci sarà un po’ di confusione, poi tutti si renderanno conto che “così non si può più andare avanti” non poi perché si avrà un soprassalto di lucidità realista ma perché ci sarà qualche ricatto concreto che metterà di fronte a situazioni imbarazzanti, ed alla fine si invocherà a maggioranza il fatidico “fate funzionare le cose, per Diana!”. E si tornerà così a qualche forma di tecnicismo di unità nazionale, ma quantomeno senza la solfa del “non ci fanno votare” poiché lo avremo appena fatto.
Potremo tornare così all’adorato specchio delle nostre brame a chiedere sul chi è il meglio del reame, sputando sull’orrenda immagine di quell’estraneo che non riconosciamo nostro.

cose strane accadono in guerra, di Pierluigi Fagan

“WEIRD SHIT HAPPENS IN A WAR”? Ricorderete un recente post riferito alle dimissioni di Boris Johnson, in cui davo evidenza ad un tweet dell’ex Chief advisor del Primo Ministro britannico, D. Cummings. Sosteneva il tipo di non credere più di tanto alle dimissioni di BJ che però rimaneva in carica fino a sostituzione: “cose strane accadono in guerra”, a dire che la guerra in Ucraina avrebbe sempre potuto prender una svolta inaspettata ed improvvisa che poteva portare a ripensare la situazione.
Non so dirvi se quella di Cummings fosse una semplice freccetta avvelenata verso il suo ex-capo che poi lo licenziò in maniera un po’ brutale o se Cummings si riferiva a voci che giravano in certi ambienti londinesi.
Scorrendo le notizie, si presenta però una catena inferenziale di cui forse è bene esser consapevoli.
Oggi 17 luglio: lancio 16.40, Dimitry Medvedev afferma che “in caso di attacco alla Crimea, l’Ucraina dovrà affrontare il giorno del giudizio” (fonte Ria Novosti).
Giorni scorsi: fonti ucraine avanzano l’idea che con i nuovi sistemi missilistici forniti dagli USA, potrebbero arrivare a colpire la Crimea o addirittura il ponte strategico che la collega alla Russia. Fonti russe hanno variamente reagito segnalando che il ponte, secondo loro, non correrebbe pericoli poiché ben difeso da sistemi antimissile e minacciando ritorsioni “fine dei giochi”. Un ufficiale russo, riportato sempre da fonti russe, affermava di esser certo al 250% del fatto che i nuovi sistemi HIMARS MLRS erano gestiti da ufficiali anglo-britannici e non ucraini. Gli ucraini si limiterebbero a proteggere l’area.
14 luglio: l’Ambasciata americana in Ucraina, lanciava un allarme livello 4 (il più alto), dando indicazioni di lasciare immediatamente il paese: “La situazione della sicurezza in tutta l’Ucraina è altamente instabile e le condizioni potrebbero deteriorarsi senza preavviso”.
A pensar male si fa peccato ma… . Indubbiamente la piena estate è da sempre il momento migliore per imprimere svolte volute a processi complessi. Nixon si inventò il dollaro “causa sui” un 15 agosto.
Di fatto gli ucraini non sembrano in grado di resistere a lungo o contrattaccare sul campo.
Altrettanto di fatto, abbiamo una UK distratta dalla successione dei Conservatori, Francia con Presidente senza maggioranza parlamentare, Germania in grave ripensamento causa inflazione e disastro economico, Italia sappiamo. La combattiva Iryna Vereshchuk, ha detto proprio oggi che: “Il futuro dipenderà da come l’Italia, gli italiani, il governo italiano riusciranno a risolvere questo terribile conflitto” cioè senza Draghi gli ucraini perdono? Pensa te…
Gli ucraini hanno portato a 9 i miliardi necessari a tenere in vita la macchina del loro stato mensilmente (fonte Ft, gli ucraini parlano di “copertura di disavanzo mensile”), erano 5 due mesi fa, sarà per via dell’inflazione… . Da notare che una parte del disavanzo è dato dalla necessità di corrispondere un vasto “reddito di cittadinanza” secondo il responsabile economico Oleg Ustenko.
Per non parlare del flusso di armamenti da far distruggere ai russi o consegnar loro al mercato nero o rivenderli sempre a mercato nero a mezzo mondo o armare la fantomatica armata del milione di giovanotti e giovanotte da lanciare nella tenzone.
Insomma, la domanda cresce, l’offerta o ristagna o potrebbe addirittura contrarsi, il tempo passa, i territori si continuano a perdere. C’è bisogno di un aiutino?
Mi sono domandato se scrivere questo post. Non è mia abitudine speculare sulla paura o far cassa di risonanza per la propaganda che c’è e ce n’è tanta, da una parte e dall’altra. Vi offro solo la sequenza delle ultime notizie che continuo a seguire giornalmente anche se non scrivo più tanto sull’argomento.
Il movente per provocare una escalation ci sarebbe anzi ce ne sarebbe più d’uno, il momento della “grande distrazione estiva” è favorevole, in tempi recenti sulla stampa specializzata si è fatto un gran parlare della guerra nucleare a bassa intensità (ordigni tattici), l’avviso dell’Ambasciata americana di quattro giorni fa, senza apparente ed immediato riscontro con ciò che lì succede ormai da mesi, non è stato forse notato con la dovuta attenzione.
Medvedev ne dice una al giorno e tutte abbastanza peperine. Può darsi sia solo “fog of war”. La sequenza però è strana e come diceva il Cummings “cose strane accadono in guerra”. A volte.

GET INSIDE, STAY INSIDE, STAY TUNED, di Pierluigi Fagan

GET INSIDE, STAY INSIDE, STAY TUNED. Questi i tre consigli di un simpatico video rilasciato dal Dipartimento per le emergenze di New York, in caso di attacco nucleare: andate dentro, state dentro, state collegati alle fonti di informazione. Lo useremo come metafora per ripetere il senso di cosa sta succedendo dal 24 febbraio scorso.
Come ricorderà, forse, chi frequenta questa pagina da tempo, reagii immediatamente con molta inquietudine a quello che si stava manifestando come reazione europea ed occidentale all’attacco russo all’Ucraina. Il motivo era l’incredibile prontezza e coordinazione della reazione, la perfetta coincidenza con la narrazione subito imposta che verteva su uno sconosciuto commediante di uno sconosciuto stato della periferia d’Europa, già a lungo noto -per chi si occupava di relazioni internazionali e geopolitica- per esser nodo di lunga trama del braccio di ferro tra le due superpotenze nucleari, condita con il potente ricorso ai “valori” etico-morali che rendevano necessaria la mobilitazione a qualunque costo contro il nemico. Tutto questo prima ancora di capire cosa stesse succedendo e perché. In particolare, il “perché”, non c’era alcun perché da domandarsi, era tutto chiarissimo, c’era un aggredito ed un aggressore.
Fino a lì, che ci fosse un aggredito ed un aggressore ci arrivavamo tutti, era abbastanza evidente. Tuttavia, per coloro che cascando dal pero si accorgevano per la prima volta dell’esistenza sia di una cosa strana chiamata “geopolitica”, sia di una cosa ancora più esotica chiamata Ucraina, era forse necessario capire un po’ meglio come si era arrivati alla fatidica questione. Ma d’improvviso era vietato farsi domande, anche perché il ricatto dei valori etico-morali coinvolti serviti a condimento della lievitazione emotiva imponeva l’azione e la allineata e convinta reazione unitaria. Il mondo di prima era fatto di confuse spinte alternative, di grovigli, di conflitti di interessi, di bilanciamenti un po’ di qui ed un po’ di lì, di amorale opportunismo utilitarista, di sostanziale cinismo realista quando si trattava di fare affari con monarchie assolute, dittatori di varia risma, usurpatori di altrui territori e negatori dei diritti dei popoli. Ma d’improvviso, da un giorno all’altro, tutto ciò non valeva più e tutto ciò perché dovevamo difendere l’inderogabile diritto di questo Paese mezzo fallito e neanche democratico o stato di diritto, dedito al traffico d’armi, prostituzione e droga, di entrare nella NATO. In più colpiva l’improvviso, immediato e inderogabile allineamento ad una sola voce, come nei b-movie di fanta-distopia. Possibile?
Nel post del primo giorno, quello proprio del 24 febbraio, riportavo il virgolettato del discorso di Putin di poche ore prima che, in riferimento alle possibili prese di posizione europee, minacciava: …è molto probabile ci saranno contro-ritorsioni sulle forniture del gas in Europa “… la risposta della Russia sarà immediata e vi porterà a conseguenze che non avete mai sperimentato nella vostra storia”. Aggiungevo in analisi “Il contenzioso profondo è tra gli USA che vogliono stringere a sé i propri alleati in via esclusiva, contro Cina e Russia, per resistere il più a lungo possibile all’esito multipolare dell’ordine mondiale, un esito di cui ormai non si può più discutere il “se”, ma il “come e quando”.
Tutto ciò che s’è verificato in seguito è andato in accordo con questa analisi. Biden ha sfoderato il suo format “democrazie vs autocrazie” per giustificare il dovere di allineamento strategico, si è tentato per due volte di isolare la Russia alle Nazioni Unite (con esiti modesti), si è e si sta preparando l’allineamento asiatico anti-cinese, il G7 ha fatto finta di deliberare una presunta strategia concorrenziale alla Belt and Road Initiative. Biden e Blinken hanno provato a raggruppare i paesi amici del Centro e Sud America, scoprendo di avere davvero pochi amici, il pupazzo di Kiev ha provato a blandire e minacciare di sanzione morale l’Unione Africana che ha sfoggiato assoluta indifferenza. Hanno provato a far scattare l’ostracismo ai russi per il G20 in Indonesia e per irritazione verso il sabotaggio, il locale Ministro degli Esteri ha candidamente spifferato che in realtà Blinken s’è appartato qualche ora con Lavrov alla recente riunione dei ministri degli esteri del formato, alla faccia del “col nemico etico-morale non si parla”. Ora Biden sta provando a rinsaldare il trumpiano Patto di Abramo tra Israele ed il saudita affettatore di giornalisti scomodi e promotore dell’Isis, dopo aver dato i curdi in pasto al dittatore necessario di Ankara per rimuovere il suo veto alla cooptazione dei due paesi scandinavi che torneranno utili nei prossimi tempi del conflitto per l’Artico.
Insomma, fino ad ora il disegno di Washington conta, nella rete calata nei turbolenti mari del futuro geopolitico, il solo pescione europeo. Non male come risultato, nonostante il resto.
Come altri hanno notato, ieri l’euro è andato a pari del dollaro per la prima volta dopo venti anni. Ha anche perso il 18% sullo yuan dall’agosto di due anni fa. Quindi il gas che dovremo comprare dagli USA, che già costava più di ogni altro, ci costerà ancora di più e le merci cinesi saranno meno convenienti per noi di quasi un quinto. Il tutto dopo aver perso il mercato russo del tutto e con esso, una buona parte delle forniture energetiche. Il che porta a prezzi del gas alle stelle, mancanza reale di alternative viabili nel breve-medio termine, materie prime più costose (si pagano in dollari, di solito), inflazione, razionamenti già pianificati nell’indifferenza comprensibile dei più che sognano solo la loro ristorante vacanzina, alternando il residuo di attenzione distratta tra le polemiche sul corsivo ed il divorzio dei VIP. La Germania si prepara alla “grande crisi” della sua industria mentre non si sa se noi stiamo facendo altrettanto visto che siamo parte della loro catena del valore. E tutto ciò aspettando si dipani appieno quelle “conseguenze che non avete mai sperimentato nella vostra storia” minacciate dal russo che evidentemente non era pazzo come alcuni psicanalisti da operetta hanno diagnosticato nel marasma mediatico iniziale ed i calcoli li sa fare bene, nel breve, nel medio e nel lungo periodo.
Proprio ieri, Biden si appropriava per scopi pubblicitari della cooperazione tecno-scientifica euro-canadese-americana del nuovo telescopio Webb, ricordando quanto gli USA siano l’unica, vera, potenza tecno-scientifica del pianeta, seguito a poche ore dall’annuncio della rottura della rilevante collaborazione tra l’ente europeo ESA ed il corrispettivo russo Roscosmos. La cattura egemonica dell’Europa procede a grandi falcate ed è ormai irreversibile. Ma manca ancora un pezzo, forse. Dopo tre giorni dall’inizio del conflitto, scrissi un altro post in cui avanzai la previsione che si sarebbe, prima o poi, rispolverata la vecchia idea del TTIP, l’accordo di libero scambio privilegiato transatlantico. Oramai siamo del tutto assorbiti dalla NATO e dalle strategie di riarmo e preparazione di sciami di conflitti tra “democrazie” ed “autocrazie”, non tutte, solo quelle davvero antipatiche al gusto di Washington. Siamo però anche la prima potenza commerciale del mondo pur essendo un aggregato statistico e non un soggetto economico-politico unitario. Non ci sarà vera cattura egemonica fino a che non verremo riquadrati in uno specifico recinto di sub-globalizzazione atlantica, sottraendoci al sistema cinese, nemico ultimo della nostra nuova stella madre.
Loro, col dollaro forte ci compreranno meglio e noi compreremo meno bene dai cinesi, si chiama “nudge”, spintarella gentile.
Quindi, eccoci alla metafora di apertura: entriamo tutti alla svelta nel sistema occidentale a guida americana, stiamo tutti dentro e togliamoci ogni velleità di relazioni esterne autonome, attacchiamoci allo streaming continuo di informazioni distorte ed opinioni falsate, previsioni senza senso e minacce inventate di sana pianta che ci daranno ottimi motivi, più emotivi che razionali, per credere a questo incredibile colpo di stato contro la nostra capacità di sovraintendere al nostro minimo interesse.

IL NUOVO CONCETTO STRATEGICO, di Pierluigi Fagan

IL NUOVO CONCETTO STRATEGICO. Siamo entrati in un nuovo periodo storico di transizione, a livello mondiale, non più animato solo da stati ma da sistemi con più stati.
Il primo sistema ha al suo cuore una alleanza che lega due sponde dell’Atlantico. Originariamente creata da Stati Uniti e Regno Unito, paesi di comune antropologia e diversa geografia, quindi storia. Questa fratellanza antropologica è fatta di discendenti dei barbari continentali del Mare del Nord, angli, sassoni, frisoni, juti, poi danesi e varie fazioni normanne che si impossessarono di parte dell’isola britannica (spingendo ai margini o sottomettendo celti, britanni e scoti). Poi migrarono nel nord del continente americano, in Australia e Nuova Zelanda e si allargarono in Canada sottomettendo e segregando nativi americani, ispano messicani, aborigeni. Nel grande conflitto euro-continentale coi germani metà Novecento vennero salvati dai cugini d’oltremare mentre i germani incappavano in una forma delirante di volontà di potenza che incautamente aveva allargato il conflitto alle vaste pianure russe che, com’è noto, sono troppo profonde per esser conquistate. Saldato in un accordo del 1941 detto Carta Atlantica, il rapporto speciale tra popoli di comune discendenza, lingua e religione, fece da base alla successiva formalizzazione del successivo Trattato del Nord Atlantico e relativa organizzazione operativa (la “O” di NATO) nel 1949. I cinque paesi anglosassoni pesano oggi il 6% del mondo in termini di popolazione, ma il 31% in termini di Pil. Poco meno del 59% è il totale delle riserve valutarie del mondo in dollari e poco meno del 5% in sterline. La loro lingua è la lingua franca internazionale, la loro cultura in certi campi vastamente egemone anche se non da sola e sempre meno, la loro forza militare ancora primeggia.
Se questo è cuore antropologico del primo sistema da cui una mentalità dominante ben precisa, intorno si è condensata una corona di popoli affiliati al sistema. Tale corona è fatta dagli europei continentali a loro volta frazionati tra scandinavi, germanici, balto-slavi, latino-mediterranei ed altri del complesso mondo del Vecchio Continente, più, in Asia il Giappone e talvolta la Corea del Sud. Questo “sistema” si è affermato negli ultimi settanta anni come sistema politico-economico. Fondato sui principi dell’economia moderna sviluppati dagli inglesi già alla fine del XVII secolo che qualcuno chiama “capitalismo”, si basa però anche su un sistema politico chissà perché chiamato “democrazia” quando in effetti è il triplo potere statale (legislativo, giudiziario ed esecutivo) al servizio degli interessi economici e finanziari che ordinano il sistema. Così come gli anglosassoni condividono parte del loro potere mondiale con occidentali e orientali non antropologicamente del tutto affini, così le élite economiche e finanziarie cooptano al loro servizio parti di funzionariato di sistema che non originano direttamente dalla macchina economica e finanziaria.
Questo sistema è oggi sulla china calante della classica curva a campana che connota la vita di ogni sistema. La sua demografia è in vistosa contrazione percentuale sul totale mondo, la sua anagrafe è sempre più anziana (gli “occidentali” ed affini sono l’esatto ultimo quarto dei 200 paesi del mondo per età media), l’idea di ringiovanirla e rinvigorirla con etnie diverse da subordinare ma anche cooptare funziona in teoria ma per niente in pratica (vedi casi americano, inglese, francese, giapponese). Questa sempre maggior relativizzazione demografica (oggi gli “occidentali” sono scarsi il 16% del mondo), porta a traino la relativizzazione culturale che si manifesta in diversi aspetti. Ma ancora forte è il peso economico-finanziario sebbene con tre grossi problemi. Il primo è che, in quanto sistema ipersviluppato, l’Occidente fa sempre più fatica a trovare ragioni di ulteriore sviluppo per crescere. Visioni molto poco realistiche dell’economia, sottovalutano che il sistema di economia moderna serve a fare cose, ma le cose da fare sono nel dominio del finito e gli ipersviluppati sono coloro che sono arrivati ai margini delle potenzialità del sistema, l’hanno sfruttato tutto e bene e gli rimane davvero poco per alimentare il proprio impeto di crescita. Il secondo problema è l’enorme debito parallelo al funzionamento del sistema economico, viepiù inquietante laddove non si cresce per ripagarlo almeno in parte o dar la vaga impressione di poterlo fare. Il terzo è che questo primato economico-finanziario che molti pensano dovuto a chissà quali leggi ferree che governerebbero i sistemi economici come quelle newtoniane governavano l’Universo, è un sistema aperto, aperto all’ambiente naturale ed all’ambiente economico e politico mondiale. Cattive notizie però provengono dall’ambiente naturale quanto ad ulteriore sfruttamento, ma ancor più cattive notizie provengono da un ambiente politico ed economico mondiale dove, nel frattempo, sono nati e si stanno sviluppando nuovi attori potenzialmente potenti o indisponibili ad esser spazio gregario e passivo di possibilità per l’alimentazione dell’ipertrofico benessere occidentale.
Questo secondo altro sistema è molto più ampio, meno formalizzato e con al centro una unione almeno di intenti generali tra i paesi compresi nell’acronimo BRICS: riservarsi sempre maggiori condizioni di possibilità per il proprio sviluppo. Sono quasi tutti paesi in traiettorie di sviluppo, alcuni ancora demografico, molti se non altro economico e finanziario, altri ancora ribelli alle forme del dominio occidentale sotto altri aspetti. Ma oltre al nucleo di questa unione finora poco formalizzata ma forse in via di maggior formalizzazione (come recitano loro: 41% demografico del mondo, 25% del Pil globale e il 50% della crescita globale dell’ultimo anno con una crescita interna del 33% degli scambi commerciali tra loro cinque), praticamente ogni altro paese non compreso direttamente nei due sistemi è per molti versi dalla parte di questi sfidanti che vorrebbero ridurre il peso del primo sistema in modo da garantirsi maggiori condizioni di possibilità da poi disputarsi tra loro. Questa posizione terza, invero, tenderà ad usare il conflitto tra i due sistemi affinché l’uno contenga l’altro alternativamente e ponendosi come partner al miglior offerente per singole iniziative. Questa stessa posizione anima, in parte, anche il Brasile, il Sud Africa e l’India cuore del sistema BRICS. Cina e Russia sono in effetti il cuore di questo sfocato sistema alternativo ed infatti sono loro i nemici più nitidamente definiti come tali dal primo sistema.
Questo è, in breve, lo scenario della storia del mondo che si svolgerà nei prossimi anni/decenni. Il primo sistema è in una traiettoria di contrazione e proviene da ampio potere, il secondo di espansione e vuole ampliare il proprio potere. Il primo sistema pesa solo meno di un sesto del Mondo ma è più compatto ed ancora molto forte in molti aspetti, il secondo è il resto dei cinque-sesti ma assai meno compatto ed ancor di forza relativa sebbene crescente. Il primo si sente accerchiato dall’impeto del secondo e si unisce sempre più in forme difensive-aggressive per non perdere troppo o troppo velocemente, le condizioni di possibilità che ne hanno sino a qui garantito il potere, quindi il benessere. O anche per non esser costretto a cambiare le proprie forme interne per adattarsi ai nuovi equilibri del mondo. Il secondo ha vari gradi di contrasto col primo e più crescerà, più vedrà formarsi al suo interno concorrenze interne inedite come quella tra Cina ed India. La sua gran parte però, non ha interesse al conflitto diretto col primo sistema, vorrebbe semmai una transizione morbida di peso ed è sfruttando questa ritrosia ad iscriversi a forme di conflitto diretto generanti attriti non voluti e negativi per il proprio sviluppo che il cuore del primo sistema alzerà la tensione militare cercando di infilarsi nella differenza di intenti tra Russia e Cina da una parte e tutti gli altri dall’altra. Infine, il primo sistema ha intenti molto ambiziosi ancorché contrari all’andamento naturale del mondo e se il dover reagire oggi lo tiene unito, viepiù si passerà a dettagliare il come-quanto-quando, viepiù potrebbe screpolarsi. Non solo nella composizione della sua forma sistemica, anche nelle composizioni delle forme politiche e sociali interne ad ogni stato. Il secondo ha da sé la dinamica del mondo e quindi il tempo dalla sua parte, ha ambizioni forse più contenute e parte rischiando meno.
“Noi” ci troviamo in mezzo a tutto ciò. Una avvertenza, se mi posso permettere. Il tutto va compreso nella sua dinamica che è concreta, ogni forma di giudizio di valore non aggiunge nulla e rischia di non far comprendere l’esatta logica della dinamica.
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