Perché pensiamo quello che pensiamo? La persuasione e la manipolazione. _ Di Davide Gionco

Perché pensiamo quello che pensiamo?
La persuasione e la manipolazione.

Di Davide Gionco
02.12.2023

Pensiamo di essere persone libere
Ciascuno di noi pensa di essere una persona libera, con un proprio pensiero libero, con le proprie certezze e le proprie convinzioni, al punto di sentirsi a volte in grado di giudicare come “persona che non ha capito” chi non la pensa come noi.
In molti casi ci sentiamo rassicurati dal fatto che “la maggior parte delle persone che conosciamo” la pensa come noi. Questa convinzione viene spesso confermata dalle parole delle persone che frequentiamo abitualmente (familiari, amici). Anche se, a dire il vero, in realtà queste persone non rappresentano “tutte le persone”.
Nelle neo-comunità dei social medi tali dinamiche sono persino più accentuate dagli algoritmi delle “bolle di filtraggio” (filter bubble), che ci fanno vedere di preferenza i messaggi di amici che hanno cliccato sul “like” ai nostri precedenti messaggi e meno i messaggi di persone che non la pensano come noi. Anche in questo caso la percezione di “tutte le persone” rischia di essere alterata.

E’ altresì un fatto che ciascuno di noi può constatare come in altre culture, in altre popolazioni, ma ovviamente anche qui fra di noi in Italia, vi siano delle persone “che non hanno capito” (almeno così giudichiamo), le quali manifestano idee molto diverse dalle nostre su questioni sensibili e importanti come la famiglia, i costumi sessuali, l’importanza di mettere al mondo dei figli, l’uso della violenza, la vendetta, l’onore, il rispetto delle leggi, la fede religiosa, il senso della vita, il rispetto dell’ambiente, il rapporto con gli animali, il rapporto con il denaro, etc.

In questi casi siamo propensi ad etichettare come “retrograde”  o “bigotte” o “ignoranti” tali persone, in quanto ci sembra inconcepibile che non credano ciò che noi pensiamo essere assolutamente logico ed evidente al giorno d’oggi. Pensiamo sempre di trovarci “all’apice delle credenze”.

Per fortuna siamo in un paese libero e tollerante (così ci dicono e ci fanno credere) e per fortuna ci sono anche molte persone, fra le quali probabilmente chi legge, che accettano pacificamente, senza giudicare gli altri, che possano convivere nella società diverse opinioni e modi di vedere la vita. Questo atteggiamento, però, è spesso accompagnato da una sorta di indifferenza: “sono affari loro”. Il fatto che esistano opinioni differenti in genere non ci porta a mettere in discussione la nostra opinione.

 

La metacognizione e il cambiamento culturale
Dal punto di vista logico è chiaro che nella diversità di opinioni non tutti possono avere ragione. O è vera una cosa o è vera un’altra.
Esistono delle idee oggettivamente giuste o sbagliate? Saremmo disposti a mettere in discussione le nostre convinzioni, se qualcuno ci dimostrasse che avevamo torto?
Ma, soprattutto, da dove arrivano le nostre certezze su quello che pensiamo e crediamo?
E’ quello che gli psicologi chiamano metacognizione: perché pensiamo quello che pensiamo?

E’ evidente che esistono delle differenze “culturali” che dipendono dalla storia di ogni popolo, dalle idee che sono state tramandate di generazione in generazione. Quindi le idee in cui ogni persona crede non sono frutto di una “libera scelta”, ma sono derivate dall’ambiente in cui tale persone è cresciuta e si è formata.
Questa affermazione sembra ovvia. Ma cos`è che fa cambiare le credenze, al punto che le idee degli italiani di oggi siano profondamente diverse da quelle di pochi decenni fa. Mai nel passato si erano registrati cambiamenti così rapidi nell’opinione pubblica.
Anche solo 60 anni fa in Italia facevamo molti più figli rispetto ad oggi. Quindi le donne erano convinte che mettere al mondo dei figli fosse una questione importante della vita, mentre oggi sono probabilmente altre le priorità nella vita di una donna. 60 anni fa pochissime famiglie tenevano un animale domestico in casa (cane, gatto), non esisteva un rapporto affettivo con gli animali come viene vissuto oggi da molti italiani.
E lo stesso potremmo dire su molte altre questioni sensibili.
Che cosa è successo per arrivare a questi cambiamenti di credenze?

In televisione e sui giornali ci viene detto, banalmente, che ci siamo “modernizzati”, dando per sottointeso che quanto gli italiani pensano oggi sia un superamento della “vecchia cultura”.
E’ un fatto che molti di noi sono convinti di avere un pensiero al passo con i tempi e nello stesso tempo di avere un pensiero liberamente scelto: il miglior pensiero possibile.
La gente del passato, i “nostri vecchi” erano persone antiquate: si sbagliavano. Oggi noi abbiamo capito molto meglio come funziona il mondo e come rapportarci con la vita.
Molto probabilmente, però, le persone di 60, di 100 o di 1000 anni fa avevano la stessa opinione riguardo alla “modernità” delle proprie idee. Mentre tutte le idee cambiano, resta ferma proprio la credenza di non aver bisogno di cambiare le proprie credenze.

Ma che cos’è che ci ha portati a “modernizzare” il nostro pensiero? Da dove ci sono arrivate le nuove idee che sono entrate nella nostra mente?
Queste nostre certezze sono frutto di nostre riflessioni, di nostre esperienze personali, dei nostri studi, di fatti vissuti, o derivano da un’azione di persuasione da parte di una persona di cui ci siamo fidati o sono piuttosto ilo frutto di un’azione di manipolazione che abbiamo subito?

E’ chiaro che in genere nessuno di noi ama riconoscere di essere stato manipolato, salvo i casi in cui ci rendiamo conto di avere subito un tremendo inganno.

In Francia ha molto successo il podcast Méta de Choc https://metadechoc.fr/ condotto dalla giornalista Elisabeth Feytit: “Voi non immaginate quello che pensate!”, il pensiero critico applicato a sé.
Questa giornalista, che riferisce di provenire da esperienze di credenze “New Age” di cui si è pentita e ricreduta, nelle varie puntate riferisce ciò che al tempo lei stessa credeva o che ancora viene oggi creduto da persone che seguono la “spiritualità contemporanea. Il quadro che emerge è come quasi mai le persone si interrogano sulle origini delle proprie credenze. La Feytit ricostruire le origini storiche di certe credenze, le analizza con senso critico e invita gli ascoltatori a porre a se stessi la domanda “Perché pensiamo quello che pensiamo?”.

Ovviamente l’atteggiamento del pensiero critico applicato a sé deve valere per ogni tipo di credenza, che si tratti di convinzioni religiose, politiche, della convinzione di dover vivere ricercando sempre l’approvazione degli altri all’idea di dover vivere per arricchirsi economicamente, dalla credenza degli economisti che stampare denaro crei inevitabilmente un aumento dell’inflazione (credenza più volte smentita dai fatti) e qualsiasi altra nostra possibile convinzione.

La giornalista Elisabeth Feytit intervista persone le quali ad un certo punto si sono rese conto che le idee, in cui credevano convintamente, erano in realtà frutto di manipolazioni da parte di “guru”, della fiducia mal riposta in personaggi che si pr4sentavano come carismatici. Non solo sette religiose, ma anche gruppi nei quali per sentirsi accolti era necessario condividere e confermare certe credenze.
In queste interviste e tramite i suoi studi la giornalista risale alle origini di certi idee oggi molto diffuse negli ambienti della “spiritualità contemporanea”, concetti come la “legge dell’attrazione”, il “pensiero positivo”, le “energie vibratorie”, la “medicina quantica”, la “liberazione dell’anima”.
Vengono anche esposte in senso critico le origini della psicanalisi, fondata sulle intuizioni mai scientificamente dimostrate di Sigmund Freud e di Carl Gustav Jung.
Per ciascuna di queste idee, che oggi sono parte delle credenze di molte persone, si individua il personaggio che le ha presentate come “certe”, pur essendo frutto della sua immaginazione e non di verifiche sottoposte a metodo scientifico. Personaggi come Helena Blawatsky, come Sai Baba, come Charles Taze Russel e molti altri.
Questi citati sono solo degli esempi. In realtà si tratta di una questione di metodo, di applicazione del pensiero critico alle nostre proprie convinzioni.

Il pensiero critico applicato a sé
Il grande economista del XX secolo John Maynard Keynes scrivere nell’introduzione della sua opera “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” del 1936:

“La difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nell’evadere dalle idee vecchie, le quali, per coloro che sono stati educati come lo è stata la maggioranza di noi, si ramificano in tutti gli angoli della mente.”

La questione del metodo, quindi, riguarda tanto le credenze economiche quanto ogni altro tipo di credenza.
Keynes dimostrò, ricorrendo a ragionamenti logici e calcoli matematici, che la convinzione degli economisti del suo tempo che la disoccupazione fosse una libera scelta di lavoratori “pigri e incapaci di adattarsi” era sbagliata. E dimostrò che la disoccupazione era invece conseguenza delle politiche monetarie e fiscali del governo. Cosa che, peraltro, ancora oggi molti economisti non hanno compreso, vedendo i risultati disastrosi delle politiche economiche dei vari governi.
Keynes aveva capito che le sue precedenti convinzioni non erano frutto di un proprio ragionamento indipendente, ma che erano invece la ripetizione di pensieri che gli erano stati trasmessi, accettati in modo acritico e mai messi a confronto con la realtà dei fatti o con il rigore della logica.

Così come Keynes seppe applicare a se stesso il metodo del pensiero critico, arrivando al cambiamento delle proprie opinioni su questioni fondamentali delle teorie economiche, allo stesso modo il metodo del pensiero critico può essere applicato ad ogni tipo di credenza, che sia essa scientifica o non scientifica.

La realtà è che noi crediamo in ciò che crediamo soprattutto perché sarebbe troppo faticoso elaborare delle nostre idee originali “ex novo” per ogni nostra opinione. E’ molto più semplice adeguarci e fare nostre le idee che vanno per la maggiore negli ambienti in cui viviamo, per sentirci più facilmente accettati e per non entrare quotidianamente in conflitto di opinione con le persone che frequentiamo. Per questo, “pigramente”, andiamo avanti con le nostre convinzioni senza chiederci né da dove arrivino né se siano o meno fondate. Si tratta di un meccanismo che nel corso dell’evoluzione si è rivelato vincente, ma che in certi casi può portare a in false credenze.
Anche se siamo “pigri” nel cambiare le nostre idee, questo non significa che non possiamo cambiare idea. Anzi: le idee cambiano, addiruttura negli ultimi decenni le idee cambiano rapidamente come non mai.
Quante persone oggi cinquantenni erano convinte 30 anni fa che il cambiamento climatico fosse la principale emergenza del pianeta o che il matrimonio fra persone omosessuali fosse qualcosa di assolutamente giusto e necessario? Eppure si tratte di credenze oggi molto diffuse, probabilmente maggioritarie.

Quindi siamo propensi, in certi contesti e in certe situazioni, a cambiare le nostre idee e le nostre convinzioni.
E’ esperienza di tutti l’avere creduto al consiglio di un amico che ci ha aiutato ad aprire gli occhi e a cambiare opinione. Cosi come è esperienza di tutti l’essersi fidati di consigli sbagliati, per cui si è arrivati a cambiare opinione dove essere stati scottati da qualche dura esperienza della vita.

Guardando tutto questo in modo distaccato, non è che dobbiamo di colpo porre fine a tutte le nostre certezze, perché senza alcuna certezza nella vita cesseremmo di vivere. Non potremmo neppure recarci in pizzeria per cenare.
Ma sarebbe saggio cambiare il nostro atteggiamento riducendo i giudizi critici sugli altri (su quelli che “non hanno capito”) e aumentando il senso critico verso le nostre proprie convinzioni, perché è sulle nostre credenze che abbiamo più margini di manovra, non su quelle degli altri. Non fosse mai che ci eravamo sbagliati e che, un giorno, ci capiti di liberarci da qualche falsa credenza che ci aveva portato a recare danni a noi stessi ed agli altri.

Gli psicologi David Dunning e Justin Kruger pubblicarono un articolo nel 1999 parlando di quanto sia difficile per la gente riconoscere i propri errori (le proprie incompetenze). Oggi tali teorie sono descritte come “effetto Dunning-Kruger”.

In realtà quando cambiamo idea o quando confermiamo le nostre convinzioni non lo facciamo quasi mai sulla base di un’analisi critica del nostro proprio pensiero, quanto soprattutto sulla base di sensazioni emozionali o ripetendo l’opinione di persone che ritenevamo autorevoli quando ci hanno esposto un certo pensiero.

Facciamo l’esempio, molto recente, della spaccatura dell’opinione pubblica italiana sulla necessità di vaccinarsi contro il Covid-19 (provax, novax, ecc.). Quante delle persone convinte di questa necessità, di entrambe le parti, sono andate realmente a prendere visione dei dati scientifici disponibili, avendo coscienza del metodo scientifico/statistico da applicare per l’interpretazione di quei dati? O invece il convincimento si è basato sulla fiducia riposta sulle affermazioni delle autorità pubbliche o sulle dichiarazioni di scienziati che comparivano su TV e giornali, sostenendo che non vi fossero alternative e che la situazione era urgente?

 In modo del tutto analogo, quando la grande maggioranza dei tedeschi nel 1939 era convinto che gli Ebrei fossero degli Untermenschen (dei sub-umani) da sterminare, questa convinzione era presentata come fondata su basi scientifiche. Lo diceva Goebbels e lo dicevano degli “scienziati” che in realtà eran o allineati con il regime nazista a livello ideologico. Si trattava quindi non di dati scientifici, ma di pura propaganda di regime astutamente architettata da Goebbels.

Per quale motivo le donne italiane negli anni 1960 pensavano che la cosa più importante della vita fosse sposarsi con un brav’uomo lavoratore, fare una famiglia e insieme tanti figli, mentre oggi, 60 anni dopo, le donne italiane (mi si scusi la generalizzazione) pensano che la cosa più importante sia avere una carriera lavorativa e affermare la propria libertà di donna indipendente dagli uomini?
In entrambe le epoche queste erano/sono le convinzioni le più diffuse. Le donne degli anni 1960 si sentivano realmente realizzate quando perseguivano le proprie aspettative, anche se oggi le stesse aspettative sarebbero ritenute inaccettabili dalle donne di oggi.
Su cosa si fondano queste convinzioni? E’ solo accaduto che oggi le donne hanno capito tutto, mentre 60 anni fa non avevano capito niente? O c’è dell’altro?

 

Le tecniche di manipolazione dell’opinione pubblica
Il sociologo americano Joseph Overton (1960-2003) spiegò come una idea che oggi è ritenuta inaccettabile (impensabile) possa, gradualmente, essere presentata dai mass media prima come radicale (ma pensabile), per diventare successivamente ritenuta accettabile (anche se eccessiva), poi come sensata, diventando poi un’idea diffusa, fino ad essere legalizzata, quando anche la classe politica ne è maggioritariamente convinta.

Non si tratta solo dell’opinione di un sociologo, ma di un dato di fatto, se confrontiamo oggettivamente le credenze attuali della nostra società attuale e le credenze di 60 anni fa. Si tratta solo di capire se certi cambiamenti di opinione nella società avvengono in modo spontaneo o se, come sostiene Overton, sono guidati da qualcuno.


Se confrontiamo le nostre credenze con quelle di altri popoli che, come pare logico, hanno ricevuto messaggi diversi da parte delle loro agenzie educative operanti in un paese diverso dal nostro, allora si spiega come altri popoli credano cose diverse da quelle che crediamo noi. Ad esempio si spiega perché in Afghanistan si ritiene giusto che una donna viva reclusa in casa (lo pensano anche non poche donne afghane), mentre in certi paesi occidentali si ritiene giusto che una giovane donna “liberamente” si metta pubblicamente in mostra in abbigliamento sexy per provocare attrazione sessuale negli uomini che la vedono e sentirsi desiderata.

Quindi da un lato esiste una nostra resistenza al cambiamento delle nostre credenze, ma dall’altro lato esistono dei meccanismi indotti dalle comunicazioni che riceviamo (che si tratti dei mass media, delle scuole governative o degli imam delle moschee) che portano al cambiamento delle credenze in una società.
E lo fanno in modo deliberato, senza chiedere il nostro permesso, portandoci a credere oggi, in Italia, cose che 60 anni fa erano ritenute inaccettabili.

Oggi molti sono convinti della necessità di legalizzare l’eutanasia, del diritto delle coppie omosessuali di contrarre matrimonio civile e religioso. Ci sono persone che trovano del tutto normale dormire nel letto con il proprio cane. E se il cane muore, gli si celebra una sorta di cerimonia funeraria.
Se qualcuno in Italia 60 anni avesse manifestato tali convinzioni sarebbe stato deriso ed emarginato dalla società civile o, nella migliore delle ipotesi, guardato come una persona bizzarra.

Come scrivevamo sopra, molto difficilmente qualcuno di noi potrebbe in un solo colpo mettere da parte tutte le proprie convinzioni, perché resterebbe senza riferimenti certi per valutare ciò che è bene e ciò che è male per se stesso e per gli altri. Oltre a questo ci si vedrebbe obbligati a dare un taglio netto alle persone che frequentiamo e dalle quali ci sentiamo accettati proprio per il fatto di condividere certe credenze.
Come emerge dai podcast di Elisabeth Feytit, persone che vivevano in certi ambienti ideologicamente chiusi (comunità new age, testimoni di Geova, ecc.), pur essendosi ad un certo punto resesi conto che certe credenze erano sbagliate o pericolose, non avevano la forza di rinnegarle, per non esserle obbligate ad uscire dalla comunità, perdendo i forti legami sociali che avevano instaurato.

Se questo vale per le persone appartenenti a certi ambienti specifici, la stessa cosa succede per la “grande comunità” che è la società civile in cui viviamo, che si riconosce in un certo pensiero dominante. La maggior parte delle persone non ama andare “contro corrente”.
Chi oggi espone dubbi e critiche sui “diritti della comunità LGBTQ” viene etichettato come “impensabile”, venendo posto al di fuori dalla cornice della finestra di Overton. Questo anche se, in una società apparentemente libera, sarebbe del tutto legittimo esprimere una opinione dissenziente. Peraltro lo stesso succede ad una persona che volesse sostenere in Arabia Saudita il diritto delle donne di avere la stessi diritti di eredità di un uomo.
La maggior parte della gente, per non sentirsi esclusa dalla società civile e per quieto vivere, preferisce adeguarsi per restare all’interno della “cornice della finestra”, autocensurandosi e cessando di manifestare la propria opinione, fino ad adeguarsi gradualmente al cambio di opinione.

La questione centrale di tutto questa analisi è capire se le nostre idee siano frutto di una persuasione trasparente o di una manipolazione subdola.

Ovvero: se un amico mi fa un discorso cercando di convincermi di cambiare opinione su di una certa questione, lo fa perché mi vuole bene, quindi per perseguire il mio bene. Magari si potrà sbagliare, ma mi dichiara apertamente la finalità del suo discorso ed usa argomentazioni trasparenti.
Viceversa ci troviamo di fronte ad una manipolazione dell’opinione pubblica, e nello specifico delle nostre opinion personali, se un soggetto manipolatore, che si chiami
Edward Bernays o Joseph Goebbels o chi, da diversi decenni, ha deciso di orientare l’opinione pubblica in una certa direzione, agisce senza dichiarare apertamente le finalità per cui lo sta facendo e utilizza argomentazioni non trasparenti.

Bernays scriveva apertamente: “Noi siamo governati, le nostre menti vengono plasmate, i nostri gusti vengono formati, le nostre idee sono quasi totalmente influenzate da uomini di cui non abbiamo mai nemmeno sentito parlare. Questo è il logico risultato del modo in cui la nostra società democratica è organizzata. Un vasto numero di esseri umani deve cooperare in questa maniera, se si vuole vivere insieme come società che funziona in modo tranquillo. In quasi tutte le azioni della nostra vita, sia in ambito politico o negli affari o nella nostra condotta sociale o nel nostro pensiero morale, siamo dominati da un gruppo relativamente piccolo numero di persone che comprendono i processi mentali”.

Queste tecniche di manipolazione oggi ampiamente utilizzate dai governi, dalle grandi multinazionali e dal cosiddetto “Deep State” sono state descritte il letteratura dai vari Gustave Le Bon (Psychologie des foules, 1895), Walter Lippmann (Public Opinion, 1922), dal citato Edward Bernays (Propaganda, 1928), fino al contemporaneo Robert Cialdini, già consulente di Obama per le elezioni presidenziali del 2008 ed autore nel 1984 del libro The Psychology of Persuasion (la psicologia della persuasione).

Nelle sue opere Cialdini, attualmente docente di marketing presso l’Arizona State University, spiega le regole della comunicazione persuasiva, finalizzate a manipolare l’opinione di chi ascolta portandolo inconsapevolmente (per lui) sulle posizioni che noi intendiamo imporgli.
Le 6 argomentazioni (meglio: euristiche) fondamentali sono le seguenti:

  • Impegno e coerenza
    Ciascuno di noi desidera mostrarsi pubblicamente coerente con le posizioni che ha precedentemente espresso. Il manipolatore, quindi, prima cerca di farci dichiarare, in modo subdolo e magari fuori dal contesto, una certa idea, dopo di che ce ne chiede conto pubblicamente, chiedendoci di confermarla.
    Ad esempio prima ci fa dichiarare di “non essere contro ai tossicodipendenti che intendono cambiare vita”, dopo di che ci invita ad essere coerenti con la nostra dichiarazione, acquistando, nostro malgrado, dei prodotti “inutili”, ma ufficialmente provenienti da tossicodipendenti che intendono cambiare vita.
    In modo analogo le persone possono essere indotte ad assumere, loro malgrado, delle posizioni pubbliche in cui non credono, sottraendo loro -di fatto- la possibilità di esprimere ciò che realmente pensano e condizionandone le scelte successive.
  • Reciprocità
    Ciascuno di noi si sente obbligato a restituire dei favori ricevuti, veri o presunti tali.
    Ai fini della manipolazione è quindi sufficiente far credere all’altra persona di aver ricevuto un favore (ad esempio il favore di un invito a cena in un ristorante romantico) per poi far sentire l’altra persona obbligata a ricambiare il favore rispondendo positivamente alla richiesta (vieni a casa mia per proseguire la serata).
    A livello governativo il meccanismo funziona richiedendo alla popolazione sacrifici in cambio di un “bene superiore”. Quasi sempre i sacrifici, in realtà, sono funzionali al vantaggio di chi sta dietro alla manovra, mentre il “bene superiore” non arriva mai.
  • Riprova sociale
    Tendenzialmente le persone desiderano uniformarsi a ciò che la maggioranza delle persone pensa e dice. Questo vale sia che si tratti di persone con cui viviamo, sia che si tratte di testimonianze presentateci dai mezzi di informazione.
    Ai fini della manipolazione sarà sufficiente selezionare in modo unidirezionale le opinioni diffuse dai mass media e imporre una certa ideologia nei programmi scolastici per far sentire l’ascoltatore di diversa opinione “in minoranza”, inducendolo ad adeguarsi all’opinione della (apparente) maggioranza.
  • Autorità

La nostra psicologia ci porta a fidarci dell’opinione delle persone che si presentano in modo autorevole, senza vagliarla in modo critico. Allo stesso modo si è portati a non fidarsi dell’opinione di persone che non si presentano in modo autorevole, anche se questa opinione fosse effettivamente fondata.

Ai fini della manipolazione sarà sufficiente presentare al pubblico alcuni soggetti titolati, anche se opportunamente corrotti, a sostenere tutti la stessa opinione, oscurando allo stesso tempo le opinioni contrarie, per imporre all’opinione pubblica una falsa credenza su di una certa questione.
Difficilmente la maggioranza delle persone andrà a cercare il fondamento apparentemente “oggettivo” di tale credenza. E se qualcuno lo facesse, verrebbe presentato come fonte non autorevole, quindi ignorato ed emarginato.

  • Simpatia

Come esseri umani siamo portati a fidarci maggiormente di chi ci risulta simpatico o affine a noi. Per questo motivo spesso ci vengono proposti dei candidati politici “alternativi”: un giovane, una donna giovane e carina, una persona del popolo, una persona che sa scherzare, un presidente operaio, una persona totalmente diversa (come look) dai suoi predecessori.
Questi politici, una volta ricevuta la simpatia ed il consenso popolare, vengono poi utilizzati per imporre scelte impopolari. Ma per il popolo sarà troppo tardi.

Naturalmente gli stessi meccanismi vengono utilizzati nella pubblicità. per convincerci della bontà di un prodotto. E vengono utilizzati per rendere più accettabili le idee “innovative” che il manipolatore intende imporci.

  • Scarsità
    Il nostro passato di cacciatori-raccoglitori ci ha abituati ad approfittare senza pensarci troppo delle situazioni per sottrarsi alla propria condizione di scarsità.
    Non appena ci dicono di fare in fretta, se no rischiamo di restare privi di qualche cosa, abbassiamo la soglia del nostro pensiero critico e ci adeguiamo a fare quanto ci viene richiesto.

Il pensiero di Noam Chomsky
Altre tecniche vengono utilizzate, che si combinano e si sovrappongono alle precedenti.
Su internet circola da molti anni un “decalogo” attribuito al neurolinguista americano, e quasi centenario, Noam Chomsky. Pare che questo testo dei 10 metodi non sia stato scritto direttamente da Chomsky, ma piuttosto da altri ispirandosi al suo pensiero. In ogni caso tale metodi risultano certamente validi e da molto tempo utilizzati dai mezzi di informazione di massa. Questo elenco di tecniche è stato in parte arricchito dai miei commenti personali.

1) La strategia della distrazione
La strategia della distrazione che consiste nel deviare l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dei cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche, attraverso la tecnica del martellamento continuo di distrazioni e di informazioni insignificanti o poco rilevanti (ad esempio i casi di cronaca nera).
La strategia della distrazione è anche indispensabile per impedire al pubblico d’interessarsi alle conoscenze essenziali, nell’area della scienza, dell’economia, della psicologia, della neurobiologia e della cibernetica. Mantenere l’Attenzione del pubblico deviata dai veri problemi sociali, imprigionata da temi senza vera importanza sociale.
Mantenere il pubblico occupato, occupato, senza nessun tempo per pensare, ritornando alla fattoria come gli altri animali (citato nel testo “Armi silenziose per guerre tranquille”).

2) Creare problemi e poi offrire le soluzioni (volutamente sbagliate)
Questo metodo è anche chiamato “problema- reazione- soluzione”. Si crea un problema, una “situazione” prevista per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio: lasciare deliberatamente che dilaghi o si intensifichi la violenza urbana o organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che sia lo stesso pubblico richiede le leggi di maggiore limitazione della libertà dei cittadini in nome della sicurezza. O anche: creare una crisi economica per far accettare come un male necessario la riduzione dei diritti sociali, la privatizzazione, lo smantellamento dei servizi pubblici, gli aumenti di tasse, ecc.

3) La strategia della gradualità
Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, a contagocce, per anni consecutivi. E’ in questo modo che condizioni socioeconomiche radicalmente nuove (neoliberismo) ci sono state imposte durante gli ultimi decenni a partire dal 1980: stato minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione in massa, salari che non garantiscono più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero stati realizzati in una sola volta. Altresì detta “metafora della rana bollita“.

4) La strategia del differire
Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria”, proponendo però di attuarla in un tempo successivo in modo da ottenere l’accettazione dell’opinione pubblica. “Tanto non è per adesso”.
E’ più facile accettare un sacrificio futuro che un sacrificio immediato. Prima, perché lo sforzo non è quello impiegato immediatamente. Secondo, perché il pubblico, la massa, ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che “tutto andrà meglio domani” e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. Questo dà più tempo al pubblico per abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo rassegnato quando arriva il momento. Il politico di turno ci dirà che: “Era già stato previsto dal mio predecessore, è colpa sua e non mia”, senza spiegarci che il vero decisore, quello che ha anche imposto l’utilizzo di questa tecnica, sta sopra alla classe politica.

5) Rivolgersi al pubblico come a dei bambini
La maggior parte della pubblicità diretta al gran pubblico usa discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione della voce particolarmente infantile, molte volte anche flebile, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un ritardato mentale.
Silvio Berlusconi insegnava ai candidati di Forza Italia di parlare come se si rivolgessero a dei ragazzini di 12 anni, perché questo è il livello intellettuale medio del nostro target pubblicitario.
Quanto più si cerca di ingannare lo spettatore, tanto più si tende ad utilizzare un tono infantile. Perché?
“Se qualcuno si rivolge ad una persona come se avesse 12 anni o meno, allora, in base alla suggestionabilità, lei tenderà, con certa probabilità, ad una risposta o reazione anche sprovvista di senso critico come quella di una persona di 12 anni o meno” (tratto da “Armi silenziosi per guerre tranquille”).

6) Usare l’aspetto emotivo molto più della riflessione
Sfruttate l’emozione è una tecnica classica per provocare un corto circuito rispetto alle nostre analisi razionali e bypassare il naturale senso critico dell’individuo.
L’uso del registro emotivo permette aprire la porta d’accesso all’inconscio (come ci hanno insegnato Freud e Jung) per innestare nella nostra mente idee, desideri, paure e timori, compulsioni o indurre comportamenti irrazionali.

7) Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità
Far sì che il pubblico sia incapace di comprendere le tecnologie ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù.
“La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza di capacità di comprensione (l’ignoranza) fra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare”.

8) Stimolare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità
Spingere il pubblico a ritenere che sia di moda essere stupidi, volgari e ignoranti …
In questo modo verrà rivolta poca attenzione ai pensieri delle persone intelligenti, colte e ragionevoli.

9) Rafforzare l’auto-colpevolezza
Far credere all’individuo che è soltanto lui il colpevole della sua disgrazia (noi italiani siamo così, nel Nord Europa invece…), per causa della sua insufficiente intelligenza, delle sue capacità o dei suoi sforzi. Così, invece di ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto-svaluta e si auto-colpevolizza, cosa che crea a sua volta uno stato depressivo, uno dei cui effetti  è l’inibizione della sua azione. E senza azione non c’è rivoluzione!
Ci si ritiene personalmente incapaci di cambiare la situazione, per cui si preferisce delegare il compito al “salvapopolo” di turno (Meloni, Draghi, Salvini, Grillo, Renzi, Berlusconi, Prodi, ecc). Senza rendersi conto che questi “salvapopolo” sono quasi sempre controllati dalle élites politico-finanziarie internazionali.

10) Conoscere gli individui meglio di quanto loro stessi si conoscono.
Negli ultimi 50 anni, i rapidi progressi della scienza hanno generato un divario crescente tra le conoscenze del pubblico e quelle possedute e utilizzate dalle élites dominanti. Grazie alla biologia, la neurobiologia, e la psicologia applicata, il “sistema” ha goduto di una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia nella sua forma fisica che psichica. Il sistema è riuscito a conoscere meglio l’individuo comune di quanto egli stesso si conosca. Questo significa che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un controllo maggiore ed un gran potere sugli individui, maggiore di quello che lo stesso individuo esercita su sé stesso.

 

Naturalmente le tecniche sono molte e non si esauriscono qui. Esistono decine di libri e di siti internet disponibili per approfondire l’argomento.
Tuttavia ce n’è abbastanza, se siamo onesti con noi stessi, per mettere da parte molte nostre certezze sulle nostre proprie credente ed iniziare ad applicare a noi stessi il pensiero critico, per capire se tali credenze siano fondate o conseguenza di una manipolazione.
La posizione più razionale da assumere è: è possibile che mi abbiano ingannato facendomi credere cose sbagliate, di conseguenza devo avere il coraggio, per il bene di me stesso e delle persone che mi circondano, di mettere in discussione le mie convinzioni, per cercare di capire se siano fondate oppure no.

 

Un metodo per il pensiero critico applicato a sé
Fino ad ora mi sono limitato a mettere insieme studi e conoscenze, cercando di esporle al lettore per esporre ed analizzare il problema.
Il testo che segue vuole essere il mio contributo personale alla definizione di un metodo per il pensiero critico applicato a sé stessi, nella speranza che possa essere utile a chi mi legge per liberarsi dai falsi condizionamenti a cui tutti noi siamo sottoposti.

  • Accettare di essere stati manipolati
    La regola numero 0 è prendere atto del fatto che, non per nostra responsabilità o stupidità, siamo stati sottoposti per decenni, fin da quando eravamo piccoli, ad una incessante sequenza di messaggi (anche subliminali) finalizzati a manipolare la nostra opinione. E’ come se fossimo stati immersi nel fango, per cui nessuno può dire di non essersi sporcato, anche fino a collo. L’unico atteggiamento razionale è prendere atto del fatto che siamo stati sporcati e che l’unico modo per liberarci è  uscire dal pantano, pezzo dopo pezzo, e lavarci via le chiazze di fango.
    Sarebbe un atteggiamento irrazionale e dannoso per noi stessi il rifiutare di mettere in discussione le nostre convinzioni, solo per non offendere il nostro amor proprio, per non ammettere di essere stati ingannati, perché chi ci ha manipolato lo ha fatto solo per i suoi interessi e non per il nostro bene e sapeva benissimo che ci sarebbe stato difficile liberarci da tali condizionamenti, proprio a causa del nostro orgoglio che non ci lascia ammettere di essere stati ingannati.
    Se vogliamo bene a noi stessi, però, questa presa di coscienza è il primo passaggio fondamentale: siamo stati ingannati e dobbiamo liberare la nostra mente dalle manipolazioni che ha subito.

 

  • Conoscere le tecniche della manipolazione mentale
    Sopra abbiamo esposto, in modo non esaustivo, diverse tecniche utilizzate da chi intende manipolare la nostra opinione, ingannandoci.
    Conoscere queste tecniche ci aiuta ad aprire gli occhi. Quando nei messaggi che riceviamo constatiamo l’utilizzo di queste tecniche, abbiamo già delle buone ragioni per mettere in dubbio la credibilità di quanto ci viene esposto ed attivare il nostro senso critico.
    Non dobbiamo mai fidarci troppo di presunte “autorità”, perché i manipolatori (punto 4 di Cialdini) sanno come corrompere l’opinione di personaggi competenti, sanno come fare in modo che trovino spazi privilegiati nei mezzi di comunicazione e sanno come condizionare le autorità politiche corrompendole o circondandole di consulenti in mala fede.
    Ricordiamoci che il fatto di parlare in televisione o di scrivere su un giornale non è una patente di maggiore credibilità e di fondatezza di quanto viene riferito. Anzi, spesso a chi dice la verità non viene concesso di parlare al grande pubblico.
    Persino delle immagini di fatti reali possono essere selezionate “ad arte” per ingannarci sulla realtà dei fatti, un po’ come mettere in evidenza il dito, in modo che non si veda la luna.
    Diffidiamo delle soluzioni che vengono proposte in risposta ad un clima di paura, in quanto la paura potrebbe essere stata indotta deliberatamente e le soluzioni potrebbero essere volutamente sbagliate.
    In caso di messaggi sospetti non è corretto essere “complottisti a priori”, ma è altrettanto sbagliato essere “creduloni a priori”. L’atteggiamento più corretto è invece: “Potrebbe anche essere vero, ma devo fare analisi più approfondite prima di fidarmi di questo messaggio“.
  • Se possibile, applicare il metodo scientifico
    Secoli di studi filosofici ci hanno portato a definire il metodo scientifico, grazie a Galileo Galilei, Isaak Newton fino all’epistemologo della scienza Karl Popper.
    Il metodo scientifico non è “la scienza”, ma è un metodo per verificare la fondatezza di ipotesi relative a fenomeni che sono oggettivamente misurabili.
    Quindi il metodo scientifico non è applicabile ad ogni forma di conoscenza, ma solo alle forme di conoscenza che possono essere sottoposte a verifica oggettiva da parte di chiunque intenda farlo.
    Scopo della conoscenza scientifiche è eliminare il concetto di autorità che definisce la verità (punto 4 delle argomentazioni di Robert Cialdini).
    Una dichiarazione non è vera perché lo dice una persona ritenuta autorevole (nella scolastica medievale si affermava “ipse dixit“, lo aveva detto Aristotele e non lo si poteva mettere in discussione), ma una dichiarazione è vera perché sottoposta a verifica sulla base del metodo scientifico.
    Anzi, come giustamente sottolineava Karl Popper, una teoria è scientifica se è per principio falsificabile dai fatti ovvero se può essere sottoposta a dei test che potrebbero dimostrarne la falsità e se i test effettuati, ripetuti più volte da persone indipendenti, confermano gli stessi risultati di verifica.
    La teoria “la pioggia cade a causa delle persone tengono l’ombrello aperto” è spesso verificata, in quanto quando piove in genere le persone si camminano con un ombrello aperto. Si tratta di una teoria scientifica, in quanto può essere verificata falsificata muovendosi sotto la pioggia con l’ombrello chiuso e verificando che nonostante questo continua a piovere.
    Viceversa dichiarazioni del tipo “se non avessimo attuato dei tagli alla spesa pubblica l’economia sarebbe andata peggio” non è di tipo scientifico, in quanto non potremo mai ripetere l’esperimento di ritornare indietro nel passato, cambiare la legge finanziaria e misurare i diversi effetti sull’economia del paese.
    Applicare il metodo scientifico alle nostre conoscenze ed alle informazioni che riceviamo significa prima di tutto capire se si tratti di affermazioni che possono essere verificate scientificamente oppure no.
    Se si tratta di affermazioni che non possono essere falsificate dalla prova dei fatti, allora non sono scientifiche, per cui si passerà ad altri tipi di valutazioni che faremo nei punti successivi.
    Se, invece, si tratta di affermazioni che possono essere falsificate dalla prova dei fatti, allora il nostro senso critico deve portarci a verificare la fondatezza delle affermazioni che ci sono proposte, senza fidarci ciecamente dell’autorità di chi ce la riferisce.
    E’ importante evidenziare come i dati scientifici non sono sempre dei valori semplici e chiari come quelli della matematica che impariamo a scuola. In molti casi si tratta di dati statistici, come ad esempio quando si parla di dati sull’affidabilità di un farmaco. La statistica non fornisce mai dei valori netti, ma fornisce dei valori percentuali, ad esempio: un certo dato è vero per l’83% della popolazione ed è falso per il restante 17% della popolazione. In questi casi è necessario soppesare i valori: il fatto che una certa ipotesi scientifica non sia vera per il 17% della popolazione che conseguenze comporta?
    Se l’affidabilità di un dato scientifico deriva ad un solo esperimento, mai ripetuto da altri, realizzato da un soggetto in conflitto di interessi con l’esito dell’esperimento (ad esempio il produttore di un farmaco che dice di averne dimostrato la validità, senza verifiche di enti indipendenti), quel dato non è scientificamente fondato e richiede necessariamente ulteriori verifiche.
    Ad esempio una affermazione apparentemente scientifica come “avvengono i femminicidi in quanto gli uomini hanno una cultura patriarcale” esposta in questo modo è solamente una opinione, non è per nulla una verità scientifica. Per dimostrarne la fondatezza sarebbe necessario: 1- definire cosa si intende per cultura patriarcale; 2- verificare con dei sondaggi se tale cultura è effettivamente molto diffusa fra gli uomini italiani; 3- verificare nei casi specifici (ad esempio i 61 omicidi di donne ad opera di partners o ex-partners nel 2022) se tale cultura fosse presente nella maggior parte degli autori del delitto.
    Se tutti questo non è stato fatto siamo di fronte ad un tentativo di manipolazione, facendo passare per “scientifica e indiscutibile” una affermazione per nulla sottoposta a verifiche scientifiche.
    In altri casi i dati scientifici non si riferiscono ad esperimenti ripetibili, ma ad osservazioni di “fenomeni unici”. Ad esempio la correlazione fra le emissioni di CO2 e l’aumento di temperatura del pianeta deriva da analisi scientifiche dei milioni di dati sull’andamento climatico del pianeta, tentando di isolare gli effetti della CO2 rispetto agli effetti di altri fattori come l’attività solare.
    Gli studi effettuati possono giustificare l’adozione di una logica di precauzione, in quanto le conclusioni potrebbero anche essere vere, ma non si tratta di “dati scientifici incontestabili” aventi la stessa fondatezza dei dati scientifici che supportano la validità della legge della gravitazione universale di Newton o delle equazioni di Maxwell sull’elettromagnetismo.
    Anche in ambito scientifico vi sono delle ipotesi molto verificate, sostanzialmente “vere” e delle ipotesi la cui verità è ritenuta solo “probabile” o, addirittura, delle ipotesi per le quali vi sono opinioni divergenti nella comunità scientifica, che sono tutt’ora oggetto di studi e di discussioni e che non diventano “più vere” solo perché la televisione presenta come vera solo una delle ipotesi in discussione.
  • Utilizzare la logica
    Per tutti i casi in cui il metodo scientifico non sia applicabile, ad esempio nel caso di tutte le conoscenze di tipo umanistico o per i casi i cui i fondamenti scientifici siano dubbi o nel caso di informazioni per le quali non sia possibile fare delle verifiche di persona (ad esempio delle notizie relative ad uno scenario di guerra o di dati scientifici che non ci vengono resi disponibili), può essere molto di aiuto sottoporre tali informazioni ad una rigorosa verifica logica.

Già il grande Aristotele si era occupato delle fallacie logiche, la cui trattazione fu portata a compimento dai filosofi della scolastica medievale.
Si tratta di ragionamenti sbagliati che portano a delle conclusioni sbagliate.
Un caso classico è utilizzare un caso particolare per creare una teoria di validità generale. Ad esempio se una donna fa l’esperienza di un uomo cattivo e conclude che tutti gli uomini sono cattivi, tale ragionamento è evidentemente falso, in quanto non tutti gli uomini sono uguali in termini di bontà o di cattiveria.

Senza dilungarci oltre sull’argomento, invitiamo a prendere conoscenza dei falsi sillogismi su dei siti internet specializzati.

 

Nel caso di scenari di guerra chiediamoci perché tutte le informazioni siano costantemente a dimostrare chi è il buono e chi è il cattivo nel conflitto, mentre è arcinoto che negli scenari di guerra tutte le parti in cause si rendono quasi sempre responsabili di crimini di guerra.

Nel caso di dati fondanti che non vengano resi disponibili, chiediamoci perché i mezzi di informazione si limitino a metterci di fronte all’opinione degli “esperti”, senza mai curarsi di illustrarci i scientifici.

Per ciò che riguarda il metodo critico applicato a se stessi la conclusione è che non dobbiamo prendere per vera una affermazione che sia incoerente dal punto di vista della logica o in cui la logica si presenta troppo semplicistica.

In linea generale spesso la realtà è molto più complessa e contraddittoria di come ci viene presentata: dobbiamo pensare che possano esistere anche delle spiegazioni alternative e più articolate rispetto a quelle che ci vengono proposte.

 

  • Conoscere un po’ di statistica
    Molte notizie, per essere rese credibili, vengono corredate di dati statistici che vengono sciorinati affinché i numeri “concreti” dimostrino la credibilità dell’informazione. Ma succede molto spesso che questi dati vengano esposti in modo da causare una visione totalmente distorta del fenomeno.
    Per esagerare la rilevanza di un fenomeno statisticamente poco rilevante, non ci diranno che i casi sono passati a 3 per milione a 4 per milione, ma ci diranno che il fenomeno è aumentato del 33% rispetto all’anno precedente. Il che è vero, ma ci trae in inganno, in quanto il fenomeno resta comunque poco significativo. L’anno seguente, quando i casi scenderanno da 4 a 3 per milione, ci diranno che “i casi sono sostanzialmente immutati rispetto allo scorso anno”, in quanto sono diminuiti di una sola unità, perché se dicessero che i casi sono diminuiti del 25% sembrerebbe una notizia troppo positiva.
    Se ci si riferisce ad una situazione di rischio e si intende spaventare la popolazione, non si spiegherà mai che il rischio si misura moltiplicando il grado di probabilità per la magnitudine dell’evento.
    Ovvero: un evento può essere molto grave (ad esempio morire colpiti da un fulmine avrebbe una probabilità di uno su 8 milioni), ma se ci fanno vedere in tv una persona morta colpita da un fulmine, ci sembrerà subito qualcosa di alquanto probabile e inizieremo ad avere paura dei fulmini.

Analogamente potremmo essere spaventati dall’alto rischio (“dicono gli scienziati”) di essere colpiti dalla tal malattia. Salvo poi scoprire che quella malattia ha un tasso di mortalità di uno su 100’000. Il che significa che in una città come Roma potrebbe fare al massimo 30 morti: molto meno rischioso che morire investiti da un’auto. Eppure non siamo terrorizzati quando, per strada, vediamo le auto passare vicino a noi che camminiamo.
Di fronte ai dati statistici dobbiamo sempre cercare di capire se i dati ci vengono forniti in modo completo e neutrale per comprendere il fenomeno e verificare che non venga dato troppo risalto a dati volutamente parziali e distorti, per creare un senso di paura. Fare un po’ di calcoli di verifica con una calcolatrice potrebbe aiutarci a verificare il reale rischio di certi fenomeni.

 

  • A chi giova?
    Il famoso magistrato Antonio Di Pietro aveva spiegato al pubblico il fondamento del suo metodo di ricerca della verità giudiziaria.
    “Dove vanno i soldi?”
    Ragionare su chi potrebbe trarre vantaggio dalla nostra credenza potrebbe aiutarci a dubitare dei messaggi che ci vengono proposti: potrebbe trattarsi di un inganno da parte di chi vuole carpire la nostra fiducia per danneggiare noi stessi e trarne vantaggio per sé.

Dubitare dell’oste che afferma di venderci il vino migliore di tutti, come noto, è un giusto atteggiamento di prudenza. Il vino potrebbe essere realmente buono, ma non ci possiamo credere senza prima averlo assaggiato o senza avere chiesto l’opinione di qualcuno di cui ci fidiamo.
Chi ha grandi vantaggi economici o geopolitici da trarre sa spesso trovare il modo di indirizzare le comunicazioni in una direzione per lui vantaggiosa.
Il caso del defunto giornalista tedesco Udo Ulfkotte è emblematico e significativo per comprendere come funziona.

Dobbiamo dubitare anche nei casi in cui ci venga proposto un supposto vantaggio per noi. Il vantaggio, infatti, potrebbe essere minimo o limitato nel tempo (come l’esca che mangia il pesce quando abbocca), mentre il fidarci di quella affermazione potrebbe comportare per noi degli svantaggi ben più gravi che al momento non riusciamo a vedere e che, ovviamente, non ci vengono presentati.
In questi casi potrebbe essere utile confrontarsi con unti di vista diversi sulla questione, soprattutto critici, cercando di comprendere la fondatezza delle critiche, il loro fondamento logico e chi possa trarre vantaggi e svantaggi da quanto ci viene esposto.

Se chi ci presenta un’affermazione è una persona che conosciamo e ci vuole realmente bene, siamo maggiormente autorizzati a credere che lo faccia per il nostro bene e non per secondi fini. Tuttavia quella stessa persona che ci vuole bene potrebbe essere stata a sua volta manipolata da qualcun altro. In questi casi sarebbe bene sottoporre alle verifiche di cui sopra anche le credenze delle persone con cui ci rapportiamo.

 

  • Diffidare delle emozioni
    Coloro che intendono manipolare la nostra opinione agiscono spesso a livello emozionale, come previsto al punto 6 di Noam Chomsky. In particolare sul senso di paura. Eppure la verità di una affermazione non può in alcun modo dipendere dal nostro stato emozionale. E’ il nostro giudizio di verità ad essere influenzato, non la verità in sé.
    Per questo motivo è fondamentale verificare se la nostra credenza è basata su fatti reali, su ragionamenti logici o se invece deriva da qualcosa che è derivato da uno stato di paura o di esaltazione.
    La sensazione di paura (della morte, di perdere le proprie ricchezze, di essere emarginati a livello sociale) è sempre stata utilizzata storicamente dai vari dittatori per controllare l’opinione della popolazione. I tedeschi sotto Hitler erano realmente convinti di essere minacciati dagli ebrei, per questo giustificavano le persecuzioni portate avanti dal governo. La realtà dei fatti, però, è che la paura era stata costruita deliberatamente dalla propaganda di Goebbels e la maggior parte dei tedeschi ci aveva creduto.

 

  • Ogni albero si riconosce dal suo frutto
    Nel Vangelo di Matteo (6,44) si riporta il detto di Gesù “Ogni albero si riconosce dal suo frutto“.
    Un criterio per valutare la validità di certe convinzioni è valutare nel modo più obiettivo possibile le conseguenze che derivano da certe credenze e dalle nostre decisioni che ne conseguono.
    Questo anche se, apparentemente, esse ci sembrano logiche, positive e giuste, espressione della nostra libertà.
    Spesso i problemi derivano dal fatto che la bontà di certe credenze viene valutata con il nostro metro personale, senza preoccuparsi delle conseguenze a livello collettivo.
    Un esempio classico è quello dei ladri, i quali ritengono conveniente rubare ad altre persone, senza preoccuparsi delle conseguenze sulle vittime. Per questo motivo, giustamente, il furto è punito come un delitto, anche se i ladri erano convinti di fare qualcosa per loro conveniente.
    Oppure abbiamo l’esempio dei governanti che portano un paese in guerra pensando ai vantaggi dei gruppi di potere favorevoli alla guerra (venditori di armi, grandi gruppi industriali, ecc.), ma non si preoccupano delle conseguenza che la guerra avrà sulla popolazione, né della propria, né tantomeno delle nazioni coinvolte. Questa è quanto è successo con l’ingresso dell’Italia nelle ultime due guerre mondiali, che è costato la vita ad almeno 2 milioni di italiani.
    Lo studio della storia ci dimostra come le guerre abbiano sempre portato vantaggi a pochi ai danni (e della vita) di molti. Per questa ragione, giustamente, nell’art. 11 della Costituzione l’Italia ripudia la guerra.

La legalizzazione di una credenza non è automaticamente una garanzia che non ne seguano dei frutti cattivi. Anzi, spesso la legalizzazione (si veda il processo della Finestra di Overton) è proprio la conseguenza di una manipolazione di massa ben riuscita. Le leggi razziali negli USA erano perfettamente legalizzate, ma non per questo erano giuste.
Lo stesso potrebbe essere di molte credenze oggi diffuse in Italia, alle quali ci adeguiamo senza averne valutato le conseguenze in modo oggettivo.

Dal punto di vista logico può essere utile cercare di mettersi nei panni delle persone che subiranno le conseguenze delle nostre credenze e delle conseguenti decisioni. Vorremmo trovarci al loro posto?

Se la risposta è “NO”, allora probabilmente la nostra credenza non è qualcosa che porta buoni frutti e farebbe bene a metterla in discussione.

Quando constatiamo che certe credenze portano alla distruzione di ciò che è buono e umano, si tratta certamente di credenze sbagliate, da rifuggire, anche se apparentemente sembrano avere una loro logica a cui ci eravamo adeguati.

 

  • Soppesare le priorità
    Richiamandoci al punto 1) dei metodi evidenziati da Noam Chomsky dobbiamo fare un esercizio di valutazione del grado di priorità e di gravità nelle nostre credenze.

Certe credenze possono essere di per sé giuste (come ad esempio lo è il rispetto per gli animali), ma questo non giustifica che si tratti di questioni prioritarie rispetto ad altre (come ad esempio lo è evitare una guerra che farà migliaia di morti o difendere la vita di una persona).
Il manipolatore spesso opera anteponendo questioni secondarie rispetto a questioni di primaria importanza, al punto che ci occupiamo delle prime ed ignoriamo le seconde. Ad esempio in un telegiornale succede che venga data priorità a questioni tutto sommato marginali, mentre vengono ignorate questioni di importanza fondamentale. Se anche noi ci limitiamo ad informarci solo attraverso i telegiornali, anche noi perderemo il senso della realtà, ci emozioneremo e coinvolgeremo su questioni secondarie, senza preoccuparci di altre questioni molto più importanti.
Oppure si dà molto spazio al “cambiamento climatico”, per poi tacere totalmente su altre questioni ambientali ben più importanti, che riguardano i danni alla salute umana provocati dagli organismi geneticamente modificati o dalle nanotecnologie.
Oggi i mezzi di informazione ci dettano l’agenda delle questioni di cui dobbiamo preoccuparci e delle questioni di cui non ci dobbiamo occupare.
Così come è sbagliato pensare unicamente ai propri interessi senza curarsi di quelli degli altri, è altresì sbagliato dare priorità a questioni secondarie, trascurandone altre di maggiore importanza. Il manipolatore ci spinge a redigere delle scale di valori non sulla base della razionalità, ma ancora una volta sulla base delle emozioni o della maggiore visibilità mediatica.
Se un genitore dedicasse la totalità del tempo a preoccuparsi dei vestiti del figlio, senza preoccuparsi di dargli da mangiare, sarebbe un cattivo genitore ed il figlio, anche se ben vestito, morirebbe di fame.

Similmente dobbiamo capire quali nostre credenze riguardino questioni realmente importanti e quali riguardino questioni meno importanti, per stabilire una corretta scala dei valori. Lo possiamo fare cercando fonti di informazioni alternative e attivando il nostro senso critico.

 

  • Essere aperti alla persuasione
    La differenza fondamentale fra persuasione e manipolazione è che la persuasione avviene in modo trasparente, mentre la manipolazione avviene in modo subdolo.
    Un amico che ci vuole persuadere ci dice chiaramente che intende convincerci della verità di quanto ci sta raccontando e con quali finalità intende farlo.
    Viceversa nella manipolazione chi ci parla nasconde le reali finalità per cui ci sta comunicando qualche cosa e mette in atto tutta una serie di tecniche (come abbiamo letto in questo articolo) per portarci a cambiare la nostra opinione, traendoci in inganno.

Se dobbiamo mantenere un atteggiamento accorto quando ci rendiamo conto che stanno tentando di manipolare la nostra opinione è invece saggio mantenere un atteggiamento di maggiore apertura nei confronti di chi cerca di persuaderci in modo onesto e trasparente, soprattutto se sappiamo che chi ci parla è una persona di cui siamo certi che vuole il nostro bene. Ascoltare opinioni diverse dalla nostra potrebbe essere di aiuto a liberarci da qualche falsità a cui avevamo precedentemente creduto.

Anche in questi casi, tuttavia, dobbiamo sempre essere accorti, in quanto anche una persona che ci vuole bene, pur essendo in buona fede, potrebbe essere stata a sua volta ingannata. Quindi il nostro senso critico non deve mai essere messo da parte.

 

Mettiamoci in cammino
Poiché sia noi stessi che le generazioni che ci hanno preceduto siamo sottoposti da decenni e da secoli a comunicazioni manipolatorie, non possiamo avere la presunzione di avere capito tutto e di essere così “intelligenti” da essere immuni da manipolazioni.
Dobbiamo essere umili, perché l’orgoglio è nemico della nostra liberazione.
E’ possibile liberarci dalle manipolazioni solo gradualmente, con un cammino progressivo, cercando di sfuggire al martellamento propagandistico di gran parte dei mezzi di informazione, delle agenzie educative, degli spettacoli di intrattenimento. Facendo la fatica di cercare punti di vista alternativi e di confrontarci sinceramente con essi.
E quando avremo capito qualcosa di importante, cerchiamo di condividerlo con altri, per aiutare anche loro a liberarsi. Spesso ci prenderanno per pazzi, perché diremo cose che la maggioranza delle persone non ha ancora capito. Dobbiamo accettare questo rischio.
Ma non preoccupiamoci. Avremo la coscienza a posto e, ricordiamoci, i cambiamenti della società sono sempre partiti da piccole minoranze consapevoli. Cerchiamo di fare la nostra parte.

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L’Italia ha mandato all’aria la più grande riforma strutturale degli ultimi 40 anni, di Davide Gionco

L’Italia ha mandato all’aria la più grande riforma strutturale degli ultimi 40 anni
di Davide Gionco

Da quando esiste l’Unione Europea non fa che ricordarci, un giorno sì e l’altro pure, di attuare le famose “riforme strutturali”. Come “riforme strutturali” sarebbero intesi degli investimenti oculati che consentano di mettere insieme l’equilibrio di bilancio pubblico e la realizzazione di interventi che portino a dei vantaggi economici permanenti per il paese.

Dopo di che la stessa Unione Europea, da sempre, propone e impone (si noti il numero di raccomandazioni ai vari paesi dal 2011 al 2018)

delle “riforme” che hanno dimostrato di non sortire questi risultati, come privatizzazioni e tagli dei servizi pubblici, della sanità, del sistema pensionistico. Queste riforme in realtà ingrassano gli incassi degli investitori finanziari che operano in questi settori, sistematicamente a spese dei cittadini, che si ritrovano con servizi di peggiore qualità e più costosi.
E’ purtroppo noto che a Bruxelles operano 12’500 lobbisti registrati ufficialmente, più molti altri che operano in modo non ufficiale. Oltre a questi ci sono quelli che operano a Francoforte, sede della BCER. Tutti questi lobbisti operano con lo scopo di portare vantaggi all’organizzazione che rappresentano, mentre evidentemente i cittadini non dispongono di lobbisti che rappresentino i loro interessi.
Lo scandalo che ha coinvolto la ex-vicepresidente del Parlamento Europeo Eva Kaili è molto probabilmente solo la punta dell’iceberg. Basti ricordare che l’ex-presidente della Commissione Europea Manuel Barroso , non appena concluso il suo mandato nel 2014, diventò immediatamente un alto dirigente della Goldman Sachs. Senza parlare degli ordinativi di vaccini anti-covid per miliardi di euro fatti per da parte dell’attuale presidente Von der Leyen tramite degli SMS privati.

Ma non è di questo che vogliamo parlare. Lasciamo ai lettori, con un accorato invito ai giudici, di occuparsi degli scandali all’interno delle varie autorità europee.
Parliamo invece delle vere riforme strutturali.

 

La fine affrettata del Superbonus 110%

Il Superbonus 110% portava in sé degli aspetti fondamentali che avrebbero permesso a chi ci governa di realizzare la più grande riforma strutturale degli ultimi 30 anni. Anzi, se ci limitiamo alle riforme di tipo economico-finanziario, c’erano tutti i presupposti per la più grande riforma strutturale dai tempi dell’unità d’Italia.
L’aspetto fondamentale di questa riforma mancata non riguardava la finalità ecologica del provvedimento (isolamento degli edifici, risparmio energetico, riduzione delle emissioni di CO2), ma riguardava gli effetti del provvedimento sul bilancio dello Stato.
Per la prima volta nella storia era stato adottato un provvedimento che, strutturalmente, consentiva di non pesare negativamente sul bilancio dello stato, pur portando molti benefici ai cittadini privati. Anzi, con opportuni accorgimenti il provvedimento avrebbe consentito di realizzare degli attivi di bilancio strutturali negli anni a venire, tali da portare ad una progressiva riduzione del debito pubblico.
Oltre a questo gli effetti sull’economia reale del Paese portati dal Superbonus, anche se limitati nel tempo, hanno dimostrato tutto il potenziale di aumento strutturale dell’occupazione in Italia. Se il provvedimento fosse stato esteso anche ad altri settori dell’economia, oltre a quello rapidamente saturato dell’edilizia, si sarebbe potuti arrivare in pochi anni a creare i 5-6-7 milioni di posti di lavoro necessari per eliminare la disoccupazione in Italia, così come si sarebbe potuto conseguire il necessario graduale aumento degli stipendi, in un paese (l’Italia) in cui gli stipendi reali sono inferiori a quelli di 20 anni fa e in cui il tasso di inflazione sta erodendo drammaticamente il potere di acquisto dei lavoratori.

Come noto prima il governo Draghi e poi l’attuale governo Meloni hanno posto fine in modo affrettato al provvedimento. Come spesso accade in Italia, i mezzi di informazione non hanno aiutato a fare chiarezza su quanto accaduto. Non sono stati evidenziati i punti di forza del provvedimento che avrebbero consigliato di mantenerlo e non sono stati evidenziati i punti deboli che bastava semplicemente correggere. Il settore dell’edilizia tornerà nella crisi in cui si trovava da oltre 10 anni.
In questo articolo cerchiamo di fare chiarezza e di spiegare perché l’Italia, senza che i nostri governanti se ne rendessero conto, ha perso una occasione di storica riforma strutturale della propria economia.

 

I componenti della misura Superbonus 110%

Il Superbonus 110% è stata una misura di stimolo fiscale dell’economia italiana costituita dai componenti seguenti :

  • Un meccanismo innovativo di finanziamento. Lo Stato concede ora degli “sconti fiscali” che stimolano la crescita economica. Lo fa senza spendere nulla ora. Gli “sconti fiscali” sono cedibili a terzi. Quindi anche dei soggetti fiscalmente non capienti sono in grado di usufruire dei benefici economici del provvedimento. La possibilità teorica di cedere in modo illimitato, e trasparente, i crediti fiscali consente a chi commissiona i lavori di usare i crediti fiscali per pagare i lavori alla ditta. In seguito consente alla dita di usare quei crediti fiscali per pagare i propri fornitori. E così via, fino a che, negli anni a seguire, poco alla volta quei crediti fiscali verranno “spesi” per pagare le tasse. In quel momento futuro lo Stato registrerà effettivamente una riduzione degli introiti fiscali pari allo sconto fiscale emesso anni prima, ma nel frattempo la cessione plurima dei quei crediti fiscali avrà portato ad una maggiore emersione di fatturato imponibile per le varie imprese, al punto che l’aumento di introiti fiscali innescato compensa e supera i futuri ammanchi per gli sconti fiscali.
    E’ quello che, tecnicamente, viene chiamato moltiplicatore fiscale.
    Un centro studi economico serio e conosciuto come Nomisma ha quantificato i crediti fiscali emessi a 71,8 miliardi di euro (non di spese attuali per lo Stato, ma di future minori entrate) ed ha quantificato l’impatto economico benefico sull’economia a 195,2 miliardi di euro, tale da assicurare maggiori entrate fiscali per lo Stato tale da compensare largamente le minori entrate previste.
    Il concetto importante da comprendere che il meccanismi che consente la sostenibilità fiscale per provvedimento è proprio il meccanismo della cessione dei crediti fiscali. Quanto più vengono ceduti prima di essere scontati, tanto più il provvedimento è vantaggioso per le casse dello Stato.
    Questo meccanismo di sostenibilità non esiste per gli altri bonus fiscali “tradizionali” che gli italiani conoscono da molto tempo. I bonus ordinari sono personali ovvero vengono concessi solo ai “ricchi” che hanno sufficiente capienza fiscale per detrarli dalle proprie imposte. Non possono essere ceduti a terzi per il pagamento di altre prestazioni lavorative. Di conseguenza il loro moltiplicatore fiscale è molto più basso e, dal punto di vista del bilancio dello stato, sono decisamente meno sostenibili.
    Il principale motivo per cui gli ultimi 2 governi hanno deciso di porre fine al provvedimento è stata la sua supposta insostenibilità economica di bilancio anche se, dati alla mano, non è per nulla dimostrata. Ci ritorniamo nella parte finale dell’articolo.

 

  • L’identificazione di uno specifico settore dell’economia beneficiario del provvedimento. Si è deciso che solamente l’edilizia privata, per gli interventi di ristrutturazione energetica, doveva essere beneficiaria della misura.
    Ma, chiediamoci, se il meccanismo della cedibilità dei crediti rendeva la misura sostenibile, perché non utilizzare il Superbonus anche per finanziare i lavori di edilizia pubblica?
    Lo Stato, anziché faticare a trovare a bilancio le decine di miliardi necessarie a costruire e ristrutturare scuole ed ospedali (per fare un esempio), si sarebbe potuto auto-finanziare pagando le imprese mediante dei crediti fiscali cedibili a terzi.
    E poi perché fermarsi all’edilizia?
    Non si sarebbero potuti dare dei crediti fiscali alle famiglie più povere da “spendere” per andare in vacanza, portando anche beneficio agli operatori turistici?
    E non si sarebbero potuti pagare dei lavori di estensione della fibra ottica per le telecomunicazioni?
    La decisione di limitare il provvedimento di stimolo fiscale ad un solo settore dell’economia non trova spiegazioni logiche, se non quella di non avere compreso il meccanismo di finanziamento che ne avrebbe garantito la copertura.

Questa decisione, peraltro, ha portato troppi incentivi in un solo settore dell’economia, che non era in grado di soddisfare la troppo rapida crescita della domanda, il che è uno dei fattori che ha contribuito all’aumento dei prezzi. Nello stesso tempo ha lasciato privi di incentivi altri settori dell’economia nei quali si sarebbe potuto investire.

 

  • Una quota di detrazione fiscale pari al 110% dell’importo delle spese.
    Lo stimolo alle ristrutturazioni energetiche degli edifici avrebbe funzionato anche limitando gli sgravi fiscali ad esempio all’80%.
    Mediamente il tempo di ritorno degli investimenti di isolamento termico degli edifici, senza incentivi, è dell’ordine di 20-30 anni. Con detrazioni all’80% il tempo di ritorno si riduce a 4-6 anni. Le banche avrebbero potuto fare credito decennale per finanziare la quota restante del 20% dei lavori, facendosi ripagare dalle economia di energia. All’estinzione del mutuo sarebbero rimasti tutti i vantaggi economici di economia sulle bollette a beneficio degli utenti.
    Il fatto di poter detrarre il 100% delle spese, più un ulteriore 10% di commissioni da corrispondere alle banche (a chi, se no?) ha annullato le necessarie trattative commerciali fra venditore ed acquirente. Questo fattore, unito alla concentrazione degli investimenti in un unico settore dell’economia, ha ulteriormente contribuito all’aumento dei prezzi dei lavori e, quindi, a ridurre la redditività degli investimenti.
    Non era difficile comprendere che sarebbe stato molto meglio limitare all’80% le detrazioni fiscali, pur mantenendo la possibilità di cedere lo sconto fiscale.
    Molte persone sono convinte che sia stata l’esagerazione della quota di detrazioni al 110% a rendere insostenibile il provvedimento.
    Questo non è vero. Come i dati di Nomisma dimostrano, la sostenibilità fiscale del provvedimento era comunque garantita dal meccanismo della cessione.
    L’errata scelta della quota al 110% ha ridotto l’efficacia economica del provvedimento, probabilmente perché qualcuno ha pensato di accrescere gli utili per le banche al 10% e più della torta, ma non ne ha compromesso la sostenibilità.
    Per migliorare il Superbonus sarebbe bastato ridurre all’80% la percentuale delle spese da portare in detrazione e fare un accordo con il sistema bancario per coprire il restante 20% con crediti ad hoc, ripagati dai risparmi sulle bollette energetiche.

 

  • Un provvedimento incerto e non strutturale. Fin dalla sua origine la misura del Superbonus 110% è stata concepita come misura non-strutturale. Ovvero ogni anno, nella legge finanziaria, si doveva decidere se confermare o meno il provvedimento, in quali termini e secondo quali regole.
    Ora: se l’obiettivo del provvedimento deve essere quello di creare dei posti di lavoro stabili, allora è necessario garantire alle imprese una continuità degli investimenti. Solo avendo la certezza di commesse per i 5-10 anni a venire le imprese investiranno nell’assunzione di giovani da formare e nell’acquisto di macchinari. Un provvedimento strutturale è qualcosa che risulta da una pianificazione a medio-lungo termine, non qualcosa che di anno in anno si decide di rinnovare o di porvi fine.
    La combinazione di queste incertezze con la rapida crescita di commesse nel settore ha contribuito ulteriormente all’aumento dei prezzi. Non essendoci la possibilità di fare i lavori negli anni a seguire, le imprese si sono trovate di fronte ad una domanda eccessiva e non rimandabile. Quindi hanno aumentato i prezzi.
    Se il provvedimento fosse stato confermato per almeno 10 anni, questo avrebbe portato ad una maggiore efficienza degli investimenti ed a ricadute molto positive per l’occupazione negli anni a venire.

Anche questo è un aspetto che era sufficiente correggere, senza porre fine al provvedimento.

  • Una eccessiva burocrazia. Sappiamo che i burocrati dei ministeri vivono sulle complicazioni amministrative imposte ai cittadini. Nel caso del Superbonus 110% è stato probabilmente stabilito il record mondiale della burocrazia, che è stata resa ancora più complessa nel caso di interventi di ristrutturazione effettuati da condomini, quindi da molti proprietari “associati” fra loro. Gli effetti di questo eccesso di burocrazia sono stati un aumento delle prestazioni professionali per la realizzazione dei lavori (altra perdita di efficienza degli investimenti), dei ritardi nell’avvio dei lavori e dei vantaggi dei committenti singoli (in genere persone benestanti e accorte che hanno saputo approfittare dell’occasione) rispetto ai condomini (composti da appartamenti di persone povere e meno capaci di organizzarsi).
    Molti che avrebbero voluto realizzare (Nomisma li stima a 10 milioni di persone, 1/6 della popolazione) degli interventi di ristrutturazione energetica, cosa che sarebbe stata utile sia per il bilancio delle famiglie povere, sia per la pesante bolletta energetica del nostro paese, sia per i benefici ambientali, non sono riusciti a farlo a causa dell’eccesso di burocrazia.
    Davvero non si capisce la necessità di certificare a priori la conformità degli interventi.
    Dal punto di vista della sostenibilità fiscale, come abbiamo dimostrato al punto 1), questi controlli non erano necessari. La misura si sostiene tramite il meccanismo della cedibilità dei crediti fiscali, indipendentemente dalla conformità dei lavori. Nessun costo aggiuntivo a carico dello Stato.
    Dal punto di vista degli obiettivi di risparmio energetico era sufficiente affidare la progettazione a dei tecnici competenti e fare delle verifiche “sostanziali” sui lavori effettivamente realizzati. Non era difficile trovare dei tecnici privi di conflitti di interesse per fare delle ispezioni tecniche nei cantieri.
    Resta il sospetto che la burocrazia sia stata introdotta proprio con l’obiettivo di rendere meno fruibile il provvedimento.
    Se l’obiettivo voleva essere quello di aiutare le famiglie povere a realizzare interventi di risparmio energetico e velocizzare l’esecuzione dei lavori, lo si poteva fare in modo semplice, riducendo al minimo la burocrazia.

 

Il Superbonus e i vincoli di bilancio

Probabilmente non tutti sanno che cosa rientra nel calcolo del “debito dello stato”.
Molti pensano che si tratti di un debito simile a quello di una famiglia. In realtà questo non è vero.
Nel debito pubblico vengono contabilizzati i titoli di stato in circolazione, che il Tesoro si è impegnato a rimborsare entro una certa scadenza e ad un certo tasso di interesse. Si tratta di denaro in qualche modo “preso in prestito” dallo Stato.
Ma nel debito pubblico non sono contabilizzati le fatture non pagate ai fornitori che hanno già fornito le loro prestazioni. Stiamo parlando di diverse decine di miliardi di euro di debiti commerciali non saldati dei vari enti pubblici nei confronti di imprese private.
Secondo le normative di Eurostat questi importi non vengono conteggiati nel debito, in quanto incidono sul bilancio dello Stato solo nel momento in cui il denaro esce effettivamente dalle casse del Tesoro.
Con la stessa logica anche le detrazioni fiscali sono considerate rientranti nel conteggio del debito solo nel momento in cui vengono effettivamente scontate. Questo perché, per diversi motivi, può accadere con uno sgravio fiscale, come ad esempio i vecchi bonus per le ristrutturazioni edilizie, non venga completamente utilizzato, magari per decesso della persona avente diritto o per incapienza fiscale.

Il superbonus 110% avrebbe dovuto essere stato considerato allo stesso modo. Non un debito o deficit dello Stato al momento della sua emissione, ma solo al momento in cui, dopo la catena di cessioni, qualcuno effettivamente lo utilizza per pagare meno tasse.
Sulla questione vi è stato a inizio anno il pronunciamento del rappresentante di Eurostat Luca Ascoli, così come del direttore generale del MEF Giovanni Spalletta sul modo di calcolare nel bilancio dello stato questo nuovo tipo di sgravio fiscale. La differenza sostanziale rispetto ai bonus “vecchio stile” è che in questo caso è quasi certo che il credito fiscale venga utilizzato, in quanto la catena di cessioni del credito terminerà nelle mani di qualcuno certamente in grado di utilizzarlo.
Alla fine l’interpretazione dei quei geni della Ragioneria dello Stato è stata che debba essere inserito, contraddicendo la logica utilizzata per i debiti commerciali e per gli ordinari bonus fiscali, non al momento futuro dello sconto, ma già al momento della emissione.
E questo è significato, dal punto di vista contabile, che per gli anni già trascorsi 2020-2022, nel corso dei quali lo Stato ha emesso le decine di miliardi di crediti fiscali del Superbonus, è stato ricalcolato il bilancio dello Stato, scoprendo (ORRORE!) uno sforamento importante nel deficit preventivato per quegli anni e complessivamente stimato dai ragionieri e dal ministro Giorgetti in complessivi 120 miliardi di “buco di bilancio”.
Questa è la ragione per la quale, ufficialmente, il governo Meloni ha deciso di affossare definitivamente il provvedimento, ponendo soprattutto fine al meccanismo della cessione dei crediti fiscali.
Proviamo a paragonare al situazione a quella di una normale impresa o famiglia. Ho la possibilità di fare un investimento di 71 o di 120 mila euro (come dice Giorgetti) che, nel giro di 2 anni, mi porta benefici per 159 mila euro, con la certezza di rientrare rapidamente del mio indebitamento. Dovrei decidere di rinunciare a quell’investimento solo perché mi costa troppo caro nel primo anno?
Solo un folle (o un ministro dell’economia italiano) potrebbe ragionare in questo modo.
E a nulla serve la solita scusa “ce lo chiede l’Europa”, sia perché l’Europa per 2 anni consecutivi aveva approvato senza problemi le manovre finanziarie contenenti la misura del Superbonus. E se anche l’UE avesse qualcosa da ridire, il fatto di attuare una misura strutturale che consente nello stesso tempo di fare investimenti nella direzione delle politiche “green” europee, di creare 600’000 posti di lavoro e di far quadrare i conti del bilancio per gli anni a venire metterebbe a tacere queste critiche.

 

Conclusioni

Gli ultimi 2 governi del nostro paese hanno messo tutto il loro impegno non per rimuovere le criticità citate dalla misura del Superbonus 110%, ma per renderla via via sempre meno sostenibile dal punto di vista contabile, impedendo la cessione illimitata dei crediti fiscali.
Prima del governo Draghi, che ha fatto di tutto per limitare la cessione dei crediti alle sole banche, le quali ad un certo punto hanno rifiutato la cessione, avendo già raggiunto la loro capienza fiscale. L’impossibilità di cedere ad altri i crediti unita all’indisponibilità delle banche ha portato alla creazione dei “crediti incagliati”. Si tratta di farina cattiva del sacco di Draghi al 100%. Il meccanismo di base della cessione illimitata dei crediti doveva essere favorito, non ostacolato.
Il nuovo governo Meloni non ha fatto nulla per rimediare ai danni causati da Draghi al Superbonus, se non di trovare una soluzione “all’italiana” per i crediti incagliati, solo dopo aver posto fine al provvedimento.
La motivazione che è stata venduta all’opinione pubblica di un “buco contabile” insostenibile non è mai stata supportata da dati reali. Giorgetti si è limitato ad evidenziare il presunto scostamento di bilancio del primo anno (che in realtà non c’è stato nella sostanza), senza contabilizzare le maggiori entrate fiscali innescate dall’effetto moltiplicatore, già misurato nel corso dei primi 2 anni di attuazione del provvedimento. Quindi entrate certe, non ipotetiche.
Oltre al citato studio di Nomisma, altri istituti hanno validato al sostenibilità fiscale del provvedimento. Possiamo citare anche la Open Economics, la Luiss Business School, la Fondazione Nazionale dei Commercialisti, il Cresme, il Censis, l’Associazione Nazionale Costruttori, il Centro Studi del Consiglio Nazionale degli Ingegneri.
Non è ammissibile che un governo giustifichi di fronte all’opinione pubblica la cessazione di una misura che creerà 600’000 nuovi disoccupati (fine del mini-boom dell’edilizia), un calo del PIL, la sostanziale cessazione degli interventi di ristrutturazione energetica, solo sulla base di una cifra annunciata senza un confronto con gli istituti specialisti del settore che danno cifre completamente diverse.

A questo punto il governo ha rinunciato all’unico strumento di riforma strutturale dell’economia che aveva fra le mani. La prosecuzione dei bonus fiscali non cedibili porterà a benefici economici molto limitati per il Paese e probabilmente ad una insostenibilità fiscale, causa il basso fattore moltiplicatore. Siamo ritornati alla politichetta di misure-spot a breve termine, priva di visione e totalmente inadeguata per un rilancio economico dell’Italia.
E’ stata persa una enorme occasione di riformare il bilancio dello stato, strutturandolo su di un bilancio in euro per le spese correnti, pubbliche e private, e in moneta fiscale (tali sono i crediti fiscali cedibili) per gli investimenti per lo sviluppo.
E’ stata persa l’occasione di lanciare un piano trentennale di ristrutturazione energetica degli edifici in Italia, così come la possibilità di un piano strutturale di rilancio degli investimenti pubblici per ammodernare le strutture sanitarie, scolastiche, le telecomunicazioni, ecc.

E’ solo il caso di far notare come se l’Italia adottasse questo strumento in modo stabile per finanziare gli investimenti pubblici e per stimolare gli investimenti privati, avremmo la possibilità da un lato di ridurre strutturalmente la spesa pubblica “in euro” e dall’altro lato di stimolare la crescita del Prodotto Interno Lordo (come è fattivamente avvenuto grazie al Superbonus 110%).
Il risultato sarebbe un rallentamento della crescita del debito ed un aumento del PIL, ovvero la tanto invocata riduzione del rapporto debito/PIL richiesta dai trattati europei.
Ma a quanto pare gli esperti del MEF preferiscono continuare con le politiche economiche del passato, che da 30 anni hanno dimostrato né di potere ridurre il rapporto debito/PIL, né di portare crescita economica al Paese.
La buona occasione per la più grande riforma economica strutturale degli ultimi 40 era arrivata, ma i nostri governanti hanno pensato bene di rinunciarvi.

Di positivo ci resta solo il fatto di avere dimostrato, per chi sa guardare obiettivamente i risultati economici, che si trattava della strada giusta da seguire per la ripresa economica del Paese.
Quando avremo un governo finalmente con l’obiettivo di fare qualcosa di strutturalmente utile per i cittadini, potrà ripristinare il meccanismo degli sgravi fiscali a cessione illimitata ed utilizzarlo per rilanciare molti settori dell’economia, in modo da finanziare delle politiche per la piena occupazione (art. 1 della Costituzione), per il contrasto alla povertà, per la crescita dei redditi, in favore dell’ambiente e senza creare dissesti al bilancio dello Stato.
Aspettiamo e speriamo.
Se qualcuno ne ha la possibilità, faccia avere questo articolo ai parlamentari e a chi ci governa. Non sia mai che si ravvedano dal grave errore commesso.

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Ecologia o delirio ?_di Davide Gionco

Ecologia o delirio ?
Le politiche ambientali dell’Unione Europea, l’idealità totalmente slegata dalla realtà.

di Davide Gionco

L’UE e gli ecologisti monotematici
L’Unione Europea è governata da ecologisti. Almeno in teoria.
Nulla fanno per evitare la diffusione delle microplastiche nell’ambiente e di altri composti chimici che portano effetti avversi gravi sulla salute umana: glifosato, PFAS, grafene, sostanze nanotecnologiche, radioattività, ecc..
Nulla fanno per evitare la diffusione di armi che uccidono molto più dell’effetto serra, anzi, fanno di tutto per aumentarne la produzione, così come per diffondere la mentalità di guerra.
Ma ci difendono dall’unico grave pericolo preso in considerazione dalla narrativa dei mass media: le emissioni di CO2 che portano al cambiamento climatico.
Da questa ideologia scaturiscono le proposte del piano “Fit for 55”.

Naturalmente non si propongono limitazioni all’importazione di prodotti commerciali contenenti energia fossile consumata in altri continenti, che causano emissioni di CO2 esattamente come se lo facessimo in Europa. Le limitazioni al consumo di energia vengono imposte unicamente in Europa, così che il risultato, alla fine, sarà comunque insufficiente rispetto all’obiettivo prefissato, dato che gli altri, fuori dall’Europa, avranno continuato ad inquinare, anche grazie agli acquisti di merci estere da parte dei paesi dell’UE.

In realtà l’unico motivo sicuro per cui l’UE dovrebbe affrancarsi dalle energie fossili è che si libererebbe dai condizionamenti da parte dei paesi fornitori di gas e di petrolio. L’autosufficienza energetica è qualcosa che può offrire ad un governo molti margini di azione nella politica internazionale e garantire una maggiore stabilità dei prezzi per famiglie ed imprese.

Chiudiamo qui la discussione sulla opportunità o meno di perseguire l’obiettivo primario di perseguire la riduzione delle emissioni di CO2. Assumiamo che si tratti dell’obiettivo giusto da perseguire e valutiamo la razionalità e l’efficacia delle soluzioni proposte.
La sensazione è che da parte della Commissione Europea e dei mezzi di informazione (che sanno solo fungere da amplificatore) è che vi sia una idealità totalmente slegata dalla realtà.
Un conto è che una singola persona, una singola famiglia, una singola impresa passi dall’auto a benzina all’auto elettrica o che installi una pompa di calore o che metta l’isolamento termico ad un edificio. Un altro conto è che a farlo siano centinaia di milioni di persone in tutta Europa o 60 milioni di persone in tutta Italia.

Ci sono dei problemi di fattore scala, come si dice fra noi ingegneri. Infatti è prima necessario verificare che filiere produttive dispongano di quanto necessario (materie prime, manodopera, capitali) per fare fronte all’aumento della domanda del mercato.

 

Il caso delle auto elettriche
Se un cliente si presenta da un autorivenditore per acquistare un’auto elettrica, questi non avrà problemi a vendergli una singola auto elettrica. Né la rete elettrica avrà, successivamente, problemi a rendere disponibile la necessaria energia elettrica per il funzionamento di una singola auto elettrica. Né ci saranno problemi, quando sarà ora di smaltire la batteria dell’auto, a trovare un modo sostenibile per farlo,
Ma ben diverso è che si presentino da tutti gli autorivenditori in Italia 20 milioni di italiani, ciascuno ordinando un’auto elettrica. In quel caso per rispondere all’ordinativo sarà necessario fare i conti con la capacità del sistema di produrre nel tempo richiesto tempi brevi una tale quantità di automobili. E’ evidente che i produttori non sarebbero pronti per passare da 100 mila auto vendute elettriche vendute in Italia nel 2022 a 1,3 milioni l’anno (totale delle auto vendute in Italia nel 2022), 13 volte tanto.
Per fare fronte a questa nuova domanda, infatti, sarà necessario reperire in sufficiente quantità le materie prime per i nuovi motori elettrici e per le batterie, le quali non sono prodotte scrivendo numeri sul computer, come si fa quando si scrive una norma, ma sono estratte dal pianeta terra, con implicazioni ambientali, sociali, geopolitiche, con il rischio di guerre per il controllo delle risorse.
Oltre a questo sarà anche necessario organizzarsi per smaltire, in modo ecologicamente sostenibile, le batterie elettriche esauste, per quantitativi 13 volte superiori a quelli attuali.

E si dovrebbe anche fare i conti con la disponibilità di energia elettrica, che dovrebbe aumentare considerevolmente rispetto all’attuale produzione.
Dove la prendiamo? Che cosa significa aumentare a tali livelli di disponibilità di energia elettrica?
Nel 2020 l’Italia aveva un consumo di energia elettrica di 319 TWh, di cui solo 273 TWh prodotti in Italia (e 46 TWh importati) e di cui 182 TWh provenienti da fonti non rinnovabili e solo 91 TWh da fonti rinnovabili.
A questo si andrebbero aggiungere altri 65 TWh l’anno per sostituire l’energia fossile delle auto termiche con energia elettrica da fonti rinnovabili.
L’Unione Europea ha proposto che dal 2035 vi sia il divieto di produrre auto termiche in Europa, per evitare di emettere CO2 con i motori termici. Ma questo significherà anche organizzarsi per aumentare la produzione elettrica da fonti rinnovabili di 182 + 65 = 247 TWh/anno rispetto ai 91 TWh/anno attuali, con un incremento pari a 2,7 volte. Oltre al fatto che dovremmo assicurarci che anche i 46 TWh/anno che importiamo provengano da fonti rinnovabili-
A chi parla di costruire nuove centrali nucleari risponderei che, dal momento della decisione, ci vogliono 14-15 anni prima di mettere in servizio una centrale nucleare (quindi saremmo già in ritardo per il 2035). E, anche in questo caso, dovremmo fare i conti con la disponibilità di ingegneri e di personale tecnico per progettarle e realizzarle, considerando che questo avverrebbe simultaneamente in tutta Europa.

In sostanza stiamo parlando di ideologia pura, di cifre teoriche scritte sulla carta, senza tenere conto della fattibilità concreta di quanto proposto.

Non a caso lo scorso mese di dicembre 2022 il CEO della Toyota, primo produttore al mondo di automobili (qualcosa ne sanno) ha detto chiaramente che al momento non siamo ancora pronti, sia per il fatto di non disporre di sufficiente energia elettrica per tutte queste auto. Se, infatti, l’energia elettrica necessaria fosse prodotta da fonti fossili, i rendimenti sarebbero peggiori di quelli attuali e inquineremmo ancora di più.

Oltre alla sostanziale impossibilità e non convenienza tecnica è anche necessario affrontare il discorso economico: quante famiglie sono in grado di permettersi di acquistare un’auto elettrica nuova da 30-40 mila euro nei prossimi anni a venire? Dove trovare tutti questi soldi, se non sommergendo di debiti le famiglie, a solo vantaggio degli istituti di credito finanziario?

Il caso delle case ecologiche
Il discorso si fa ancora più insostenibile nel caso dell’obbligo imposto dalla UE di portare tutti gli edifici almeno in classe energetica E entro il 01.01.2030 ed entro la classe D entro il 01.01.2033.
Sarebbe certamente una cosa utile. Anche per chi non fosse convinto dell’utilità ambientale, sarebbe certamente utile per il portafoglio che abitassimo tutti in case energeticamente efficienti, perché questo ci consentirebbe di ridurre il peso delle bollette per il riscaldamento e la nostra dipendenza estera da fonti energetiche fossili.

Quello che pare una emerita assurdità è pretendere che tutti i proprietari (compreso lo Stato) di edifici di classe energetica inferiore alla E riescano a realizzare i necessari interventi di ristrutturazione edilizia da qui al 31.12.2029. E poi, in soli 2 anni, fare lo stesso per gli edifici in classe E, a portare almeno in classe D.

Secondo i dati forniti dall’ENEA, i lavori di ristrutturazione energetica degli edifici trainati dal Superbonus 110% hanno portato in 3 anni di lavori a ristrutturare 360’000 edifici, saturando di lavoro il settore dell’edilizia.
Quindi, lavorando a pieno regime, il settore è in grado di ristrutturare al massimo 120’000 edifici ogni anno.
Considerando che gli edifici in Italia di classe energetica inferiore alla E sono 8,8 milioni, questo significa che, disponendo dell’attuale forza lavoro, servirebbero 73 anni per completare i lavori richiesti (entro fine 2029, meno di 7 anni) dalla UE. Oppure, in alternativa, servirebbe moltiplicare almeno di 10 volte la forza lavoro nel settore delle ristrutturazioni energetiche. Considerando che oggi l’edilizia occupa 2 milioni di persone, dovremmo istantaneamente passare a 20 milioni di lavoratori nel settore (ovviamente da formare e a cui fornire le necessarie attrezzature), sapendo che attualmente in Italia siamo in tutto 18-19 milioni di lavoratori.
Ovvero dovrebbe tutti lavorare nell’edilizia (compresi i disoccupati), tralasciando tutte le altre attività lavorative.

Ci sarebbe da ridere, se non fosse che, addirittura, sarebbero previsto, per chi non si adegua, il divieto di affittare o di vendere tali immobili.
Se anche il governo non avesse affossato il Superbonus 110%, non tanto riducendo la quota di detrazioni all’80%, ma soprattutto vietando la cedibilità dei crediti fiscali, il che taglierà fuori dal beneficio la grande maggioranza dei proprietari, fiscalmente incapienti, con l’attuale forza lavoro si potrebbero mettere a norma solo 840’000 edifici nei tempi imposti dalla UE, lasciando quasi 8 milioni di edifici fuori norma, sui 12 milioni esistenti in tutta Italia. Ovvero 2 edifici su 3 non sarebbero più né affittabili, né vendibili.
Si tratta, quindi, non solo di una disposizione impossibile, ma delirante.
E’ solo il caso di far notare che nessuno dei geni che ci governano, né dei geni che fanno finta di fare opposizione, se ne sia accorto. Quantomeno non si è sentito nessuno che abbia denunciato l’impossibilità delle richieste della UE, con la proposta di rispedirle al mittente.

Conclusioni
La prima conclusione da tratte è che in Europa e in Italia non siamo governati da ecologisti, ma da persone in preda ad un delirio ideologico.
Infatti concentrano tutte le attenzioni ad un solo aspetto, forse neppure il più urgente, delle questioni ambientali, senza occuparsi di tutti gli altri aspetti.
In secondo luogo vogliono imporre ai cittadini europei ed al mondo produttivo delle misure fattivamente impossibili da realizzare e con conseguenze catastrofiche certe sull’economia.
Se dobbiamo impegnarsi a salvaguardare il pianeta, lo dobbiamo fare per il nostro benessere e dei nostri discendenti.
Se le misure proposte portano inevitabilmente a sommergere di debiti cittadini e imprese, a devastare l’ambiente in altre zone del pianeta, a bloccare il mercato immobiliare, impedendo alla gente di cambiare casa o di vendere un immobile, a doversi privare dei mezzi di trasporto…
E tutto questo senza incidere più di tanto sull’effetto serra, dato che il resto del mondo continuerà ad inquinare come e più di oggi.

Nel frattempo gli stessi che ci governano trascurano, per ossequio alle varie lobbies industriali, tante altre questioni che riguardano la qualità di vita della gente, come la diffusione di altre sostanze inquinanti nell’ambiente, nei cibi, nei farmaci. Come la crescita della produzione e vendita di armi, che porta inevitabilmente all’aumento di morti ed al maggior potere dei produttori di armi nei confronti dei decisori politici. Ricordiamoci che “L’Italia ripudia la guerra”. Non lo abbiamo scritto a caso nella Costituzione.

Vorrei chiedere ai nostri politici ed ai giornalisti che fanno informazione di liberarsi da questi folli condizionamenti ideologici, perché la storia ci insegna quanti morti sono arrivati dalle derive ideologiche nei decisori politici.
Chiediamoci se l’attuale modello economico, che punta a trasformare tutto in business, incurante degli “effetti collaterali” (sulle persone, sull’ambiente), sia davvero un modello economico adeguato pert gli obiettivi che ci prefissiamo.
Va bene usare le ideologie per pensare ad un mondo migliore, ma impariamo a fare sempre i conti con la realtà. Diversamente rischiamo di raggiungere risultati molto diversi da quelli sognati.

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Perché i politici non risolvono quasi mai i problemi dei loro elettori? di Davide Gionco

Perché i politici non risolvono quasi mai i problemi dei loro elettori?

di Davide Gionco
09.01.2023

 

 

Per quale motivo i politici eletti non riescono quasi mai a rispondere alle attese dei loro elettori?
E’ vero il teorema di Beppe Grillo, intorno al quale si formò il Movimento 5 Stelle?
Secondo questo teorema i politici sarebbero tutti corrotti e sarebbe sufficiente eleggere dei “normali cittadini” per avere finalmente dei parlamentari onesti e capaci di risolvere i problemi degli italiani.

La storia recente ci ha dimostrato che non è vero. Nelle ultime legislature gli italiani hanno eletto molte facce nuove le quali, una volta entrate in Parlamento, non hanno saputo risolvere i principali problemi degli italiani, in primis quelli economici.
Peraltro neppure i politici cresciuti nei partiti e neppure i politici “competenti” hanno dimostrato di saper fare meglio.

 

La storia recente italiana ci dimostra che esistono dei politici corrotti, così come esistono dei funzionari pubblici corrotti. Ma non è realistico che tutti i politici si corrompano non appena entrano in Parlamento o vanno al governo, diventando di colpo nemici del popolo.

Tuttavia è un dato di fatto che in Italia, anche quando i politici cambiano, i problemi principali del paese restano. E spesso peggiorano.
Possibile che tutti i politici si mettano ogni volta d’accordo per fare andare le cose di male in peggio?

E non sono solo luoghi comuni: i dati statistici sulla situazione economica italiana sono davvero impietosi.

La povertà è in aumento da molti anni.

Il reddito disponibile è sceso ai livelli del 1990, il PIL è in sostanziale decrescita da 15 anni, la capacità di risparmio è crollata.

Le stesse considerazioni le potremmo fare sul deterioramento dei servizi sanitari, sul peggioramento della scuola pubblica, sullo strapotere delle banche, sul malfunzionamento della giustizia, ecc.

Possibile che tutto questo sia dovuto ad una costante mala fede dei decisori politici degli ultimi 30 anni?
O ci sono altre ragioni che portano a queste conseguenze?

 

Ci sono indubbiamente dei vincoli esterni che impediscono ai politici eletti di fare ciò che vorrebbero.

L’adesione dell’Italia a trattati internazionali comprensivi di “clausole-capestro” non permette all’Italia di fare tutto quello che dovrebbe e le converrebbe nel confronto di soggetti esteri. Tuttavia è il caso di ricordare che l’adesione ai trattati internazionali è una decisione politica del passato, che può essere modificata, ovviamente tenendo conto delle conseguenze nelle relazioni internazionali. Inoltre i trattati internazionali non sono delle leggi. E’ possibile attuarli in modo integralista, come in genere fa l’Italia, o in modo parziale, secondo convenienza, come da sempre fanno i nostri vicini francesi e tedeschi.
Nei rapporti internazionali contano non solo i trattati scritti, ma anche i rapporti di forza. E l’Italia, quantomeno in Europa, è un paese di un certo peso, che potrebbe avere degli importanti spazi di manovra.

 

Un altro vincolo esterno all’azione dei politici eletti è posto dai funzionari pubblici “poco collaborativi”. E’ chiaro che difficilmente una decisione politica può essere eseguita se gli organi dello stato adibiti marciano in direzione opposta. O per ragioni di vicinanza ideologica ai partiti del precedente governo o per regioni di vicinanza ad altri gruppi di interesse.
Negli USA esiste la prassi dello spoiling system ovvero che quando cambia il governo vengono sostituiti i dirigenti dei vari dicasteri. In Italia la cosa viene annunciata dai giornali come quasi scandalosa, quasi che il nuovo governo volesse “vendicarsi dei nemici” sconfitti alle elezioni. Ma in realtà è la cosa più logica da fare, se dei politici eletti vengono ostacolati nelle loro decisioni da funzionari pubblici che, per qualsiasi motivo, non obbediscono al mandato popolare rappresentato dagli eletti.

 

Tuttavia, anche nei casi in cui gli eletti siano determinati a cambiare la linea politica, avviene che, all’atto dei fatti, i cambiamenti sostanziali non arrivano quasi mai.

Questo succede perché i decisori politici sono sottoposti alle fortissime pressioni delle tecniche di manipolazione messe in atto dai gruppi di potere che intendono piegare le decisioni dei politici ai propri interessi. Tali tecniche vengono utilizzate non sono, come noto, per far approvare dall’opinione pubblica decisioni politiche che di per sé non sarebbero accettabili, come una guerra o un aumento delle tasse, ma soprattutto per piegare la volontà degli stessi decisori politici verso l’approvazione di misure gradite al manipolatore di turno.

 

Gli studi sulle tecniche di manipolazione dell’opinione pubblica iniziarono con l’antropologo francese Gustave Le Bon che nel 1895 pubblicò il libro “Psicologia delle folle”. Fra i suoi successori più influenti ricordiamo il giornalista americano Walter Lippman, che nel 1922 pubblicò il libro “Opinione Pubblica” ed il fondatore delle pubbliche relazioni, Edward Bernays, nipote di Sigmund Freud, che nel 1928 pubblicò il libro “Propaganda”.
Il primo governo ad attuare sistematicamente queste tecniche, spingendole fino agli estremi, fu quello tedesco di Adolf Hitler, grazie al ministro della propaganda Joseph Goebbels, il quale riuscì nel giro di pochi anni a convincere l’intero popolo tedesco (tranne poche eccezioni) del fatto che gli ebrei erano dei sub-umani, dei parassiti degni di essere sterminati, cosa che avvenne nei campi di concentramento.

 

Naturalmente dall’inizio del XX secolo ad oggi le tecniche si sono ulteriormente evolute.
Uno dei maggiori divulgatori dei nostri tempi su questi argomenti è lo psicologo americano Robert Cialdini, autore del libro “Le armi della persuasione”, edito nel1984, il quale riassume le tecniche in 6 “armi” a disposizione dei manipolatori:
1) Autorevolezza
2) Riprova sociale
3) Scarsità
4) Simpatia

5) Reciprocità
6) Coerenza

 

Le decisioni del politico vengono spesso influenzate dall’autorevolezza (o autorità) di persone che si presentano come tecnici, esperti della materia oggetto di decisione.
Questi personaggi possono essere consulenti assunti dalle istituzioni pubbliche, ma anche degli specialisti che prendono parola su tv e giornali.

Un politico non può essere competente di tutto, per cui alla fatica di formarsi preferisce fidarsi ciecamente dell’autorità proposta nel prendere le proprie decisioni.

In questo modo, però, il manipolatore di turno avrà gioco facile ad influenzare le decisioni del politico o corrompendo lo specialista (competente non significa necessariamente onesto) oppure facendo in modo che i politici incontrino solo tecnici che, nel pluralismo della discussione scientifica, sostengono posizioni utili agli interessi del manipolatore. Il manipolatore, corrompendo chi seleziona gli specialisti da proporre al politico, crea il pensiero unico in materia. “There is no alternative” (non c’è alternativa), come diceva Margareth Thatcher.
In questo modo il politico sarà portato, in totale buona fede, a prendere decisioni sbagliate per il popolo e giuste solo per gli interessi del manipolatore.

 

Un politico è sempre attento alla riprova sociale delle proprie decisioni. Il terrore di ogni politico è di non essere rieletto per il fatto di avere scontentato i propri elettori.

Tuttavia il politico ha poco tempo per incontrare direttamente i propri elettori, tendendo a interpretare come opinione pubblica quanto scrivono tv e giornali. Peraltro la contrarietà di tv e giornali alle posizioni del decisore politico porterà anche la gente a pensare che quel politico è inadeguato, dato che anche l’opinione pubblica è oggetto delle tecniche di manipolazione.
Un politico attento a ciò che dicono tv e giornali sarà portato a decidere cercando il loro consenso. Tuttavia se accadesse (e in Italia accade spesso) che i mezzi di informazione sono di proprietà di soggetti vicino ai manipolatori, il messaggio di tv e giornali sarebbe falsato per indurre in inganno i decisori politici, i quali prenderebbero decisioni sbagliate per cercare il consenso falsato dell’opinione pubblica.
Per chi non sapesse come funzionano oggi i mass media, invitiamo il lettore a conoscere la testimonianza del defunto giornalista tedesco Udo Ulfkotte o quella di Marcello Foa sugli “spin doctors”. Un politico accorto deve conoscere queste realtà e tenerne conto nelle sue decisioni.

 

Il principio di scarsità in genere viene usato dai venditori per convincere i clienti ad acquistare in fretta, senza riflettere: “è rimasta solo un’auto di quel tipo”, “lo sconto sarà valido sono fino a domani”. La fretta porterà il cliente a decidere in modo imponderato, a tutto vantaggio del venditore.

Nel caso del decisore politico succede spesso che una decisione importante debba essere presa entro una scadenza troppo ravvicinata, senza avere il tempo necessario per approfondire a sufficienza l’argomento.

Nei casi in cui il manipolatore abbia il potere di imporre delle tempistiche strette per le decisioni politiche, avrà gioco facile ad indurre in errore il politico che, non avendone il tempo, si dovrà fidare delle informazioni superficiali di cui dispone o dell’autorità tecnica di turno (combinazione del principio 1 con il principio 3).
Al manipolatore sarà sufficiente influenzare, in qualche modo, chi detta i tempi delle decisioni (ad esempio la Commissione Europea o chi stabilisce l’agenda del Parlamento) per indurre in errore molti decisori politici.

 

Il principio di simpatia viene utilizzato dai venditori per creare fiducia nei clienti, così come viene utilizzato dai manipolatori per carpire la fiducia di un politico. La persona “simpatica” che viene a contatto con il decisore politico utilizzerà questa fiducia, al di là dei meriti e delle capacità, per influenzare le sue scelte.
In altri casi l’innata simpatia viene utilizzata da qualcuno per portare consensi a se stesso ed al proprio partito politico, arrivando a guadagnare il ruolo di leader di partito.
Il politico eletto, per disciplina di partito, dovrà sottostare alle decisioni di quel leader.
I manipolatori hanno il potere di selezionare persone non capaci, ma “simpatiche” e fedeli al mandato del manipolatore, introducendole alla vita politica ed usandole per influenzare le decisioni dei politici.

 

La reciprocità è l’arma preferita dai manipolatori per influenzare le decisioni dei politici eletti. Umanamente ogni volta che riceviamo un favore ci sentiamo in obbligo di contraccambiare.
Il manipolatore offre dei favori “gratuiti” al politico: regali, occasioni di visibilità, incarichi di prestigio, di potere e remunerativi, incarichi presenti o futuri. Dopo di che il decisore politico si sentirà in obbligo di restituire il favore, accondiscendendo alle richieste del manipolatore. Questo anche senza arrivare a fenomeni di corruzione.
Il potere e la visibilità personale per un politico sono garanzie per il futuro. Difficile rinunciarvi. La decisione di restituire il favore, votando provvedimenti a vantaggio dei manipolatori, dei quali non ci si preoccupa neppure di conoscere le conseguenze, viene ritenuta una decisione “innocente”.

 

Una volta che un politico abbia preso un impegno pubblico, farà di tutto per confermare agli elettori la sua coerenza rispetto all’impegno preso.
La coerenza è certamente un fattore di serietà e di credibilità quando una persona mantiene ciò che ha promesso. Ma diventa una trappola micidiale per il decisore politico ogni volta in cui si sia precedentemente sbagliato nelle proprie valutazioni. Ovvero ogni volta in cui sia stato tratto in inganno tramite uno degli altri 5 metodi sopra esposti.
Un decisore politico serio dovrebbe avere il coraggio di ammettere pubblicamente di essersi precedentemente sbagliato, perché mal consigliato o per non avere prima sufficientemente approfondito la questione. In questo modo avrebbe la libertà di correggersi e prendere le decisioni giuste in favore degli elettori. Ma molto spesso questo non succede, perché il meccanismo psicologico è fortissimo, sia nei confronti del politico eletto, sia nei confronti degli elettori.
Tu, cittadini, che leggi questo articolo, preferiresti votare per un politico che si presenta sempre coerente, senza mai riconoscere i propri errori anche quando si accorge di avere sbagliato o votare un politico che ammette pubblicamente di essersi sbagliato e di avere cambiato opinione?
In questo meccanismo noi elettori non siamo esenti da responsabilità.

 

Cosa potrà fare un politico accorto per evitare di cadere nelle dinamiche di condizionamento sopra illustrate?

Per evitare di sottomettersi alle false consulenze degli specialisti autorevoli la prima cosa da fare per un politico è di formarsi, per arrivare a disporre di competenze proprie di base sulle principali questioni, soprattutto su quelle che richiamano maggiori interessi economici e, quindi, maggiori pressioni dei manipolatori.

A tale scopo, per chi fosse interessato, la nostra associazione Confederazione Sovranità Popolare ha organizzato un corso di cultura politica, che inizierà il prossimo 25 gennaio 2023.
Per informazioni: https://sovranitapopolare.info/corso-politica/

 

In secondo luogo un politico sinceramente motivato a fare il bene del proprio paese approfondirà la conoscenza delle tecniche di manipolazione dell’opinione qui sopra citate ed eviterà, per quanto possibile, di cadere nei tranelli dei manipolatori.
Avrà quindi sempre un atteggiamento critico nei confronti degli specialisti tecnici, ricercando anche punti di vista alternativi, prima di prendere delle decisioni.

Il politico accorto deve sapere che oggi i mezzi di informazione sono fortemente condizionati dagli interessi dei poteri forti, per cui saprà che non sempre la voce di tv e giornali corrisponde alla verità ed all’opinione della gente. E saprà che gli stessi mezzi di informazione spesso operano manipolando l’opinione pubblica.
Il decisore politico cercherà, anche con coraggio, di non farsi mettere alle strette nelle proprie decisioni, prendendosi il tempo necessario per decidere bene, perché una decisione sbagliata costerà al popolo molto di più di una settimana di ritardo sui tempi imposti per l’approvazione.

Un politico serio cercherà sempre di valutare gli interlocutori sulla base della loro serietà e competenza e non sulla base della simpatia o di favori concessi.
L’umiltà, necessaria per fuggire la vanagloria dei posti di prestigio, e la sobrietà, intransigente, necessaria ad evitare che l’azione politica sia finalizzata al servizio del popolo e non all’arricchimento personale, sono delle qualità fondamentali. L’etica, in un decisore politico, è un fattore fondamentale. Non devono essere ammessi compromessi.

 

La risposta alla domanda iniziale, del perché i politici non riescono quasi mai a risolvere i problemi dei cittadini, sono quindi i seguenti 3 punti:
1) Fondamenti etici poco solidi;
2) Limitate competenze proprie di base, unite ad una eccessiva fiducia malriposta negli specialisti tecnici;
3) Ignoranza delle tecniche di manipolazione messe in atto da chi vuole asservire la politica ad interessi privati.

 

Per cambiare veramente il nostro paese abbiamo bisogno di una nuova generazione di politici attenti a questi aspetti e di elettori che sappiano apprezzare, quando vanno al voto, i politici con queste qualità.

 

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Corte incostituzionale o incompetente?_ di Davide Gionco

Riceviamo e pubblichiamo. Giuseppe Germinario

640 giorni prima di pronunciarsi
Lo scorso 1° dicembre 2022 la Corte Costituzionale si è pronunciata
in merito alla legittimità costituzionale dell’obbligo vaccinale e della sospensione dal lavoro e dallo stipendio per gli operatori sanitari inadempienti all’obbligo di vaccinazione contro il Covid-19. Responso: “Le scelte del legislatore sull’obbligo vaccinale del personale sanitario sono non irragionevoli, né sproporzionate”.

Non intendo entrare nel merito dell’imparzialità politica della Corte . I meccanismi di nomina dei membri sono noti e ciascuno è in grado di giudicare se le nomine vengano fatte per garantire i cittadini o altri interessi di parte del mondo della politica.

La Corte si è dovuta pronunciare a seguito del ricorso fatto da uno dei soggetti aventi diritto. Lo aveva fatto il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia, in una ordinanza del 22.03.2022, contro il Decreto Legge 44/2021 del 01.03.2021, successivamente convertito in legge il 28.05.2021, dopo che già il Consiglio di Stato si era pronunciato favorevolmente al provvedimento con la sentenza n. 7045 del 20.10.2021.
Per chi non ne fosse al corrente, il D.L. 44/2021 prevedeva la sospensione dal lavoro e dallo stipendio degli operatori del settore sanitario (compresi gli amministrativi), i docenti ed il personale della scuola, i militari e le forze di polizia.

Ora non vogliamo entrare nel merito della correttezza formale della sentenza, in quanto il sottoscritto non ha le competenze.
Come cittadino, per quel poco che ho studiato di educazione civica, so che la Corte Costituzionale è il massimo organo di garanzia a tutela dei cittadini contro eventuali violazioni della Costituzione da parte del legislatore.
Ovvero è un organismo che dovrebbe evitare che i cittadini subiscano a motivo di leggi non conformi alla Costituzione delle gravi privazioni dei loro diritti fondamentali sanciti nella prima parte della Carta, in primis il diritto al lavoro (art. 1), il diritto alla solidarietà politica, economica e sociale (art. 2), eccetera.
Tutti diritti che, obiettivamente, sono stati limitati e ridotti dal D.L. 44/2021 e da moltissimi altri provvedimenti elaborati dal parlamento o dal governo durante il periodo della pandemia del covid-19. E questo fatto ha riguardato milioni di persone, che in questi 2 anni hanno subito danni economici molto rilevanti per la sospensione dal lavoro, nonché gravi danni alla salute per gli effetti avversi da vaccino. Al di là del merito della decisione, possiamo oggettivamente dire che si tratti di una questione molto rilevante.

Come cittadino constato che la Corte Costituzionale non solo non si è preoccupata di intervenire con urgenza per verificare la costituzionalità o meno di tutti i provvedimenti anti-covid, ma addirittura ha atteso ben 254 giorni per pronunciarsi, solo dopo il ricorso della Regione Sicilia, su alcuni di questi provvedimenti e ben 640 giorni dopo la pubblicazione del decreto legge.

Gli esperti di diritto mi risponderanno che è normale, che l’intervento della Corte Costituzionale può avvenire solo dietro richiesta di certi organismi della repubblica, che la Corte ha un calendario molto fitto di impegni, per cui le richieste che le pervengono hanno bisogno di tempi lunghi per essere trattate.
Io, da cittadino, rispondo che non è normale che dei provvedimenti legislativi così rilevanti, che:
– riducono per milioni di persone, e pesantemente, il diritto al lavoro
– che privano milioni di persone del diritto a potersi sostenere economicamente
– che obbligano di fatto milioni di persone a subire un trattamento sanitario contro la propria volontà
– che portano per mesi centinaia di migliaia di persone in piazza a protestare
Non è normale che il massimo organo di garanzia non intervenga con urgenza per verificare la costituzionalità o meno di tali provvedimenti.
Anzi, non è neppure normale che il Governo e il Parlamento, prima di emanare un decreto e votare una legge con tali gravi ricadute, non si siano neppure preoccupati di verificare se fosse costituzionale o meno e che la Corte Costituzionale non sia disponibile, in tempi ragionevolmente rapidi, a fare da supporto agli organi legislativi nel verificare la costituzionalità di un provvedimento rilevante.

Non stiamo parlando di provvedimenti che impongono di modificare (ad esempio) l’etichettatura dei salumi, ma di provvedimenti che hanno oggettivamente creato degli enormi problemi a milioni di cittadini, privandoli di diritti fondamentali riconosciuti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

Se anche quanto avvenuto è formalmente legittimo, non possiamo dire che sia “normale”.
Se il 1° dicembre la Corte Costituzionale avesse dichiarato la sostanziale incostituzionalità del D.L. 44/2021, milioni di persone si sarebbero ritrovate per ben 640 giorni “ufficialmente” private di diritti costituzionali fondamentali, senza essere state tutelate dal supremo organo di garanzia.
Se domani il governo di Giorgia Meloni emanasse un decreto incostituzionale che leda i diritti umani fondamentali di altri milioni di italiani, dovremmo ancora attendere altri 640 giorni prima che gli organi di garanzia dello stato dichiarino che è incostituzionale?

I tempi e le modalità di intervento della Corte Costituzionale a garanzia dei cittadini sono costituzionali o incostituzionali? Garantiscono i diritti fondamentali dei cittadini?
Non è sufficiente che i diritti siano garantiti formalmente, ma che lo siano fattivamente. Quindi i modi e i tempi dei pronunci

Legittimo e ragionevole non significa “scientificamente fondato”
La sentenza della Corte del 1° dicembre 2022 non ha rilevato degli estremi di incostituzionalità dei provvedimenti esaminati, né una loro “irragionevolezza“.
Secondo la Corte il supposto fine di tutelare la salute pubblica ha costituzionalmente giustificato i provvedimenti che hanno causato a milioni di persone la sospensione dal lavoro, la perdita dello stipendio ed il sostanziale obbligo di “vaccinarsi” con un farmaco per le persone che volessero evitare quelle conseguenze, anche se quelle persone lo ritenevano un farmaco non sicuro per la propria salute
La Corte si è pronunciata sia sulla legittimità costituzionale, sia sulla ragionevolezza.

Il requisito fondamentale di costituzionalità che avrebbe giustificato i provvedimenti è la “tutela della salute pubblica” (art. 32) La Corte ha stabilito che le supposte esigenze di salute pubblica devono prevalere sul diritto di una parte rilevante della popolazione a poter lavorare e mantenersi con il reddito del proprio lavoro, nonché la legittimità del trattamento obbligatorio, in quanto “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge” (seconda parte dell’art. 32).

Effettivamente, se in Italia ci fosse realmente una grave epidemia di peste bubbonica, con il rischio concreto della morte di 1/3 della popolazione, come avvenne alla metà del XIV secolo, e se davvero esistesse un farmaco in grado di evitare tutte queste morti, senza causare effetti avversi rilevanti, nessuno avrebbe dubbi sulla legittimità costituzionale e sulla ragionevolezza di provvedimenti legislativi che obblighino la popolazione ad assumere quel farmaco, pena la sospensione dal lavoro, dallo stipendio e magari anche dal diritto di circolare liberamente.

Viceversa, se in Italia non vi fosse alcuna pandemia, senza rischio alcuno di morte né di malattia grave per nessuno, sarebbe con ogni evidenza del tutto incostituzionale e irragionevole imporre a chicchessia l’assunzione di un farmaco per curarsi da una malattia che non costituisce un pericolo o sospendere milioni di persone dal lavoro per inesistenti ragioni di salute pubblica.
Lo stesso potremmo dire, persino in caso di epidemia conclamata di peste bubbonica, se il legislatore volesse imporre alla popolazione di curarsi assumendo cianuro di potassio, un noto veleno. Sarebbe a tutti evidente, anche ai membri della Corte, la contrarietà al diritto alla salute e l’irragionevolezza del provvedimento.

Ma…
Se arrivassero dei medici in televisione a sostenere che non esistono cure alla peste bubbonica, tranne che il cianuro di potassio, da assumersi in piccole dosi, secondo modalità approvate dall’autorità sanitaria, ripetendoci ogni giorno su TV e giornali che si tratta dell’unica cura possibile alla pandemia di peste bubbonica in corso…
Che cosa crederebbe la gente? Che cosa crederebbero i legislatori? Che cosa crederebbero i giudici costituzionali?
La paura di morire e la mancanza di cure efficaci, di fronte all’autorevolezza dei medici su TV e giornali potrebbero portare molte persone, compresi i membri della Corte, a ritenere “ragionevole” la proposta.
Questo anche se, scientificamente parlando, il cianuro di potassio continuerebbe a restare un pericoloso veleno.

Finalmente abbiamo centrato i termini della questione su cui i giudici costituzionali si sono pronunciati.
La legittimità costituzionale e la ragionevolezza dei provvedimenti legislativi esaminati non si fondano su questioni giuridiche, sulle quali la Corte è certamente esperta, ma su questioni che hanno a che fare con i fondamenti scientifici delle decisioni del legislatore e, se vogliamo, con la credibilità dei mezzi di informazione, che hanno il potere di far credere come vero qualcosa che potrebbe in realtà essere scientificamente falso.

La Corte Costituzionale ha emesso la sua sentenza del 1° dicembre 2022 dando per certo che la situazione sanitaria del paese, al momento dell’emanazione del D.L. 44/2021, fosse realmente della gravità dichiarata dal governo e che la soluzione proposta fosse realmente adeguata alla supposta gravità della situazione, ovvero che l’assunzione obbligatoria del “vaccino” per poter lavorare, fosse scientificamente l’unica soluzione possibile ed una soluzione priva di rischi di gravi effetti avversi per la salute.

La Corte non poteva avere le competenze (e probabilmente neanche la volontà, per evitare lo scontro con il potere politico) per pronunciarsi sui fondamenti scientifici dei provvedimenti legislativi esaminati. Si sono “fidati ciecamente” dei fondamenti di verità in base ai quali il legislatore ha deciso. Hanno giudicato “legittimo” e “ragionevole” il fatto che il legislatore si sia fidato dei propri consulenti scientifici, con la conferma di credibilità garantita dai mezzi di informazione.

Per diventare giudici costituzionali non è necessario conoscere il metodo scientifico, né l’epistemologia della Scienza di Karl Popper.
Né è necessario avere competenze sui metodi stabiliti a livello internazionale per la validazione dei farmaci e dei vaccini e sul rischio per la salute di milioni di persone se sottoposti a rischi di effetti avversi sconosciuti, causati da farmaci non sufficientemente testati.
Per essere nominato membro della Corte Costituzionale non è neppure necessario conoscere le tecniche della propaganda mediatica, anche se conoscibili da tutti leggendo i libri dei vari Edward Bernays e Walter Lippmann, per cui è altamente probabile che i membri della Corte vengano ingannati da chi manipola i mezzi di informazione di massa esattamente come succede alla maggior parte degli altri cittadini.
E’ solo il caso di evidenziare come il sostenere a priori che la propaganda non esista non è un approccio scientifico alla questione, ma fideistico (non ci credo, perché non potrebbero arrivare a tanto). L’approccio scientifico è verificare con il metodo scientifico ciò che TV e giornali scrivono.
I giudici costituzionali non sono neppure chiamati a conoscere i fondamenti della logica aristotelica e di un ragionamento rigoroso, il che potrebbero evitare loro di arrivare a conclusioni “ragionevoli” sbagliate, per vizio di ragione.
Allo stesso modo tutte queste competenze non sono richieste a coloro che fanno i legislatori, i quali, a loro volta, si fidano dei loro consulenti scientifici e dei mass media.

La brutta notizia per noi non è solo che la Corte Costituzionale non abbia saputo tutelare in questa occasione (come in diverse altre, peraltro) i diritti fondamentali di milioni di cittadini a poter lavorare, guadagnarsi uno stipendio per vivere e non doversi forzatamente inoculare un farmaco non sufficientemente testato, nonostante tutte le evidenze ed i dubbi provenienti dai dati scientifici reali (senza limitarci a quelli ritenuti dalle autorità pubbliche), come ben evidenziato nei dossier presentati dai vari avvocati come i benemeriti Mauro Sandri o Augusto Sinagra.

La brutta notizia è che i cittadini italiani, compresi i legislatori, non dispongono di alcun organo di garanzia che li tuteli dal fatto che i consulenti tecnici del legislatore forniscano informazioni scientificamente non fondate.
E non dispongono di alcun organo di garanzia che li tuteli dall’azione manipolatoria dei mass media che usano le tecniche della propaganda per diffondere informazioni false.
Se gli italiani disponessero di tali organi di garanzia, attualmente non previsti dalla “costituzione più bella del mondo”, i loro diritti fondamentali potrebbero certamente essere garantiti un po’ di più.
Nel frattempo, ogni volta che i consulenti tecnici del legislatore ed i mezzi di informazione, per una qualche ragione, offriranno informazioni oggettivamente (scientificamente) false, nessuno potrà tutelare i cittadini da violazioni, anche gravi, dei diritti costituzionali fondamentali.

Questa non è purtroppo solo una ipotesi teorica o un fatto raro, ma è probabilmente la ragione principale per cui in Italia i diritti fondamentali stabiliti dalla Costituzione sono, nella sostanza, sempre meno garantiti.

Rivolgo quindi un invito agli studiosi costituzionalisti affinché elaborino delle soluzioni di riforma migliorativa della Costituzione da proporre al Parlamento, introducendo nell’ordinamento istituzionale dei nuovi organi di garanzia indipendenti (come lo dovrebbe essere la Corte Costituzionale) e che non siano limitati alle sole competenze giuridiche, perché gli attacchi ai nostri diritti fondamentali non arrivano solo da violazioni formali dal punto di vista del diritto, ma anche e soprattutto da violazioni sostanziali, derivanti da falsi fondamenti tecnico-scientifici.
A poco possono servire organismi tecnici come il famoso CTS (Comitato Tecnico Scientifico) di nomina politica, senza che nessuno a nome dei cittadini abbia avuto modo di verificare le competenze e l’assenza di conflitti di interessi dei consulenti tecnici nominati.
Si tratta quindi di elaborare anche dei meccanismi di nomina che consentano di evitare questi problemi.

E se non sarà possibile riformare le attuali istituzioni, vorrà dire che, per tutelare i nostri diritti fondamentali, saremo obbligati a rifiutare le attuali istituzioni, per costituircene delle altre, scrivendo una nostra costituzione.
Perché, ricordiamocelo, la sovranità appartiene al popolo. Se lo vogliamo, abbiamo sempre la libertà di accettare o di rifiutare il sistema che ci governa, costituendone uno alternativo.

Tutti i danni ambientali dell’Unione Europea, di Davide Gionco

Tutti i danni ambientali dell’Unione Europea

di Davide Gionco

Le ipocrisie ambientali dell’Unione Europea

In Europa siamo tutti ecologisti, da Ursula Von der Leyen e Greta Thunberg in giù.
Ce lo dicono tv e giornali: siamo tutti ecologisti, le politiche ambientali davanti ogni cosa.
E’ giusto: abbiamo un solo pianeta in cui vivere e non possiamo permetterci di rovinarlo, per rispetto delle generazioni future.
Ma i politici “europei”, supportati dal coro unico dei mezzi di informazione, però, ci dicono un’altra cosa.
Ambiente significa unicamente fare politiche e informazione per contrastare il cambiamento climatico causato dalle emissioni di CO2. Ogni disastro naturale serve a giustificare questo assioma, che si tratti di siccità, di piogge eccessive, di temperature troppo elevate.
TV e giornali ci martellano in tal senso ogni giorno.

Altri motivi di danneggiamento dell’ambiente, come la gestione delle scorie nucleari, l’immissione in ambiente di sostanze chimiche cancerogene (come i famigerati PFAS, sostanze perfluoroalchiliche), l’uso eccessivo di additivi artificiali nell’industria alimentare, la dispersione delle microplastiche nelle acque, al punto che sono entrate a far parte della catena alimentare, fino agli esseri umani… Tutti questi veri problemi ambientali è come se non esistessero nella narrativa del potere politico e mediatico.
Per loro essere ambientalisti significa unicamente ridurre le emissioni di CO2 in atmosfera.

Non intendo entrare nel dibattito sulla fondatezza o meno delle teorie per cui l’aumento di temperatura del pianeta Terra sia causato dalle emissioni di CO2 e che l’aumento della temperatura sarà certamente causa di cambiamenti gravissimi per il genere umano.
Chiediamoci invece se siano dei motivi scientifici a portare i politici di non occuparsi di tutti gli altri problemi ambientali, ma solo delle emissioni di gas serra.
Quali sono i problemi ambientali più gravi che affliggono l’umanità, misurati in termini di rischi per la salute e la stessa vita delle persone?
Davvero siamo sicuri che la questione più importante sia il cambiamento climatico?

Ciascuno si informi e sia delle risposte su base scientifica, senza accodarsi alla narrativa a senso unico dei mezzi di informazione.

 

Il modello economico europeo è incompatibile con l’ambiente

Ma diamo per assunto che il cambiamento climatico sia il problema prioritario.
Davvero l’Europa porta avanti delle politiche in favore dell’ambiente, al di là dei proclami ufficiali?

Il problema di fondo dell’Unione Europea è l’assoluta inconciliabilità fra il modello economico adottato e le politiche ambientali.
L’Unione Europea è fondata prima di tutto su 3 principi neoliberisti:
1) Il libero commercio senza barriere
2) La competitività
3) Il settore pubblico che non interviene nell’economia

Il libero commercio senza frontiere mette in concorrenza i produttori sulla base dei prezzi dei prodotti commercializzati. Siccome produrre merci riducendo l’impatto ambientale costa di più che produrre merci senza preoccuparsi delle conseguenze ambientali, l’eliminazione delle barriere doganali favorisce le imprese che producono in paesi nei quali esistono meno controlli ambientali e le imprese che meno di altre si curano di rispettare l’ambiente.
Questo avviene a livello c0ntinentale, dove non a caso molti siti produttivi sono stati delocalizzati dai paesi in cui si usa energia più pulita e vi sono maggiori controlli ambientali ai paesi dell’Europa dell’Est, dove si usa energia a maggiori emissioni di CO2 (carbone) e dove i controlli ambientali sono più blandi.
Ovviamente il fenomeno è ancora più marcato a livello mondiale, con l’adesione di tutti i paesi dell’Unione Europea ai trattati di libero scambio come il WTO, tramite i quali si sono aperte le porte a prodotti provenienti da paesi di quasi tutto il mondo, nei quali i controlli ambientali sono sostanzialmente inesistenti.
Si pensi non solo all’impatto ambientale dei paesi dell’Est Asiatico come la Cina o l’India, ma anche alle condizioni in cui le imprese europee si procurano le materie prime nei paesi del Terzo Mondo, senza il minimo rispetto dell’ambiente, della salute umana, dello sfruttamento del lavoro minorile, eccetera.

Nel mondo del libero commercio e della competizione globale prevale sempre chi è più “economicamente più efficiente” ovvero chi riesce più di altri a non farsi carico delle ricadute ambientali delle attività economiche.
L’Europa avrebbe potuto creare un grande mercato interno continentale con le stesse regole di rispetto dell’ambiente uguali per tutti, nel quale chiunque avesse voluto produrre doveva prima di tutto rispettare queste regole e nel quale chiunque avesse voluto importare merci dall’esterno avrebbe dovuto imporre ai propri fornitori il rispeto di tali regole.
Un mercato ricco di 500 milioni di consumatori, con un prodotto interno lordo pari al 20% di quello mondiale, avrebbe avuto la forza di imporre questi standard a livello mondiale o comunque di preservare l’ambiente quantomeno sul territorio europeo.

Invece si è preferito dare spazio. all’unico dogma che conta, quello del libero mercato senza regole, quello della competizione fra imprese ad ogni costo, senza riguardi per le conseguenze ambientali.
Dietro a tutta la retorica sul cambiamento climatico la realtà è che l’Europa è fra i principali devastatori dell’ambiente a livello mondiale, in quanto si occupa solo, a parole, della riduzione delle emissioni di CO2, mentre nel contempo porta avanti politiche economiche che generano inquinamento nella stessa Europa, ma soprattutto  in altre aree del pianeta.

I principi del libero mercato e della competitività non sono per nulla compatibili con il rispetto dell’ambiente, se guardiamo oltre la propaganda martellante dei mezzi di informazione.

 

L’ipocrisia europea sulle emissioni di gas a effetto serra

Dando per assunto, sulla base della narrativa mediatica e non della scienza, che il problema principale da affrontare sia la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, proviamo a valutare l’efficacia delle politiche europee per la riduzione delle emissioni di CO2.

Attualmente le emissioni annuali di gas serra (CO2 equivalente) a livello mondiale sono dell’ordine di 35 miliardi di tonnellate, mentre l’insieme dei paesi dell’Unione Europea emette circa 1 miliardo di tonnellate l’anno- Ovvero le emissioni europee contano il 2,8% delle emissioni annue globali.
Quando Ursula Von der Leyen annuncia nel 2021 il piano europeo “Fit for 55” che prevede la riduzione del 55% delle emissioni europee di CO2 entro il 2030 non ci dice che questo sforzo consentirebbe di ridurre le emissioni globali dell’1,6% in 9 anni, a patto che tutti gli altri paesi del mondo nel contempo mantengano invariate le proprie emissioni di gas ad effetto serra.
Con ogni evidenza la riduzione mondiale dell’1,6% risulterà sostanzialmente irrilevante sull’eventuale effetto serra globale, mentre la riduzione del 55% delle emissioni europee  in soli 7 anni, causerà certamente una gravissima crisi economica in Europa.
Questo perché, pur realizzando impianti per la produzione di energia da fonti rinnovaili e mettendo in atto interventi di risparmio energetico, è del tutto irrealistico riuscire a ridurre le emissioni di CO2 addirittura del 7,9% all’anno, senza avere avuto il tempo di quadruplicare (come minimo) il numero di lavoratori nel settore (ingegneri, operai specializzati, ecc.). Di conseguenza una tale riduzione delle emissioni potrà essere conseguita solamente riducendo in modo molto rilevate le attività produttive e mantenendo gli edifici al freddo in inverno.
E questo significherà disoccupazione e impoverimento.
Tutto questo per conseguire una misera riduzione a livello mondiale del solo 1,6% delle emissioni di CO2, senza alcun effetto rilevante sul cambiamento climatico.

Ovviamente, in un regime di libero commercio, i concorrenti extraeuropei delle nostre imprese continueranno a produrre emettendo CO2. Anzi, lo faranno di più, perché i cittadini europei saranno obbligati ad importare da fuori Europa ciò che in Europa, per le restrizioni ambientali, non potrà più essere prodotto.
L’Unione Europea avrebbe potuto ottenere molto di più esigendo dai fornitori internazionali del mercato europeo degli standard ambientali più adeguati. Ma non lo ha fatto, per non andare contro i principi fondanti del libero mercato e della competitività ad ogni costo.

 

L’ipocrisia europea nell’attuale crisi energetica

Nel rispetto dei soliti principi neoliberisti l’UE ha privatizzato e liberalizzato il mercato europeo dell’energia, istituendo la borsa del gas naturale TTF di Amsterdam e la borsa dell’energia elettrica EER di Lipsia.
Le regole di quotazione dei prezzi sono state scritte in modo da favorire i massimi guadagni agli speculatori. Ci riferiamo alla regola dei
prezzi marginali ed alla possibilità di scambiare in borsa quote virtuali di energia ovvero energia non realmente posseduta da chi la vende, che hanno fatto salire di 10 volte la quantità di energia quotata, con quantità pari a 10-15 volte le quantità reali di energia disponibile presso i produttori.

Queste regole tipiche della speculazione finanziaria hanno esasperato le conseguenze di situazioni “negative” per il mercato dell’energia.
La prima situazione negativa è stato proprio il piano europeo “Fit for 55”, che per limitare le emissioni di CO2 ha previsto la vendita all’asta delle quote di emissioni di CO2 consentite (il 45% restante).
Essendo concretamente impossibile ridurre di così tanto le emissioni di CO2 in soli 6 anni, gli investitori hanno anticipato gli effetti del razionamento delle quote di emissioni di CO2, che porteranno ad un aumento dei combustibili fossili.
Questa è stata la principale ragione degli aumenti dell’energia che già si erano registrati lo scorso autunno 2021.
La seconda situazione negativa sono state le sanzioni imposte alla Russia, conseguenti del conflitto in Ucraina.
L’obiettivo irrealistico di affrancarsi nel giro di pochi mesi dal fabbisogno di gas naturale russo, che rappresentava fino ad un anno fa circa il 40% del fabbisogno europeo, essendo noto, a chi conosce i dati reali, che tutti gli altri paesi produttori di gas naturale al mondo sono in grado, con le infrastrutture disponibili attualmente e nei prossimi 3-4- anni,  di sostituire la fornitura di gas russo. Quindi questo significa a priori la decisione di ridurre la disponibilità di gas in Europa, portando a razionamenti certi (tagli alle attività produttive, famiglie al freddo) e far salire i prezzi del gas alle stelle, in quanto si tratta di un bene primario a cui imprese e famiglie non possono rinunciare tanto facilmente.

Una conseguenza di queste decisioni è che ora molte auto che viaggiavano a gas metano, meno inquinante, ora inquinano di più viaggiando a benzina, che costa meno del gas.

Una seconda conseguenza deriva dal legame fra il prezzo dell’energia elettrica al prezzo del gas.
L’Unione Europea ha deciso che ci debba essere un unico mercato non solo del gas (borsa TTF di Amsterdam), ma anche dell’energia elettrica (borsa EER di Lipsia), con le regole per le quali il prezzo dell’energia elettrica viene determinato dalla fonte produttiva più costosa in circolazione, che attualmente è la produzione di energia elettrica mediante combustione di gas naturale. Sul mercato dell’energia elettrica non si fa più distinzione fra energia da fonti rinnovabili ed energia da fonti fossili. Tutta l’energia viene venduta allo stesso prezzo.
In una logica di politiche ambientali, invece, dovrebbe essere favorita la vendita di energia da fonti rinnovabili rispetto a quella prodotta da fonti fossili.
La conseguenza di queste dinamiche è che attualmente molti paesi si stanno orientando, sia per la carenza di gas che per questioni di prezzo, a produrre energia elettrica bruciando petrolio o carbone, emettendo molta più anidride carbonica di quanta se ne emetterebbe usando il gas naturale e senza incentivare lo sviluppo delle fonti rinnovabili.

Una terza conseguenza derivante dalle sanzioni alla Russia è che i russi sono obbligati a bruciare il gas metano preveniente dai loro giacimenti, dato che non può più essere venduto in Europa e date che, per motivi tecnici, è molto complesso “chiudere i rubinetti” del gas estratto dai giacimenti.
Per questo motivo, in passato, i contratti fra ENI e Gazprom prevedevano la fornitura di un flusso costante di gas per 20-30 anni e procedure obbligatorie di stoccaggio in Italia, il che consentiva nel contempo di minimizzare i costi per entrambe le parti e assicurare rifornimenti certi di energia per imprese e famiglie italiane.
Oggi, purtroppo, le esigenze della finanza europea e della geopolitica americana hanno prevalso sulle esigenze tecniche, portando Gazprom a bruciare il gaz metano che non viene venduto in Europa.
Il risultato di tutto questo è che vengono aumentate le emissioni di CO2 in Europa per la combustione di petrolio e di carbone in sostituzione del gas, mentre restano le emissioni di CO2 causate dalla combustione del gas russo che non può essere venduto dopo essere stato estratto.
Se a livello italiano siamo governati da incapaci, a livello europeo siamo governati da geni dell’inefficienza.
E ringraziamo che i russi brucino il gas naturale invenduto, perché se lo emettessero direttamente in atmosfera l’effetto serra del gas metano sarebbe di 25 volte superiore a quello della stessa CO2. Bruciando il gas l’effetto serra potenziale viene per fortuna ridotto di 24 volte.

Le attuali politiche europee stanno quindi caricando su cittadini e imprese europei tutti i costi derivanti dall’ideologia della riduzione delle emissioni di CO2 ad ogni costo e tutti i costi di scelte geopolitiche, pur se ufficialmente dipendenti dalla guerra in Ucraina, molto mal ponderate nelle loro conseguenze.

Personalmente mi chiedo come sarebbe andata a finire se i 1200 miliardi di euro di extracosti energetici che l’Unione Europea ha già dovuto subire negli ultimi 12 mesi fossero stati messi, come piano di accordi commerciali, sul tavolo delle trattative di pace fra Russia ed Ucraina. Probabilmente sarebbero stati un argomento sufficientemente convincente per mettere a tacere le armi, trovare una soluzione pacifica ed evitare decine di migliaia di morti.


L’insostenibilità del “meno stato più mercato”

Il terzo principio neoliberista fondante dell’Unione Europea , sopra citato, prevede la riduzione dell’intervento dello stato nell’economia, se non come strumento per tassare sempre di più cittadini e imprese, e per favorire lo strapotere delle multinazionali con regole truccate.
Per questo obiettivo l’Unione Europea continua, fin dalla sua costituzione nel 1992, a comprimere i bilanci degli stati, imponendo rigore di bilancio e tagli agli investimenti pubblici.
In questo modo molti paesi, soprattutto quelli meno ricchi e più indebitati, non hanno la possibilità di fare investimenti pubblici e strategici per ridurre l’impatto ambientale.
Il primo investimento da fare sarebbero i controlli sulle attività produttive inquinanti.
Ma i controlli costano. Meno spesa pubblica = più attività inquinanti.

Oltre a questo, per le stesse ragioni, lo Stato non ha i soldi per realizzare, ad esempio, impianti solari o interventi di risparmio energetico negli edifici pubblici.

Lo stato non hanno neppure la possibilità di intervenire sul mercato dell’energia, razionalizzando e rendendolo più funzionale alla sostenibilità ambientale, evitando i fenomeni illustrati nei paragrafi precedenti.
E’ del tutto evidente che per poter rendere disponibile per un grande paese come l’Italia energia da fonti rinnovabili per tutti serva un soggetto che sia in grado di fare investimenti al di là delle dinamiche dei mercati, in grado di realizzare interventi strategici a beneficio di tutti e dell’ambiente e che abbia tutto l’interesse a ridurre i consumi complessivi di energia, non avendo da guadagnarci sulla vendita, cosa che non succede per gli operatori privati che lucrano sulla vendita di energia.
Ad esempio interventi come l’adeguamento della rete elettrica, oggi strutturatsa con “grossi cavi” (mi scusino i colleghi ingegneri elettrici, ma è per rendere il concetto elettrotecnico facilmente comprensibile) in prossimità delle poche centrli di produzione e con “piccoli cavi” in prossimità degli utilizzatori. Per poter immettere in rete e redistribuire l’energia prodotta sugli edifici dagli impianti fotovoltaici serve installare dei nuovi cavi “più grossi” in prossimità degli utilizzatori-produttori, in modo che l’energia non si disperda per effetto Joule.
E serve realizzare delle “smart grid”, sistemi intelligenti che consentano di coordinare prevalentemente il consumo di energia elettrica nelle ore in cui il sole ci consente di produrne di più, dato che l’energia elettrica è difficile da immagazzinare in grandi quantità.
Tutto questo in Italia non lo si è ancora fatto, proprio perché lo Stato non dispone della libertà finanziaria per farlo (oltre alla mancanza di volontà politica, per incompetenza di chi ci governa).

Tutto questo, che sarebbe logico nell’ottica di politiche ambientali, è irreliazzabile restando nelle regole dell’Unione Europea e restando nella politica di mercato.

 

L’irreformabilità dell’Unione Europea
A questo punto gli amici ecologisti, sostenitori dell’Unione Europea, perché convinti che i problemi ambientali sono globali e non possono essere risolti su scala nazionale, mi diranno di essere d’accordo con le considerazioni sopra espresse, per cui l’unica cosa fa fare è perseguire una vera riforma dell’Unione Europea in chiave ambientalista, liberandola dalle logiche di mercato.

A questi amici io rispondo con un’altra domanda:
In quale modo noi potremmo oggi determinare una totale riscrittura dei trattati europei mettendo d’accordo 27 paesi, senza che nessuno ponga il veto, compresi quelli che lucrano dall’attuale situazione di speculazione finanziaria selvaggia sul mercato dell’energia, compresi quelli che lucrano sulla combustione del carbone e compresi quelli che lucrano sulle importazioni di merci dai paesi più inquinanti del mondo?
E mai ci dovessimo riuscire, quanti anni ci vorrebbero per convincere 450 milioni di cittadini europei?
Ma soprattutto per convicere i loro governanti, sempre attenti agli interessi delle lobbies economiche e molto poco a quelli dei cittadini.

E chiedo ancora:
In quale modo potremmo noi concretamente sfiduciare la Ursula Von der Leyen di turno nel caso in cui portasse avanti politiche che si dimostrino opposte agli interessi ambientali?
Abbiamo forse la possibilità concreta di votare la caduta della Commissione Europea persostituirla con un’altra di altra linea politica?

Oppure è più realistico pensare riformare questo sistema politico-economico iniziando, dal basso, a boicottare sistematicamente le attività economiche inquinanti e a favorire le attività economiche non inquinanti?

L’attuale Unione Europea, al di là dei proclami di facciata, è di fatto una vera e propria calamità per le questioni ambientali, in quanto gli unici veri obiettivi perseguiti sono gli interessi finanziari dei mercati, scaricando sui cittadini i costi e i danni causati dalle conseguenze ambientali delle loro attività.
E sono una calamità tutti coloro che sostengono questa istituzione sovranazionale.
Non è possibile coniungare ambientalismo ed ecologia.
Se ci dicono di volerlo fare, ci stanno solo ingannando, per darsi una facciata più credibile mentre perseguono obiettivi ben di altro tipo.

Abbiamo la possibilità di costruire una società diversa, a misura d’uomo e di ambiente, ma solo a patto di rifiutare in blocco meccanismi del mercato libero, della competitività e della non ingerenza dello stato nell’economia. E, quindi, l’Unione Europea.

Impossibile uscire dalla gabbia se seguiamo le regole del padrone, di Davide Gionco

Riceviamo e pubblichiamo_Giuseppe Germinario

Impossibile uscire dalla gabbia se seguiamo le regole del padrone. Perché dobbiamo costruire una Nuova Economia ed una Nuova Società.

di Davide Gionco
01.08.2022

Diceva Sunt-Tzu, antico generale cinese, che scrisse “L’arte della guerra”:
Quando il nemico ti porta a combatterlo con le armi da lui scelte, a usare il linguaggio che lui ha inventato, a farti cercare soluzioni tra le regole che lui ha imposto, hai già perso tutte le battaglie, compresa quella che avrebbe potuto vincerlo.”

 

La premessa fondamentale: dove risiede il vero potere politico

La premessa fondamentale è identificare chiaramente il nemico.
Una volta si sapeva che il nemico del popolo era il re di Francia o Benito Mussolini. Ma oggi chi è il nemico del popolo?
Per quale ragione continuano a cambiare i partiti, i deputati, i governi eppure le cose vanno (male) sempre allo stesso modo?

Nel 2013 a Berlino Mario Draghi, allora presidente della Banca Centrale Europea, disse la famosa frase: «L’Italia andrà avanti con le riforme indipendentemente dall’esito del voto. C’è il pilota automatico».

Il nemico del popolo, colui che detiene il vero politico ed ha la forza di imporre le proprie decisioni (il pilota automatico), sta altrove. Non sta a Palazzo Chigi e meno che mai a Montecitorio o Palazzo Madama.
Per questo motivo nessun esito elettorale può, da solo, determinare un reale cambiamento delle politiche di governo del Paese.

Perché le votazioni non cambiano la situazione

Se il reale potere politico non è così evidente dove si trovi, è evidente a tutti che le decisioni vengono ratificate ed eseguite dagli organismi istituzionali che derivano dal voto popolare. A metterci la faccia sono il presidente del consiglio, i vari ministri ed i parlamentari che in più occasioni sono chiamati a votare la fiducia su quanto deciso dal governo, assumendosene tutta la responsabilità davanti ai cittadini.

Per questa ragione moltissimi italiani sono convinti che sia possibile cambiare la politica in Italia cambiando quelle persone e utilizzando le “regole per il cambiamento” previste dal nostro sistema legislativo.
Queste regole, scritte nella Costituzione, nelle leggi, nei manuali di diritto, dicono che le decisioni su come funziona la nostra società le prendono il potere legislativo ed esecutivo. Quindi per cambiare le cose la via da seguire è presentarsi alle elezioni con un partito, avere la maggioranza nel parlamento, andare al governo e votare diverse regole del gioco.
Questo lo pensano quasi tutti, in quanto non ci vengono prospettate altre vie per cambiare la società. Ma poi si constata che, chiunque venga votato, alla fine dei conti dimostra di non voler realmente cambiare le cose o di non essere in grado di farlo (il luogo comune “i politici sono tutti uguali”). L’ultima grande delusione è stata quella del Movimento 5 Stelle, che aveva suscitato molte speranze, ma che ha dimostrato nei fatti di “essere come tutti gli altri”.
Per questo motivo molta gente smette di andare a votare, ritenendola un’azione irrilevante, di fatto rinunciando a far valere i propri diritti. Potremmo definirli, come faceva Dante, gli ignavi politici, che rinunciano ad impegnarsi e a prendere posizione. E’ una situazione analoga al periodo delle monarchie assolute, quando la gente non votava e poteva solo sperare nella benevolenza del re, limitandosi a curare i propri affari privati, senza attendersi un cambiamento del potere politico.
C’è anche chi non va a votare per protesta, pensando che chi detiene il potere potrebbe cambiare a causa dello scarso consenso popolare. L’errore di questo ragionamento è pensare che il potere abbia bisogno di una vasta legittimazione popolare, mentre in realtà il potere, come stabilito nella premessa, esiste al di sopra della politica e usa i meccanismi istituzionali (elezioni, nomina del governo, ecc.) unicamente come occasioni per piazzare i propri uomini (o donne, che fa più politicamente corretto) nei luoghi decisionali che contano. Chi detiene il potere al massimo temerà che venga nominato un ministro non allineato (si veda il caso di Paolo Savona, impedito dal presidente Mattarella, poi sostituito dall’allineato Giovanni Tria) o un primo ministro non totalmente controllabile (Silvio Berlusconi Conte sostituito da Mario Monti), ma di certo non teme l’astensione dal voto.

La maggior parte delle persone che si impegnano in politica pensano che l’unica via di uscita dalla gabbia sia quella scritta nelle regole: presentarsi alle elezioni con un partito, prendere la maggioranza nel parlamento, andare al governo e cambiare le regole del gioco.
Dal punto di vista teorico questo metodo potrebbe funzionare, ma all’atto pratico la storia, non solo italiana, ci dimostra che è estremamente difficile, quasi impossibile.

La prima ragione, evidente, è che le regole del gioco sono truccate
Chi detiene il potere politico dispone di cospicui finanziamenti, dell’appoggio delle istituzioni e dei servizi segreti, dei principali mezzi di informazione (che non si fanno problemi a diffondere falsità di ogni genere). Chi detiene il potere politico decide le regole elettorali, le date, gli ostacoli da porre a chi vorrebbe cambiare. E può usare questi mezzi non solo per favorire i partiti già presenti in parlamento, ma anche per creare nuovi partiti da loro controllati che si propongono fintamente come “alternativi”; può seminare divisioni, tramite infiltrati, nelle forze politiche realmente alternative. Possono decidere di concedere spazi mediatici a persone incapaci come Luigi Di Maio, per farle emergere all’interno del loro partito alternativo, e di non concedere spazi a persone capaci, per non farle emergere. Ovviamente possono corrompere i politici eletti. Oppure li possono ricattare o minacciare. O uccidere.
E se anche le elezioni non andassero come il potere voleva, potranno orchestrare campagne mediatiche contro il nuovo potere politico (vedasi il trattamento subito da Trump negli USA), potranno organizzare attentati destabilizzanti (vedasi strategia della tensione in Italia intorno agli anni 1970). Potranno organizzare un colpo di stato o una invasione armata da parte di una “coalizione internazionale” che libererà l’Italia dal potere antidemocratico”.

Insomma, questa via è teoricamente percorribile, ma c’è da sapere che le regole sono truccate e gli ostacoli da superare sono moltissimi.
E’ ovvio che se una forza politica riuscisse a conquistare e a mantenere per molti anni la fiducia del 40-50% degli elettori, senza dividersi e senza cedere ai fortissimi condizionamenti esterni ed interni, esisterebbe la fattiva possibilità di cambiare le cose in meglio e di limitare l’invadenza dei poteri che stanno al di sopra della politica. Ma rileggiamo cosa diceva il saggio Sun-Tzu:
Quando il nemico ti porta a combatterlo con le armi da lui scelte, a usare il linguaggio che lui ha inventato, a farti cercare soluzioni tra le regole che lui ha imposto, hai già perso tutte le battaglie, compresa quella che avrebbe potuto vincerlo.”
Pensare di risolvere i problemi usando le regole che l’attuale sistema di potere ci ha imposto significa mettersi in condizioni estremamente favorevoli per chi detiene il potere ed estremamente sfavorevoli per chi intende contrastarlo.

In realtà il fondamento dell’attuale sistema di potere è il farci credere che non vi siano altre vie da percorrere diverse dalle regole che ci mettono a disposizione.

E’ come quando il gatto gioca con il topo che ha catturato. Il topo può scappare solo quando lo decide il gatto, nella direzione che decide il gatto, fino alla distanza decisa dal gatto.
Dopo di che il topo viene ricatturato e ritorna alla mercé del gatto.
Siamo come i polli nella gabbia, a cui viene concesso spazio di libertà fino ai limiti della rete. E se anche le porte della gabbia sono aperte, ci hanno convinti che la spazio in cui muoverci, che fuor di metafora è il sistema di regole vigenti, sia quello all’interno della gabbia.

In realtà esistono altre strade da seguire per sottrarci gradualmente dal potere che ci opprime, ma è necessario fare lo sforzo di uscire dagli schemi che ci vengono proposti.
A volte se ne parla in articoli, in convegni , ma ad ogni tornata elettorale si presentano i soliti “leader politici” che si propongono come risolutori dei problemi, per i quali l’unica urgenza è presentarsi alle elezioni. E le persone li seguono, perché il “richiamo delle elezioni” è fortissimo, al punto che le persone trovano energie per estenuanti riunioni, banchetti in strada, incontri pubblici, con la speranza di essere essi stessi i protagonisti del cambiamento politico tanto atteso.
Dopo di che, passate le elezioni, con conseguente – ovvia – delusione, i più determinati si preparano per la successiva competizione elettorale, mentre i meno determinati si scoraggiano e si ritirano da ogni forma di impegno politico, accrescendo le fila delle persone appartenenti alla categoria degli ignavi politici.

Sarebbe stato possibile impegnarsi per percorrere delle soluzioni alternative (ne parliamo a seguire), ma si è preferito combattere con gli strumenti proposti da chi detiene il potere (nel caso specifico: lo strumento delle elezioni), adeguandosi al pensiero unico dominante. Alla fine il risultato è stata una forte delusione e nessun cambiamento politico e sociale.

 

Il vero potere sta nell’economia

Ci chiedevamo all’inizio dell’articolo dove sta il potere politico.
Il potere politico nei paesi occidentali sta prima di tutto nell’economia, nelle grandi multinazionali, nella finanza internazionale.
Oggi l’economia è costituita per lo più da società per azioni quotate in borsa. Chi controlla le quote azionarie controlla queste società e determina le loro decisioni.
Le quote azionarie sono detenute da chi possiede molto denaro ovvero dalle grandi società finanziarie, come BlackRock, Vanguard, State Street, le quali da sole ogni anno investono capitali per oltre 20 mila miliardi di dollari, pari a 11 volte il PIL italiano e 5 volte il PIL tedesco.
Sono quindi in grado di “investire” per comperare qualsiasi impresa, qualsiasi giornale e qualsiasi persona per indirizzare le loro decisioni al fine di garantire le rendite degli investitori.

Siccome l’Italia ha aderito al WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) che prevede la libera circolazione dei capitali, questi capitali possono liberamente entrare in Italia per comprare, aprire o chiudere imprese, creando o distruggendo posti di lavoro. Possono decidere di fare aumentare i prezzi dell’energia e del cibo. Possono decidere di boicottare un intero Paese, se non risponde alle loro richieste. Possono comperare le testate giornalistiche e le televisioni, imponendo loro di raccontare una falsa narrativa su cosa accade nel mondo. Ovviamente possono mettere in piedi un partito politico, trovando dei prestanome per guidarlo. Ovviamente possono fare pressioni per far nominare un proprio uomo all’interno della BCE, dell’OMS, della Commissione Europea e imporre regole a loro vantaggio.
Ma non dobbiamo fissarci sui nomi di queste società, perché dietro di loro ci sono migliaia di società più piccole, ci sono milioni di investitori in tutto il mondo i quali richiedono solo una cosa: far rendere i propri investimenti finanziari, senza preoccuparsi di come questo avverrà.
In nome del “dio rendimento finanziario” ogni azione che garantisca una rendita è lecita, che si tratti di far scoppiare una guerra o di imporre all’Italia una riforma fiscale che colpisca le proprietà degli immobili o che riduca le pensioni.

Il potere del denaro: questo è il potere che domina la politica, anche in Italia, a cui difficilmente il potere politico istituzionale, votato dal popolo, è in grado di opporsi.

 

Il punto debole del sistema di potere e come fare la vera rivoluzione

Tuttavia esiste un punto debole del sistema di potere.
Chi detiene il potere oggi detiene molto denaro, tuttavia il denaro assume valore solo nella misura in cui noi lo accettiamo in cambio del nostro lavoro. Di per sé sono solo pezzi di carta, numeri scritti sui computer.
La quasi totalità della ricchezza reale, costituita dalla produzione di beni e servizi, è prodotta da noi stessi. Chi possiede molto denaro in realtà non produce nulla. Se chi detiene il denaro (euro, dollari, ecc.) non lo potesse usare per comperare il nostro lavoro e se noi non utilizzassimo quel denaro per acquistare ciò che ci serve per vivere, quel denaro cesserebbe di avere valore.
E cesserebbe il potere di chi possiede quel denaro, compreso il potere di determinare le decisioni politiche.

La regola del gioco che ci fa perdere tutte le battaglie (Sun-Tzu) è che siamo noi stessi a dare valore, usandolo, allo strumento che il nemico utilizza per sconfiggerci in ogni nostra battaglia politica.

La vera rivoluzione, quindi, sta nel prendere atto che l’attuale denaro che utilizziamo è uno strumento utilizzato per estrarre ricchezza reale da noi che lavoriamo, concentrandola nelle mani di pochi e rendendoci sempre più poveri. Noi non sappiamo fare a meno di esso, dato che lo usiamo per vivere e questo gli conferisce valore nell’economia e anche nella competizione politica, il tutto a nostro svantaggio.
Ci sarà la vera rivoluzione, rivoluzione politica, solo quando ci saremo organizzati per vivere senza dipendere dal “loro” denaro.
Dobbiamo organizzare una Nuova Economia, una Nuova Società, con una nostra moneta, dove produciamo beni e servizi e ce li scambiamo fra di noi usando quella moneta per pagare gli scambi.
E già quello che facciamo oggi, ma lo dobbiamo fare rifiutandoci di usare, per quanto possibile, le monete della finanza internazionale, che sono lo strumento fondamentale dell’esercizio del potere che ci opprime.

Ovviamente il passaggio sarà graduale. All’inizio la rivoluzione riguarderà magari solo il 10% degli scambi economici. Ma poco alla volta, man mano che più persone e più competenze professionali saranno state coinvolte nell’organizzazione, potremo  via procurarci all’interno della Nuova Economia una quantità maggiore di beni e servizi.
Parallelamente alla comunità economica, fatta di persone che hanno capito come disinnescare il meccanismo del potere, crescerà la comunità sociale, formata dalle persone che sono determinate a realizzare un reale cambiamento politico nel Paese.

A quel punto, quando ci si presenterà alle elezioni, non si presenterà solo un partito, ma si presenterà una comunità economica e sociale, che dispone dei propri mezzi di informazione, di una vasta presenza sul territorio, già presente negli enti locali.
Il cambiamento politico, anche nelle istituzioni, sarà quindi una conseguenza del cambiamento sociale ed economico e non viceversa, come pensano coloro che oggi vorrebbero risolvere tutti i problemi presentandosi alle elezioni.

 

Le emergenze come metodo

Chi detiene il potere non solo ha il potere di determinare le decisioni politiche, ma anche il potere di determinare l’agenda di coloro che intendono opporsi al sistema.
Se si limitassero a governare male il Paese, la gente potrebbe, poco alla volta, organizzare una vera alternativa politica, che rappresenterebbe un potenziale pericolo per il potere costituito.

Per evitare questo problema da qualche decennio utilizzano il metodo dell’emergenza.
Oramai la nostra vita è fatta di emergenze che ci vengono presentate dai mezzi di informazione al fine di spaventarci.
Non si tratta solo di emergenze inventate, ma anche di emergenze reali, causate dalle decisioni del potere politico che conta. La gente non ha tempo da investire per organizzare il cambiamento politico generale, per liberare il popolo dall’oppressione dei poteri finanziari, in quanto è spinta a concentrare la propria azione per difendersi da singole emergenze.

Chi determina le emergenze sa benissimo come la gente reagirà. Sanno che se verrà imposto l’obbligo vaccinale, pena la perdita del posto di lavoro, la gente spenderà energie per andare in piazza a protestare.
Ma loro non temono le proteste in piazza, perché le proteste da sole non organizzano alcun cambiamento.
Sanno che se la gente è più povera dovrà dedicare più tempo a lavorare, per mantenere la propria famiglia, senza trovare il tempo da dedicare al cambiamento politico.
Sanno che la gente penserà di organizzarsi per le prossime elezioni, ma non lo temono, per i motivi che abbiamo spiegato sopra.

E’ il principio di azione e reazione. Mettono in atto le azioni che comporteranno, istintivamente, certe reazioni nel popolo, reazioni da cui non hanno nulla da temere.
Sono loro che determinano la nostra agenda, in modo che nessuno si organizzi veramente per cambiare il sistema di potere.
Rileggiamo di nuovo a Sun-Tzu:
Quando il nemico ti porta a combatterlo con le armi da lui scelte, a usare il linguaggio che lui ha inventato, a farti cercare soluzioni tra le regole che lui ha imposto, hai già perso tutte le battaglie, compresa quella che avrebbe potuto vincerlo.”
Se ci lasciamo imporre l’agenda da loro, ci porteranno a combattere dove sanno già che saranno loro a vincere.

Non dobbiamo cadere nel loro gioco. Dobbiamo certamente difenderci dai soprusi, ma senza dimenticare che è con “altri metodi” che vinceremo le battaglie. Dobbiamo determinare la nostra agenda dei cambiamenti e portarla avanti, nonostante le emergenze che ci scaglieranno addosso.

 

Conclusioni

Con quanto scritto non intendo sostenere che sia totalmente inutile presentarsi alle elezioni ed andare a votare, ma intendo sostenere che se limitiamo la nostra reazione alle regole “classiche” della politica non abbiamo la minima possibilità di successo.

E’ invece necessario mettere in atto delle azioni che incidano quotidianamente sul sistema di potere finanziario, aumentando la presenza di una nostra “Nuova Economia” in grado di esistere facendo a meno della “loro moneta”.
Diceva Padre Alex Zanotelli che “noi votiamo ogni volta che facciamo la spesa“. Aggiungo io che “noi votiamo ogni volta che vendiamo il nostro lavoro“.
Ogni volta che usiamo lo stesso denaro che usano le multinazionali per governare l’economia mondiale e per imporre decisioni politiche ai vari popoli, noi conferiamo valore a quel denaro e conferiamo potere alle multinazionali.

Eppure il cambiamento dipende solo da noi, perché siamo noi a decidere a chi vendere il nostro lavoro e da chi comperare i beni e servizi che ci servono per vivere. E noi non abbiamo bisogno del loro denaro per vivere, ma dei beni e servizi che ci sono necessari, che possiamo ottenere anche in cambio della nostra moneta, senza usare la loro.
Sono queste nostre decisioni quotidiane che possono, poco alla volta, ridurre il potere della finanza internazionale e aumentare il potere della nostra comunità economica, sociale e (quindi) politica.

Ora si tratta di organizzarci in modo da sapere chi è disposto a cambiare il proprio modo di fare acquisto e il proprio modo di vendere il proprio lavoro.
Non possiamo scrivere i dettagli di un progetto del genere in un articolo, ma abbiamo già delle idee.
Chi vuole partecipare alla costruzione della Nuova Società e della Nuova Economia, ci contatti.

Davide Gionco
davide.gionco@gmail.com

 

Il paradosso della democrazia. Troppa democrazia ci rende schiavi? di Davide Gionco

Riceviamo e pubblichiamo.

Il testo offre una buona analisi dei meccanismi di condizionamento del sistema informativo e dell’esercizio democratico. Quanto alla soluzione offerta, pare opportuno porre alcune domande:

  • è così dirimente il rapporto tra libera circolazione dei capitali ed esercizio della libera informazione?
  • lo è altrettanto il livello di concentrazione dei capitali?
  • la stessa concentrazione di capitali non è comunque necessaria a garantire dimensione delle imprese, sviluppo tecnologico ed altri aspetti fondamentali della formazione sociale?
  • non si rischia di identificare troppo e ridurre l’esercizio del potere con il solo potere economico?
  • non si rischia di fossilizzarsi su una visione irenica del bene comune e del concetto di democrazia, rischiando per altro di associarla, secondo la teoria classica, all’esistenza di piccoli produttori?

Ritengo quesiti utili a favorire il dibattito.

Buona lettura, Giuseppe Germinario

Il paradosso della democrazia. Troppa democrazia ci rende schiavi?
di Davide Gionco
02.05.2022

Il paradosso della tolleranza di Popper
Il filosofo Karl Popper (1902-1994) propose nel 1945 all’attenzione dei suoi lettori (libro “La società aperta e i suoi nemici“) il paradosso della tolleranza. Secondo Popper una società tollerante, che accetta la diversità e la libertà di opinione, non può essere eccessivamente tollerante verso le opinioni che propongono di non accettare la libertà di opinione.
Cita il caso di Hitler, che non sarebbe salito al potere, mettendo a tacere ogni opposizione, se gli fosse stato impedito di esprimere pubblicamente ai tedeschi la sua dottrina politica antidemocratica e totalitaria, in nome del diritto democratico della libertà di opinione.

Conosciamo tutti la famosa affermazione attribuita a Voltaire “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo“, frase che in realtà fu scritta da Evelyn Beatrice Hall, per illustrare il pensiero di Voltaire.
Il paradosso posto da Popper si pone effettivamente come l’unica eccezione ammessa al principio fondamentale della libertà di parola, in quanto qualsiasi opinione “sbagliata” potrà sempre essere corretta quando i fatti lo dimostrino, esistendo la libertà di esprimere opinioni critiche per rendersene conto e di esprimere opinioni alternative per cambiare le decisioni. Se, invece, viene data attuazione all’opinione che prevede l’intolleranza verso opinioni dissenzienti, si perderà la possibilità di ascoltare giudizi critici e opinioni alternative, in quanto i detentori dell’unico punto di vista autorizzato sentiranno il diritto-dovere di mettere a tacere qualsiasi opinione che prospetti critiche e cambiamenti.

Questo è quanto sosteneva argutamente Karl Popper, ma a mio avviso oggi ci ritroviamo di fronte ad un altro paradosso, per il quale un eccesso di democrazia in molti casi ci porta ad altre forme di condizionamento dell’opinione pubblica, che limitano il pensiero critico e l’espressione di opinioni alternative.

Le democrazie occidentali e la “censura statistica”
Quando dei poteri forti intendono imporre il loro punto di vista in paesi in cui vige formalmente una democrazia, non hanno bisogno di esercitare una censura ferrea come avviene nei paesi in cui vige la dittatura. Nei paesi democratici l’obiettivo viene raggiunto attuando una forma mascherata di censura, che potremmo definire “censura statistica”.
Il metodo consiste nel condizionare i mezzi di informazione, fornendo una narrativa alterata della realtà dei fatti, affinché la maggior parte dei cittadini non abbia gli strumenti sufficienti ad esprimere un giudizio critico e fondato sui fatti reali in merito alle decisioni del potere politico.
Nel contempo le opinioni critiche vengono rese difficilmente accessibili o presentate come poco credibili.
Questo metodo prevede anche, naturalmente, una parallela azione di condizionamento del potere politico, fatta con i metodi “tradizionali” della corruzione o dell’infiltrazione delle istituzioni con uomini o donne fedeli al potere forte.

Se avvenisse una censura assoluta, come avviene nelle normali dittature, a tutti risulterebbe evidente che ci si trova in una dittatura. Se invece si concede formalmente il diritto di parola a chi ha opinioni diverse, si presenta l’immagine di una apparente democrazia, per cui nei cittadini non suona il campanello d’allarme dell’arrivo della dittatura.
Il meccanismo di “censura statistica” si basa sul fatto che, per garantire il controllo del potere politico, è sufficiente che non si arrivi ad avere una maggioranza di cittadini in grado di votare per un effettivo cambio del potere politico, cosa che dovrebbe normalmente avvenire se i cittadini fossero informati correttamente sulle decisioni prese negli interessi dei poteri forti e ai danni del popolo.

Quindi per loro non è un problema se il 10%, il 20% o addirittura il 30% di cittadini si rende conto che chi governa sta compiendo scelte profondamente sbagliate. L’importante è che non se ne renda conto la maggioranza assoluta dei cittadini che vanno a votare.
Il polso della situazione viene continuamente monitorato tramite sondaggi sull’andamento dell’opinione pubblica, in modo che chi decide quale tipo di informazione deve essere data aggiusta il tiro, se il caso suggerendo al potere politico di non esagerare con le scelte che si presentano impopolari, se la narrativa dei mezzi di informazione non è stata in grado di renderli sufficientemente accettabili.
In questo senso possiamo parlare di “censura statistica”, definendola come un insieme di azioni di condizionamento dei mezzi di informazione finalizzate a garantire il mantenimento di un consenso maggioritario intorno alle decisioni politiche imposte dai poteri forti.

La finta opposizione politica
La prima azione da compiere è la creazione ed il mantenimento di una finta opposizione politica.
Si deve dare l’impressione dell’esistenza di un’alternativa politica, come si addice formalmente ad ogni democrazia. Per questo si creano molti spazi informativi in cui ci sono dei personaggi politici che giocano il ruolo della maggioranza e dell’opposizione, dicendosene di tutti i colori, mostrando di avere una visione politica apparentemente opposta.
Ma questo avviene solo su questioni marginali.
Ad esempio si lanciano infiniti dibattiti sulle questioni dei diritti civili, mentre sulla questioni economiche importanti, come quelle che ad esempio riguardano la lotta alla povertà o i fallimenti delle nostre piccole e medie imprese, non esistono sostanziali differenze. Su questi argomenti gli schieramenti opposti sono normalmente accumunati, a seconda dei casi, dall’accettazione rassegnata di conseguenze inevitabili o dal silenzio sulla questione, perché non hanno nulla da dire.

Eventuali forze politiche realmente alternative, che contestato il potere politico esistente, difficilmente trovano spazio sui mezzi di informazione principali. O, se lo trovano, vengono relegati a spazi “di serie B”, in modo che la maggior parte della popolazione non sia informata delle loro opinioni.

Una volta creata la figura della finta opposizione, non resta che influenzare la narrativa di lettura dei fatti politici per impedire che la maggioranza della popolazione contesti la credibilità delle principali forza politiche presenti sui mass media.
Le questioni devono essere presentate come non dipendenti dal potere politico o come ineluttabili. Come diceva Margareth Thatcher “There is no alternative“.
Ad esempio: aumenta la povertà, ma dipende dalla globalizzazione, non ci possiamo fare niente.
In alternativa si racconta che la soluzione si avrà votando la finta opposizione. Ad esempio: per diminuire le tasse, votiamo a destra. Oppure: per tutelare i diritti dei lavoratori dipendenti, votiamo a sinistra. Quando questo avviene, ovviamente, non cambia nulla.
La narrativa della censura statistica non permette di uscire da questi schematismi semplificati e che, in realtà, servono solo a mascherare l’assenza di una reale democrazia.

I finanziamenti dell’informazione
Per condizionare la narrativa dei mezzi di informazione esistono principalmente 3 meccanismi dei quali si servono i poteri forti, certamente anche nazionali, ma oggi soprattutto operanti a livello internazionale.

Se il potere politico è già stato acquisito, tale potere può stabilire l’erogazione di finanziamenti ai mezzi di informazione, anche molto cospicui, in cambio del loro allineamento alla linea politica richiesta. Se dai un certo tipo di informazione sei finanziato, se non lo fai resti senza finanziamenti.
A quel punto, prima di tutto per garantire la redditività dell’azienda e per i suoi dirigenti, gli editori, pubblici o privati che siano, troveranno il modo di motivare i giornalisti a conformarsi a quanto richiesto.

La grande disponibilità di finanziamenti consentirà a questi mezzi di informazione di disporre, a pagamento, della presenza di personaggi famosi (attori, calciatori, artisti, ecc.) e di disporre delle competenze dei migliori professionisti per realizzare dei contenuti che attirino il grande pubblico, al quale verrà poi rifilata la narrativa decisa dal potere politico.

Restano pertanto privi di finanziamenti i mezzi di informazione che, pur svolgendo un servizio pubblico, non si vogliono allineare al pensiero “governativo”. Pochi finanziamenti significa informare poche persone, il che significa evitare che la maggioranza della popèolazione rischi di cambiare opinione.

Un modo tutto sommato molto simile al precedente è il finanziamento dei mezzi di informazione tramite la raccolta pubblicitaria. Gran parte degli inserzionisti pubblicitari dei principali mass media sono tutti o grandi aziende nazionali o delle multinazionali, i cui dirigenti sono espressione o sono in strette relazioni con i poteri forti che hanno interesse a manipolare i mezzi di informazione per perseguire i propri interessi economici.
Chiunque voglia fare informazione ad un certo livello avrà bisogno dei finanziamenti degli inserzionisti e dovrà, quindi, adeguarsi alla linea informativa da loro richiesta. Pena il taglio delle inserzioni pubblicitarie ed il fallimento dell’editore.
Chi non si adegua perde i grandi finanziamenti e può al massimo accontentarsi della piccola pubblicità di imprese locali. Ancora una volta, pochi finanziamenti significa raggiungere poco pubblico ed essere irrilevanti per la censura statistica.

Vi è infine un terzo modo attraverso il quale i poteri forti riescono a manipolare i mezzi di informazione, persino nei casi in cui i finanziamenti pubblici siano distribuiti correttamente e in cui non sia necessario  finanziare l’informazione con le inserzioni pubblicitarie.
Tale modo, ovviamente, può convivere anche con i due sopra descritti.
Si tratta della corruzione mirata dei giornalisti e degli “opinion makers“, i quali vengono pagati per sostenere la narrativa desiderata da chi detiene il potere.
Chi sono gli “opinion makers“? Sono coloro che, in televisione, in radio, sui giornali e su internet si presentano con un’autorevolezza sufficiente ad essere creduti per quello che dicono, influenzando l’opinione dei cittadini.
Possono essere giornalisti, dei tecnici (economisti, medici, ecc.), dei personaggi dello sport o dello spettacolo. L’importante è che si sappiano presentare in modo credibile agli occhi della maggioranza dei cittadini, per condizionarli.

Senza voler accusare specificamente nessuno degli opinion makers attualmente operanti in Italia, possiamo citare il famoso caso tedesco di Udo Ulfkotte, famosissimo giornalista che faceva opinione sulle principali televisioni in Germania, autore di libri di gran successo.

Poco prima di morire nel 2017, per cause mai ben chiarite, Udo Ulfkotte rivelò: «Faccio il giornalista da 25 anni e sono stato educato a mentire, a tradire e a non rivelare la verità al pubblico…»
«con lo scopo di «portare ad una guerra contro la Russia, di manipolare l’opinione pubblica ed è quello che hanno fatto e fanno tuttora anche i miei colleghi, non solo in Germania, ma praticamente in tutta Europa».

Nel famoso “Piano di rinascita democratica” della Loggia massonica P2, ritrovato nella valigia della figlia di Licio Gelli, prevedeva al punto 1b):
«Nei confronti della stampa (o, meglio, dei giornalisti) l’impiego degli strumenti finanziari non può, in questa fase, essere previsto nominatim. Occorrerà redigere un elenco di almeno 2 o 3 elementi, per ciascun quotidiano o periodico in modo tale che nessuno sappia dell’altro. L’azione dovrà essere condotta a macchia d’olio, o, meglio, a catena, da non più di 3 o 4 elementi che conoscono l’ambiente.. »

Ritornando un po’ più indietro, è solo il caso di ricordare come un tal giovane giornalista chiamato Benito Mussolini, che nel 1914 era direttore dell’Avanti! (quotidiano socialista, partito che era contro l’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra), ricevette cospicui finanziamenti dai servizi segreti francesi ed inglesi per caldeggiare l’ingresso in guerra dell’Italia. Abbastanza soldi per fondare dal nulla il nuovo giornale Popolo d’Italia, attraverso il quale fu perseguito l’obiettivo richiesto dai poteri forti del caso, quello di trascinare l’Italia in guerra, con un certo consenso popolare e parlamentare.
E’ solo il caso di ricordare che questa intromissione costò al nostro paese il prezzo di 1’240’000 morti-

Il metodo della preponderanza
Nei casi sopra citati non si è mai avuta la censura totale tipica delle dittatura, ma è stato adottato il metodo della preponderanza, che ha consentito ad un certo tipo di narrativa, quella conferma ai voleri dei poteri forti, di prevalere su visioni alternative e persino sulla narrazione oggettiva dei fatti, in modo da condizionare l’opinione della maggioranza statistica della popolazione.

La preponderanza consente di far prevalere una narrativa sulle altre non in virtù della sua fondatezza, ma in funzione di altri criteri artificiali.
Il primo meccanismo è quello della “quantità” o della “frequenza“. Se una certa narrativa dei fatti viene presentata nel 90% del tempo, attribuendo alle visioni alternative solo il 10% del tempo, il risultato sarà l’adesione di almeno il 60-70% della popolazione alla prima versione, nonostante la maggiore credibilità dell’opinione alternativa.
Una variante di questo criterio è dedicare gli spazi informativi con molto pubblico (ad esempio in prima serata) alla narrazione che deve prevalere, relegando alle ore con poco pubblico le narrazioni alternative. Stesso tempo messo a disposizione (l’apparenza democratica è salvata), ma numero di destinatari molto diverso.

Il secondo meccanismo è presentare insieme in un confronto le diverse narrative, ad esempio nei talk show, ma creando delle situazioni nelle quali la narrazione dei poteri forti ha il sostegno di 4-5 persone presentate come autorevoli, contro una sola che la pensa diversamente. Il messaggio di fondo che passerà è che l’opinione della sola persone è minoritaria, per cui la maggioranza dei cittadini dovrà ritenere ragionevole schierarsi con la maggioranza degli opinionisti rappresentata in quel talk show.

Il terzo meccanismo è quello di presentare come iperqualificati gli opinionisti favorevoli alla narrativa da imporre, presentando nel contempo persone oggettivamente poco qualificate e non credibili a sostegno della visione alternativa.

Democrazia o dittatura?
In tutti questi casi non si può tecnicamente parlare di censura, come ai tempi del fascismo, per cui nessuno potrà contestare a quegli editori e a quei giornalisti di operare al di fuori della democrazia.
Se vogliamo, dal punto di vista formale non vi è alcuna violazione dell’art. 21 della Costituzione, che cita “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure…

Nello stesso tempo non possiamo dire di trovarci in una democrazia compiuta, perché al di là dell’apparente assenza di censure, il sistema di informazione è chiaramente pilotato artificialmente non per informare il popolo (demos), affinché possa conoscere la realtà e prendere adeguate decisioni di auto-governo (demo-crazia), ma per nascondere al popolo la realtà, affinché non possa prendere a ragion veduta le necessarie decisioni di auto-governo. Tali decisioni, come è ovvio, vengono invece prese da coloro che hanno investito sulle azioni di controllo dei mezzi di informazione, per trarne certamente un maggior profitto. A spese del popolo inconsapevole, naturalmente.

La situazione paradossale è che le democrazie sembrano essere indifese nei confronti di questi meccanismi di condizionamento dell’opinione pubblica.
Viceversa nei sistemi a governo autoritario l’esistenza di controllo politico sui mezzi di informazione riesce generalmente ad impedire che altri poteri forti esercitino la loro influenza nei mezzi di informazione.
Chi legge penserà: cosa ci abbiamo guadagnato? In un caso l’informazione viene condizionata dai poteri forti esterni, mentre nell’altro caso dal potere dittatoriale. Dovendo scegliere, ci teniamo la democrazia ad informazione limitata, che ci evita almeno di subire i soprusi e le violenze tipici di una dittatura.

Ovviamente si tratterebbe della scelta giusta, se ci trovassimo di fronte ad una dittatura feroce e che impoverisce economicamente il paese. Pensiamo, ad esempio, alle classiche dittature africane, in cui il dittatore arricchisce se stesso e la propria famiglia, lasciando che i poteri forti esterni facciano man bassa delle ricchezze del paese.
Ma se la scelta fosse fra un regime democratico-autoritario, ma non eccessivamente violento e che tutela gli interessi economici del paese  (come poteva essere quello di Gheddafi in Libia) ed una democrazia debole (ad esempio molti stati dell’America centrale), in cui le decisioni politiche ed i mezzi di informazione sono asserviti gli interessi di poteri forti esterni?
In questo caso quale sarebbe la scelta migliore?
La vera domanda da porci è: come possiamo difendere i mezzi di informazione delle democrazie dai condizionamenti dei poteri forti?

La questione chiave: l’eccessiva liberalizzazione dei capitali
Alla base dei meccanismi di condizionamento, siano essi volti al condizionamento dei decisori (i politici), o volti all’attuazione dei metodi della censura statistica per condizionare l’opinione pubblica, sta sempre la disponibilità di grandi capitali, che i poteri forti possono investire per poi trarne un maggior profitto.
Se gli investimenti economici vanno ad influenzare le decisioni politiche di interesse nazionale e se vanno ad alterare la narrazione dei mezzi di informazione, per impedire al popolo di esercitare il proprio diritto democratico di giudizio dei governanti, le democrazie vengono svuotate nel loro fondamento.

Per questa ragione sarebbe molto opportuno evitare che si verifichino eccessive concentrazioni di ricchezza nelle mani di pochi, non perché si debba necessariamente perseguire l’uguaglianza sociale per odio contro i ricchi, ma perché certi tipi di corruzione “su scala nazionale” sono possibili solo a chi disponga di grandi capitali da investire in tal senso.

Quindi il modo migliore per evitare che la narrativa dei mezzi di informazione sia subordinata ad interessi economici è prima di tutto necessario evitare che vi sia una concentrazione di ricchezza economica tale da essere in grado di incidere pesantemente sui bilanci della maggior parte dei mezzi di informazione o da essere in grado di corrompere decine e decine di giornalisti o i governanti e i funzionari di un paese.
Per evitare questi rischi, a livello nazionale potrebbe essere sufficiente contrastare fiscalmente l’eccessivo accumulo di ricchezza da parte di persone o di società. Nulla a che vedere con la classica “patrimoniale” che colpisce le prime e le seconde case. Il problema non è se una persona guadagna 200 mila euro l’anno o ha 2 o 3 ville al mare o se un imprenditore possiede stabilimenti industriali per 10 milioni di euro per potere produrre. Il problema è che dobbiamo evitare di avere soggetti, come ad esempio intendeva fare la loggia massonica P2, in grado di condizionare i mezzi di informazione grazie alle ingenti disponibilità di capitali.

Per quanto riguarda il rischio, forse ancora più grave, di condizionamenti provenienti da poteri forti che operano a livello internazionale, l’unico modo per limitarli è porre dei ferrei controlli ai flussi di capitali provenienti dall’estero.
Stando agli attuali trattati dell’Unione Europea e di adesione al WTO (l’organizzazione del libero commercio mondiale), la libera circolazione dei capitali è uno dei requisiti fondamentali che si richiedono ad uno stato democratico. Se uno stato non liberalizza la circolazione dei capitali, non è considerato democratico dalla comunità internazionale degli stati democratici.

In realtà è proprio questo “eccesso di democrazia” nel campo finanziario a rendere le democrazie indifese di fronte ai condizionamenti dei poteri forti sui mezzi di informazione. Se vogliamo davvero avere una democrazia effettiva, in cui il popolo è correttamente informato per giudicare le decisioni che vengono prese dal potere politico, dobbiamo avere il coraggio di sottrarci ai vincoli dei trattati internazionali che ci impediscono di controllare e limitare i flussi di capitali dall’estero.
Dopo di che dobbiamo avere il coraggio di introdurre una forte tassazione che impedisca gli eccessivi accumuli di ricchezza in Italia, per evitare che rappresentino un rischio per la nostra democrazia.

Per difendere ulteriormente la libertà di informazione è anche necessario non considerare le imprese che operano nel settore dell’informazione come delle normali imprese. E’ fondamentale garantire, con specifiche leggi anti-trust, che si realizzino delle concentrazioni di proprietà nel settore, sia in campo editoriale, sia in campo della raccolta pubblicitaria.
Una volta fatto questo, potremo anche studiare degli organismi di garanzia del pluralismo dell’informazione, i quali potranno funzionare solo se cesseranno le pressioni di ordine economico sui mezzi di informazione.

In realtà non è la troppa democrazia a fare male alla libertà d’informazione, ma è l’attuazione di un modello di democrazia sbagliato, che antepone gli interessi economici (la circolazione di capitali) alla salvaguardia della democrazia stessa.

L’energia non è una merce, ma una infrastruttura pubblica_di Davide Gionco

L’energia non è una merce, ma una infrastruttura pubblica
Tutti i danni che subiamo dalle privatizzazioni nel mercato dell’energia
Davide Gionco
21.04.2022

L’acqua, le infrastrutture pubbliche e l’energia
Nel 2011 gli italiani votarono a larga maggioranza (95,8%) a favore del referendum per il mantenimento del controllo pubblico sui servizi idrici.
La maggioranza degli italiani aveva capito che l’acqua è un bene comune fondamentale, senza del quale non possiamo vivere, la cui disponibilità non può dipendere dagli interessi economici di soggetti privati.
Senza acqua non possiamo sopravvivere come esseri umani e non possiamo produrre il cibo che mangiamo. Senza acqua molte aziende dovrebbero fermare la loro produzione, non avremmo il turismo, non avremmo i servizi pubblici. Senza acqua non potremmo neppure produrre energia elettrica tramite la combustione di gas, idrocarburi o carbone.
Se venisse a mancare l’acqua in un certo territorio del paese, quel territorio si spopolerebbe in brevissimo tempo, obbligando gli abitanti ad emigrare verso altri territori.
La disponibilità di acqua è un bene comune, una infrastruttura fondamentale da cui dipende la vivibilità e la sostenibilità economica del nostro Paese.

Analogamente alla disponibilità di acqua, un paese moderno non può sussistere senza disporre dell’accesso comune, a prezzi abbordabili, ai prodotti alimentari fondamentali, ad una rete stradale, ai servizi sanitari, all’istruzione di base, alle telecomunicazioni.
L’accessibilità ai servizi energetici, intesi come disponibilità di energia elettrica e come disponibilità di combustibile per produzione di energia termica, è con ogni evidenza una questione fondamentale per la sussistenza del nostro paese.
Senza energia, infatti, non possiamo garantire livelli di comfort accettabili nelle abitazioni, ma soprattutto non possiamo garantire la produzione di beni e servizi di cui abbiamo bisogno per vivere, dalla produzione di cibo, ai servizi sanitari, alla scuola, alla sicurezza, alle costruzioni, ecc.

La lungimiranza dei politici della Prima Repubblica
La classe politica che guidò l’Italia nel secondo dopoguerra, portandola dalle rovine della guerra al miracoloso boom degli anni ’60-’70, aveva le idee molto chiare riguardo al ruolo fondamentale delle infrastrutture pubbliche nello sviluppo del Paese.
A titolo esemplificativo richiamiamo le motivazioni espresse nel 1962 (“Nota aggiuntiva”) da Ugo La Malfa riguardo alla creazione dell’ENEL (Ente Nazionale per l’Energia Elettrica), tramite la nazionalizzazione di 11 aziende private del settore.
Il problema di fondo da risolvere era in primo luogo che le 11 aziende private miravano unicamente a realizzare i propri profitti, per cui tendevano a creare degli oligopoli o addirittura dei monopoli, per poi massimizzare i prezzi di vendita, non avendo gli acquirenti privati delle alternative. E questo fattore risultava penalizzante per la competitività delle aziende che si trovavano obbligate a pagare prezzi troppo elevati per l’energia elettrica.
In secondo luogo quelle aziende private del settore elettrico non avrebbero mai esteso il servizio alle zone più arretrate del Paese, in quanto non redditizio per i loro bilanci. Ma nessuno sviluppo economico delle aree arretrate del Paese sarebbe mai stato possibile senza avere accesso alla rete elettrica.

La soluzione ovvia, per la lungimirante classe politica del tempo, fu l’acquisizione di quelle aziende private e la loro nazionalizzazione. Dopo di che vi fu un piano nazionale di investimenti, con la realizzazione delle linee ad alta tensione, dei collegamenti con le nazioni estere e, infine, la decisione del 1967 di mettere l’ENEL sotto la sorveglianza diretta del CIPE (Comitato Interministeriale di Programmazione Economica), di concerto con il Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato.

Era chiaro a tutta la classe dirigente del tempo che l’energia elettrica non era una merce come tante altre, che poche aziende private potevano vendere per realizzare i propri profitti. Tali profitti, infatti, sarebbero stati ben poca cosa rispetto ai danni economici per mancata crescita causati all’intero Paese.
Il fatto di garantire a tutti, su tutto il territorio ed ad un prezzo “politico”, uguale per tutti e non esposto alle (inevitabili) manovre speculative dei rivenditori privati era un requisito fondamentale affinché decine di migliaia di imprese private potessero sviluppare la loro capacità di produrre beni e servizi di ogni genere.
La decisione del 1962 fu probabilmente fra le più determinanti per innescare l’incredibile boom economico italiano degli anni 1960.

Per ragioni del tutto analogo Enrico Mattei rifondò l’ENI stringendo tutta una serie di accordi internazionali, che consentirono all’Italia di approvvigionarsi di petrolio in modo continuo ed a prezzi controllati, senza essere esposti alle azioni speculative delle famose “sette sorelle” del petrolio (Exxon, Mobil, Texaco, Socal, Gulf, Shell, BP). Con molta probabilità questa azione fu la causa principale della morte in dinamiche mai chiarite dello stesso Mattei. Con la stessa logica i successori di Mattei alla guida dell’ENI stipularono accordi per la fornitura di gas con la Russia, con l’Algeria e con la Libia. L’obiettivo era sempre lo stesso: assicurare all’Italia un adeguato approvvigionamento di energia a prezzi abbordabili.

Il fondamento teorico di questa visione politica furono con ogni probabilità le pubblicazioni dell’economista Paolo Sylos Labini, il quale nel suo libro del 1956 “Oligopolio e progresso tecnico” spiegava come l’esistenza di poche imprese oligopoliste su fattori produttivi chiave, come ad esempio la distribuzione di energia, potesse di fatto impedire lo sviluppo di molte altre aziende. La soluzione proposta è che fosse lo Stato a prendere il controllo delle aziende distributrici di energia, in modo da eliminare l’obiettivo del massimo profitto e finalizzandole a garantire a tutti la fornitura di base dell’energia.

Non il prezzo più basso, ma prezzi stabili e approvvigionamento certo
Siccome il mercato internazionale dell’energia, in particolare del petrolio (dato che l’Italia decise presto di svincolarsi dal carbone) è sempre stato soggetto a speculazioni e fluttuazioni in conseguenza di cambiamenti geopolitici, ENEL ed ENI avevano il mandato di operare, per quanto possibile, per garantire prima di tutto l’approvvigionamento certo di energia, fondamentale per non rischiare l’arresto delle attività produttive. Il secondo obiettivo, per quanto possibile, era quello di garantire prezzi il più possibile stabili. Tale obiettivo era importante, perché anche le eccessive fluttuazioni dei prezzi dell’energia possono creare dei problemi al settore produttivo. Infatti l’eccessiva fluttuazione del costo dell’energie rende difficile la determinazione dei costi di produzione e, quindi, anche la pianificazione industriale.
Questo significa che, a livello politico-economico, è meglio per le industrie avere un prezzo dell’energia mediamente un po’ più altro, ma stabile, piuttosto che un prezzo dell’energia fortemente altalenante, anche se mediamente inferiore.
Per questo motivo l’ENI, che si occupava dell’approvvigionamento di energia primaria, tendeva a stipulare con i soggetti esteri dei contratti di fornitura di 20-30 anni, a prezzi concordati.
Questo tipo di contratti, peraltro, risultavano convenienti anche per i fornitori esteri, i quali potevano essere certi di ammortizzare i loro investimenti, come ad esempio quelli necessari per realizzare un gasdotto di 4000 km dalla Siberia settentrionale all’Italia.

I geni dell’Unione Europea e le liberalizzazioni
Fatte salve le eccezioni del 1974 (crisi energetica causata dalla guerra del Kippur) e del 1979-80 (crisi energetica causata dalla rivoluzione in Iran e poi dalla guerra Iran-Irak), nelle quali le oscillazioni dei prezzi dell’energia furono inevitabilmente scaricate sugli utilizzatori, il meccanismo dell’energia pubblica a prezzo controllato ha dimostrato di funzionare bene per diversi decenni.

Dopo di che, nel 1992, l’Italia sottoscrive il Trattato di Maastricht di istituzione dell’Unione Europea ed i successivi trattati che hanno via via ceduto sempre più poteri alle istituzioni europee.
Le prime richieste, già degli anni ’90, messe in atto convintamente da personaggi dal nome di Romano Prodi e Mario Draghi, furono quelle di privatizzare le grandi compagnie energetiche nazionali.
Tutto questo senza grandi analisi economiche, ma sulla base dell’assioma neoliberista per cui “privato è più efficiente e costa meno”.
Da quel momento ENI ed ENEL pensarono sempre di meno a garantire energia a prezzo controllato a cittadini e imprese in Italia e sempre di più a realizzare utili per i propri azionisti, come tutte le altre multinazionali del mondo.

Non stiamo dicendo che, quando ENI ed ENEL erano pubbliche, non ci fossero sprechi ed inefficienze. Ma stiamo dicendo che, come la storia ha dimostrato, gli obiettivi “statutari” di garantire l’approvvigionamento di energia a tutti gli italiani ed a prezzi controllati venivano assicurati, senza ridurre sul lastrico delle famiglie e senza portare alla chiusura le fabbriche a causa di un eccessivo aumento dei costi dell’energia.

L’aumentare del grado di privatizzazione nel settore dell’energia ha portato dapprima alla moltiplicazione del numero di rivenditori, portando in Italia non alla riduzione dei prezzi, ma soprattutto ad una riduzione della trasparenza nel settore, con la moltiplicazione di truffe e dei contratti-capestro venduti telefonicamente ad ignari consumatori e responsabili di piccole imprese, che non potevano essere specialisti di contratti energetici.

Il livello di privatizzazioni ha raggiunto il suo culmine la scorsa estate 2021, con l’attualizzazione della finanziarizzazione del mercato europeo del gas naturale.
Da allora il prezzo di vendita al dettaglio del gas non viene più determinato dai prezzi dei contratti di fornitura a lungo termine sottoscritti dall’ENI (o società omologhe di altre nazioni) con Russia, Algeria & c., ma dalle contrattazioni giornaliere presso la borsa TTF (Title Transfer Facility) di Amsterdam, dove centinaia di soggetti privati scambiano quantitativi virtuali di gas, con liquidazione attuale o differita (futures).

Il risultato di queste “riforme” non è stata la diminuzione del prezzo del gas in Europa, ma è stato un aumento medio del prezzo unito a fortissime oscillazioni del prezzo.

Le conseguenze del provvedimento europeo, dopo un anno di “liberalizzazioni”, dovrebbe portare immediatamente a fare retromarcia, essendo evidente che le dinamiche della finanza speculativa si adattano molto male ad un mercato fatto di rigidità strutturali come quello del gas naturale.
Ma non lo faranno, perché probabilmente l’obiettivo delle lobbies finanziarie che la fanno da padrone negli uffici di Bruxelles era proprio l’aumento delle rendite finanziarie nel settore dell’energia. Le rendite finanziarie vengono garantite sia dagli alti prezzi, sia dalle frequenti fluttuazioni dei prezzi.
Per questi soggetti l’energia è una merce come tante altre, mentre per cittadini ed imprese è quasi come l’aria che respiriamo, di cui non possiamo fare a meno.

I contratti oil-link e gas-to-gas
Per spiegare le ragioni delle disfunzionalità delle liberalizzazioni europee nel mercato dell’energia, in particolare del gas naturale, dobbiamo prima di tutto comprendere le tipologie di contratti di acquisto del gas naturale.
Siccome oltre il 40% dell’energia elettrica prodotta in Italia è generata dalla combustione di gas naturale, il prezzo del gas naturale incide direttamente sul prezzo dell’energia termica (riscaldamento, produzione industriale), sia indirettamente, causando un aumento del prezzo dell’energia elettrica.

La quasi totalità del gas naturale importato in Italia è acquistato all’ingrosso da 3 operatori: ENI, Enel ed Edison. Questi operatori hanno stipulati dei contratti a lungo termine (durata 20-30) per grandi quantitativi di gas. Vengono definiti “oil-link” in quanto generalmente il prezzo di acquisto del gas è modulato in funzione dell’andamento del prezzo del petrolio (oil in inglese).
La caratteristica più importante di questi contratti non è solo la relativa stabilità del prezzo, ma è il fatto che gli ordinativi di grandi quantità di gas vengono fatti tenendo conto delle previsioni di consumo dell’Italia (famiglie, imprese e produzione di energia elettrica) e tenendo conto delle possibilità di stoccaggio del gas in Italia. I fornitori esteri, per il fatto di utilizzare condotte del gas di un certo diametro, hanno una capacità di punta di consegna del gas limitata, quindi prevedono la consegna anticipata del gas durante i periodi a bassa domanda (primavera, estate, autunno) in modo da fare fronte alla domanda di picco invernale. Un’altra caratteristica di questi contratti è il “take or pay” ovvero che il gas ordinato deve essere pagato, anche se poi non ne viene richiesta la consegna, per il fatto che il fornitore non può garantire di essere in grado di consegnare la stessa quantità in seguito, a causa dei limiti di capacità dei gasdotti.
Il concetto di fondo di questi contratti è la pianificazione, la quale consente di ottimizzare l’uso degli impianti sia lato paese fornitore, sia lato paese consumatore, nonché di tenere abbastanza sotto controllo i prezzi.
Pianificazione è ciò che è necessario per assicurare ad un paese di 60 milioni di abitanti, famiglie e industrie, il necessario approvvigionamento di energia.

Questo tipo di contratti sono stati la norma dagli anni ’70, con le prime forniture di gas dall’estero, fino allo scorso anno 2021. Dopo di che l’Unione Europea ha “liberalizzato” il mercato del gas naturale, consentendo a molti piccoli soggetti di stipulare dei “mini-contratti” di acquisto di gas, con il prezzo di acquisto slegato dal prezzo del petrolio e per questo denominati “gas-to-gas”.
Il prezzo di acquisto del gas viene quindi stabilito dal fornitore sulla base degli ordinativi che riceve.
Il prezzo di vendita del gas sul mercato europeo viene deciso dalle contrattazioni giornaliere presso la sopra citata borsa TTF di Amsterdam, con il meccanismo del prezzo marginale.
In sostanza, nelle regole di incontro fra domanda e offerta, i prezzi di vendita del gas vengono gradualmente aumentati fino a soddisfare tutta la domanda di gas, dopo di che il prezzo della “quota finale” di gas venduta per soddisfare la richiesta degli ultimi acquirenti di gas viene utilizzato come prezzo di vendita di tutto il gas.
Facciamo un esempio per spiegare meglio: se il 50% del gas viene acquistato dai venditori a 25 €/MWh e poi un altro 45% al prezzo di 50 €/MWh e infine il restante 5% viene acquistato al prezzo di 75 €/MWh, tutto il gas messo in vendita viene prezzato a 75 €/MWh, consentendo grandi utili a chi lo ha acquistato a 50 €/MWh e ancora di più per chi lo ha acquistato a 25 €/MWh.
Fra i venditori di gas non ci sono soltanto i produttori (Gazprom & c.), ma ci sono anche tutti gli investitori che hanno acquistato precedentemente gas ad un prezzo inferiore che ora lo rivendono ad un prezzo superiore.
Così come fra gli acquirenti di gas non ci sono soltanto coloro che poi lo distribuiscono a famiglie e imprese, ma ci sono anche coloro che lo acquistano oggi, per poi rivenderlo a domani ad un prezzo superiore.
E, come sempre avviene nei mercati finanziari, ci sono coloro che guadagnano sulle vendite allo scoperto e sui futures, scommettendo sulle variazioni future dei prezzi del gas.

Data la possibilità di realizzare grandi utili finanziari, la domanda di gas verso i pochi produttori di gas reale è stata “drogata” dalla stipula di moltissimi contratti a breve termine, definiti contratti “spot”, della durata di poche settimane o addirittura di un solo giorno.
Lo scopo di questi contratti non è garantire l’effettiva consegna di gas agli utenti finali, ma unicamente realizzare dei profitti finanziari.
Quindi, senza la minima pianificazione, i produttori di gas hanno ricevuto dei contratti di acquisto di gas “spot” che non tenevano per nulla conto della capacità di consegna fisica del prodotto.
Di conseguenza hanno fissato dei prezzi di vendita molto elevati, sia per fare maggiori utili, sia per scoraggiare questo tipo di contratti totalmente disfunzionali per il loro mercato.
Anche perché in questi contratti di breve termine “gas-to-gas” non esiste l’impegnativa al ritiro della merce, se non viene pagata.
Il risultato è stato che questi prezzi “marginali” relativi a contratti di ordinativi di gas “teorici”, gas che in molti casi non è mai stato né pagato né consegnato, hanno determinato il prezzo marginale del gas naturale nella borsa di Amsterdam e, quindi, il prezzo di vendita del gas a livelli mai visti sul mercato europeo.
Naturalmente le incertezze sulle future forniture di gas, a causa del conflitto in Ucraina e delle sanzioni europee alla Russia, hanno ulteriormente esasperato queste dinamiche che erano in atto già a partire dalla scorsa estate.

Per chi fosse interessato ad approfondire ulteriormente la questione consigliamo la lettura di questo articolo.

I danni causati all’economia italiana
Queste disfunzionalità derivanti dal cambiamento dei metodi di quotazione del gas in Europa hanno già causato e stanno causando danni immensi all’economia italiana.
Stiamo parlando di un “furto”, tutt’ora in corso, del valore di alcune decine di miliardi di euro a carico delle nostre famiglie e delle nostre imprese.
Alcune imprese particolarmente energivore (acciaierie, fonderie, vetrerie, ceramica, cemento, legno e carta) hanno già ridotto o addirittura arrestato la produzione, in quanto con questi prezzi dell’energia non sono in grado di produrre a prezzi che i loro clienti possano sopportare.
Questo ci costa fin d’ora un aumento della disoccupazione.

Il rincaro del gas naturale e dell’energia elettrica (prodotta bruciando gas) ha già portato ad un aumento considerevole dei prezzi al consumo, così come alla riduzione dei margini di guadagno di moltissime imprese.
Non essendoci le condizioni per un aumento dei salari, questo porterà ad un aumento della povertà in Italia (oltre agi attuali 5 milioni di poveri assoluti).

Ma i danni peggiori ci arriveranno dalla mancanza di pianificazione.
Stanti gli attuali alti prezzi di acquisto del gas e stante la perdita di quote di mercato da parte dei grandi distributori storici, come ENI, in questo momento nessuno ha interesse ad acquistare gas a prezzi elevati per immagazzinarlo in vista del prossimo inverno.
Il rischio reale è che il prossimo inverno ci ritroviamo con scorte insufficienti di gas, perché non ce ne sarà abbastanza per soddisfare la domanda di punta del prossimo inverno.
A quel punto Mario Draghi, per coprire il misfatto, ci dirà che “abbiamo deciso” di applicare delle sanzioni alla Russia per la guerra in Ucraina, per cui dovremo “fare sacrifici” e rinunciare ad una parte rilevante (20-25%) delle forniture di gas, per “punire Putin”.
Questo mentre in realtà la vera causa della carenza di gas del prossimo inverno saranno le dinamiche speculative e prive di pianificazione del mercato del gas europeo.

Il risultato, inevitabile, sarà un ulteriore aumento dei prezzi del gas in Italia, questa volta a causa della scarsa disponibilità di fronte alla domanda. Il tutto unito al razionamento del gas, per cui molte imprese dovranno forzatamente ridurre la propria produzione e licenziare del personale.
Lo stesso avverrà con l’energia elettrica, dato che con la scarsa disponibilità di gas sarà necessario razionare anche l’energia elettrica (prepariamoci a delle interruzioni periodiche), oltre al fatto che la pagheremo a prezzi mai visti.

Tutto questo lo scriviamo ora, che siamo ancora in tempo a cambiare le regole di determinazione dei prezzi e per reintrodurre dei criteri di pianificazione nelle forniture di gas.
Che qualcuno intervenga, prima del disastro nel nostro Paese, a preservare l’infrastruttura pubblica che è l’energia.
Le autorities dell’energia o  la Magistratura.

Energia, guerra, pace e finanza_ di Davide Gionco

 

Energia, guerra, pace e finanza
di Davide Gionco
25.03.2022

L’energia come strumento di guerra e di pace

Tv e giornali non cessano di martellarci con le notizie sulla guerra in Ucraina, mentre famiglie ed imprese si trovano a fare i conti con dei costi per l’energia sempre più insostenibili.

Qualcosa di simile era già successo negli anni 1970. Allora la Guerra del Kippur aveva spinto i paesi arabi produttori di petrolio, solidali con Siria ed Egitto in guerra contro Israele, ad aumentare unilateralmente il prezzo di vendita del petrolio, che al tempo era la principale fonte di energia in Europa e soprattutto in Italia, come fonte di ritorsione verso i paesi occidentali che sostenevano Israele. Il risultato fu la forte crisi energetica del 1973-1974, che portò il governo italiano ad assumere provvedimenti finalizzati al risparmio energetico ed alla diversificazione delle fonti energetiche. Fu allora che l’Italia decise di puntare sul gas metano come fonte primaria di energia in sostituzione del petrolio, cosa che divenne realtà una decina di anni dopo (vi ricordate la pubblicità “il metano ti dà una mano”?).
Dopo pochi anni, a partire dal 1979, ci fu una seconda crisi energetica, causata prima dalla rivoluzione iraniana e poi dalla conseguente guerra Iraq-Iran sostenuta dagli americani. La decisione di ridurre la dipendenza dell’Italia dal petrolio fu confermata da questi fatti.

La storia ci insegna che l’esportazione di energia è spesso o causa di guerre o strumento di pressione economica a seguito di guerre. Ma anche che accordi di fornitura stabile di energia sono uno strumento di pace, tramite accordi commerciali e di sviluppo economico fra nazioni, con convenienza reciproca.
Ricordiamo a titolo esemplificativo come l’occupazione del bacino della Ruhr (in Germania) da parte di Francia e Belgio negli anni 1923-1925 fu un modo per condurre una guerra economica contro i tedeschi, i quali si vendicarono di questo durante la seconda guerra mondiale. Nella Ruhr si produceva molto carbone, che al tempo era la principale fonte di energia per la Germania, ma anche per i paesi limitrofi. Con la fine della seconda guerra mondiale la costruzione della pace in Europa partì proprio dalla costituzione della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), tramite la quale il carbone veniva messo a disposizione di tutti i paesi aderenti, così come l’acciaio prodotto grazie all’uso del carbone insieme ai minerali ferrosi.
Nel bene o nel male l’energia è sempre un fattore determinante nelle relazioni di pace o di guerra fra le nazioni.

 

La strategia energetica dell’Italia per ridurre la dipendenza dal petrolio

La decisione di diversificare le forniture energetiche dell’Italia era finalizzata ad evitare di subire in modo eccessivo le continue variazioni del prezzo del petrolio.

Grafico 1


Fonte: https://theconversation.com/

Si può notare quanto il prezzo internazionale del petrolio vari in funzione di eventi geopolitici, ma anche di eventi di tipo finanziario.
Questo tipo di andamento è confermato dall’evoluzione del prezzo del petrolio negli ultimi anni. La finanza trova sempre delle ragioni per speculare sulle variazioni di prezzo del petrolio.

Grafico 2

La linea politica dell’Italia per ridurre la propria dipendenza dal petrolio fu da un lato investire sul risparmio energetico e dall’altro utilizzare una fonte di energia un po’ più costosa, ma dal prezzo molto più stabile: il gas naturale. A tale scopo furono stipulati dei contratti per forniture di grandi quantitativi e per una lunga durata con i governi di nazioni del Nord Africa, come la Libia, Algeria-

Grafico 3

Fonte: https://www.researchgate.net/

Ma soprattutto con il governo russo, anche se “sovietico”.

Grafico 4

Fonte: https://en.wikipedia.org/

La decisione dell’Italia fu certamente oculata, in quanto il prezzo del gas negli anni è risultato essere molto più stabile di quello del petrolio almeno fino al 2020, dopo di che nel 2021 è successo qualche di nuovo che ha fatto impennare anche il prezzo del gas. Ci ritorneremo più avanti.

Grafico 5

Fonte:
https://tradingeconomics.com

Negli ultimi anni la diversificazione è aumentata, aggiungendo una quota abbastanza rilevante di energia da fonti rinnovabili.

Grafico 6


Fonte: Dati: IEA 2019

 

 

La guerra in Ucraina e l’affrancamento dalla forniture russe di gas

Con la sciagurata guerra in Ucraina e l’aumento delle tensioni fra NATO e Russia, il potere politico propone nientemeno che rinunciare tutto di un colpo alle forniture di gas dalla Russia, come sanzione economica nei confronti di Putin colpevole di avere invaso l’Ucraina. Ma si tratta di una proposta realizzabile? A quale prezzo?
Quanto dipende l’Italia dall’energia russa?

Grafico 7


Fonte: https://oilgasnews.it/

Le importazioni di petrolio dalla Russia costituiscono circa l’11% del totale. Se dovessimo fare a meno del petrolio russo, non dovrebbe essere molto difficile sostituirlo con acquisti da altri produttori. Importare petrolio è semplice: si ordina la merce, la caricano su una petroliera e viene consegnato in uno dei nostri porti, dopo di che lo possiamo raffinare ed utilizzare.

Molto diverso, invece, è l’approvvigionamento di gas naturale, di cui l’Italia dipende addirittura per il 38% dalle importazioni russe.

Grafico 8


Fonte: Dati MISE 2021.

Per consegnare il gas serve realizzare gasdotti dalle sorgenti fino al paese di consegna. Dai pozzi di Jamal in Siberia settentrionale all’Italia ci sono 4’500 km di gasdotti, i quali hanno richiesto molti anni per essere costruiti, con cospicui investimenti. Per questo chi li ha costruiti ha interesse a stipulare contratti di lunga durata, cosa che l’Italia ha fatto da decenni con la Russia, con beneficio del sistema produttivo e delle famiglie italiane. Se venisse a cessare la fornitura dalla Russia, gli altri produttori di gas con i quali l’Italia è collegata non sarebbero in grado di sostituirla, sia per mancanza della stessa capacità produttiva, sia per la limitata capacità di trasporta dei gasdotti esistenti.
Qualcuno propone di utilizzare il gas naturale presente in Italia. Ma, a parte il fatto che solo per realizzare gli impianti servono diversi anni, le riserve di gas naturale dell’Italia, se usassimo solo quelle, si esaurirebbero nel giro di 10-12 mesi. Quindi disponiamo di una quantità largamente insufficiente per i nostri fabbisogni.

L’alternativa che viene proposta dagli “amici americani” è di acquistare del Gas Naturale Liquefatto (GNL) da grandi produttori internazionali come USA, Qatar, Arabia Saudita, Kuwait. Ma questo significherebbe passare dall’attuale 13,3% al (13,3 + 38,2 della Russia ) al 51,5% dell’approvvigionamento totale, quasi quadruplicando l’attuale disponibilità di rigassificatori (impianti in cui il gas liquefatto viene rievaporato per metterlo in rete), di navi metaniere. Ma significherebbe anche accettare strutturalmente di acquistare del gas più costoso, in quanto ai costi di estrazione di base si aggiungerebbero i costi di raffreddamento fino a -160 °C, i costi di trasporto con le navi metaniere (navi con enormi impianti frigoriferi per mantenere il gas liquefatto) e id i costi di rigassificazione in Italia.
E non dobbiamo trascurare il fatto che si passerebbe da una dipendenza dalla Russia alla dipendenza delle multinazionali dell’energia che controllano il mercato del GNL, società quotate in borsa e molto più legate alla speculazione finanziaria internazionale. Non è così scontato che la scelta sia conveniente.

La questione si complica ulteriormente se guardiamo i numeri a livello europeo. Il fabbisogno di gas dell’Unione Europea dipende molto fortemente dalle importazioni.

Grafico 9


Fonte: https://jancovici.com/ elaborazione di dati da BP Statistical Review

 

Le quali importazioni arrivano per oltre il 40% dalla Russia.

Grafico 10

Fonte: https://ilbolive.unipd.it/

 

Quindi si tratterebbe non solo di trovare un fornitore alternativo di gas per l’Italia, ma per tutta l’Europa, che si fornisce attualmente dalla Russia per oltre il 40% del proprio fabbisogno.
Osservando la capacità produttiva gasiera a livello mondiale possiamo notare come solamente gli USA avrebbero, in teoria, una capacità produttiva adeguata ai fabbisogni europei, in caso di arresto delle importazioni dalla Russia.

Grafico 11


Principali produttori di gas naturale nel mondo, in miliardi di metri cubi l’anno
Fonte https://www.researchgate.net/

Ma dobbiamo anche osservare che attualmente solo una piccola parte (quella evidenziata in blu scuro nel grafico che segue)della produzione statunitense è destinata all’esportazione.

Grafico 12

Fonte: https://www.eia.gov/

Questo significa che gli USA, nonostante i grandi proclami, non sono assolutamente in grado di assicurare all’Europa la sostituzione delle forniture di gas metano. Si noti come le esportazioni USA di gas siano dell’ordine di 5 miliardi di metri cubi l’anno, mentre la produzione russa è dell’ordine di 500 miliardi di metri cubi l’anno, 100 volte superiore.
Se gli USA non hanno la capacità produttiva per sostituire il gas russo in Europa, significa che nessun altro produttore al mondo può avere questa possibilità. Questo certamente nel breve e nel medio termine, in attesa che si scoprano nuovi giacimenti di gas chissà dove.

La conclusione è che l’Europa, e quindi a maggior ragione l’Italia, non ha alcuna possibilità di svincolarsi dalle forniture di gas russo, a meno di non ridurre nel giro di pochi i nostri consumi di gas, in modo da ridurre le importazioni di gas russo.
Di quanto?
Dal Grafico 6 deduciamo che il gas rappresenta il 41,8% del fabbisogno energetico nazionale. Dal Grafico 8 deduciamo che di questo gas il 38,2% arriva dalla Russia. La quantità di gas che verrebbe a mancare sarebbe quindi dell’ordine del 38,2% del 41,8%, che fa 16,0%.
Può sembrare “poco”, ma significa che, in media, le industrie dovrebbero ridurre del 16% la loro produzione annua o che le attività commerciali debbano ridurre del 16% i loro orari di apertura o che nelle nostre case dobbiamo interrompere l’energia elettrica per 4 ore al giorno. Come se non ci fossero bastate le chiusure imposte durante la pandemia del covid-19!
In modo molto semplificato potremmo attenderci un crollo del 16% del Prodotto Interno Lordo nazionale,
Le conseguenze economiche sarebbero catastrofiche per l’economia italiana. E qualcosa di simile ci si dovrebbe attendere, chi più chi meno, per il resto dell’Europa.
E non abbiamo preso in considerazione i rincari certi dei generi alimentari, causati dal blocco delle importazioni di cereali da Russia ed Ucraina.
Non possiamo escludere di riuscire a trovare, nel tempo, delle fonti energetiche alternative, ma tutto questo non potrebbe essere fatto in tempi brevi, per cui lo shock economico è inevitabile.
Dei “tempi” parleremo nel paragrafo successivo.

Quindi prima di lanciare proclami sulla interruzione delle forniture russe di gas, dovremmo prendere atto del fatto che il rapporto di fornitura di gas dalla Russia è una esigenza strutturale per l’Italia e per l’Unione Europea. E, aggiungerei, è anche una esigenza strutturale per la Russia, che dispone di un sistema produttivo arretrato e che ha assoluto bisogno dei proventi finanziari derivanti dalle esportazioni di energia in Europa, necessari per importare beni e servizi di qualità dall’Europa stessa.

Per fare un esempio facile da comprendere, è come se la Russia fosse l’unico fornitore d’acqua e noi fossimo l’unico produttore di cibo: per sopravvivere non potremmo fare a meno l’uno dell’altro, strutturalmente, senza possibilità di alternative, almeno nel breve e medio periodo.
Questa considerazione fondamentale dovrebbe portare la nostra classe politica a rivedere le proprie posizioni, molto basate sull’ideologia e per nulla fondate sui dati concreti sui rapporti energetici con la Russia. Se anche Putin fosse “cattivo” o “assassino”, sapendo che non abbiamo alternative al gas russo, le scelte politiche ne dovrebbero tenere conto.

 

Perché i prezzi dell’energia sono aumentati?

In televisione ci raccontano che i prezzi della benzina e del gas sono aumentati “a causa della guerra”.
Riproponiamo i grafici sopra esposti:

Grafico 1

Grafico 5

In realtà è sempre successo che il prezzo del petrolio sia variato fortemente a motivo di cambiamenti geopolitici o di azioni speculative dei mercati finanziari.
Ma questo non era mai successo per il gas, il cui prezzo era sì contrattualmente legato a quello del petrolio e solo indirettamente e in misura ridotta.

Se guardiamo in dettaglio l’andamento del prezzo del gas naturale negli ultimi mesi in Europa

Grafico 13


Fonte: https://tradingeconomics.com/

notiamo come gli aumenti dei prezzi siano iniziati già a partire da agosto-settembre 2021, mentre la guerra in Ucraina è iniziata a febbraio 2022. Quindi gli aumenti sono iniziati prima del conflitto, certamente per altre ragioni.

Aggiungiamo la considerazione del tutto evidente che in questo inverno nessuno di noi è rimasto senza gas per scaldarsi, anche se lo ha pagato l’ira di Dio.  Il gas richiesto è stato consegnato, non c’è stata una scarsità delle forniture che abbia giustificato l’aumento dei prezzi.

Che cosa ha dunque portato a questi aumenti? Che cosa ha modificato le dinamiche del prezzo del gas rendendole dello stesso tipo di quelle del prezzo del petrolio?

La risposta sta nei contratti di acquisto del gas, che dopo decenni di stabilità sono cambiati.

Il mercato internazionale del petrolio è nato, molti decenni fa, sulla base di contratti di vendita a breve termine. I produttori di petrolio cercavano clienti in giro per il mondo, vendendolo al miglior prezzo possibile. E gli acquirenti cercavano il miglior offerente possibile. C’era una certa libertà di scelta.
La possibilità di indirizzare le navi petroliere in tempi relativamente brevi a qualsiasi cliente nel mondo ha creato un mercato mondiale, da cui la nascita dell’OPEC, da cui la quotazione in borsa del petrolio.
La quotazione in borsa ha portato alla nascita di molti intermediari fra venditori ed acquirenti, i quali comperano opzioni di acquisto sul petrolio, che rivendono e riacquistano cercando di massimizzare i margini di profitto, come qualsiasi altro prodotto finanziario. Ovviamente spesso ci sono dei legami stretti fra la classe dirigente dei paesi produttori e queste società di intermediazione. E chi non sta al gioco (vedi Venezuela, vedi Iran, vedi Russia) viene messo sotto pressione politico-militare dagli Stati Uniti.
Il risultato è una continua fluttuazione dei prezzi, che favorisce la realizzazione di utili da parte degli investitori finanziari, ovviamente a spese di consumatori e imprese.

Il mercato del gas, invece, è sempre stato un mercato “locale”. La commercializzazione di gas liquefatto GNL è sempre rimasta minoritaria a causa degli alti costi. Per questo motivo la consegna degli ordinativi di gas si è sempre fatta quasi esclusivamente tramite tubature, che per essere realizzate richiedono grandi investimenti che necessitano molti anni prima di essere ammortizzati.
Per questo motivo i contratti di fornitura venivano stipulati non fra produttori e piccoli soggetti intermediatori, ma direttamente fra stati o dalle società energetiche nazionali.
Il primo contratto di fornitura europea su firmato nel 1969 da Eugenio Cefis, presidente dell’ENI, ed il presidente russo Leonid Breznev. L’anno successivo un contratto simile fu sottoscritto anche dalla Germania.
Erano contratti della durata di 20-30 anni, che assicuravano al fornitore la certezza di rientrare dei propri investimenti e nello stesso tempo garantivano all’acquirente la fornitura certa di energia ad un prezzo concordato per 20-30 anni. E’ il caso di notare che questa situazione era ideale anche per famiglie e imprese, consentendo loro di evitare eccessive fluttuazioni del prezzo del gas.
Per meglio ammortizzare gli investimenti iniziali, i contratti prevedevano anche che l’acquirente dovesse immagazzinare il gas nei gasometri durante l’estate (periodo di domanda minima), per non obbligare il fornitore ad aumentare la portata di gas in inverno. Maggiori portate, infatti, significano tubature più grandi e maggiori costi d’investimento, evitabili con lo stoccaggio estivo.

Questo sistema dei contratti a lungo termine è andato avanti fino al 2021, quando è successo che…
Ricordate che negli ultimi anni siamo stati tempestati di telefonate e di pubblicità per il passaggio dal “mercato tutelato” dell’energia al “mercato libero”?
Negli ultimi anni l’Unione Europea ha adottato una serie di provvedimenti finalizzati alla liberalizzazione del mercato dell’energia, in particolare relativamente all’energia elettrica ed il gas.
L’ideologia di fondo dell’UE è sempre la stessa: dobbiamo liberalizzare il mercato, in modo da conseguire una diminuzione dei prezzi. Ma il gioco funziona molto di rado.
La realtà è sempre la stessa: più libertà per gli speculatori e più costi per i consumatori. Soprattutto se le liberalizzazioni sono applicate ad un settore per sua natura monopolistico (con pochissimi produttori) come quello del gas.
Quello che è successo, e certamente chi ha voluto questa “riforma” lo sapeva, è che sono entrati in gioco nel mercato del gas i nuovi intermediari, quelli che già operavano nel mercato altalenante del petrolio, i quali hanno iniziato a comperare,  vendere, ricomperare e rivendere opzioni di acquisto sul gas, in modo da creare oscillazioni dei prezzi e trarne profitto.
Inoltre altri piccoli soggetti hanno iniziato a stipulare dei nuovi contratti di acquisto con i fornitori, ma di “tipo spot” ovvero per forniture di gas della durata di pochi mesi e per piccoli quantitativi. Questi investitori, per risparmiare, hanno evitato i costi di stoccaggio estivo, come avveniva da decenni.
In questo modo il fornitore sarà obbligato a vendere meno gas in estate, causa minori ordinativi per l’assenza di stoccaggio, e meno gas in inverno, non essendo le condotte dimensionate per il trasporto del fabbisogno di punta dei periodi più freddi dell’anno. Per il momento i fornitori sono riusciti a garantire le forniture, in quanto le tubature sono state sovradimensionate per tenere conto di margini di crescita degli ordinativi, ma la non realizzazione dello stoccaggio estivo andrà certamente a limitare le capacità di consegna futura del gas in caso di aumenti della domanda, ad esempio per una crescita economica. Il che porterà ad un ulteriore aumento dei costi, se non si ritorna al precedente tipo di contratti.
Aggiungiamo il fatto che il fornitore, di fronte a contratti di breve durata, senza garanzie per il futuro, con impianti costosi da ammortizzare e in assenza di concorrenti, avrà l’interesse ad aumentare i prezzi di vendita, cosa che non accadeva in passato.
Queste nuove dinamiche sono state innescate principalmente dalle decisioni dell’Unione Europea, naturalmente – come sempre – senza informarne i cittadini. Possiamo supporre che tali decisioni siano conseguenza all’azione delle solite lobbies che operano a Bruxelles, sia alle pressioni degli USA finalizzate a danneggiare economicamente la Russia, ma anche per favorire le maggiori vendite di gas liquefatto americano.
Non è stato il “cattivo” Putin ad aumentare il gas per farci dispetto, ma sono stati i “buoni” della Commissione Europea e della presidenza USA a portarci in wuesta situazione.
Personalmente ho il dubbio che l’escalation della guerra in Ucraina (aumento delle provocazioni che hanno spinto la Russia all’intervento militare) sia avvenuta solamente dopo l’attuazione di queste riforme del mercato energetico europeo proprio per massimizzare le rendite degli investitori in occasione dei perturbamenti causati dalla guerra.

 

La transizione ecologica

Certamente uno dei modi per ridurre la nostra dipendenza energetica da fornitori esteri è anche quello di riuscire a produrre più energia a casa nostra.
Riproponiamo il grafico precedente sul mix energetico usato in Italia per farne un’analisi.

Grafico 6

Le fonti “italiane” rinnovabili sono l’Idroelettrico, il Solare, l’Eolico ed il Biocombustibile, che tutti insieme rappresentano il 19,4% del totale. Negli anni 2020 e 2021 la quota totale di produzione da fonti rinnovabili in Italia è ulteriormente aumentata, non per un chissà quale aumento degli investimenti, ma soprattutto a causa della riduzione dei consumi energetici interni causata dalla limitazioni produttive delle misure anti-covid-19. E’ noto che l’energia da fonti rinnovabili richiede forti investimenti iniziali, ma poi l’energia si produce sostanzialmente “gratis”, o a basso costo. In caso di riduzione complessiva del fabbisogno energetico, di conseguenza, è naturale che venga ridotta la produzione da fonti non rinnovabili, per cui le fonti rinnovabili coprono una quota maggiore della produzione. Ma una volta normalizzata la situazione, si riprenderà a bruciare gasolio e metano, come prima.
Per questo motivo per la nostra analisi prendiamo in considerazione i dati del 2019, prima della pandemia.
Se il gas russo rappresenta il 16% del fabbisogno energetico nazionale annuo, per compensarlo dovremmo portare la quota da fonti rinnovabili dall’attuale 19,4% al 35,4%.
L’obiettivo è assolutamente auspicabile, perché al vantaggio di liberarci dai vincoli strutturali con la Russia e, in generale, dai condizionamenti derivanti dai fornitori di energia esteri, aggiungeremmo anche la riduzione delle emissioni di CO2 derivanti dalla minore combustione di gas naturale.
Considerando che la quota di idroelettrico ha pochissimi margini di ulteriore sviluppo, perché i bacini idroelettrici che potevamo realizzare li abbiamo già costruiti, dovremmo sostanzialmente raddoppiare l’energia prodotta tramite biocombustibile, tramite impianti solari ed impianti eolici.
A questo punto le domande sono due: con quanti investimenti e in quanto tempo?
Raddoppiare la capacità produttiva di energia rinnovabile significa fare enormi investimenti e significa attendere anni prima che questi nuovi impianti vengano costruiti e messi in funzione. Significa che chi ci governa dovrebbe quantificare questi investimenti, trovare i soldi e finanziare progetti di qualità, che garantiscano dei risultati effettivi dal punto di vista energetico.

Un’altra possibilità valida per l’Italia per ridurre la propria dipendenza energetica dall’estero è di investire seriamente sul risparmio energetico.
In effetti noi non abbiamo bisogno di energia in quanto tale, ma abbiamo bisogno di energia per riscaldarci in inverno, per la produzione di beni e servizi e per i trasporti.
Mettendo in atto opportuni interventi di risparmio e di razionalizzazione energetica degli impianti di climatizzazione, degli impianti produttivi e dei trasporti l’Italia potrebbe ridurre il proprio fabbisogno annuo di energia, diminuendo gradualmente la propria dipendenza estera ed evitando emissioni di CO2 in atmosfera. E’ realistico ritenere che il potenziale di riduzione rispetto ai fabbisogni attuali sia almeno del 30%.
Anche in questo caso, però, sono necessari cospicui investimenti ed è necessario attendere diversi anni prima di raggiungere gli obiettivi prefissati.

Politicamente parlando sarebbe opportuno investire sia sulla realizzazione di impianti per la produzione di energia verde in Italia, sia sul risparmio energetico. Ma si tratta di mettere in gioco grandi capitali e di realizzare degli interventi strutturali, che durino almeno 20-30, in modo da sviluppare solide competenze nel settore e le filiere produttive. Oggi, purtroppo, i nostri migliori ingegneri del settore emigrano all’estero, per la mancanza di opportunità serie in Italia. Siamo ben distanti dal seguire questi obiettivi.

C’è chi parla di ritornare al nucleare. L’argomento è complesso e meriterebbe almeno un articolo per essere approfondito. La mia opinione personale è che per il nucleare troppo spesso vengano sottostimati i costi di realizzazione, ma ancora di più i costi di smaltimento delle scorie, nonché i rischi derivanti da possibili incidenti, che possono essere sia di origine naturale (terremoti, maremoti, alluvioni), ma anche di origine umana (una guerra, un attentato). Questi rischi reali rendono l’energia nucleare molto meno sicura di quello che si creda.

 

La variabile “tempo”

La variabile “tempo” è fondamentale quando si parla di modificare gli assetti del settore energetico.
Servono anni per realizzare gli impianti che ci consentano di approvvigionarsi di gas da altri fornitori, ad esempio dal Medio Oriente o dai nuovi giacimenti situati fra Egitto e Cipro.
Servono anni per realizzare le necessarie navi metaniere e i necessari impianti di rigassificazione, volendo acquistare GN da paesi più distanti.
Servono anni per realizzare sufficienti impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili e le necessarie reti di trasporto.
Servono anni per realizzare nuove centrali nucleari.
Servono anni per i molti interventi necessari per ridurre del 40% i consumi per il riscaldamento invernale degli edifici.
Servono anni per potenziare adeguatamente i trasporti pubblici, in modo da ridurre le esigenze di trasporto privato, che è più energivoro.

Se anche si trovano i finanziamenti per questi interventi, fino a che l’Italia non recupererà la propria sovranità monetaria sarà ben difficile trovarli, sarà comunque necessario disporre di molta forza lavoro qualificata, di cui attualmente non disponiamo. Sono necessari anni per formare dei bravi ingegneri e degli operai specializzati.
In generale servono molti anni per trasformare un obiettivo politico in progetti di opere e poi per realizzare tali opere.

Purtroppo constatiamo che i nostri politici dimostrano una volta di più di vivere sulle nuvole, non rendendosi minimamente conto del fattore tempo.
Non basta decidere oggi di interrompere gli acquisti di gas dalla Russia oggi per avere domani un altro fornitore sostitutivo o una produzione nazionale da fonti rinnovabili equivalente o essere capaci di ridurre il fabbisogno energetico nazionale del 16%. E’ folle anche solo parlare di ipotesi del genere, in quanto sono fuori dalla realtà. Se si decide che questa è la strada giusta da seguire, allora bisognava pensarci prima, almeno 15-20 anni fa.

Se vogliamo un esempio virtuoso da seguire per i nostri politici, possiamo guardare alla vicina Svizzera, che dimostra un approccio razionale alla questione.
Qui sotto abbiamo un grafico prodotto dall’Ufficio Federale dell’Energia svizzero (OFEN)

Grafico 14

Si noti come il fabbisogno energetico complessivo (linea verde scuro) sia in progressiva diminuzione negli ultimi 10 anni, nonostante l’aumento della popolazione residente (linea arancio) e nonostante l’aumento del prodotto interno lordo (PIB, verde chiaro). Dato che ogni persona consuma energia per vivere e dato che per produrre si consuma energia, la crescita di questi fattori porterebbe naturalmente ad un aumento dei consumi energetici.
Ma l’indice di consumo di energia per persona è in costante diminuzione, mentre l’indice del prodotto interno lordo in rapporto all’energia consumata è in costante crescita ovvero si produce di più consumando di meno.

La Svizzera raggiunge questi obiettivi con politiche strutturali di incentivi alle ristrutturazione energetiche, di incentivi al settore produttivo perché investa nella razionalizzazione nell’uso dell’energia, di incentivi per la realizzazione di impianto solari, eolici e a biomasse e con un progressivo aumento della tassazione delle emissioni di CO2, in quali vengono preannunciati anni prima, in modo che le imprese ed i cittadini possano indirizzare adeguatamente i loro investimenti.
In Italia, invece, la classe politica si lancia irresponsabilmente in iniziative di rottura con i nostri principali fornitori di energia a cui siamo strutturalmente vincolati, come la Russia (già nel 2011 avevamo supportato, a nostro danno, la guerra alla Libia, altro nostro fornitore storico di energia), senza avere mai pensato seriamente ad un “Piano B” ovvero ad interventi strutturali per ridurre la nostra dipendenza energetica dall’estero. In sostanza è come se decidessero di chiudere l’unico rubinetto che ci disseta, senza avere pensato a fonti alternative d’acqua. Il risultato inevitabile non potrà essere che la morte per sete.

 

Energia e pace

Ritornando ai legami strutturali di interdipendenza fra Italia e Russia, che poi sono anche i legami fra la maggior parte dei paesi europei e la Russia, chiediamoci quale possa essere l’interesse “superiore” che potrebbe giustificare la rottura di questi rapporti.
La guerra in Ucraina rischi di complicare enormemente la situazione, portando alla rottura di equilibri nei rapporti internazionali che avevano dimostrato di funzionare bene, con vantaggi sia per l’Europa, sia per la Russia.
Si tratta di una questione estremamente importante che dovrebbe essere messa al centro delle trattative di pace fra Russia, Ucraina, con l’Europa come parte in causa.
Il non ingresso dell’Ucraina nella NATO richiesto dalla Russia o l’autonomia richiesta dalle regioni del Donbass valgono bene il prezzo del ripristino di rapporti di cooperazione energetica fra Russia ed UE. Lo valgono, perché non abbiamo alternative, al momento e almeno per i prossimi 15-20 anni.
Gli Stati Uniti, invece, perseguono dei propri obiettivi geopolitici di rilevanza di gran lunga inferiore, come l’isolamento della Russia dall’Europa (che è un danno per i paesi europei) o gli interessi di alcune loro multinazionali che intendono lucrare sul cambiamento degli equilibri del mercato energetico.
Nulla che possa valere il prezzo delle gravissime conseguenze della mancanza di energia in Europa, con una inevitabile aumento permanente dei prezzi nel settore energetico e con la necessità di ridurre strutturalmente la produzione di beni e servizi. L’Europa precipiterebbe nella povertà diffusa.

Se chi ci governa intende fare il bene del popolo, le scelte da fare sono alquanto evidenti. Se fanno altre scelte, chiediamoci se sono incompetenti o se agiscono per gli interessi di “altri”.
Ed anche la Russia ha tutti gli interessi a ripristinare dei sereni rapporti di collaborazione con l’Europa nel campo dell’energia.
Che si siedano seriamente tutti intorno al tavolo, discutendo di rapporti energetici e di pace in Ucraina. La soluzione che conviene a tutti, a parte gli USA, esiste. Basta solo avere uno sguardo lungimirante e volerlo.

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