Le armi e l’ombrello della Nato: così la Germania rafforza la sua egemonia sull’Europa, di Giuseppe Gagliano

Questo saggio di Giuseppe Gagliano assume una particolare importanza per due motivi. Sottolinea il carattere competitivo e conflittuale del sistema di relazioni tra gli stati europei con la Germania impegnata a conquistare una posizione di leadership continentale non assieme ma ai danni dei due altri grandi paesi fondatori, in particolare l’Italia. Una dinamica che però non intende mettere in discussione la funzione di guida degli Stati Uniti almeno nei prossimi dieci anni. Un arco di tempo biblico rispetto alla convulsione dei tempi. Il progressivo inserimento tedesco a capo di gran parte dei centri direzionali della NATO, l’integrazione delle strutture militari di alcuni paesi satelliti non sono avvenuti senza un qualche beneplacito del supervisore americano, quantomeno di una delle due componenti politiche di esso. La Germania, da sola, non è in grado di garantire una unità di azione, tanto meno politica, degli stati europei. Tanto meno può realizzare in queste condizioni l’ambizione di un confronto alla pari con gli Stati Uniti e con le altre potenze emergenti nell’agone internazionale. Quasi tutte le sue carte sembrano giocate nell’ambito economico ed energetico, comprese le esportazioni di armi. Per quanto importante è solo uno degli ambiti di applicazione delle strategie geopolitiche; uno spazio particolarmente esposto alle pressioni e alle incursioni di altre logiche e priorità. Le vicissitudini nel settore automobilistico, il preavviso di tempesta nel settore chimico, due settori trainanti dell’economia tedesca, la fragilità del settore finanziario sono lì a testimoniare la reale collocazione di una potenza probabilmente sovrastimata, incapace di offrire ai vicini una prospettiva comune accettabile. Una rideterminazione del sistema di relazioni degli stati europei e della loro collocazione rispetto ai protagonisti delle dinamiche geopolitiche mondiali, in particolare gli Stati Uniti, deve passare necessariamente attraverso la sconfitta delle attuali leadership tedesca e francese_Giuseppe Germinario

All’inizio del XXI secolo, la Germania si è posta l’ambizione di diventare il principale fornitore degli eserciti europei, e quindi di acquisire un monopolio tecnologico e industriale sui suoi vicini. Ciò avvenne in due modi: imbrigliando gli eserciti vicini nel suo complesso militare-industriale e indebolendo le industrie dei suoi “alleati”. Tale obiettivo può essere raggiunto perché Berlino ha un forte sostegno: la Nato. Pertanto, le procedure volte a bloccare le esportazioni di armi europee lasciano intravedere gli obiettivi reali dei tedeschi: rendere l’industria delle armi la spina dorsale di un’Europa della difesa purchè  questa sia sotto il suo controllo.

Armi ed esportazioni

Tutto ciò non deve destare alcuna sorpresa: la produzione del complesso militare-industriale tedesco è diventata di estrema rilevanza al punto che il mercato delle armi  è diventato molto dinamico.

La  Germania ha infatti, nel contesto dell’industria degli armamenti, ha una visione anglosassone poiché predilige una privatizzazione molto accentuata. Anche se allo stato attuale la Germania non è in grado di mantenere l’indipendenza militare ma è tuttavia in grado di esportare il suo equipaggiamento in Europa e in tutto il mondo per rafforzare l’economia tedesca. Insomma, Berlino sta utilizzando la Nato come un cavallo di troia per rafforzare la sua economia e per dominare, a livello europeo, l’Alleanza atlantica a danno degli altri alleati.

Egemonia sotto protezione Nato

L’ide del framework nation concept è stato sviluppato dalla Germania e proposto al vertice Nato nel 2014. La Nato si basa su questo principio per mettere assieme gli alleati in un sistema di difesa standardizzato ad alte prestazioni.

Già quando il concetto fu formulato era chiaro che la Germania stesse cercando in questo modo di ribaltare l’equilibrio della cooperazione a suo favore. Non a caso nel mese di agosto 2017, la Stiftung für Wissenschaft und Politik (SWP) ha raccomandato che la Germania potesse diventare il ​​pilastro europeo della Nato, anticipando un ritiro degli Stati Uniti e sottolineando altresì come la Bundeswehr potesse diventare una colonna portante della sicurezza europea nel lungo periodo. Questa integrazione tra la Germania e i paesi vicini ha già preso forma. I Paesi Bassi non sarebbero più in grado di schierare il loro esercito senza il supporto di quello tedesco a causa della loro integrazione troppo profonda. L’integrazione attuata dalla Germania è altrettanto profonda  per esempio sia in Norvegia (per i sottomarini) sia in Lituania, dove la Germania investirà 110 milioni di euro. Questo progetto fa parte del piano della Nato per lo schieramento di quattro battaglioni multinazionali negli Stati baltici e in Polonia, dove ancora una volta la Germania sta assumendo il ruolo di nazione ombrello. Berlino ha compreso in modo chiaro  come sfruttare la sua posizione all’interno della Nato per sostenere il complesso militare-industriale del paese.

Così la Germania “frega” i partner

Una delle strategie poste in essere da Berlino per  rafforzare la sua egemonia è quella di bloccare indirettamente le esportazioni di armi da altri paesi europei attraverso tempi di autorizzazione talmente lunghi da scoraggiare le imprese europee concorrenti e n el contempo, autorizzare l’esportazione se questa serve gli interessi tedeschi indipendentemente dal rispetto dei diritti umani o dalla lotta al terrorismo.

Uno dei primi clienti di Berlino è Ankara. La Turchia, in conflitto con i curdi (che sono armati e addestrati da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti e che sono la punta di diamante della lotta contro l’Isis in Oriente), sta combattendo con i carri armati tedeschi. Anche dopo l’inizio del conflitto con i curdi, gli industriali tedeschi hanno continuato a fornire alla Turchia attrezzature militari del valore di milioni di euro.

Un altro eloquente esempio è fornito dal viaggio fatto nel  2008 da Angela Merkel  in Algeria per parlare dei diritti umani e delle libertà religiose. Quattro anni dopo, l’Algeria acquisterà due fregate tedesche per 2,1 miliardi di euro e, per due anni e mezzo, i marinai algerini saranno formati dalla marina tedesca. Allo stato attuale, con buona pace dei francesi, l’Algeria è diventata  ufficialmente il primo cliente per l’esportazione dell’industria tedesca degli armamenti.

Nel 2017, inoltre, Angela Merkel ha incontrato il Re saudita con il  risultato di vendere 270 carri armati Leopard. D’altronde l’Arabia Saudita ha acquistato droni tedeschi al cui uso i soldati sauditi sono stati addestrati dai quadri del Bundeswehr e il fucile d’assalto tedesco G36 è prodotto su licenza sempre da Riad.

Se da un lato Berlino vuole egemonizzare a livello europeo la Nato dall’altro lato è evidente che sta con fermezza perseguendo non solo i propri interessi nazionali secondo una logica pragmatica (come la Francia ad esempio) ma sta marginalizzando sempre di più il nostro paese sia in Europa che nell’ambito dell’alleanza atlantica.

tratto da https://www.ilprimatonazionale.it/esteri/armi-ombrello-nato-germania-egemonia-europa-111872/?fbclid=IwAR18oQU-T6weEqyYKseWqsRMfhdJBygyyh9_wRaPACx0xTrVXQF0D1VdXW8

Pacifismo e realismo, di Giuseppe Gagliano

Un interessante contributo da inserire nella tematica introdotta da Elio Paoloni con le sue http://italiaeilmondo.com/2019/01/24/10-domande-sulla-guerra-di-elio-paoloni/

Pacifismo e realismo

I concetti di pace e di violenza , come vengono interpretati da Galtung, sono semplicemente privi di qualsiasi di significato per il realismo politico. Infatti, nella riflessione di questo autore, il concetto di violenza viene dilatato semanticamente in modo tale da comprendere sotto di esso non solo la guerra bensì anche la distribuzione di potere e le risorse connesse a istituzioni e strutture che causano morti e sofferenze evitabili.

Ebbene ,questa forma di violenza viene definita violenza strutturale. Accanto ad essa esisterebbe anche la violenza culturale, termine sotto il quale sono compresi tutti quei fattori culturali, ideologici,linguistici che si prestano ad operazioni volte a mascherare o a fornire una patina di giustificazione alla violenza diretta e strutturale . Ebbene,alla luce di queste riflessioni,la pace è definita in senso stretto come assenza di violenza diretta, strutturale e culturale.

Ora, per un realista politico, la pace intesa in questo senso equivale alla condanna di tutta la politica estera posta in essere dall’inizio della civiltà ad oggi. Non a caso, i principali esponenti del pacifismo internazionale, rifiutano in modo radicale sia il principio di potenza che l’equilibrio del potere nonché l’atteggiamento di diffidenza nei confronti del proprio avversario, diffidenza che spesso si traduce in azioni volte a prevenire eventuali mosse dell’avversario.

Nella riflessione di Robert Nozick i diritti umani fondamentali vengono interpretati come assoluti nel senso che costituiscono inviolabili limiti etici ad ogni nostro comportamento, individuale o collettivo che sia.Infatti ,ogni intervento che comporti la violazione dei diritti umani, viene sempre considerato moralmente inammissibile. Anche questa concezione, come quella di Galtung, si può considerare lontanissima da una concezione realistica sia della storia che della prassi politica.

Da un punto di vista strettamente storico ,affermare che la vita umana sia sacra-come sostenuto dalla dottrina cristiana che ignora in modo ipocrita la sua storia lontanissima dal rispetto dei diritti umani -significa negare qualsiasi valore storico sia all’essere umano che alla società. Nell’ambito della realtà storica la vita umana è sempre stata un valore esclusivamente relativo e mai assoluto. La Dichiarazione dei diritti ,ad esempio,è nata da un atto di potere e di violenza della borghesia francese ai danni dell’Ancien Régime non da un atto di amore verso Dio e l’umanità .Se, ad esempio, durante la guerra di liberazione in Italia la vita umana fosse stata considerata un valore assoluto, i partigiani -indipendentemente dal loro eterogeneo orientamento politico- non avrebbero dovuto uccidere né i fascisti né i nazisti. Allo stesso modo, l’FNL algerino -come l’IRA irlandese-non avrebbe dovuto opporsi con la violenza delle azioni terroristiche e della guerriglia alla presenza francese in Algeria. Insomma ,una tale tesi è dal punto vista storico, semplicemente inaccettabile. In questo contesto assolutistico- e potremmo dire metastorico -si inseriscono anche la riflessione di altri autori.

Ad esempio, secondo Albert Schweitzer, sarebbe lecito parlare di un vero e proprio imperativo della venerazione per la vita muovendo dall’osservazione che io sono vita che vuole vivere circondato da vita che vuole vivere e quindi distruggere o menomare un essere dotato di volontà di vivere è sempre un atto di violenza.

Un’altra concezione parte dall’assunto che ogni essere umano ha una potenzialità è cioè capace di crescere, svilupparsi e realizzare se stesso. Ebbene ogni essere umano è in un certo senso un centro teleologico di vita e ,in quanto tale, ha un valore assoluto: distruggerlo in modo deliberato significa compiere un atto di violenza contro di esso. Questa concezione è notoriamente quella della ecosofia di Arne Naess. Esiste poi una terza concezione che parte dall’assunto della esistenza di una unità di tutto ciò che vive, assunto questo esplicitato da Gandhi, secondo il quale tutte le creature viventi-animali compresi-partecipano di questa unità metafisica. Di conseguenza, ogni volta che l’uomo uccide o distrugge l’esistenza di un altro essere vivente ,compie non solo un atto di violenza ma anche un atto di rottura nei confronti della unità del vivente( fra l’altro ,all’interno di questo contesto gandhiano, si inserisce la riflessione di Aldo Capitini ).

L’aspirazione più profonda di questo pacifismo è in realtà la trasformazione radicale, dal punto di vista psicologico ed antropologico, dell’essere umano e quindi della società umana a partire dai propri assunti metafisici e morali.Ora ,per un realista politico, che si ispiri semplicemente alle riflessioni di Machiavelli e Guicciardini( senza bisogno di richiamarsi alle raffinatezze sociologiche e politologiche di Raymond Aron ) questi assunti non possono essere condivisi.

Analizzando poi alcune riflessioni di Giuliano Pontara non possiamo non sottolineare la presenza di evidenti paradossi logici .Secondo Pontara :“quando gli uomini agiscono nell’ambito di strutture autoritarie, come invariabilmente sono quelle militari, essi possono assai facilmente essere portati a comportarsi in modi estremamente disumani nei confronti di coloro che vengono caratterizzati come i nemici.”(La personalità non violenta,pag.10). Ebbene, questa affermazione, legittima o meno, come non può essere definita una affermazione a propria volta manichea? A tale proposito proprio lo stesso Pontara condanna in modo esplicito i modi di pensare in bianco e nero che attuano una logica dicotomica costruita su affermazioni quali: noi siamo nel giusto e nel vero, loro nell’errore e nel falso; noi siamo i buoni, loro i cattivi. Ma, ci domandiamo, non è lo stesso Pontara vittima di quella stessa logica dicotomica che vorrebbe eliminare? In un altro passo dal saggio citato , a nostro modo di vedere, l’autore cade nello stesso paradosso logico. Per il filosofo italiano il capitalismo sarebbe totalitario:” perché è caratterizzato da politiche rapaci nei confronti della natura, dei gruppi più deboli e dei paesi del terzo mondo. Il sistema delle potenti e onnicomprensive società multinazionali stanno assumendo-Secondo l’autore-sempre di più il posto e le funzioni dello Stato totalitario perché queste ci sfruttano, si manipolano, ci indottrinano, si condizionano dal momento in cui nasciamo fino al momento in cui moriamo.”(pag.19). In altri termini, per il filosofo italiano, il capitalismo rappresenta un male quasi assoluto almeno tanto quanto il sistema politico di quei paesi che si fondavano sul socialismo reale.Porre sullo stesso piano i due sistemi non è dare una valutazione manichea?

Ebbene, le contraddizioni logiche dell’autore non si concludono con queste affermazioni. Secondo il filosofo italiano una delle caratteristiche dell’educazione alla pace sarebbe il fallibilismo in base al quale nessuno può mai dirsi sicuro che quello che in un certo momento si crede essere vero, in effetti sia tale. Ora, non senza ironia, ci domandiamo: questo stesso principio non si può applicare al pacifismo?

Veniamo adesso ad un’altra considerazione formulata dallo stesso autore che certamente farebbe piacere a tutti coloro che hanno sempre voluto, fortemente voluto, un’Europa debole e quindi facilmente dominabile. Ma vediamo cosa afferma il filosofo italiano: “il lato negativo del processo di unificazione europea in corso consiste nel rischio che esso sfoci in un nuovo Stato nazionale più vasto e forte, in una nuova superpotenza economica e militare in cui i sistemi d’arma termonucleari francesi hanno contratto un matrimonio indissolubile con il capitale e la scienza militare tedesca”(pag 20). Nell’ottica realistica tutto ciò non costituirebbe un grave errore ma sarebbe semmai auspicabile per porre in essere un freno alle ambizioni di altri paesi che, giocando sulle divisioni interne dell’Europa, hanno fino a questo momento dettato le regole del gioco.

Un’altra considerazione, a nostro giudizio estremamente significativa formulata dall’autore, è quella relativa alla necessità non solo di una morale planetaria ma addirittura di un sistema giuridico valido a livello globale. Questa tesi, ancora una volta, ignora la natura intrinsecamente storica sia del diritto che della morale e ignora quindi la dimensione squisitamente relativa dei nostri sistemi morali come dei nostri sistemi politici ma soprattutto ignora le implicazioni totalitarie alle quali inevitabilmente una tale concezione porterebbe.Tuttavia il filosofo italiano Pontara è costretto a riconoscere i limiti e i paradossi di un pacifismo assoluto che prescinde sempre e comunque dalle conseguenze. Infatti afferma, questa volta realisticamente, che:” l’uso della violenza non può essere sempre condannato a priori e non può sempre essere ingiustificabile”.(pag.46). Se questa affermazione è vera, allora come logica conseguenza, ne segue che la vita umana non è sacra perché la vita umana si inserisce all’interno di un contesto storico temporalmente definito. Per un realista tanto la guerra quando la pace non sono valori assoluti-come ricordava Bobbio-o intrinseci ma relativi o estrinseci. E in secondo luogo, sottolineava sempre Bobbio, non è possibile stabilire oggettivamente quando la guerra sia giusta o quando una pace sia giusta e ciò per la mancanza di un giudice imparziale che sia cioè al di sopra delle parti nell’ordine internazionale. Infatti, ogni raggruppamento politico ,tende a considerare giusta la guerra che egli fa e ingiusta la pace che subisce sosteneva Bobbio nel fortunato saggio Il problema della guerra e le vie della pace (il Mulino ,1984). Sempre in questo saggio Bobbio sottolineava come non solo come la guerra e la violenza sono sempre esistite ma come la storia sia in gran parte un prodotto della violenza. Inoltre, molte delle conquiste civili che noi consideriamo benefiche per il progresso umano, sono state partorite attraverso la violenza. A tale proposito Bobbio porta alcuni esempi significativi: “gli umanisti si consideravano eredi di una grande civiltà, la civiltà di Roma, che era stata fondata su una serie di guerre atroci. I nostri padri liberali si consideravano eredi della riforma, cioè di un periodo di lotte religiose che avevano insanguinato il mondo per decenni. Noi ci consideriamo figli della rivoluzione francese che per la prima volta ha instaurato un regime di terrore e della rivoluzione sovietica che è finita nelle stragi di Stalin.(…). La nostra storia repubblicana non è venuta dopo uno dei momenti più tragici della nostra storia, e sarebbe venuta se non fosse stata preceduta da quella storia di lacrime e sangue? La violenza(..)è talmente compenetrata nella storia che è impossibile prescinderne”.Per quanto atroce possa sembrare ,considerare la violenza come uno scandalo della storia costituisce un grossolano errore storico.

Lo spionaggio economico: un’antica arte nata in Italia, di Giuseppe Gagliano

https://www.ilprimatonazionale.it/cultura/spionaggio-economico-antica-arte-nata-in-italia-100119/

Roma, 6 gen – Dal punto di vista storico nel corso del medioevo spetta certamente ai paesi mediterranei, ed in particolare all’Italia, il merito di avere travalicato gli avamposti asiatici sulle sponde del Mar Nero, in Siria e in Terrasanta. L’opera di predicazione dei mis.sionari non impedì loro di osservare e di svolgere una collaterale azione diplomatica e di spionaggio economico ragguagliando i propri committenti – ora papi ora sovrani – sulla presenza di determinati prodotti nelle piazze mercantili, sulle condizioni delle strade e sulle città lungo le piste carovaniere. Alle spalle dei più avventurosi viaggi di mercatura durante il medioevo ci furono spesso importanti compagnie commerciali e talora cancellerie degli Stati che avevano bisogno di informazioni strategiche sia in ambito strettamente economico che in ambito militare.

A questo proposito pensiamo al viaggio commissionato da Papa Innocenzo IV nel 1245 al francescano Giovanni del Carpine allo scopo di studiare – fra l’ altro – la strategia e la tattica militare dei mongoli (viaggio che si concretizzerà in un’opera composta nel 1247 dal titolo Storia dei mongoli). Oppure pensiamo al viaggio fatto dal francescano Odorico da Pordenone, attorno al 1318, in direzione di Costantinopoli – partendo da Venezia – grazie al quale sarà in grado di fornire un prezioso quanto preciso elenco di merci, di prodotti esotici e di spezie che troverà nei paesi orientali (dalla manna della Caldea al pepe di Malabar, dallo zenzero di Ceylon alla canfora e alla noce moscata dell’isola di Giava). Un’altra fonte preziosa di informazioni sia economiche che di natura politica furono quelle date dal mercante Nicolò de’ Conti a Papa Eugenio IV nel 1400 relative ai suoi 25 anni di viaggio tra Damasco, India e Sumatra.

Un altro illuminante esempio di “spionaggio medievale” ci viene offerto dal mercante di pietre preziose veneziano Cesare Federici che, intorno alla seconda metà del 1500, avrà modo di viaggiare a Baghdad e in India. In particolar modo descriverà, con estrema accuratezza, i movimenti commerciali dei porti indiani e degli empori sia di Ceylon che dell’arcipelago malese. Inoltre, dato l’interesse specifico per le pietre preziose, sarà in grado di redigere un vera e propria carta geografica delle pietre presenti sia a Delhi sia a Giava.

Tuttavia, a partire dal 1500, la presenza italiana ed in particolare quella veneziana, genovese e fiorentina, verrà profondamente ridimensionata a causa del dominio delle grandi potenze nazionali come la Spagna e il Portogallo in un primo momento e in un secondo momento a causa della spietata guerra economica tra le compagnie olandesi ed inglesi come d’altronde avranno modo di testimoniare sia il mercante Filippo Sassetti verso il 1578 che il mercante fiorentino Francesco Carletti nel 1602.

Ieri – come oggi – cercando di semplificare l’assenza di una politica statale di lungo respiro (quando non addirittura l’assenza dello stato in quanto tale), di una politica di potenza e l’assenza di una sinergia (certo contraddittoria e complessa) tra soggetti statali e attori economici privati saranno alcune delle cause che determineranno il tramonto delle potenze marinare italiane più propense a farsi guerra tra di loro che ad avere una politica comune come accade oggi nel contesto europeo.

Giuseppe Gagliano

È Huawei la prima vittima della guerra economica fra Usa e Cina?, di Giuseppe Gagliano

tratto da https://www.ilprimatonazionale.it/economia/huawei-prima-vittima-guerra-commerciale-usa-cina-99335/?fbclid=IwAR2xuRHH5orSdiqlwcMTj9Myzv0oIbEottR1e-EGUyn1n7jSmatvKuPOS54

Roma, 24 dic – Il gigante cinese delle telecomunicazioni è rimasto così deluso dagli Stati Uniti che pare stia valutando di ritirarsi da questo mercato. Huawei infatti non è la benvenuta negli Usa almeno dal 2012, anno in cui un rapporto del Senato americano indicava delle falle nella sicurezza dei suoi dispositivi. Secondo questo richiamo, inoltre, il gruppo rappresentava “una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti”, senza nemmeno fornire delle prove concrete a supporto delle accuse. Qualche mese dopo, gli sforzi delle autorità americane per impedire a Huawei di accedere al loro mercato sono aumentati. A marzo 2018, i principali operatori e distributori telefonici americani (AT&T, Verizon e BestBuy) si sono arresi alla pressione politica e hanno deciso di non vendere i cellulari o altri prodotti a marchio Huawei. Il gruppo cinese ha rinunciato così a mettere sul mercato americano il suo ultimo modello di cellulare, il Mate 10 Pro. Il vero duro colpo per Huawei è arrivato però ad agosto, con la promulgazione del Defense Authorization Act. La legge vieta alle agenzie governative statunitensi o al personale e alle strutture che desiderano lavorare con il governo di utilizzare i dispositivi Huawei, ZTE o di altre imprese cinesi. I prodotti Huawei e ZTE sono così ufficialmente banditi dal mercato pubblico americano.

A seguire, in altri Paesi alleati degli Stati Uniti, in particolare quelli appartenenti al club “Five Eyes” (Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda e Canada), si sono moltiplicati i sospetti riguardo Huawei. Il 23 agosto, l’Australia ha dichiarato il divieto a Huawei e ZTE di aprire la loro rete 5G, appellandosi al rischio di spionaggio. In ottobre il Regno Unito ha avviato un’inchiesta per valutare se il Paese fosse “troppo dipendente” da un unico fornitore per le telecomunicazioni. In un Paese dove la maggioranza degli operatori internet utilizza prodotti Huawei, il gruppo cinese sembrava direttamente preso di mira. Il 28 novembre la Nuova Zelanda ha vietato al suo operatore storico, Spark, di rifornirsi da Huawei, citando i problemi di sicurezza legati alla tecnologia 5G. Una settimana dopo anche all’operatore inglese BT è toccato rinunciare al rifornimento da Huawei per le reti 5G, citando nuovamente i problemi relativi alla sicurezza. Il giorno precedente, il titolare dell’MI6 aveva chiesto di punto in bianco ai media di bandire completamente le apparecchiature telefoniche Huawei. Infine, il 7 dicembre, Reuters ha annunciato che anche il Giappone si apprestava a ritirare Huawei e ZTE dal suo mercato pubblico sul 5G.

Le conquiste realizzate da Huawei sui mercati dei vicini alleati degli USA sembrano così franare come un castello di sabbia. L’insieme dei Paesi o delle aziende che hanno deciso di non fare più affari con il marchio cinese motivano la loro scelta indicando i rischi connessi alla sicurezza. Seppur non si citi espressamente il rischio di spionaggio, l’obiettivo sembra proprio quello di dimostrare l’inaffidabilità del gruppo. Nel Regno Unito, BT ha dichiarato che “Huawei rimane un importante fornitore di dispositivi al di fuori della rete principale, nonché un partner prezioso per l’innovazione” e ha anche annunciato di aver già ritirato, come misura di sicurezza, i componenti dello stesso marchio per le reti 3G e 4G. In Nuova Zelanda si cerca di spiegare che “non si tratta del Paese, ma dell’azienda nello specifico” e che sono i proprietari della 5G ad aver creato una rete più vulnerabile ai cyberattacchi… un altro modo per dire che Huawei non si merita fiducia su questo tipo di tecnologie sensibili. Solo l’Australia ha ufficialmente menzionato il rischio di spionaggio stimando che “le implicazioni per i fornitori (dei prodotti per le telecomunicazioni) esposti alle decisioni extragiudiziarie di un governo straniero” costituiscono un rischio per la sicurezza. Le autorità australiane si riferivano all’art. 7 della legge sui servizi segreti nazionali cinesi del 2017, secondo cui tutte le attività imprenditoriali cinesi devono cooperare con l’intelligence del proprio Paese. Huawei ha risposto negando d’intrattenere rapporti con lo Stato cinese.

Un temibile concorrente

Sia che intendano allertare i propri partner dei gravi rischi che corre la sicurezza, sia che vogliano vincere una guerra commerciale, non si può non notare lo sforzo concertato delle autorità statunitensi per indebolire Huawei. Il 23 novembre, il Wall Street Journal ha accusato gli Stati Uniti di condurre una campagna nei confronti di alcuni dei suoi alleati – tra cui l’Italia, la Germania e la Francia – al fine che questi rinuncino alla tecnologia 5G prodotta dall’azienda cinese. In un’intervista rilasciata al Journal du Dimanche il 24 novembre, l’amministratore delegato di Huawei France ha cercato di rassicurare tutti i suoi clienti europei puntando il dito contro le manovre americane: “Lavoriamo da più di dieci anni in Germania e non abbiamo mai avuto il minimo problema, esattamente come negli altri 170 Paesi dove ci siamo stabiliti. Sospetti senza fondamento come questi emergono in un clima di tensioni commerciali e geopolitiche”.

In effetti è difficile non vedere in queste misure un tentativo da parte degli Stati Uniti di indebolire un rivale temibile su un mercato che, peraltro, si prospetta promettente. Un rapporto del Senato americano del 15 novembre dedicava un intero capitolo al dominio cinese sul mercato mondiale del 5G, il quale si può descrivere come un nuovo terreno di guerra economica che va conquistato. Secondo il rapporto, “il governo cinese cerca di superare a livello industriale gli USA per aggiudicarsi una fetta più grande di benefici economici e d’innovazione tecnologica”. Malgrado la concorrenza sleale degli Stati Uniti e il rischio spionaggio, si sottolineava la necessità di superare la Cina.

Le accuse americane coincidono peraltro con i primi lanci delle reti 5G al mondo, i quali hanno avuto inizio negli Stati Uniti nell’ottobre 2018 e che, in Cina e in Europa, inizieranno rispettivamente nel 2019 nel 2025. È così che gli Stati Uniti cercano di sabotare gli sforzi di Huawei, la quale sembrava essere molto favorita in questi mercati. L’azienda, leader del 5G, ha di recente annunciato di aver siglato 22 contratti commerciali per l’installazione di questa rete: è stata l’unica a guadagnare terreno sui mercati nel 2017, passando dal 25 al 28%, strappando il trono ai suoi rivali europei, la svedese Ericsson e la finlandese Nokia. Huawei rappresenta, anche nel mercato del 5G, una minaccia crescente per il gigante americano Qualcomm. L’azienda cinese ha infatti sviluppato le proprie smart card compatibili con la tecnologia 5G, mettendo in pericolo il predominio di Qualcomm, che primeggiava ampiamente sul mercato.

La rimessa in gioco della carta dell’extraterritorialità del diritto statunitense

La campagna di destabilizzazione di Huawei sul mercato del 5G appare come un’ulteriore rappresentazione della guerra economica che Cina e Stati Uniti stanno per scatenare. Dopo aver cercato di gettare fango sulla reputazione del gigante cinese, pare che gli Stati Uniti vogliano passare alla fase successiva. Mentre il 1° dicembre aveva inizio a Buenos Aires il vertice del G20, la direttrice finanziaria cinese Meng Wanzhou veniva arrestata all’aeroporto di Vancouver su richiesta degli Stati Uniti. Meng Wanzhou, che è figlia del capo di Huawei, rischia l’estradizione negli Stati Uniti. Le ragioni ufficiali dell’arresto non sono chiare, ma, secondo Le Figaro, Huawei è accusata di violare l’embargo statunitense contro l’Iran. Lo spettro dell’extraterritorialità del diritto americano sembra così essersi abbattuta nuovamente sul suo avversario economico. Un altro esempio recente si è verificato il 22 novembre, quando la Société Générale si è vista precipitare addosso una multa da 1,35 miliardi di dollari per aver violato gli embarghi americani. Se Huawei verrà condannata, nell’arco di un anno per la Cina saranno due le società di telecomunicazioni – leader nel settore – a essere prese di mira: a giugno 2018, infatti, ZTE è stata accusata di aver violato gli embarghi del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (DOJ) all’Iran e alla Corea del Nord. ZTE ha dovuto pagare una multa da 1 miliardo di dollari e si è vista imporre la presenza nelle sue sedi di un “compliance team”, una squadra addetta al controllo della conformità, per un periodo di dieci anni.

Rispetto all’arresto di Meng Wanzhou, le autorità cinesi hanno reagito senza celare la collera, pretendendo fermamente la liberazione della cittadina. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il consigliere all’economia alla Casa Bianca ha assicurato che il Presidente Donald Trump non fosse stato informato dell’arresto della dirigente. È quindi così che, durante il G20, si è svolto il tête-à-téte con il Presidente Xi Jinping. Una nota amara che non può accontentare la parte cinese e che sembra suonare la campana a morto per la tregua commerciale tra i due giganti.

Giuseppe Gagliano

i paradossi de “le marie antoniette”, di Piero Visani-Effetti delle sanzioni all’Iran, di Giuseppe Gagliano

Le Marie Antoniette

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       La celeberrima frase della regina Maria Antonietta, relativa al fatto che il popolo affamato avrebbe sempre potuto mangiare brioches (se solo avesse avuto il denaro per comprarle) pare sia apocrifa. Non è apocrifa, per contro, la decisione del presidente Macron/micron di rispondere alle nuove manifestazioni di piazza dei gilet jaunes con la scelta di spendere mezzo milione di euro per abbellire le sale del palazzo dell’Eliseo, residenza ufficiale dei presidenti francesi.
       Come sempre, le narrazioni subiscono varianti e modifiche, nel corso del tempo, ma resta identica la sensibilità dei sovrani (o monarchi repubblicani che siano) nei confronti delle istanze popolari: protestate pure, io intanto mi rifaccio l’arredamento…
       Stupisce, su questo sfondo di crescenti agitazioni, che mai nessun terrorista si inserisca all’interno delle medesime per fare un po’ di tiro al bersaglio sulle forze di polizia. Evidentemente, i terroristi, in Europa, si fanno vivi quando c’è da stabilizzare il quadro politico a favore del potere, NON quando c’è da destabilizzarlo… Strano che non lo scriva mai nessuno.
 
                      Piero Visani

 

Ecco come le sanzioni all’Iran mettono fuori gioco l’Europa, di Giuseppe Gagliano

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Roma, 1 dic – Donald Trump ha annunciato l’8 maggio 2018 il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo nucleare con l’Iran, firmato nel 2015. Ha promesso di mettere in atto severe sanzioni economiche contro Teheran e i suoi partner commerciali. Queste dichiarazioni hanno segnato l’inizio di un nuovo confronto economico coinvolgendo Stati Uniti, Germania, Francia, ma anche Cina.

All’Europa è stato fatto divieto di poter acquistare il petrolio iraniano e che tutto ciò costituisce un ingente danno economico. La Germania, il Regno Unito, l’Italia, la Francia rischiano di rinunciare alla possibilità di posizionarsi come leader in un paese a lungo chiuso all’ Occidente. Ebbene nonostante le numerose dichiarazioni dei capi di Stato europei e del Segretario generale delle Nazioni Unite e nonostante le promesse fatte di dover affrontare una soluzione, il margine di manovra dei leader europei è comunque molto limitato.

Tutto ciò dipende non solo dalla intrinseca debolezza dell’Unione Europea rispetto agli Usa, ma è anche la conseguenza della formidabile arma che rappresenta l’extraterritorialità della legge americana. Grazie a questo strumento infatti  gli Stati Uniti sono riusciti a rendere il loro sistema legale una potente arma economica. In altri termini il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha il potere di citare in giudizio qualsiasi compagnia straniera con relazioni con gli Stati Uniti e impegnata in attività fraudolente come la corruzione. Ad esempio, l’utilizzo del dollaro Usa come valuta o l’uso della casella postale Gmail conferisce al Dipartimento di Giustizia il diritto di interferire nelle pratiche commerciali di qualsiasi azienda nel mondo. In breve, con questo tipo di mezzi, gli Stati Uniti hanno una capacità di controllo totale su ciò che sta accadendo fuori dai loro confini. Come parte dell’accordo iraniano, ciò si traduce in un embargo economico che costringe l’Europa a smettere di commerciare con l’Iran senza essere in grado di impedire alle sue società di perdere i loro contratti.

Le dichiarazioni dei più alti rappresentanti europei (dichiarazione congiunta da Francia, Germania e Regno Unito), così come il viaggio del presidente francese Emmanuel Macron negli Stati Uniti, non ha avuto effetto sullo stato di avanzamento del problema iraniano. La Francia in particolare ha subito un danno rilevante poiché sia la Total, sia il gruppo Peugeot Citroën che Airbus avevano rilevanti interessi in Iran.

La Cina, approfittando di questa debolezza politica, ha deciso di mantenere e persino rafforzare le sue relazioni con l’Iran. In effetti, la risposta cinese all’annuncio del presidente Donald Trump è stata quella di dimostrare al governo iraniano la sua forte ambizione di prosperare nelle relazioni commerciali e nelle partnership strategiche. L’Iran naturalmente ha sottolineato il ruolo costruttivo della Cina. Questa posizione cinese costituisce la logica conseguenza di una aperta conflittualità con gli Stati Uniti caratterizzata anche  dalla guerra economica  tra i due paesi. Inoltre, l’Iran è il più grande fornitore di petrolio per la Cina con un quarto delle esportazioni verso il gigante asiatico.

In particolare le aziende cinesi non hanno esitato ad occupare le posizioni vacanti sul mercato iraniano lasciate scoperte dagli europei (ed in particolare dai gruppi francesi). Per quanto riguarda il petrolio, il China National Petroleum Corps (CNPC) ha rilevato la partecipazione di Total nel giacimento di gas del sud Iran con una quota dell’80,1%. A seguito dell’accordo siglato nel luglio 2017 per un valore di 4,8 miliardi, Total deteneva il 50,1% seguito da CNPC cinese con il 30% e Petropars iraniano (19,9). Dopo la partenza di Total dal consorzio, CNPC ha rilevato tutte le azioni e si posiziona come un partner  dominante nel campo dell’energia. La stessa strategia è stata attuata per l’industria dell’automobile attraverso la  cinese Bejing Baic.

Insomma la Cina  domina i settori strategici dell’economia iraniana con miliardi di dollari di investimenti e ciò sta determinando un rilevante vantaggio competitivo rispetto all’Europa che dimostra sia l’assenza di una politica economica  offensiva  unitaria – a causa degli innumerevoli contrasti fra nazioni europee – sia ancora una volta la subalternità all’ “alleato-nemico” americano.

Giuseppe Gagliano

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