La guerra dei sentimenti_di Davide Gionco

Chi non si commuove di fronte agli occhioni di un bambino ucraino in fuga dalla guerra, in braccio alla madre con le lacrime agli occhi?

Per carità! E’ cosa sacrosanta aprire il nostro cuore alle persone in difficoltà ed aiutarle generosamente. Ma per quale motivo i mezzi di informazioni ci sensibilizzano continuamente nell’aiuto alle persone colpite dalla guerra in Ucraina e in nessuna occasione per le persone che dal 2014 ad oggi nel Donbass (regioni di Lugansk e del Donetsk) sono state colpite dalle bombe lanciate dall’altro lato (filo-occidentale) della barricata?

Perché il bambino ucraino dovrebbe avere più diritto di solidarietà della bambina che si trova nel Donbass?

Perché il bambino ucraino dovrebbe ricevere più solidarietà dei bambini che ancora oggi subiscono la guerra da tutti dimenticata in Siria?

Perché il bambino ucraino dovrebbe avere più diritto di solidarietà dei bambini dello Yemen, sotto le bombe dell’Arabia Saudita (a cui l’Italia vende armi) dal 2015 e di cui mai ci parlano i mezzi di informazione?

E perché i profughi dell’Ucraina dovrebbero avere più diritto alla solidarietà dei profughi che fuggono dalle zone in guerra dell’Etiopia?

E i bambini della Somalia non avrebbero anche loro il diritto ad una infanzia serena, anziché essere arruolati e addestrati per combattere la guerra fin da piccoli ?

Ciò che fa la differenza nel grado di solidarietà suscitata non è l’oggettività delle situazioni, per la quale tutti i bambini in guerra dovrebbero meritare le stesse attenzioni, lo stesso bisogno di aiuto, di pace, di affetto, di serenità. La differenza la fanno i sentimenti che i mass media, sapientemente, sanno suscitare nei lettori o nei telespettatori.
Il cuore si commuove per quello che vede e percepisce, non per ciò che non vede e non conosce.
Chi decide gli argomenti da trattare o da non trattare nei mezzi di informazione (prima il cambiamento climatico, poi la pandemia, poi la guerra in Ucraina, domani forse il blackout energetico) ha deciso che la gente debba emozionarsi per i bambini che soffrono in Ucraina e non per i bambini che soffrono da altre parti del mondo e neppure per quelli che si trovano nelle regioni ucraine, ma dall’altra parte del fronte del Donbass.

L’obiettivo non è spingere la gente ad offrire aiuti ai bambini dell’Ucraina (che, ovviamente, è giusto che vengano aiutati), perché se così fosse, ci avrebbero mostrato le immagini anche delle altre situazioni di guerra nel mondo. L’obiettivo è invece portare la gente a schierarsi emozionalmente dalla parte delle “uniche” vittime mostrate nelle immagini, in questo caso dell’Ucraina, del suo presidente Zelensky, della NATO, degli USA e del nostro governo italiano che si sono schierati da quella parte, adottando pesantissime misure economiche che colpiscono anche e fornendo loro armi per combattere, cosa che non avremmo mai giustificato, senza adeguate “motivazioni sentimentali”.
Lo scopo di questa comunicazione non è porre fine alla guerra, per garantire la pace ai bambini che soffrono in Ucraina, ma è giustificare le decisioni politiche di chi ci governa, perché il “cattivo” Putin sta bombardando i bambini in Ucraina, e noi dobbiamo assolutamente fare qualcosa per difenderli. Senza farci riflettere sul fatto che, per “difenderli” nel modo deciso dal potere politico, andremo a certamente a bombardare i bambini del Donbass, aggiungendo bambini morti ad altri bambini morti.

Con la stessa logica sentimentale ci vengono presentate le immagini dei bombardamenti.
E’ certamente terrificante vedere un palazzo di Kiev sventrato in questo modo dalle bombe.

Ma perché non ci mostrano gli edifici sventrati del Donbass?

Perché non ci mostrano le immagini dei cimiteri del Donbass dal 2014 ad oggi?
Si parla di almeno 13’000 persone morte per i bombardamenti o a causa di cecchini, prima che sulle tv occidentali si iniziasse di parlare di “guerra in Ucraina”.

Non ci hanno mai mostrato queste immagini, perché si tratta di emozioni che la gente dei paesi occidentali non doveva provare, se no avrebbe trovato motivazioni per opporsi alle decisioni politiche dei paesi occidentali di fornire armi agli autori di queste uccisioni.
In questo caso la non diffusione di queste immagini ha come obiettivo l’indifferenza della gente verso le popolazioni che subiscono tutto questo.

Allo stesso modo non ci parlano degli edifici distrutti in Siria, non si sa da chi, se dall’ISIS, da Israele, dai Turchi o dagli americani che hanno fornito loro armi per compiere i bombardamenti.

L’importante è che non si rischi di provare un sentimento di solidarietà per il popolo siriano, perché rischierebbe di diventare un pericoloso sostegno morale al loro presidente Bashar al-Assad. La parola d’ordine è “ignorare” le sofferenze dei siriani. La gente non deve avere a cuore la vita dei siriani

E neppure ci dobbiamo emozionare per le case distrutte in Yemen dai bombardamenti dell’Arabia Saudita, fedele alleato degli USA nello scacchiere medio-orientale.

Hanno deciso così. La gente non deve essere informata sulle guerre, deve essere emozionalmente coinvolta solo quando ai governi occidentali serve il consenso politico per giustificare decisioni politiche che, diversamente, le persone di coscienza dei popoli occidentali mai vorrebbero giustificare.

Allo stesso modo ci presentano i leader politici.
Ogni giorno il “presidente del mondo” Joe Biden ci racconta la verità ufficiale a cui dobbiamo credere. Mai una critica da parte dei giornalisti alle sue dichiarazioni, perché parla “in nome del bene”, per la “difesa della democrazia”.

Se venissero espresse delle critiche, si potrebbe dubitare della bontà delle dichiarazioni di Biden e della democraticità, nel senso del rispetto dei valori della Dichiarazione d’Indipendenza americana.

Dopo di che ci presentano il neo-eroe Volodymyr Zelensky, il quale ogni giorno comunica con immagini (ad alta definizione), presentandosi (curando ogni dettaglio d’immagine) come politico “diverso”: mai in giacca e cravatta, mai ben rasato, perché in guerra non ce lo si può permettere. Meglio una maglietta a maniche corte e la barba sfatta. Sapiente strategia di marketing politico, in tutto analogo al marketing pubblicitario.

E poi ci presentano il “cattivo” Vladimir Putin, che dopo 23 anni al potere di colpo sarebbe “impazzito”, diventando un guerrafondaio senza scrupoli. Ogni sua dichiarazione viene condita di commenti negativi e screditanti da parte dei commentatori.

Evidenziando questo non intendiamo dire che Putin sia un “buono” e un “democratico”, ma solo che l’immagine che ci è stata presentata di lui negli ultimi 23 anni è molto cambiata, in funzione della reazione emozionale che i mass media intendevano suscitare nei telespettatori nei confronti della Russia e del suo leader.
Sono lontani i tempi in cui gli USA collaboravano con la Russia e in cui ci veniva presentata tutt’altra immagine di Vladimir Putin.

E i presidenti delle repubbliche separatiste di Donetsk e di Lugansk?

 

 

    
Denis Pushilin                               Leonid Pasečnik

Non pervenuti. Inesistenti. Nessuno ce ne parla su tv e giornali, perché l’autodeterminazione dei popoli (vedi i casi del Kosovo, riconosciuta, e dei Kurdi, non riconosciuta) viene riconosciuta solo quando conviene a chi detiene il potere di riconoscerla.
Ecco un ricordo di quando gli USA sostenevano, a suon di bombe, l’indipendenza del Kosovo dalla Serbia.


Madeleine Albright, segretario di stato USA, con l’allora autoproclamato presidente del Kosovo Hashim Thaçi (legato alla mafia locale ed al traffico di armi)

L’approccio emozionale all’informazione fa il gioco di chi detiene il potere politico ed intende usarlo per obiettivi diversi da quelli dichiarati. La gente viene indotta a non ragionare in modo critico, ma a schierarsi dalla parte di chi “sente” che sta dalla parte della ragione, sentendo di doversi adeguare al punto di vista di chi offre “l’unica soluzione” per aiutare le vittime con cui ci sentiamo solidali, di chi è il buono che lotta contro i cattivi, come nei film americani.
Se, invece, l’obiettivo è che la gente non si schieri per la parte avversa (ovviamente decisa dal potere politico), allora i mass media ignorano la situazione, per suscitare indifferenza.

La maggior parte della gente stava dalla parte di Greta Thunberg, pasionaria del cambiamento climatico. Ora in tv non ne parla più nessuno. Tutto dimenticato! Il cambiamento climatico ha cessato di essere una emergenza. Fine dei sentimenti ecologisti, perché ora il potere politico ha bisogno di sostegno su altre scelte, come quella di riaprire le centrali elettriche a carbone, le più inquinanti che esistano.

E quanti italiani si sono schierati dalla parte del governo, con le mille discriminazioni nei confronti delle persone non vaccinate? Lo hanno fatto dopo avere visto immagini ad effetto come queste.
Da notare i colori militari, segno di situazione come di guerra.

Dopo avere emozionato gli italiani con la paura della morte, i politici hanno avuto gioco facile a far passare le loro decisioni come le uniche possibili per evitare il ripetersi della “tragedia”, da qui il sostegno acritico alle misure discriminatorie nei confronti della minoranza degli italiani che non intendeva vaccinarsi, senza che in realtà vi fossero a loro supporto ragioni scientifiche ed una logica razionale. L’emozione accieca la ragione.

Ma nessuno si è mai emozionato per i grafici che mostrano il numero di morti in Italia per fumo ed alcool, che avrebbero dovuto già da tempo giustificare misure draconiane contro i fumatori e gli assuntori di alcool.

Non ci hanno mai presentato questa situazione sanitaria in termini emozionali, per cui tutti sanno che si muore per fumo o per alcool, ma non esiste un sostegno pubblico “emozionale” all’adozione di misure politiche per ridurre la mortalità per fumo e per alcool. Questo perché chi governa, ed ha il controllo dei mezzi di informazione, ha deciso che non interessarsi alla questione. Quindi la gente deve essere rigorosamente tenuta indifferente.

TV e giornali hanno deciso di non informare gli italiani dei migliaia di fallimenti dei piccoli esercizi commerciali. Ce ne sarebbe da emozionarsi, fra imprenditori che si suicidano e famiglie ridotte sul lastrico.

Ma chi ci governa non ha alcuna intenzione di risolvere il problema. Anzi, probabilmente ha intenzione di aggravarlo, come succede da 20 anni a questa parte.
Per questo motivo non ci mostrano le file dei poveri alle mense della Caritas, non finanziate dallo Stato italiano, ma dalla benevolenza di molti italiani con il cuore sensibile. La questione non deve essere vista come un grave problema sociale, quale è numeri alla mano, ma come un problema individuale che colpisce il nostro sfortunato parente o vicino di casa.

E se anche, in qualche situazione, dovranno mostrarci queste immagini, mai ci spiegheranno le cause dell’impoverimento degli italiani o della chiusura dei negozi.

In conclusione, continuiamo a mantenere la sensibilità del nostro cuore verso le persone che soffrono, ma non lasciamo manipolare i nostri sentimenti da parte di chi intende usarli per creare consenso o tenerci indifferenti di fronte alle decisioni di chi detiene il potere politico ed il potere di controllare l’informazione “mainstream” dei mezzi di informazione.

NB_pubblicato anche su https://www.attivismo.info/la-guerra-dei-sentimenti/

PICCOLE GEMME
La mediazione del governo italiano: “Putin peggio di un animale feroce. Va picchiato”.
Per la serie “Se mia nonna avesse avuto le ruote sarebbe stata una carriola”, Enrico Letta, segretario del PD: “Quello che è successo dimostra che la Nato doveva fare entrare l’Ucraina prima. L’invasione non ci sarebbe stata, insomma, se l’Ucraina fosse stata ammessa e integrata nella Nato già una trentina d’anni fa. (30 anni fa la Russia era guidata da quell’alcolizzato di Eltsin).
Carlo Rovelli, fisico nucleare e accademico internazionale: “Sfiorata la guerra nucleare, la soluzione trovata da Kennedy e Kruscev fu che l’Unione Sovietica rinunciava a mettere missili a Cuba in cambio del ritiro dei missili americani dalla Turchia. Un passo indietro ciascuno. Così si va verso la pace. Perché non possiamo fare lo stesso?”
Joseph Robinette Biden Jr, detto Joe, 78 anni, senatore dal 1972, vice presidente di Obama, presidente degli Stati Uniti d’America: “Putin è un criminale di guerra. Va processato”.
Vladimir Vladimirovic Putin, 69 anni, ex KGB, presidente della Russia: “Senti chi parla”. In effetti la Corte Penale Internazionale dell’Aia, deve ancora pronunciarsi sui presidenti (e vice) americani per Corea,Vietnam, Grenada, Panama, Jugoslavia, Afghanistan, Irak, Somalia, Libia eccetera.
La presidenza ucraina: L’Ucraina respinge l’idea di un modello di ‘neutralità svedese o austriaca’ avanzata da Mosca. L’Ucraina è ora in uno stato di guerra diretta con la Russia. Pertanto, il modello può essere solo ‘ucraino’ “.
Volodymyr Oleksandrovyc Zelenskyj, politico, attore, sceneggiatore e comico, presidente dell’Ucraina: “A coloro che all’estero hanno paura di essere trascinati nella terza guerra mondiale. L’Ucraina combatte con successo. Abbiamo bisogno di voi per aiutarci a combattere e vincere. Forniteci tutte le armi necessarie. Applicate più sanzioni alla Russia e isolatela completamente. Applicate la fly zone. Aiutate l’Ucraina a costringere Putin al fallimento”.
Il 78% degli intervistati ritiene che dovremmo evitare ad ogni costo l’entrata in guerra dell’Italia, infatti, soltanto il 9% sostiene che dovremmo intervenire militarmente a fianco dell’Ucraina e della NATO.
La maggioranza degli intervistati, pari al 55% del campione, è contrario all’invio di armi all’Ucraina, contro un 33% di favorevoli.
Alex Zanotelli, missionario, ispiratore e il fondatore di diversi movimenti pacifisti: “L’Italia ha già annunciato che aumenterà le spese militari, si parla di 38 miliardi. Sono soldi che saranno sottratti alle scuole, alla sanità. Lo stesso faranno gli altri singoli Paesi e l’Europa unita, che andrà verso un proprio esercito. Ovviamente senza per questo smantellare l’esercito della Nato. Ne usciremo, se va bene, con un mondo più armato e più povero. In questo momento il nostro governo dovrebbe invece spendersi in ambito internazionale per forzare i contendenti a sedersi attorno a un tavolo e arrivare a una soluzione pacifica, portare Russia e Ucraina al tavolo dell’Onu. Una cosa che si sarebbe dovuta fare nel 2014, dopo il protocollo di Minsk (un accordo per porre fine alla guerra nell’Ucraina orientale) che è chiaro ma non è mai stato attuato. Se Mosca chiede la neutralità di Kiev, per esempio, bisogna trovare gli spazi per accordarla. Oggi l’Ucraina è una polveriera, è un Paese spaccato profondamente, con un nazionalismo che fa paura. Un negoziato è sempre possibile, ci si può mettere d’accordo. Ma i combattimenti devono cessare. La posta in gioco è altissima, rischiamo grosso, una guerra nucleare, l’inverno nucleare.
La mediazione del nostro ministro degli esteri, Luigi di Maio: “Putin peggio di un animale. Più feroce di un animale feroce. Sono animalista, non voglio offendere nessun animale. Penso che tra Putin e qualsiasi animale ci sia un abisso e sicuramente quello atroce è lui.” Giovanni Floris, conduttore televisivo: “Quando picchi il cane devi lasciarti la porta della stalla aperta, perché devi dargli la possibilità di scappare, quale possibilità lei offrirebbe a Putin?” Di Maio: “Tra Putin e qualsiasi animale c’è un abisso”. Va picchiato e basta. Non voglio neppure incontrare l’omologo russo.
Sergej Viktorovic Lavrov, ministro degli esteri della Russia :“Una strana idea di diplomazia. La diplomazia è stata inventata solo per risolvere situazioni di conflitto e alleviare la tensione, e non per viaggi vuoti in giro per i Paesi ad assaggiare piatti esotici ai ricevimenti di gala”. Se Di Maio non è in grado di reggere un ruolo, dovrebbe dimettersi. Niente di grave, il governo Draghi in diplomazia conta zero. In più, da grande banchiere, è sicuro che “Noi stiamo facendo collassare l’economia russa”. Infatti nel primo trimestre 2022 il PIL italiano è già calato del 2,4%. Chi sta pagando? quali classi sociali? gli oligarchi russi e italiani? il matrimonio di Berlusconi? i soliti italiani?
Alexei Paramonov, direttore del Dipartimento europeo del ministero degli Esteri russo: “La guerra finanziaria ed economica contro la Russia può provocare una serie di corrispondenti conseguenze irreversibili. Finora l’Italia ha avuto la possibilità di acquistare il gas a prezzi molto inferiori rispetto a quelli del mercato. Mosca non ha mai usato le esportazioni di energia come strumento di pressione politica, le quali, tenuto conto della significativa dipendenza di Roma dagli idrocarburi russi che raggiungono il 40-45%, avrebbero conseguenze estremamente negative per l’economia italiana e per tutti gli italiani.” Ma non basta. Nel 2021 l’Italia era ottava tra i principali partner commerciali di Mosca (15mila imprese italiane piccole e medie ma anche Eni Snam Pirelli Marcegaglia Barilla). La Russia rimane il principale esportatore di cereali a livello mondiale. Ma anche fertilizzanti, nichel, alluminio e carbone. Quanto alla finanza, le banche italiane sono le più esposte al mondo, con 25 miliardi di euro, nei confronti della Russia. “Roma ha molto da perdere (e molto sta perdendo e continuerà a farlo) nella guerra economica con Mosca”.
Lorenzo Guerini, ministro della Difesa definito da Paramonov ‘uno dei principali falchi e ispiratori della campagna antirussa nel governo italiano’: “Non arretriamo di un passo. L’Italia, continuerà a esercitare ogni pressione, comprese le forniture di armi”. Guerini ha raccolto messaggi di solidarietà da tutte le forze politiche.
Domenico Gallo, magistrato e presidente di sezione della Corte di Cassazione: (Malgrado Draghi e Di Maio) “Se alla fine si arriverà alla pace attraverso la neutralità dell’Ucraina, allora dovremmo constatare con mano il fallimento delle classi dirigenti dei principali paesi europei che incoscientemente hanno seguito il pifferaio magico americano anche a costo di provocare il ritorno della guerra in Europa. Bisognerebbe chiedere al nostro astuto ministro degli esteri che ancora l’8 febbraio dichiarava essere ‘un principio irrinunciabile’ la libertà dell’Ucraina di aderire alla NATO, se c’era bisogno di avere migliaia di morti, distruzioni incommensurabili e milioni di profughi per rendersi conto che a questo presunto ‘principio’ si poteva rinunciare anche prima, per scongiurare la catastrofe.

Perché Draghi otterrà effetti contrari a quelli annunciati, di Davide Gionco

Come un pessimo governo intende stravolgere l’ottimo provvedimento economico del Bonus 110%.
Perché Draghi otterrà effetti contrari a quelli annunciati.
di Davide Gionco
26.02.2020

Le truffe sui bonus del 110% e le correzioni proposte da Mario Draghi
Siamo ancora assordati dai cori mediatici di beatificazione di “San Mario Draghi”, nonché dalle continue emergenze e paure che incombono sul popolo italiano, per cui quasi nessun commentatore si prende la briga di analizzare in modo critico le recenti prese di posizione del presidente del Consiglio Draghi nei confronti del famoso “Bonus fiscale 110%”, che probabilmente ha rappresentato l’unica misura governativa significativa per la crescita dell’economia italiana degli ultimi 10 anni.
Più ancora degli indicatori statistici ne è prova la rapida saturazione del settore dell’edilizia, con imprese che non riescono a rispettare le scadenze pattuite, nonostante le assunzioni di personale e gli aumenti dei prezzi nel settore. Qualcosa che nessuno ricordava almeno dagli anni 1980.

Nelle ultime settimane Draghi ha denunciato numerose truffe (pari oltre 4 miliardi) da parte di soggetti senza scrupoli, che hanno portato alla concessione di bonus fiscali in cambio di lavori mai realizzati, dopo di che i bonus fiscali, ceduti alle banche, sono stati convertiti in euro ed investiti (o imboscati) nella solita finanza speculativa.
Per evitare il ripetersi di queste truffe, nonostante tutta la burocrazia necessaria per la concessione dei bonus fiscali, Draghi propone di limitare la cedibilità dei crediti ai soli soggetti “finanziari” ovvero alle banche. Secondo Draghi questa misura dovrebbe evitare le truffe e, quindi, rendere i bonus fiscali sostenibili per le casse dello Stato e fare sì che il lavori di ristrutturazione energetica vengano effettivamente realizzati.
Ma siamo sicuri che la risposta di Draghi otterrà questi obiettivi?

Il meccanismo della cessione dei crediti
Per capire come stanno le cose è innanzitutto necessario comprendere i meccanismi di funzionamento dei bonus fiscali (del 110% energetico o altri) cedibili a terzi.
La grande novità introdotta dal governo Conte II e poi mantenuta da Draghi non è stata tanto la concessione di sgravi fiscali, cosa a cui gli italiani erano da tempo abituati, ma la possibilità di ottenere dei bonus fiscali che possono essere ceduti a terzi per il pagamento di prestazioni lavorative.
In passato gli sgravi fiscali venivano coperti da altre entrate fiscali, da nuovi tagli alla spesa pubblica o, al limite, da un aumento del debito pubblico (copertura tramite emissione di nuovi titoli di stato). Ad esempio, se venivano concessi 10 miliardi di sgravi fiscali per le ristrutturazioni edilizie, il governo doveva mettere in conto un aumento di altre entrate fiscali per 10 miliardi di euro (o 10 miliardi di tagli in altre spese o 10 miliardi in più di debito o una combinazione fra queste soluzioni).
Gli esperti di macroeconomia mi faranno notare, giustamente, che il conto non è corretto, in quanto esiste il famoso “moltiplicatore keynesiano”.
Infatti dando degli incentivi fiscali, le famiglie o le imprese andranno a commissionare lavori che senza incentivi non avrebbero fatto. Queste commesse aggiuntive portano ad un aumento dei redditi, quindi della capacità imponibile delle imprese del settore dell’edilizia, quindi un aumento dei loro versamenti tributari che, senza incentivi, non ci sarebbe stato. Quindi quando lo stato concedeva sgravi fiscali di 10 miliardi per le ristrutturazioni edilizie, in realtà andava a spendere di meno. 10 miliardi in meno di entrate dai contribuenti “sgravati”, ma anche 4 miliardi in più (ad esempio) incassati da parte delle imprese beneficiarie delle commesse aggiuntive. Quindi, al netto, lo Stato “pagava” solo 6 miliardi.

La proposta originaria dei bonus del 110%, quella a cui si sono ispirati i promotori del Movimento 5 Stelle, era quella dei CCF, certificati di compensazione fiscale, promossa dal Gruppo della Moneta Fiscale (economisti Marco Cattaneo, Giovanni Zibordi, Biagio Bossone ecc.) e rilanciata a marzo 2020 con la proposta del Piano di Salvezza Nazionale (www.pianodisalvezzanazionale.it), trasmesso a tutti i parlamentari e tutti i ministri, con il corredo di oltre 35 mila firme di cittadini, la quale prevedeva la creazione di una piattaforma di scambio dei crediti fiscali fra soggetti privati e la possibilità di usarli come sgravi fiscali solo a partire da 2 anni dopo la data di concessione dei bonus.
Con questo meccanismo il condominio, per fare un esempio, avrebbe ottenuto dallo Stato, una volta eseguiti i lavori, un “bonifico” in bonus fiscali direttamente sul proprio “conto corrente” della piattaforma di scambio. Da lì il condominio avrebbe pagato alle imprese le fatture dei lavori eseguiti usando quei bonus fiscali. Le imprese, a loro volta, avrebbero potuto usare quei crediti fiscali per pagare i loro fornitori, compresi i propri dipendenti. Alla fine, dopo 2 anni, chi si fosse trovare proprietario dei bonus fiscali, li avrebbe potuti usare per pagare le proprie tasse in sostituzione degli euro.
L’esistenza della piattaforma di scambio avrebbe facilitato la cessione dei crediti. E ad ogni cessione sarebbe corrisposta una fatturazione (o una busta paga), che avrebbe generato un aumento dell’imponibile fiscale.
Chiedendo venia agli esperti di macroeconomia, semplifico i numeri per rendere chiaro il concetto ai meno esperti. Se ai tempi dei classici sgravi fiscali l’emissione di 10 miliardi euro di sgravi allo stato costava in realtà 6 miliardi, con la novità del meccanismo dei bonus cedibili a terzi tramite piattaforma pubblica, con una estrema facilitazione di fare pagamenti direttamente in crediti fiscali offerta ad una economia caratterizzata dalla mancanza di credito e di liquidità, nel giro di 2 anni avrebbe trasformato l’emissione di 10 miliardi di bonus fiscali in un incremento dell’imponibile almeno di 25 miliardi, quindi consentendo introiti fiscali aumentati di 12 miliardi. Il che significa per lo Stato una perdita di 10 miliardi compensata da un maggior incasso di 12 miliardi ovvero un utile netto di 2 miliardi per le casse dello Stato.
Queste cifre sono puramente indicative, per aiutare la comprensione del meccanismo.
Chi volesse approfondire la conoscenza dei meccanismi ed i calcoli effettuati dagli economisti citati, è invitato a farlo sulle fonte originali.

Una volta compresa l’importanza del meccanismo della cessione dei crediti fiscali nel bilancio complessivo della manovra, ora possiamo giudicare a ragion veduta l’operato dei governi Conte II e, soprattutto, di Mario Draghi.

I veri costi e le vere coperture
Come abbiamo compreso sopra, il “costo” per lo Stato di una manovra finanziaria in cui si prevedono dei bonus fiscali non si misura al momento della emissione dei crediti fiscali, ma al momento in cui quei bonus fiscali verranno utilizzati per pagare le tasse (quindi pagando meno euro) e tenendo conto degli effetti della crescita economica indotta da quella manovra, i quali portano ad un contemporaneo aumento delle entrate fiscali.
Questo significa che il “costo di emissione” di 10 miliardi di bonus fiscali non è di 10 miliardi, come sostengono erroneamente troppi giornali e troppe trasmissioni televisiva, ma è pari a zero. Lo Stato non spende nulla nel momento in cui concede ad una impresa o ai proprietari di un condominio un bonus fiscale. Quello che conta è la contabilità d’insieme al termine del processo macro-economico che l’emissione di quei bonus fiscali ha innescato.

Quindi la copertura di una manovra fiscale che prevede la concessione di crediti fiscali non dipende da un bilancio “statico”, come siamo abituati a fare nei conti di una famiglia o di una azienda, ma dipende molto, moltissimo, dalla crescita economica che verrà innescata negli anni a seguire da quella manovra.
Se vogliamo giudicare l’efficacia delle modifiche che Draghi intende attuare alle disposizioni previste per i bonus del 110% dobbiamo porre l’attenzione molto poco sulle cifre (comprese quelle delle truffe) e molto di più sui meccanismi economici, i quali sono influenzati dalle norme e dalla burocrazia che disciplinano la manovra.

L’imposizione fiscale futura, quella che consentirà di compensare le future mancate entrate fiscali, dipende dal “fatturato” futuro delle imprese e dal reddito futuro dei lavoratori. Il fatturato ed il reddito aumentano ogni volta che dei soldi, ma anche dei bonus fiscali, vengono spesi in cambio della produzione di beni o servizi.
Il meccanismo previsto nella proposta originaria, quello della piattaforma pubblica per la cessione fra privati, era tale da facilitare al massimo, con burocrazia ridotta al minimo, la cessione dei crediti fiscali in cambio di prestazioni lavorative, non solo nel primo passaggio, ad esempio per il pagamento dei lavori di ristrutturazione, ma in ogni passaggio successivo. Ad esempio l’impresa, una volta incassato il pagamento in crediti fiscali, li userà per pagare i mattoni, il produttori di mattoni li userà per pagare l’energia, il venditore di energia per pagare i propri tecnici e quei tecnici per pagare una parte della spesa del supermercato, il supermercato per pagare i contadini, ecc.
Molti passaggi = molto fatturato = molte entrate fiscali = maggiore copertura al momento di sconto dei bonus fiscali, dopo 2 anni. Perché è necessario lasciare il tempo affinché gli scambi avvengano.
E’ fondamentale sottolineare come in ogni passaggio non sia necessaria la conversione in euro del credito fiscale. I bonus, infatti, consentirebbero di pagare i beni e servizi acquistati, senza bisogno di euro.

Gli errori del governo Conte II
Già nella prima versione, modificata rispetto a quella originaria, il governo Conte II aveva deciso di modificare il meccanismo “originario” mettendoci di mezzo le banche. Fin dall’inizio è esistita la possibilità di convertire subito i bonus fiscali in euro, cedendoli alle banche in cambio di euro. Probabilmente questo processo sta alla base della cifra “110%”, 10% per le commissioni delle banche e 100% per pagare i lavori di ristrutturazione.
Qui mi sento di denunciare un primo grave errore commesso dal governo Conte II.
Se è vero che i bonus fiscali valgono come gli euro, non è vero che sono la stessa cosa.
I bonus fiscali hanno valore di “sconto fiscale” solo per coloro che pagano le tasse. Hanno valore solo in Italia e quindi verrebbero usati soprattutto per pagare fornitori italiani. Un fornitore estero, infatti, dovrebbe successivamente preoccuparsi di trovare un fornitore italiano per ri-spendere quei bonus.
Gli euro, invece, hanno valore sia per i fornitori esteri, sia per coloro che guadagnano usando gli euro per investimenti puramente finanziari.
La possibilità concessa da Conte di convertire subito in euro i bonus fiscali ha fatto sì che fra i beneficiari vi siano state in parte anche delle imprese estere, riducendo le potenziali entrate fiscali future.
La conversione in euro da parte delle banche ha inoltre fatto sì che i “soliti furbi” abbiano trovato il modo di investirli in prodotti finanziari (azioni, criptovalute, fondi esteri, ecc.), anziché spenderli per pagare imprese e lavoratori.
E sappiamo bene che i “prodotti finanziari” generano molta poca crescita del fatturato nazionale e molte poche entrate fiscali.
Il fatto di metterci di mezzo le banche ha trasformato, in parte rilevante, i bonus fiscali nell’ennesimo meccanismo di rendita finanziaria di pochi, anziché in uno strumento di crescita dell’economia del paese, che avrebbe garantito la copertura economica del provvedimento.
Il coinvolgimento attivo delle banche da parte del governo Conte II, ovviamente confermato da Draghi, è stato un “dettaglio” che ha reso meno certa la copertura finanziaria della misura proposta.

Gli errori di Draghi
Nelle ultime settimane Mario Draghi ha denunciato le truffe legate ai bonus fiscali.
In realtà tali truffe hanno riguardato unicamente il processo di emissione dei bonus fiscali ovvero i bonus sono stati emessi a fronte di lavori mai effettuati.
Stendiamo un velo pietoso sul fatto che, oltre a pretendere tanta carta inutile e tanta burocrazia, il Governo avrebbe potuto mandare delle persone con un minimo di competenze tecniche a verificare sul posto l’effettivo svolgimento dei lavori, evitando questo tipo di truffe, ma non lo hanno fatto. Sappiamo che in Italia la carta prevale sulla sostanza.
Da come abbiamo spiegato sopra in realtà lo Stato non spende nulla al momento della emissione del bonus fiscale. Quindi, dal punto di vista del bilancio dello stato, è assolutamente irrilevante che i lavori siano stati fatti o meno.
Per intenderci: nella proposta originaria di Marc o Cattaneo era previsto di “regalare” dei bonus fiscali ai lavoratori a basso reddito. In cambio di nulla, con il solo obiettivo di  accrescere la loro capacità di spesa e, quindi, il fatturato aggiuntivo che quella spesa avrebbe generato per l’intera economia italiana.
Nelle truffe riscontrate, è invece molto rilevante e molto grave che i bonus siano stati ceduti alle banche in cambio di euro (e neppure le banche hanno controllato la loro origine), dopo di che quegli euro sono usciti dall’economia reale italiana e sono finiti nei circuiti della finanza. In questo modo non verranno ceduti ad altre imprese ed altri lavoratori, per cui non genereranno alcuna crescita dell’imponibile futuro e lo Stato si troverà di fronte ad una ridotta (rispetto al potenziale) crescita economica, quindi a mancate entrate fiscali, mentre dovrà accettare che le banche usino i bonus fiscali per pagare meno tasse in futuro. Il gioco rischia di essere in perdita, non per colpa dei bonus fiscali, ma per colpa della loro trasformazione in euro ad opera delle banche.
Di fronte a queste truffe qual è la proposta di Mario Draghi?
Draghi propone sostanzialmente di limitare la cedibilità dei crediti fiscali solo alle banche, mentre non è chiaro se proporrà qualcosa di concreto, tipo ispezioni sui cantieri, per verificare che i bonus vengano emessi a fronte di lavori reali. Ovvero: se fino ad oggi, pur con qualche difficoltà. Il condominio poteva saldare il conto pagando l’impresa direttamente con i crediti fiscali, la quale impresa poteva a sua volta usarli per i propri pagamenti, con la riforma Draghi i crediti fiscali saranno cedibili solo alle banche in cambio di euro, dopo di che le banche li trasformeranno in un prodotto finanziario di propria convenienza.

A questo punto lascio ai lettori giudicare se Mario Draghi sia incompetente o in mala fede.
Se la cessione dei crediti fiscali sarà possibile solo alle banche, convertendo i bonus fiscali in euro, una parte maggiore dei benefici andrà ai fornitori esteri (che non pagano le tasse in Italia) o a soggetti del mondo delle rendite finanziarie. E sarà impossibile innescare la catena del “moltiplicatore keynesiano”, la sola capace di assicurare la copertura finanziaria del provvedimento.
Il risultato inevitabile sarà una ridotta crescita attuale dell’economia italiana e, in futuro, minori entrate fiscali per lo Stato, con conseguenti problemi di bilancio.

Altri errori di pianificazione economica
Vorrei concludere evidenziando altri 2 gravi errori commessi già nel corso della prima proposta dei bonus fiscali da parte del governo Conte II e poi, ovviamente, confermati da Mario Draghi.

Un primo errore è stato quello di voler concentrare gli stimoli fiscali principalmente nel settore delle costruzioni. Dopo oltre 10 anni di profonda crisi del settore, di licenziamenti, di pensionamenti di lavoratori anziani esperti senza assunzioni di giovani, di mancata formazione professionale, di mancati investimenti, come si poteva pensare che nel giro di un solo anno il settore fosse in grado di fare fronte a nuove commesse per decine di miliardi di euro?
Il risultato, ovviamente, è stata una rapida saturazione del settore, con aumenti esagerato dei prezzi, mentre altri settori in crisi, come ad esempio il turismo o la piccola distribuzione commerciale, sono rimasti in profonda crisi come e peggio che nei 10 anni precedenti.
Non a caso la proposta originale di Cattaneo & c. prevedeva di assegnare i bonus fiscali in modo graduale e in molti settori dell’economia, portando una crescita economica diffusa, fermo restando il meccanismo di copertura finanziaria sopra illustrato (senza l’intermediazione delle banche).
Molto bene investire sul risparmio energetico degli edifici privati (e quelli pubblici?), ma tutta l’economia italiana ha bisogno di crescere, non solo l’edilizia. Sarebbe stata molto meglio una crescita equamente distribuita nei vari settori.

Il secondo errore è stato quello di non dare un respiro pluriannuale all’iniziativa. Sono anni che ci parlano delle famose “riforme strutturali” richieste dagli economisti “quelli che sanno”. Ma cosa c’è di strutturale in una misura che non si sa se l’anno successivo verrà rinnovata? Come si fa a pretendere che una impresa edile (o di altri settori) assuma dei giovani, investendo sulla loro formazione, che acquisti dei macchinari, che sviluppi competenze, se l’orizzonte delle commesse è al massimo di 1-2 anni?
Solo una iniziativa con una prospettiva certa di almeno 10 anni può dare alle imprese lo stimolo per investire in assunzioni a tempo indeterminato, in formazione professionale, in assunzione di macchinari per migliorare la propria efficienza produttiva.
Anche in prospettiva di un piano nazionale per il risparmio energetico, che certamente è fondamentale per un paese che importa dall’estero una parte molto rilevante del proprio fabbisogno, non ha alcun senso un piano che non abbia come minimo una prospettiva decennale, considerando il pessimo stato energetico del patrimonio edilizio italiano.

Pur essendo chiaro che la misura dei bonus fiscali del 110% è in grado di assicurare da sé la copertura finanziaria, se non ostacolata dall’inserimento di meccanismi che bloccano la cedibilità dei crediti fiscali, chi ci governa ha deciso di renderla ulteriormente inefficace, prima relegandola ad un solo settore dell’economia, poi rendendola una misura “una tantum” e totalmente non strutturale, in modo da non offrire al Paese delle prospettive di crescita.
Con queste argomentazioni mi sento di dare un pessimo giudizio sulle competenze economiche di chi ci governa. E se non si tratta di incompetenza, si tratta di mala fede, che sarebbe ancora peggio.
Questo nonostante il coro unico delle televisioni non perda occasione di osannare “San Mario Draghi”. Che Dio ce ne liberi quanto prima.

I soldi per tagliare le tasse e per dare lavoro a tutti ci sono. Se capiamo come funziona la moneta (anche senza uscire dall’euro) di Davide Gionco

Riceviamo e pubblichiamo_Giuseppe Germinario

 

I soldi per tagliare le tasse e per dare lavoro a tutti ci sono.
Se capiamo come funziona la moneta (anche senza uscire dall’euro)

di Davide Gionco
24.10.2021

Cosa fare per rimettere in piedi l’economia italiana? I redditi, al netto dell’inflazione, sono inferiori a quelli del 1990; la disoccupazione è in aumento: la povertà è in aumento; le imprese falliscono; i nostri giovani emigrano; chi resta non si sposa e non fa figli, perché il futuro è troppo incerto.
Chi ci governa ci prende in giro, decantando una strabiliante ripresa del 6,1% nel 2021, dopo che nel 2020 il PIL era sceso del -8,9%.
2020 100 x (1-0,089) = 91,1%
2021 91,1 x (1+0,061) = 96,7%
Significa che in due anni il PIL è sceso di (100-96,7) = -3,3%.
Un disastro in un paese già provato da 20 anni di politiche di austerità.

Cosa fare per rimettere in piedi l’economia italiana?
La risposta è semplice e coincide con la risposta alla domanda: cosa fare per
aumentare la redditività delle imprese, garantendo nello stesso tempo maggiori profitti per il proprietario e migliori retribuzioni per i dipendenti?
1) Abbassare le tasse sugli utili di impresa
2) Abbassare le tasse sui redditi dei lavoratori
3) Mettere più soldi nelle tasche dei clienti, affinché facciano più acquisti
Siccome molte imprese lavorano come fornitori dello stato, dobbiamo aggiungere anche:
4) Aumentare gli investimenti pubblici

L’abbassamento delle tasse sugli utili di impresa lo si può fare riducendo le aliquote. Le imprese avranno più soldi per fare fronte ai nuovi investimenti, oltre che per remunerare l’attività.
Lo stesso dicasi per l’abbassamento delle aliquote di tassazione dei redditi, che consentiranno di aumentare la remunerazione netta dei lavoratori, i quali, a loro volta, avranno più soldi da spendere per le loro necessità, come clienti, il che farà aumentare la produzione delle imprese ed i loro utili. Anche una riduzione dell’IVA sortirebbe l’effetto di ridurre i prezzi di acquisto di beni e servizi e, quindi, di aumentare le vendite, con vantaggio delle imprese e dei loro dipendenti. L’aumento di produzione porterà evidentemente anche a nuove assunzioni.
L’aumento degli investimenti pubblici (manutenzione del territorio, delle strade, degli edifici pubblici, nuove opere, nuovi servizi, ecc.) porterà ad un aumento delle commesse per i fornitori, con nuove assunzioni di personale e maggiore redditività per le imprese.

Fino a qui ci arrivavamo tutti… La domanda che sorge spontanea è: dove trovare i soldi per far quadrare il bilancio di uno stato che taglia le tasse ed aumenta gli investimenti?
Stando alla narrativa dell’informazione “mainstream” non è possibile creare denaro “dal nulla”, motivo per cui nessun governo al mondo si permette di abbassare le tasse e di aumentare gli investimenti per far crescere la propria economia. I più informati sanno che in realtà non è così, perché in paesi che dispongono di una propria banca centrale, come ad esempio gli USA che nel 2020 hanno fatto un deficit di bilancio del 15% sul PIL, totalmente finanziato da nuove emissioni di dollari della Federal Reserve (FED), che hanno appianato le mancate entrate fiscali e gli stimoli per la crescita del governo Trump.
L’informazione “mainstream” continua a supportare gli
inutili tentativi dei vari governi che, da quasi 30 anni, tentano di far ripartire l’economia mantenendo il bilancio in sostanziale equilibrio (se non in attivo). Per contro alcuni economisti di stampo keynesiano, in genere ignorati dai mass-media, richiamano l’importanza per uno stato di disporre di una propria banca centrale in grado di finanziare i deficit di bilancio del governo, necessari per rilanciare l’economia in tempi di crisi. Nel caso dell’Italia, quindi, la soluzione prospettata da questi economisti è l’uscita dall’Eurozona, con il ritorno alla lira e nazionalizzazione della Banca d’Italia.

In realtà la soluzione al problema della crescita economica potrebbe essere, per entrambe le “fazioni”, molto più semplice di quanto immaginiamo.
Per comprendere la soluzione dobbiamo prima di tutto comprendere come funziona una moneta. E’ qualcosa che non si insegna a scuola e, da quanto ho avuto modo di leggere sui testi utilizzati nelle facoltà di economia, neppure agli studenti di economia.

Il funzionamento di una moneta è molto semplice: c’è una centrale di emissione, c’è un meccanismo che ne garantisce la circolazione (per lo scambio di beni e servizi e per il risparmio) e c’è una centrale di ritiro finale, al termine della circolazione.


Funziona cosi per tutte le monete:

Moneta

Centrale di emissione

Meccanismo di circolazione

Centrale di ritiro

Euro

BCE che acquista titoli

scambio beni e servizi

pagamento delle tasse al Tesoro, che rimborsa a BCE i titoli in scadenza

Dollaro

FED che acquista titoli

scambio beni e servizi

pagamento delle tasse al Tesoro, che rimborsa a FED i titoli in scadenza

Sesterzio

Imperatore Augusto conia monete

scambio beni e servizi

pagamento delle tasse all’imperatore

Credito bancario

Banche che fanno credito

scambio beni e servizi

rimborso alle banche del mutuo

Titoli di stato

Tesoro

aste dei titoli, mercato dei titoli

Tesoro paga i titoli in scadenza

Bitcoin

Software crittografico

soprattutto riserva di valuta

convertibilità in dollari/euro

Ticket restaurant

Sodexo li vende a imprese

buono sconto ristorante

Sodexo li converte in euro e paga il ristorante

Fiche del casinò

Casinò

Pagamenti partita di poker

Casinò li converte in euro

Solo una nota tecnica per chi non lo sapesse: oggi i nuovi euro creati dalla BCE vengono messi in circolazione acquistando titoli di stato emessi dal Tesoro. Quando i titoli arrivano alla scadenza, la BCE incassa dal Tesoro il capitale in euro più gli interessi ed emette nuovi per euro per acquistare i nuovi titoli . Lo Stato usa una parte della raccolta fiscale (centrale di ritiro) per pagare gli interessi in euro sui titoli in scadenza, mentre la quota capitale viene finanziata principalmente da nuove emissioni.

La centrale di ritiro garantisce è ciò che garantisce la spendibilità certa di una moneta. Ad esempio in Albania è obbligatorio pagare le tasse in lek, quindi il popolo abanese effettua la maggior parte dei pagamenti in lek, sapendo di poterli certamente spendere per pagare le tasse (centrale di ritiro).
In Italia non è vietato fare pagamenti in dollari. Se un turista straniero ci paga in dollari, li accettiamo solo perché siamo sicuri di poterli convertire in euro, con cui siamo sicuri che potremo pagare le tasse. Se non fossero convertibili, non li accetteremmo.
L’esistenza della centrale di ritiro fa sì che quella moneta assuma valore anche (e soprattutto) per lo scambio di beni e servizi, la cui produzione, se ci pensiamo bene, è il
valore economico reale (valore di utilità), mentre la moneta ha solo un valore giuridico e finanziario.

Ritornando all’obiettivo della sovranità monetaria, nulla vieta allo Stato di costituire una nuova centrale di emissione di moneta e di creare una propria centrale di ritiro, al fine di dare origine ad una nuova moneta.
Ad esempio l’economista Nino Galloni propone di emettere delle stato-note parallele all’euro. I trattati europei vietano ad altri soggetti di emettere euro (che in fatti ha
nno il segno © del copyright), ma non vietano affatto di emettere altre forme di moneta. Se può farlo, ai sensi delle leggi italiane, la Sardex SpA, se lo possono fare con il Bitcoin e con le fiche del casinò, evidentemente anche lo Stato ha il potere giuridico di farlo. Nulla glielo vieta.
A quel punto, basta creare il meccanismo di ritiro, che potrebbe essere la possibilità di pagare le tasse in quella valuta, ed il gioco è fatto.

La mia opinione sulle stato-note è che, pur essendo una soluzione legittima e tecnicamente funzionale, queste potrebbero suscitare sospetti negli italiani, convinti dell’esistenza di una moneta “di serie A”, l’euro, ed di una moneta “di serie B”, le stato-note, per la sola circolazione interna. Per mettere in atto tale soluzione servirebbe una adeguata campagna di informazione a riguardo.

Una soluzione alternativa la potremmo trovare già nella tabella sopra esposta. Fra le varie monete citate abbiamo incluso anche i titoli di stato. Di per sé le teorie economiche odierne già comprendono i titoli di stato nella massa monetaria “M3”, il che significa che i titoli sono una forma di moneta. L’Italia ha ceduto alla BCE la centrale di emissione e di ritiro finale della moneta-euro, ma non ha ceduto ad altri la centrale di emissione e di ritiro dei titoli di stato.
I titoli sono una forma di moneta che ha delle
regole per cui oggi viene utilizzata solo come strumento di risparmio: oggi spendo 1000 euro per acquistare dei titoli, fra 5 anni converto gli stessi titoli in 1025 euro, mantenendo il valore capitale e guadagnando 25 euro di interessi.
Ma se lo Stato decidesse, cambiando le
regole, di iniziare a pagare (in tutto o in parte) i propri fornitori ed i propri dipendenti in titoli di stato (a tasso zero) e se lo Stato accettasse che le tasse vengano pagate (centrale di ritiro) anche in titoli, oltre che in euro, allora in Italia potremmo usare come forma di moneta per lo scambio di beni e servizi direttamente i titoli di stato, senza il bisogno di emettere nuovi titoli da convertire in euro.

Effettivamente ciò che genera il debito pubblico, che ad oggi costituisce un ingombrante fardello per noi italiani, non è l’emissione di titoli in sé, ma è il contratto che lo Stato stipula al momento in cui vende i titoli in cambio di euro, impegnandosi a rimborsare il capitale in euro più gli interessi.
Ma se i titoli vengono usati per pagare beni e servizi ai fornitori ed ai dipendenti dello Stato, il debito è già saldato nel momento dello scambio lavoro/titoli, non c’è alcun impegno a convertirli in euro non si genera alcun debito pubblico.
I lavoratori useranno i titoli per pagare le tasse (centrale di ritiro) e lo Stato, una volta ritiratili, potrà distruggere i titoli al termine della loro circolazione, prima di emetterne di nuovi.

Il vantaggio di questa soluzione è che lo Stato potrebbe emettere sostanzialmente “dal nulla” una maggiore quantità di titoli per coprire il deficit di bilancio, potendo di conseguenza attuare le riforme necessarie per la ripresa economica del paese (riduzione delle tasse, investimenti, ecc.), il tutto senza generare più debito pubblico.

Naturalmente non si può creare ricchezza dal nulla semplicemente stampando banconote o titoli. La ricchezza viene prodotta dai lavoratori che producono beni e servizi. Ma la maggiore disponibilità di denaro in circolazione consentirà, finalmente, di creare nuove opportunità di lavoro per i disoccupati, consentirà di fornire loro una formazione professionale, consentirà di fare investimenti in ricerca, in infrastrutture, rendendo più produttivi i lavoratori ed aumentando la ricchezza di tutti.
Ovviamente l’emissione di titoli dovrà essere commisurata alle necessità economiche del Paese, dato che una emissione eccessiva potrebbe causare dei fenomeni inflazionistici non desiderabili. Non intendiamo affrontare in questa sede la questione dell’inflazione per eccesso di moneta.

In uno scenario del genere l’euro potrebbe continuare a circolare per gli scambi con gli altri paesi europei, per i pagamenti dei turisti stranieri. Lo Stato potrebbe tranquillamente accettare anche gli euro per il pagamento delle tasse, ma non avrebbe bisogno di euro per finanziare le proprie spese sul mercato interno. Gli euro incamerati dallo Stato potranno essere utilizzati per pagare eventuali fornitori stranieri o per regolare il tasso di cambio che, inevitabilmente, si creerà fra i titoli italiani e l’euro.

In conclusione, abbiamo spiegato come gli obiettivi di benessere economico dell’Italia siano certamente perseguibili con una semplice riforma del sistema di emissione, di circolazione (basterebbe una piattaforma elettronica di scambio) e di ritiro dei titoli di stato.
La permanenza nell’attuale situazione di moneta unica fuori dal controllo pubblico non potrà che continuare ad aggravare la situazione di declino e di impoverimento dell’Italia.
La soluzione “tutto-e-subito” di una uscita secca dell’Italia dall’Eurozona, pur se tecnicamente ineccepibile, dovrebbe fare i conti con obiettive difficoltà politiche, sia in Italia, sia a livello europeo.
Una soluzione “pragmatica” di riforma del debito pubblico come sopra illustrato, introdotta con la necessaria gradualità, consentirebbe invece di risolvere rapidamente le disfunzionalità dell’euro-moneta-unica, con vantaggi economici e politici per tutti.

La guerra delle banane del 1954. Complotto o convergenza di interessi? _ di Davide Gionco

La guerra delle banane del 1954.
Complotto o convergenza di interessi?

di Davide Gionco

La United Fruit Company (oggi diventata Chiquita), multinazionale americana operante nel commercio della frutta, possedeva da decenni importanti piantagioni di banane in Guatemala, stato dell’America centrale. La UFCO tutelava i propri interessi esercitando una forte influenza sul potere politico locale, costituito da dittatori militari accondiscendenti che si succedevano uno dopo l’altro, La situazione andò liscia fino al 1944, quando in Guatemala ci fu una rivoluzione popolare (militari, insieme a studenti e lavoratori) che spodestò l’ultimo dittatore-fantoccio filoamericano Jorge Ubico. Nell’anno successivo 1945 ci furono le prime elezioni libere in Guatemala che portarono all’elezione di Juan José Arévalo, che restò in carica fino al 1951, periodo nel quale vi furono ben 30 tentativi falliti di colpo di stato, sponsorizzati con ogni probabilità dalla UFCO e dagli altri latifondisti locali, i quali temevano che il nuovo corso politico portasse alla perdita dei loro privilegi e della loro azione di sfruttamento dei lavoratori e del territorio guatemalteco.
Nel 1950 vi furono le seconde elezioni libere, che portarono all’affermazione del nuovo presidente socialista
Jacobo Árbenz, ministro della difesa uscente, che iniziò il mandato l’anno successivo, promettendo delle riforme economiche che ponessero fine al latifondismo, con la diffusione della piccola proprietà agraria e di una vera economia di mercato. Quindi non un socialismo “comunista”, ma qualcosa di simile a quello in Italia negli anni 1950-1960, con la redistribuzione delle terre ai contadini, tramite confisca delle terre dei grandi proprietari terrieri.
Ovviamente questo progetto politico andava decisamente contro gli interessi della United Fruit Corporation.

I principali azionisti della United Fruit Corporation erano i due fratelli John Foster Dulles e Allen Welsh Dulles. La società aveva da tempo sviluppato profondi rapporti di collaborazione con il Partito Repubblicano statunitense, al punto che in quegli anni, durante la presidenza di Eisenhower, Allen Welsh Dulles ricopriva l’incarico di direttore della CIA, mentre suo fratello John Foster era diventato niente di meno che segretario di stato (ministro degli esteri) di Einsenhower.

Per risolvere il problema la UFCO assunse come esperto di pubbliche relazioni il famoso Edward Bernays, che già si era distinto in passato per avere convinto gli americani neutralisti a partecipare alla prima guerra mondiale e per avere convinto le donne a fumare, raddoppiando i guadagni delle società del tabacco.
Edward Bernays elaborò una strategia di comunicazione basata su notizie false, ma non verificabili dal grande pubblico americano, che facessero credere che in Guatemala non vi era un governo democratico, ma una pericolosa dittatura comunista che sarebbe servita ai russi come base di attacco agli USA.
Bernays invitò a sue spese (ovvero a spese della corporation) degli influenti giornalisti americani, che nulla sapevano del Guatemala, nella capitale Ciudad de Guatemala. Pagò alcuni sedicenti politici di opposizione guatemaltechi che dipinsero il presidente Arbenz come un dittatore comunista privo di legittimazione popolare. Bernays pagò altre persone per fare delle manifestazioni fortemente antiamericane proprio sotto gli occhi degli influenti giornalisti, per dimostrare la pericolosità di quel paese latinoamericano.
Il risultato fu che gli influenti giornalisti si convinsero dell’esistenza di una pericolosissima dittatura comunista filosovietica a due passi dagli Stati Uniti e questo scrissero sui giornali più autorevoli, che alimentarono di conseguenza l’informazione televisiva, i giornali locali, le chiacchiere dei bar, ma soprattutto le convinzioni dei senatori americani che avrebbero poi approvato l’intervento armato americano in Guatemala.

Il travisamento della realtà era compiuto.

Una volta ottenuta la copertura politica (come la definiva Colin Powell prima della seconda guerra in Iraq), fu facile per il direttore della CIA (e principale azionista della UFCO) organizzare i bombardamenti sul Guatemala, addestrare dei militari per formare degli squadroni guidati dal colonnello Carlos Castillo Armas, il quale mise in atto il colpo di stato che lo portò al potere come nuovo dittatore.
La democratizzazione mediatica dell’evento fu completata dalla visita in Guatemala del vicepresidente Richard Nixon, il quale nel discorso ufficiale esaltò il ripristino della democrazia in Guatemala, con l’instaurazione della dittatura militare di Castillo Armas (filo UFCO) e con l’esilio del dittatore Arbenz (che era stato democraticamente eletto).
Questa fu la versione ufficiale americana, fino alla desecretazione dei documenti avvenuta nel 1997.

Per la cronaca, interferenze degli USA, o meglio delle multinazionali a cui i governi del mondo devono rendere conto, nella politica interna di altri paesi si sono verificate moltissime altre volte. Nulla fa pensare che oggi le cosa vadano diversamente.

Si trattò di un complotto? O piuttosto della convergenza di diversi interessi che hanno reso possibile tutto questo?

I fratelli Dulles avevano l’interesse economico dello sfruttamento monopolista delle piantagioni di banane in Guatemala.
Il Partito Repubblicano aveva l’interesse a disporre di generosi finanziamenti (provenienti dagli utili della vendita delle banane) per il successo delle proprie campagne elettorali.
In cambio di questi fondi i repubblicani ed Eisenhower avevano acconsentito la nomina dei fratelli Dulles a capo della CIA e della segreteria di stato.
Einsehower aveva bisogno di rafforzare la propaganda anti-sovietica (ricordiamoci che sono gli anni della guerra di Corea e dell’apogeo di
Joseph McCarthy) e l’immagine di un governo che difende gli americani dal comunismo.

Il punto difficile della manovra era avere l’appoggio dei giornalisti, che probabilmente non avevano degli interessi personali da perseguire.
In questo fu decisivo l’intervento di Edward Bernays, che da un lato regalò il viaggio-premio, tutto spesato, in Guatemala e dall’altro riuscì a convincere gli influenti giornalisti di fatti che non corrispondevano per nulla alla realtà.
Ma, pensandoci bene, quei giornalisti perché avrebbero dovuto difendere un piccolo presidente socialista del paese delle banane e schierarsi contro il direttore della CIA ed il segretario di stato americano?
Oggi, con i principali azionisti delle corporations che controllano l’informazione che sono gli stessi che controllano il commercio delle banane e che finanziano i partiti di governo, l’operazione sarebbe stata ancora più semplice.
In alternativa è sempre possibile
pagare e mettere in posizione di rilievo gli influenti giornalisti.

Se non ci fosse stata la convergenza di interessi fra tutti questi soggetti chiave, il colpo di stato in Guatemala sarebbe fallito (come i 30 precedenti). Si realizzò proprio perché tutti i soggetti chiave avevano degli interessi comuni da perseguire e perché il colpo di stato in Guatemala avrebbe consentito loro di guadagnare ciascuno la sua parte.

Lo stesso è sempre avvenuto prima di allora ed avviene ancora oggi.
Chi persegue i propri interessi senza riguardi per l’umanità, farà sempre ciò che è in suo potere per perseguirli. Se vi saranno le condizioni per avere l’appoggio di altri portatori di interessi, stringeranno un’alleanza. E l’azione verrà portata a termine.

Quindi non chiamiamoli “complotti”, ma chiamiamole convergenze di interessi.

Il mito di Cassandra e il disprezzo dei profeti, di Davide Gionco

Il mito di Cassandra e il disprezzo dei profeti

di Davide Gionco

Secondo il racconto di Omero (Iliade, Libro XIII) Cassandra era la più bella delle figlie di Priamo, re di Troia. Cassandra aveva ricevuto dal dio Apollo il dono della profezia, il dono di prevedere il futuro.  Una volta ricevuto il suo dono, Cassandra avrebbe rifiutato di concedersi a lui. Il dio, fuori di sé dalla rabbia, le avrebbe sputato sulle labbra, condannandola con questo a restare per sempre inascoltata dagli altri.

Cassandra veniva presa per pazza, per una iettatrice, dato che annunciava le disgrazie che sarebbero ricadute sulla città di Troia. Non veniva presa in considerazione, perché annunciava cose che nessuno voleva sentirsi dire.
Una volta la città di Troia fu conquistata e distrutta dagli Achei, Cassandra venne rapita dal re Agamennone e condotta come ostaggio a Micene. Anche lì profetizzò al re che ci sarebbe stata una congiura contro lui, ordita dalla sua stessa moglie Clitemnestra, ma neppure Agamennone volle credere ad una profezia così inaccettabile. Dopo che la congiura fu messa in atto dalla moglie, come preannunciato, insieme al re Agamennone, fu anche uccisa la stessa Cassandra.

Sapere che si va incontro ad un destino inaccettabile è qualcosa che può condurre alla disperazione, per questo il nostro inconscio preferisce respingere quelle informazioni. Siccome si tratta di fatti che devono ancora accadere, non certi, si preferisce credere che “speriamo che non succeda”. E si va avanti, avendo come unico sostegno la speranza di un futuro migliore che non ci fa paura.
Sigmund Freud spiegherebbe che si tratta di impulsi irrazionali, legati al nostro istinto di sopravvivenza, che ci porta nel subconscio a sfuggire mentalmente ciò che ci potrebbe fare soffrire o addirittura morire.

Il destino dei profeti di essere inascoltati e perseguitati è qualcosa di ricorrente nella Bibbia. Ad esempio il profeta Geremia annunciava al popolo che sarebbe stato invaso dai “Popoli del Nord” (i Babilonesi), se non si fosse convertito a Yahveh e non avesse cambiato vita.
Come era accaduto a Cassandra, anche Geremia fu preso per un “annunciatori di malauguri”, non fu ascoltato, fu odiato e disprezzato e fu messo nella fossa per farlo morire.

In tempi molto più recenti, fra il 1933 ed il 1939 il giornalista americano Frederick Birchall (1868-1955) scrisse come invitato del New York Times in Europa moltissimi articoli sull’ascesa di Hitler e del nazismo, mettendo in guardia i lettori ed i leader politici sull’estrema pericolosità del fenomeno. Ma non fu creduto e non fu ascoltato, perché scriveva cose “inaccettabili”, dato che nessuno poteva accettare l’idea che Hitler avrebbe fatto ciò che la storia ci racconta che poi fu fatto dai nazisti.

San Giovanni Bosco (1815-1888) faceva fare periodicamente ai suoi ragazzi gli “esercizi della buona morte”. Oggi la morte è il più grande tabù di cui non si può discutere. Eppure per San Giovanni Bosco il ricordare ai ragazzi che “ciascuno di noi deve morire, che potremmo morire anche questa notte” non era per fare dei malauguri, ma per aiutare i suoi ragazzi a vivere in modo responsabile il tempo che ci è concesso di vivere, dato che non siamo padroni del nostro futuro e che il nostro tempo certamente finirà.

I profeti non sono coloro che preannunciano, per preveggenza, un futuro inevitabile quello che gli antichi romani chiamavano “il fato”), ma sono coloro che sanno leggere meglio degli altri i segni dei tempi, comprendendo come le cose andranno a finire.
Il termine “profeta” deriva dall’antico greco
προϕτης, che è la caratteristica di colui che è cosciente, razionale, poiché discerne ogni cosa con il “ragionamento.
Il profeta, quindi, non è qualcuno che annuncia un destino senza scampo o che diffonde dei malauguri, ma è una persone che annuncia un futuro condizionato dalle nostre scelte, avendo la piena comprensione del presente ed avendo coscienza di come la situazione si potrà evolvere.

Ma la gente non ama cambiare le proprie abitudini, perché costa fatica ed impegno. La gente non ama mettere in discussione le proprie scelte, perché significherebbe ammettere che prima ci si era sbagliati ed affrontare tutte le conseguenze sociali e materiali del cambiamento di decisione.
Ancora più difficile è ammettere da essere stati ingannati da chi ci ha convinti a prendere una decisione che poi ci rendiamo conto essere stata sbagliata.
Un detto sapiente ci ricorda che “
l’orgoglio muore un quarto d’ora dopo di noi“. Piuttosto che cedere al nostro orgoglio, si preferisce mantenere la propria decisione, anche se il profeta ci dimostra che è sbagliata e che ci porterà a conseguenze a cui non vorremmo andare incontro.

La gente preferisce una bugia rassicurante alla scomoda verità del profeta. E lo fa al punto di arrivare a mettere a tacere il profeta in qualsiasi modo: censurandolo dal punto di vista mediatico, escludendolo dal punto di vista sociale o addirittura eliminandolo fisicamente.

Ovviamente nessuno di noi è “la gente”. Siamo persone in grado di compiere le nostre scelte, di prendere atto dei nostri errori, di capire se chi ci parla è un profeta oppure no.
Dipende da ciascuno di noi, se preferiamo conformarci al fare comune della gente preferendo evitare ogni sforzo mentale e psicologico o se preferiamo invece essere persone che non si fanno sovrastare dalla paura e dall’orgoglio. Se vogliamo avere il coraggio di metterci in discussione e di ascoltare i profeti che, da che mondo e mondo, non sono mai mancati. Basta avere occhi ed orecchi per riconoscerli.

Come Zuan Francesco Priuli nel 1577 (non) risolse il problema del debito pubblico di Venezia, di Davide Gionco

Come Zuan Francesco Priuli nel 1577 (non) risolse il problema del debito pubblico di Venezia
di Davide Gionco

Nel 1577 le casse della Repubblica di Venezia erano sempre più mal messe. La Serenissima veniva da anni di guerre contro i Turchi Ottomani, con la sconfitta nella guerra di Cipro (1570-1573), ed era appena uscita da una epidemia di peste (1575-1577) che aveva colpito quasi tutti i territori della Repubblica.
Il nobile Zuan Francesco Priuli aveva ricevuto nell’ottobre del 1574 alla nomina di provveditore sopra i beni comunali e da qualche anno si industriava a far quadrare i conti del bilancio pubblico.

Nel 1577 Priuli decise di affrontare una volta per tutte l’annosa questione degli interessi sul debito pubblico, che nel 1577 avevano raggiunto la somma di 514’983 ducati annui per i depositi in zecca, e di quasi 200’000 ducati per il debito consolidato. Al tempo il debito pubblico veneziano veniva denominato come “monte”. C’era i debito più antico, il “Monte Vecchio”, che andava avanti da secoli. C’erano anche il “Monte Nuovo”, il “Monte Novissimo” e “Monte Sussidio”. Oltre a questo c’erano i “Depositi di Zecca”, che erano il debito più cospicuo.
A conti fatti un terzo degli incassi fiscali e delle rendite della Repubblica doveva essere utilizzato per pagare gli interessi ai creditori. Il Priuli, da esperto di finanze, concluse che questo problema doveva essere eliminato alla radice. Era peraltro scandaloso che la Repubblica, tramite questo meccanismo, contribuisse a far diventare i ricchi sempre più ricchi, a spese dei più poveri che pagavano le tasse.
I governanti di Venezia pensavano che fosse in gioco non solo la salute finanziaria della Repubblica, ma anche l’immagine del patriziato veneziano che per secoli aveva sempre garantito la separazione fra l’interesse pubblico e l’utile privato.

Zuan Francesco Priuli decise di affrontare prima di tutto il debito dei “Depositi di Zecca” (4 milioni di ducati): predispose un piano ventennale fatto di aumenti di imposte, recuperi di crediti d’imposta e di vendite di proprietà pubbliche (quello che fa l’Italia da 30 anni per ridurre il debito pubblico). Il piano fu convintamente approvato dal “consiglio dei dieci” e messo in atto.
Le cose andarono molto meglio del previsto. il 15 giugno 1584 il Senato dichiarava che tutti i debiti aperti in Zecca (il debito pubblico) erano stati rimborsati. Successivamente, durante il programma di riduzione del debito della Zecca, nel 1579 Zuan Francesco Priuli aveva proposto un altro piano per attaccare anche i debiti dei “monti”. In questo caso, però, il piano non venne approvato, in quanto troppi patrizi veneziani avevano protestato per la perduta possibilità di investire i propri denari in madre patria.
Secondo le previsioni del Priuli il pagamento del debito pubblico avrebbe dovuto consentire di ridurre le tasse, in quanto la Repubblica si sarebbe liberata dall’onere di pagare gli alti interessi.
Il Senato, però, decise che le entrate fiscali che prima venivano usate per pagare gli interessi sul debito, fossero accantonate e depositate presso un “Deposito Grande”, che sarebbe servito come riserva finanziaria della Repubblica in caso di bisogno. Lo Stato veneziano aveva deciso, come ogni buon padre di famiglia, di “risparmiare”.

Successivamente, nel 1595, il patrizio Giacomo Foscarini, convinto sostenitore della linea del predecessore Priuli, fece nominare 3 nuovi provveditori per l’affrancazione dei Monti Novissimo (2,4 milioni di ducati) e Sussidio (1,2 milioni di ducati). Anche in questo caso si diede fondo alla raccolta fiscale ed alle dismissioni di beni pubblici. Nell’anno 1600 si iniziò a ridurre, con gli stessi meccanismi, anche il “Monte Vecchio” (0,9 milioni di ducati).
Pare che intorno all’anno 1620 la restituzione di tutti i debiti fosse stata completata.
Fra il 1574 ed il 1620 Venezia aveva rimesso “sul mercato privato” circa 8,5 milioni di ducati.

Il sogno di tutti i governanti europei del XXI secolo, quello di pagare e di estinguere il debito pubblico, fu attuato concretamente per la prima ed unica volta nella storia proprio dalla Repubblica di Venezia.
Ma non sempre è tutto bene ciò che finisce bene.

I ricchi mercanti veneziani, che da secoli investivano i loro denari depositandoli in Zecca ad interessi (in sostanza acquistando dei titoli di stato, come diremmo oggi). Prima in Zecca affluivano i proventi dei commerci, ma anche le doti delle mogli. E vi venivano depositate le doti delle figlie per il futuro matrimonio.
Viste le crescenti difficoltà dei commerci con l’Oriente, causate dagli ostacoli posti dall’Impero Ottomano, ma anche dalla concorrenza subita dai commerci con le Americhe gestiti da spagnoli, inglesi ed olandesi, sempre più veneziani avevano cercato rifugio negli investimenti senza rischi presso la Zecca pubblica.
Ma ora il servizio pubblico della Zecca non era più disponibile.
Pertanto i ricchi veneziani si videro obbligati ad investire diversamente le proprie ricchezze.
Il Priuli aveva previsto che quei soldi sarebbero stati investiti, come ai vecchi tempi, in attività commerciali. Ma si era sbagliato. Quei tempi stavano finendo.
I ricchi veneziani scelsero, invece, di dedicarsi ad investimenti immobiliari sulla terra ferma. Si cita l’esempio di un  certo stampatore Lucantonio Giunti, dopo essersi per tutta la vita dedicato ad altre attività economiche, fra il 1585 e il 1601 investì nell’acquisto di almeno 225 campi e di immobili urbani, al punto da raddoppiare nel giro di soli 16 anni il patrimonio fondiario che aveva ereditato.

Altri fondi furono semplicemente investiti in altre attività finanziarie. Entrarono in contatto con i banchieri fiorentini e genovesi che lucravano nel mercato dei cambi e del credito “internazionale”, prestando denaro ai vari sovrani di tutta Europa. O semplicemente depositarono i propri denari presso le casse di altre città: Roma, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Vienna. Oppure finirono a finanziare le attività del credito ad usura.
A soffrire maggiormente furono gli enti ecclesiastici, che non erano strutturati per diversificare gli investimenti in denaro, acquistando fondi immobiliari e affidando i loro fondi ad istituti finanziari di altre città.

Questi flussi di capitali al di fuori della Serenissima portarono alla riduzione della liquidità nelle casse dello stato, quindi alla riduzione degli investimenti pubblici e degli affari in città, quindi delle entrate fiscali. Per questo furono via via introdotte nuove tasse per far quadrare il bilancio.
Nessun vantaggio arrivò dall’estinzione del debito pubblico, né ai cittadini veneziani, né ai ricchi della classe patrizia.

Nel frattempo continuavano le pressioni dei ricchi investitori affinché lo stato veneziano non fosse da meno dei “concorrenti” genovesi nel fare prestiti ai sovrani stranieri. Ad esempio negli anni 1616-1617 i soldi del “Deposito Grande” furono utilizzati per fare un prestito di 1,75 milioni di ducati al duca Carlo Emanuele I di Savoia per finanziare la sua guerra contro la Spagna. L’attività si era rivelata piuttosto redditizia, per cui gli stessi ricchi veneziani chiedevano di poter versare i loro fondi nel “Deposito”, affinché venissero usati per fare prestiti ad interesse ai vari sovrani europei.

Per questi motivi, negli anni successivi al 1620, gradualmente, ma a grande richiesta, fu ripristinato il servizio pubblico del debito, che consentiva di mantenere sufficientemente bassa la tassazione e di offrire un servizio pubblico di risparmio apprezzato da molti. Tuttavia il danno era stato fatto. I decenni di “politiche di austerità” (come le chiameremmo oggi) e le grosse perdite di capitali subite da Venezia lasciarono dei segni permanenti, contribuendo all’inevitabile declino della Repubblica che aveva prosperato come città più ricca d’Europa per 1000 anni.

L’esperto di finanze Zuan Francesco Priuli ed il suo successore Giacomo Foscarini non avevano compreso la funzione del debito pubblico in uno stato. Lo stato non è una famiglia che deve rimborsare i debiti. Non è una famiglia che deve risparmiare per i tempi a venire.
Il “debito pubblico” non è altro che una cassa comune nella quale i risparmiatori versano i loro risparmi. Da un lato i cittadini usufruiscono di un servizio pubblico di risparmio privo di rischi, utile per chi non fa l’investitore finanziario di mestiere. Dall’altro lato lo Stato dispone di un fondo cassa comune a cui attingere per finanziare le proprie attività a beneficio della collettività che consente di mantenere basso il carico fiscale.
Per comprendere il concetto è sufficiente guardare al bilancio dello Stato italiano.

Nel 2021 la previsione è di incassare complessivamente 579’980 milioni di euro.
Le spese “utili al popolo”, che sono le spese correnti più le spese in conto capitale, sono pari a 580’095 + 111’860 = 691’956 milioni di euro.
E’ vero che il debito pubblico ci “costa” 81’507 milioni di interessi, ma se non ci fosse il debito pubblico, mancherebbero a bilancio 691’956 – 579’980 = 111’976 milioni di euro che ci arrivano dal “fondo cassa comune” del debito pubblico.
Se non avessimo il debito pubblico, gli italiani dovrebbero pagare 112 miliardi di euro in più di tasse. Se le entrate fiscali oggi sono di 505 miliardi di euro, significherebbe un aumento delle tasse del 22% rispetto ad oggi, sapendo che già l’Italia è fra i primi posti al mondo in termini di pressione fiscale.

Inoltre, se non ci fosse il debito pubblico, gli italiani non saprebbero dove fare investimenti sicuri e privi di rischi.
Se lo Stato Italiano, come lo fu la Repubblica di Venezia per secoli, è un fornitore di servizio pubblico di risparmio, allora la riduzione o la cancellazione del debito pubblico significherebbe la cancellazione del servizio pubblico di risparmio.
Come se tutte le banche presso le quale teniamo i nostri risparmi ce li restituissero dicendo “tenetevi indietro i vostri soldi, fatene cosa volete”. A quel punto i risparmiatori non potrebbero che rivolgersi a banche estere o a nazioni estere per richiedere un simile servizio di risparmio.
In una situazione del genere girerebbero molti meno soldi in Italia per gli investimenti privati supportati dalle banche e perderemmo, di conseguenza, anche tutti i benefici derivanti dalla realizzazione di quei beni e servizi, diventando più poveri.

Quindi chi propone di “ridurre il debito pubblico”, se non proprio di estinguerlo, dimostra di non avere capito che cosa è il debito pubblico, così come non lo aveva capito Zuan Francesco Priuli.
Chi, con nozione di causa, ha proposto ed ottenuto che nei trattati europei fosse prevista la riduzione del debito pubblico, lo ha fatto precisamente per spingere gli investitori a rivolgersi al settore del risparmio e degli investimenti privati ovvero verso le banche private, a tutto vantaggio dei gruppi finanziari che le possiedono.

Come già era avvenuto a Venezia, il risultato di 30 anni di politiche di riduzione del debito pubblico sono stati un progressivo aumento delle tasse, unito alla dismissione di beni pubblici, alla riduzione dei servizi pubblici ed all’aumento della liquidità circolante nella “finanza estera”.
Se agli inizi del 1600 la “finanza estera” erano altre città rispetto a Venezia, oggi la “finanza estera” sono i mercati finanziari internazionali, i luoghi in cui gli investimenti rendono di più, che sono in genere i luoghi in cui gli investitori non pagano le tasse, non devono rispettare i diritti umani, non devono preoccuparsi di rispettare l’ambiente. Esattamente i fattori che consentono di massimizzare le rendite.
Se, invece, gi investimenti fossero centrati sulla finanza pubblica, avremmo la possibilità di indirizzarli secondo le finalità politiche di redistribuzione delal ricchezza (che è lo scopo delle tasse), di rispetto dei diritti umani e dell’ambiente.

In conclusione il debito pubblico non è quella “cosa cattiva” di cui ci parlano ogni giorno su tv e giornali, ma è un prezioso strumento per la collettività, da salvaguardare e da gestire al meglio, magari con il supporto di una banca centrale pubblica, come lo era la Zecca della Serenissima.

pubblicato anche su https://www.sovranitapopolare.org/2021/05/14/come-zuan-francesco-priuli-nel-1577-non-risolse-il-problema-del-debito-pubblico-di-venezia/

Per tutti voi imprenditori: una voce per non sentirvi soli di Alessio Bini

Riceviamo e pubblichiamo_La Redazione

 

Per tutti voi imprenditori: una voce per non sentirvi soli

di Alessio Bini

Ci chiamano aziende zombie, oppure falliti.
Se invece qualcuno di noi è ancora aperto lo bollano come evasore, con mucchietti di soldi sotto al materasso. Come se poi fosse comodo dormire con mucchietti di carta che formano dei bozzi duri sotto al materasso.
In realtà, sappiamo che i nostri sonni sono turbati da altri problemi: come pagare le tasse, per esempio, che maturano nonostante i guadagni non ci siano. Oppure come pagare i dipendenti, che anche se hanno la Cassa Integrazione i pagamenti arrivano troppo tardi. O infine cosa raccontare questa volta al direttore di banca che ci chiede di versare giusto qualche centinaio di euro per rientrare sul conto…e i clienti continuano a non entrare a causa della pandemia e anche a causa della crisi che c’era anche prima del virus e che con cui abbiamo imparato a convivere dal 2008, ormai.

Se ti senti stanco di essere il punto di riferimento di tutti, quando punti di riferimento non ce ne sono più, puoi rivolgerti al nostro “Sportello per imprenditori”. Ti aiuteremo a trovare una strada, dandoti consigli utili “non convenzionali”, ma sempre nel rispetto della legge.
Noi vogliamo salvare gli imprenditori.
Lo Stato dice la massimo di voler salvare le imprese.

Per prenotarti, scrivi a segreteria@italiachelavora.org e se vuoi lascia il tuo numero di telefono. Verrà fissato un appuntamento per una call su WhatsApp.

Seguiranno altre iniziative importanti in favore delle imprese. Vsitate il nostro sito internet, per conoscerci: www.italiachelavora.org

Ecco il manifesto della nostra associazione Italia Che Lavora:

  1. Intendiamo dare voce, tutti insieme, a tutti i lavoratori autonomi e delle piccole imprese, nei confronti della politica e delle istituzioni pubbliche, per avere garantiti i nostri diritti.
    2. I lavoratori autonomi e delle piccole imprese sono cittadini e lavoratori come tutti gli altri. Hanno diritto di godere dei diritti garantiti dalla costituzione, in particolare:
    * Art. 1 – L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
    * Art. 4 – La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
    * Art. 35 – La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.
    * Art. 36 – Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunciarvi.
    * Art. 53 – Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.
  2. Intendiamo a garantire a tutti i lavoratori in partita IVA gli stessi diritti dei lavoratori dipendenti del settore privato e del settore pubblico: diritto alla salute, diritto ad avere tempo per i propri affetti, diritto ad un reddito che consenta di vivere.
  3. Intendiamo porre fine alla persecuzione fiscale dello Stato nei confronti delle partite IVA. Riduzione delle tasse: prima diamo da mangiare ai nostri figli, poi paghiamo le tasse su quello che resta. Una reale semplificazione fiscale: massimo una scadenza l’anno per gli autonomi e le piccole imprese. Spostare la tassazione dal lavoro ai grandi capitali ed alle multinazionali.
  4. Intendiamo ridurre la burocrazia: meno carta e più sostanza. Leggi semplici, chiare, scritte in modo comprensibile per tutti.
  5. Intendiamo difendere il piccolo commercio, che tiene vivi i nostri quartieri e i nostri paesi. Basta con la grande distribuzione. Basta con la concorrenza sleale delle multinazionali che non pagano le tasse.
  6. Intendiamo difendere le partite IVA dai soprusi delle banche. Salvaguardare la prima casa dalla possibilità di pignoramento.
  7. Intendiamo difendere le partite IVA dai soprusi delle grandi società fornitrici di servizi (energia, telefonia, autostrade, ecc.)
  8. Intendiamo offrire ai nostri iscritti consulenze di base e specialistiche su questioni fiscali, contenziosi con le banche, rapporti con le società erogatrici di servizi.

 

I disastri sanitari della gestione della pandemia in Italia, di Davide Gionco

I disastri sanitari della gestione della pandemia in Italia
Davide Gionco
08.04.2021

Dopo 14 mesi di pandemia del covid-19, cerchiamo di fare il punto della situazione sanitaria in Italia. Non dal punto di vista di un medico professionista, ma dal punto di vista di un cittadino che cerca di informarsi e di ragionare su quello che vede.

La prima constatazione è che, pur avendo l’ISTAT registrato un aumento del tasso di mortalità del 15% rispetto agli anni precedenti, l’aumento sarebbe probabilmente passato inosservato, se non ci fosse stato l’amplificatore dei mass media.

Se questo virus fosse arrivano 30 anni fa, nessuno si sarebbe accorto di nulla, in quanto ci sono sempre state delle oscillazioni statistiche sul numero annuale di morti. Chi viene a sapere della morte di una persona cara a motivo di malattia non ha la percezione dell’incremento statistico complessivo del numero di decessi in un intero paese. Se non ci avessero detto nulla, avremmo continuato a vivere normalmente.

Se il coronavirus fosse arrivato 30 anni fa sarebbe stato trattato come una influenza “più virulenta” fra quelle che ciclicamente. La febbre asiatica degli anni ’50 fece molti più danni del covid-19, per intenderci, perché colpì soprattutto i bambini, segnandoli per tutta la vita. Una mia zia, colpita dall’asiatica quando aveva 4 anni, rimase colpita al cervello è rimasta debilitata mentalmente, causando 44 anni di progressivo decadimento fisico e di crescente disabilità, fino alla morte.

La situazione ci è stata presentata come “senza precedenti” dai mass media, i quali l’hanno da subito presentata come una malattia pericolosa e incurabile, tale da giustificare i ripetuti lockdown, con gravissimi danni all’economia e impedendo a molta gente di analizzare in modo ragionevole la situazione.
E’ una delle famose tecniche di manipolazione delle masse: “Crea il problema ed offri l'(unica) soluzione”.

Non ci hanno mai detto che avremmo probabilmente evitato i 3/4 dei morti se:

1) Se avessimo avuto il piano pandemico nazionale aggiornato. Il piano pandemico esistente risaliva addirittura al 2006. E nel 2016 Matteo Renzi aveva fatto chiudere il CNESPS, istituto specializzato nella individuazione tempestiva delle epidemie. Un’azione tempestiva del CNEPS avrebbe probabilmente consentito di confinare l’epidemia fin dagli inizi, evitando che si diffondesse in tutta Europa.

2) Se avessimo avuto come dirigenti presso il Ministero della Sanità (da Roberto Speranza in giù) e presso le aziende sanitarie pubbliche territoriali delle persone assunte per le loro competenze e capacità e non i soliti “amici dei politici”.

3) Se non avessimo tagliato decine di miliardi sulla spesa sanitaria, riducendo i posti letto per le cure, il personale, i macchinari, la formazione.

4) Se non avessimo trasformato i medici di famiglia in passacarte per indirizzare i pazienti verso le strutture specialistiche, mentre una volta erano responsabili delle prime cure domiciliari in caso di malattia.

5) Se non avessimo imposto da qualche decennio il numero chiuso nelle facoltà di medicina e limitato le assunzioni di infermieri, riducendo il numero di personale sanitario disponibile per le cure. Per formare un medico servono 10-15 anni di studi. Non è cosa che si può improvvisare quando arriva una pandemia. Ci si deve pensare per tempo, almeno 10-15 anni prima. Ovvero: abbiamo bisogno permanentemente di più medici e di più infermieri.

6) Se in questi mesi avessimo assunto più personale sanitario, ora dovremmo temere molto meno l’afflusso di persone nelle terapie intensive. E ci sarebbero risorse per curare adeguatamente le persone colpite da altre patologie. E non si trovi la scusa della mancanza di soldi, dato che per il 2020 e il 2021 la UE ha concesso di sforare i limiti al deficit pubblico, per cui per avere soldi basta chiederli alla BCE.

7) Se, dopo oltre un anno dall’arrivo della pandemia, avessimo aggiornato i protocolli di cura domiciliare per le persone con sintomi da covid-19, sulla base delle esperienze di molti medici. Come ad esempio quelli del Movimento Ippocrate, che hanno sviluppato dei protocolli di cura basate sul trattamento precoce della malattia. Purtroppo, dopo oltre un anno di esperienze, i protocolli di cura sono sempre gli stessi, basati sull’attesa dello sviluppo dei sintomi e sui tamponi. Sono i protocolli che hanno portato decine di migliaia di persone nelle terapie intensive ed alla morte. Sbagliare è umano, quando la malattia non è conosciuta, ma perseverare…

8) Se in televisione avessero spiegato ogni giorno, anziché martellare inutilmente la gente con i soliti bollettini di guerra, che il covid-19 si combatte prima di tutto con la prevenzione, fatta di costante assunzione di vitamina C e D, disponibili per tutti a costi molto accessibili, e fatta di permanenza il più possibile all’aria aperta ed al sole (anziché tenere la gente chiusa in casa).

9) Se in televisione ci avessero spiegato la differenza fra le mascherine FFP2 e le mascherine chirurgiche.
Le mascherine FFP2 sono di tipo passivo ovvero “filtrano” l’aria che respiriamo, riducendo del 95% la quantità di agenti patogeni che ci colpiscono tramite la respirazione. Sono mascherine che ci proteggono dal contagio. Ideali per le categorie a rischio di morte per covid (anziani, malati di altre patologie), per ridurre il rischio che vengano contagiati.
Le mascherine chirurgiche, invece, riducono del 95% la quantità di agenti patogeni che emettiamo verso l’ambiente tramite la nostra espirazione. Sono mascherine che riducono la contagiosità verso gli altri delle persone infettate. Ideali per le categorie non a rischio di morte per covid (probabilmente almeno l’80% della popolazione), per ridurre la diffusione della malattia.
Tutto questo non è mai stato spiegato, per cui abbiamo dotato gli anziani di mascherine chirurgiche che non li proteggono dal contagio ed abbiamo dotato molti giovani sani di mascherine FFP2, che non hanno impedito il diffondersi della malattia.

10) Se avessimo spiegato per evitare i contagi per contatto con superfici infettate è opportuno disinfettarsi le mani non solo all’entrata dei supermercati, ma soprattutto all’uscita, per non portarsi dietro i virus raccolti toccando le superfici infettate da altri. Eppure continuiamo a trovare il gel disinfettante solo all’ingresso e non all’uscita dei punti vendita e dei mezzi di trasporto.

11) Se avessimo (dopo un anno) raddoppiato il numero dei mezzi pubblici di trasporto, magari assumendo gli autisti licenziati dei servizi turistici, si sarebbe dimezzato l’indice di affollamento dei mezzi di trasporto pubblico, riducendo i rischi di contagio. Ma non è stato fatto,

Si potrebbe continuare con l’elenco…

La responsabilità di tutto questo, con le decine di migliaia di morti che ne sono seguiti, non è della fatalità, né del popolo italiano. La responsabilità è della classe dirigente che ha governato e che governa tutt’ora il nostro Paese. Persone che, per incompetenza o mala fede, hanno preso le decisioni sbagliate, senza preoccuparsi delle conseguenze e senza farsene carico. Il risultato è stato un tasso per mortalità per covid-19 fra i più elevati d’Europa.

Nel contempo i mezzi di informazione, altrettanto asserviti alla classe di potere, anziché svolgere un corretto servizio di informazione e di controllo critico sul disastroso operato della classe dirigente, hanno dedicato gli ultimi 14 mesi di informazione unicamente a colpevolizzare gli italiani come unici responsabili di quanto accaduto.
Misure di limitazione delle libertà personali prive di fondamento costituzionale e medico-scientifico, come il divieto di uscire di casa fra le 22 e le 5 del mattino o di varcare il pericoloso confine fra una regione e l’altra sono state costantemente sostenute come “normali” dai mezzi di informazione. Questo mentre paesi “normali” e guidati da politici più seri, come la vicina Svizzera, hanno giustamente vietato unicamente gli assembramenti fra persone estranee e non gli spostamenti. Il contagio, infatti, non avviene quando le persone si spostano, ma solo quando si avvicinano fra loro.
Ci hanno trattati da bambini, come se fossimo un popolo di pecore.

Per quale motivo fra le soluzioni molteplici prospettate non ce n’è nessuna di quelle sopra elencate, ma si propone come una via di uscita possibile la vaccinazione di 60 milioni di italiani, fra i quali almeno 50 milioni di persone sane, che non correrebbero alcun rischio ad essere contagiate dal virus, se curate per temo.
Non era mai storicamente accaduto che venissero isolati i sani per proteggere i malati.
Non era mai storicamente accaduto che si vaccinasse una intera popolazione somministrando dei prodotti sperimentali di ingegneria genetica (quelli di Pfizer & c. non hanno nulla a che vedere con i vaccini tradizionali). Sperimentali, perché non c’è stato il tempo di testarli.
Non era mai accaduto che si sottoponesse una intera popolazione sana ai rischi della vaccinazione, con una malattia avente un tasso di mortalità molto basso fra le persone non a rischio.

(Fonte: Dati ISS)

Non era mai accaduto che si volesse imporre agli operatori sanitari (e in futuro forse a tutta la popolazione) di assumere un vaccino che non riduce in alcun modo i rischi di contagio verso altri. Gli attuali vaccini garantiscono (probabilmente) un decorso sostenibile della malattia, ma non evitano la trasmissione verso terzi nel caso si sia contagiati.

Ricordiamoci di tutto questo, la prossima volta che andremo a votare.

E, nel frattempo, chiediamoci il perché di tutto questo.

NB_apparso anche su https://www.sovranitapopolare.org/2021/04/08/i-disastri-sanitari-della-gestione-della-pandemia-in-italia/

Per paura di morire, abbiamo smesso di vivere_ di Davide Gionco

Per paura di morire, abbiamo smesso di vivere
di Davide Gionco

La perdurante campagna di terrorismo mediatico intorno alla pandemia del covid-19 (perché se fosse informazione corretta, sarebbe un’altra cosa) fa leva sul nostro istinto di sopravvivenza: se so che una certa azione comporta dei rischi per la mia incolumità, la evito. Si tratta di un atteggiamento che funziona bene nel caso di un pericolo immediato, come il rischio di un incidente stradale, ma che non sempre porta dei vantaggi nel caso di situazioni che perdurano nel tempo.
Un esempio classico è quello del fumo: tutti sanno che fumare fa male e che riduce la speranza di vita, tuttavia molti fumano (per la cronaca: non sono un fumatore), perché ritengono che fumare sia un “piacere della vita”, che la rende più piacevole, anche se forse più breve. Tutti sanno che un’alimentazione sana unita ad una regolare attività fisica è qualcosa che può allungare la vita, ma molte persone preferiscono alimentarsi con cibi più saporiti (anche se meno sani) e non affaticarsi a fare sport, preferendo altre attività ritenute più piacevoli. Tutti sanno che è pericoloso viaggiare, tuttavia molte persone viaggiano, perché viaggiare consente di lavorare, di rendere visita a persone care, di gustare qualche splendido angolo del mondo.
Il famoso filosofo Epicuro di Samo (341-270 a.C.) si era giustamente occupato del ruolo del piacere nella vita umana. Non siamo dei vegetali che devono sopravvivere, ma delle persone che desiderano vivere, riempire la propria esistenza di esperienze piacevoli che rendano la vita degna di essere vissuta.
Ho conosciuto una signora che era terrorizzata dai “microbi” che avrebbero potuto far ammalare i suoi figli. Per questo non lasciava mai i figli uscire di casa, per ridurre i rischi di malattie. Alla fine i figli si ammalarono comunque, una volta diventati adulti. E in compenso crebbero come delle persone tristi ed asociali, perché per evitare le malattie avevano sistematicamente evitato di tessere relazioni sociali.

Gli gnu della savana sanno che per vivere (nutrirsi, accoppiarsi, riprodursi) dovranno passare dall’altra parte del fiume, dove li attendono i verdi pascoli. Per questo motivo non esitano ad attraversare il fiume infestato dai coccodrilli. Sanno che qualcuno morirà (il quale lotterà per non soccombere), ma sanno anche che è il prezzo da pagare per continuare a vivere.

E noi essere umani, come ci siamo ridotti dopo un anno di pandemia e di misure di confinamento?
Abbiamo ridotto ai minimi termini le nostre relazioni sociali, proprio noi che siamo la specie sociale per eccellenza: chiusi in casa per evitare i rischi del contagio, senza potere scherzare (o piangere) con gli amici, senza poter corteggiare una ragazza di cui ci siamo innamorati, senza poter partecipare al funerale di una persona cara deceduta (sì, siamo arrivati anche a questo), senza poterci gustare un’opera d’arte o un concerto musicale, senza poter andare al mare a godersi il tramonto sulla spiaggia.
Si tratta di attività definite “non essenziali”, senza le quali, però, nessuno di noi potrebbe vivere. Se i nostri genitori non si fossero innamorati in occasione di attività “non essenziali” (un ballo, una vacanza al mare, in pizzeria, tutte cose oggi rigorosamente vietate in nome del covid…), non ci avrebbero messi al mondo e nessuno di noi oggi esisterebbe. Le attività legate alla socializzazione sono quindi più che mai essenziali per l’esistenza degli essere umani e per la perpetuazione della nostra specie.

Stiamo smettendo di fare all’amore. Secondo uno studio che ha coinvolto 500 italiani fra i 16 ed i 55 anni, lo stress generato al terrore sociale e dalle misure di confinamento ha portato ad un calo del desiderio sessuale, con conseguente riduzione dei rapporti. Fare all’amore con la persona che si ama è una attività essenziale o non essenziale?

Stiamo smettendo di fare figli. Nel 2020 ci sono stati circa 80 mila morti in più rispetto alla media, ma nessuno ha fatto notare come ci siano stati 160 mila nati in meno rispetto al 2010 (nostra stima, in attesa dei dati ufficiali ISTAT per il 2020). Questo processo di denatalità è peraltro in atto da molti anni, probabilmente causato dalle paure e dalle incertezze della persistente crisi economica, perché sempre meno giovani coppie osano investire nel futuro. Se giustamente intendiamo salvare dal covid-19 le persone anziane che abbiamo a cuore, per quale motivo abbiamo rinunciato a dare origine a nuove vite? Il fatto di non mettere al mondo dei figli, che certamente saprebbero riempire di gioia la vita degli adulti, oltre che garantire un futuro alla nostra società, significa privarsi di affetti fondamentali per la nostra esistenza, probabilmente molto di più di quanto lo siano gli affetti verso le persone anziane delle quali prolungheremo la vita grazie alle misure anti-covid.
Anche se, ovviamente, non si tratta di numeri comparabili, vale di più prolungare di qualche anno la vita delle persone anziane o mettere al mondo dei nuovi bambini che le sostituiscono, secondo come ha previsto Madre Natura? Che senso ha attuare misure di restrizione sociale anti-covid (unite al terrorismo mediatico) che consentono di salvare alcune decine di migliaia di vite di persone anziane, se poi questo ci costa, socialmente parlando, una riduzione del numero delle nascite di nuovi bambini? Oltre a danni sociali difficilmente misurabili in tutta la società.

Ogni anno in Italia muoiono circa 70 mila persone per le conseguenze del fumo (il “piacere della vita” sopra citato). Nessuno se ne scandalizza, eppure potremmo evitare queste morti con un ferreo divieto del fumo in Italia, che sarebbe certamente molto meno devastante, dal punto di vista sociale, delle limitazioni imposte per evitare un numero eccessivo di morti per covid-19.
Ogni anno muoiono in Italia circa 40 mila persone per le conseguenze dell’alcolismo. Nessuno se ne scandalizza. Perché non si vieta in modo assoluto il consumo di alcool? Non lo si fa, perché l’alcool, se assunto con moderazione, è uno dei piaceri della vita, ma un divieto assoluto dell’alcol sarebbe socialmente meno dannoso dell’attuale lockdown.

Con le restrizioni anti-covid abbiamo sostanzialmente sospeso ogni iniziativa di tipo economico: chi mai può pensare (a parte Jeff Bezos, che ci sta guadagnando con le vendite online) di fare investimenti economici in un periodo portatore di tutte queste incertezze per il futuro?
E’ stata uccisa la speranza in un futuro migliore, ciò che dà sapore alla vita che viviamo. Siamo stati ridotti a vegetali da mantenere in vita, mentre prima eravamo persone che vivevano.

In tutta la sua storia l’umanità ha affrontato numerose pandemie, anche molto più gravi di quella attuale, senza per questo mai cessare di godersi la vita, di fare figli e di investire nel futuro. La naturale paura di morire non ha mai portato a smettere di vivere, riducendosi a sopravvivere. Agli eventi della vita, comprese guerre e malattie.

Non si tratta di un discorso cinico, ma del significato e della qualità della nostra vita: fino a che punto ha senso che una intera società RINUNCI A VIVERE, per mesi e mesi, senza prospettive, solo per ridurre l’incidenza di una delle molte cause di morte fra la popolazione?
E’ qualche cosa che ricorda la situazione di persone che sono state rapite, rinchiuse in carcere a vita o detenute in confino, le quali sono ridotte a vivere alla giornata, senza poter guardare al futuro, senza poter sognare qualcosa che possa dare senso alla loro vita. La speranza viene ridotta all’attesa che la situazione di reclusione finisca, senza alcuna idea su quello che seguirà.

Il coronavirus in un anno ha fatto 80 mila morti su di una popolazione di 60 milioni di abitanti, il che significa lo 0,13% di morti per questa malattia. Se non ci fossero state le misure restrittive, ma sono misure mirate a proteggere le persone a rischio, supponiamo che saremmo arrivati ad un tasso di mortalità dello 0,2% (120 mila morti). Evitare la morte dello 0,2% della popolazione vale il prezzo della distruzione della socialità, del senso di vivere delle restanti 59’780’000 persone?

Forse dietro a tutto questo c’è una visione egoistica della vita: abbiamo paura di morire, abbiamo paura che muoiano i nostri cari. Per questo preferiamo imporre a tutti quanti di smettere di vivere, per ridurre il rischio a nostro carico di dover soffrire.
Anche io ho toccato con mano la morte di persone care a causa del covid, anche io sto attento a non contagiare le persone a rischio, per rispetto della salute di quelle persone. Ma per questo non mi sento in diritto di mancare rispetto alla stragrande maggioranza di persone “non a rischio”, privandole del mio apporto di socialità, di vita piena.

Mi auguro che queste riflessioni aiutino a superare la sterile contrapposizione “normali contro negazionisti” o “vaccinisti contro antivaccinisti”. Non è questo il punto. Il punto è che, senza accorgercene, stiamo diventando persone disumane, perché stiamo reprimendo la nostra umanità in nome delle misure di prevenzione anti-covid. Siamo davvero sicuri che il prezzo che pagheremo per questo, alla fine, non sia ben più alto di quello che avremo guadagnato?

NB apparso anche su https://www.sovranitapopolare.org/2021/03/06/per-paura-di-morire-abbiamo-smesso-di-vivere/

La trappola delle cose gratuite, di Davide Gionco

 

La trappola delle cose gratuite

Di Davide Gionco
07.02.2021

Che cosa spinge un topolino a farsi prendere dalla trappola, dopo avere rosicchiato il pezzo di formaggio? Che cosa spinge un pesce a mangiare l’esca, per poi finire pescato e, a sua volta, mangiato da un essere umano?
In entrambi i casi il movente è la certezza di avere un pasto gratis, senza rischi. Insieme ad una mancata valutazione delle conseguenze. E’ noto che il topolino ed il pesce vengono ingannati e fanno una brutta fine, negli interessi dell’essere umano che voleva catturarli.

Il famoso generale cinese Sun-Tzu diceva chiaramente “Ricorda: la guerra si fonda sull’inganno“.
Chi vuole catturare il topo con una trappola, sceglie un cibo irresistibile per il topo ed una posizione per la trappola comoda da raggiungere. Un bravo pescatore sa scegliere un’esca irresistibile per i pesci e si mette a pescare dove sa che i pesci passeranno.
E’ il modo migliore per catturare il topo, il miglior modo per pescare il pesce. E’ il migliore modo per vincere la guerra, se sei un generale.
E’ il migliore modo per piegare la gente ai propri interessi economici (e magari politici), se sei una multinazionale, indirizzando le (credute) libere scelte di milioni di persone verso situazioni sconvenienti per loro e convenienti per la multinazionale.

Il cuore della trappola è una perfetta preparazione dell’esca.

Cosa c’è di più allettante di una televisione gratuita, che ci offre in prima serata programmi che stuzzicano i nostri istinti? Storie strappalacrime, immagini sensuali, spettacoli leggeri e divertenti, che non impegnano la mente?
Cosa di più rassicurante di una informazione martellante e unanime, che ripropone sempre la stessa narrativa sul mondo, affinché non dobbiamo fare la fatica di mettere in discussione le nostre convinzioni ed attivare il nostro senso critico?
E il tutto senza pagare: l’esca perfetta.

A parte il fatto che, ovviamente, il prezzo lo paghiamo, da qualche parte, dato che tutto quello che ci fanno vedere comporta dei costi coperti dall’acquisto dei prodotti reclamizzati, più costosi (per pagare la pubblicità) e di cui probabilmente non avremmo mai avuto bisogno.
“Gratis”, però, non riguarda tanto il prezzo economico, quanto soprattutto lo sforzo mentale che (non) dobbiamo fare per renderci conto della situazione.

Se il pesce si fermasse ad osservare per capire il meccanismo esca+amo+lenza, si guarderebbe bene dall’abboccare. Invece non si ferma a riflettere: vede l’esca da mangiare, abbocca e viene pescato.
Lo stesso avviene nel mondo dei mass media.
Il vero prezzo che paghiamo è essere portati a credere alla rappresentazione acritica della realtà che “ci viene venduta gratis”.  Tutto semplice da capire, poco da ragionare, una comunicazione ripetitiva e coerente che non fa venire dubbi. Tale rappresentazione è molto spesso funzionale a tutelare gli interessi del famoso “uno per cento del mondo“, quello che diventa sempre più ricco, mentre gli altri diventano sempre più poveri.

Facciamo qualche esempio recente.

Nel corso delle ultime elezioni presidenziali negli USA quale narrativa ci è stata proposta? Mentre il “candidato presidente cattivo” Donald Trump ci veniva presentato con molti aspetti negativi, il “candidato presidente buono” Joe Biden veniva presentato come il candidato senza difetti, senza nulla ceccepire sul suo sostegno alla guerra in Irak (che, secondo la rivista The Lancet, ha complessivamente causato 790 mila morti), sul suo voto favorevole alla guerra in Serbia, in Libia e infine in Siria. E, naturalmente, tutti contenti perché, alla fine, il buono ha vinto ed il cattivo ha perso.
Facile: il buono vince, il cattivo perde (come nei vecchi film). Il formaggio è buono e il topo è preso dalla trappola.
In questi giorni il presidente Sergio Mattarella ha incaricato Mario Draghi per la formazione di un nuovo governo. Tutte le televisioni e i giornali, unanimi, continuano a rivolgere elogi sperticati all’ex governatore della Banca Centrale Europea, senza neppure una voce critica. Nessuna voce critica sul passato di Draghi, sulle conseguenze sociali delle privatizzazioni da lui promosse quando era al Tesoro, sulle sue dichiarate intenzioni di adottare le solite dottrine neoliberiste per l’economia italiana, le stesse che hanno prodotto povertà e disoccupazione in tutto il mondo, come sempre a favore del solito 1% del mondo.
Non si tratta di essere “pro” o “contro” il Biden di turno o il Draghi di turno, ma si tratta di un sistema di informazione “gratuito” (mentalmente non impegnativo) che, deliberatamente, ci presenta una narrativa totalmente acritica e molto distante dalla realtà. E lo fa per perseguire obiettivi ben precisi, senza stimolare il nostro senso critico per esprimere un nostro giudizio sulla realtà, perché se venisse risvegliato il nostro senso critico, potremmo assumere una opinione diversa da quella desiderata da chi decide come fare l’informazione.

Il meccanismo si ripropone con i social media, che ci troviamo comodi sul telefonino, che ci consentono di condividere contenuti con amici in tutto il mondo…
Anche in questo caso, ovviamente, i costi di funzionamento di questi servizi, come pure gli utili miliardari di chi li possiede, ovviamente li paghiamo quando acquistiamo i prodotti che ci hanno proposto, dopo avere conosciuto i nostri gusti (i famosi like  = mi piace).
Ma non solo. Pensavamo di poter disporre di un comodo sistema per essere informati sulla realtà, indipendente dai mass media, dove ciascuno può “dire la sua”. Peccato che gli algoritmi di funzionamento dei social media limitino il nostro accesso alle notizie “diverse da come la pensiamo” tramite le cosiddette “bolle di filtraggio” (filter bubble). L’effetto non è molto diverso da quello del coro unico delle televisioni.
I social media preferiscono darci conferme sulle idee che già abbiamo (spesso provenienti dalle televisioni e dai principali giornali), piuttosto che farci confrontare con idee fuori dal coro. Se poi qualcuno, dal loro punto di vista, esagera, i vari Facebook, Twitter, Youtube, Instagram, ecc. applicano sempre di più la censura unilaterale delle notizie che ritengono che non debbano essere diffuse. Esattamente come avveniva ai tempi del fascismo, quando le notizie da censurare erano quelle che criticavano il regime. Ricordiamoci che, ai tempi del fascismo, erano giudicate “fake news” le critiche alla guerra in Etiopia (con uso di armi chimiche) ed alle leggi razziali.
Anche Google, che si presenta come un motore di ricerca “tecnico”, neutro, gratuito ed efficiente, in realtà decide che cosa dobbiamo trovare, cosa no e in quale ordine. Ci dà la sensazione di navigare liberi su internet come potremmo fare andando a spasso in una città, ma in realtà ci sono zone della “città virtuale” che ci sono precluse, sconosciute e, quindi, di fatto inaccessibili, senza che noi neppure ce ne rendiamo conto.

Ma la trappola più pericolosa di tutte, nella quale stiamo incoscientemente cadendo, viene dal settore del commercio. Amazon e Alibaba continuano a proporre ai consumatori prodotti a prezzi decisamente inferiori a quelli dei negozi, tempi di consegna rapidi e direttamente a casa, vasta gamma di scelta: davvero sembra non esserci competizione. Anche perché Amazon paga poco o nulla di tasse, a differenza dei suoi concorrenti che vendono tramite negozi fisici sul territorio o anche online, ma senza usufruire dei vantaggi fiscali delle multinazionali.
Anche in questo caso il pezzo di formaggio è molto allettante: un gran numero di italiani si indirizza verso queste forme di vendita, guardando solo ai vantaggi a breve termine e senza porsi interrogativi sulle conseguenze di questa scelta.

Vi è la convinzione profonda che un prodotto sia unicamente costituito da una qualità e da un prezzo, per cui, una volta scelta la qualità, la soluzione più conveniente è quella che costa di meno.
La trappola scatterà una volta che tutti i negozi delle nostre città avranno chiuso, per cui saremo obbligati a fare acquisti unicamente dal sig. Jeff Bezos o dal sig. Jack Ma.

I quali potranno mettersi d’accordo nell’alzare unilateralmente i prezzi, non avendo più concorrenti, per cui i consumatori attualmente poco accorti non avranno via di scampo dai prezzi gonfiati.
Ma non solo. Anche i produttori dei beni commercializzati saranno messi sotto scacco. Infatti non avranno altro modo per raggiungere i loro clienti che passare per la distribuzione monopolistica di Amazon & c., i quali potranno imporre ai produttori di minimizzare i prezzi (e le loro rendite), al fine di massimizzare le rendite del distributore. Rendite minime per i produttore significheranno, ovviamente, salari minimi per i lavoratori.
Quindi i consumatori poco accorti verranno presi in trappola una seconda volta, dopo l’aumento dei prezzi, anche dalla riduzione del salario come lavoratori.

Infine non dobbiamo dimenticare le conseguenze sociali derivanti dalla chiusura di gran parte dei negozi in Italia. Oltre alla perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro nel settore dobbiamo prefigurarci dei centri abitati sostanzialmente privi di negozi. Immaginiamo le conseguenze per la vita sociale delle nostre città. I negozi non sono solamente dei punti vendita di merci, ma luoghi di incontro fra le persone, vetrine che abbelliscono le nostre vie e rendono vivi i luoghi in cui viviamo.

I legislatori dovrebbero tenere conto del prezioso valore sociale del commercio al dettaglio e tutelarlo dalla concorrenza della grande distribuzione delle vendite online. Ma anche noi cittadini dovremmo imparare a stare molto più attenti ogni volta che ci vengono proposti beni e servizi gratuiti o a prezzi eccezionalmente concorrenziali, perché quello che a prima vista sembra molto conveniente in molti casi non è altro che un’esca irresistibile che ci porterà a conseguenze per nulla convenienti.
Non lasciamoci prendere in trappola!

1 2 3