La questione del Sahel, di Bernard Lugan

La questione del Sahel è visibile nella fragilità dei suoi Stati, nell’azione del jihadismo e nell’onnipresenza della criminalità. Le chiavi di lettura della questione del Sahel possono essere raggruppate intorno a dieci questioni principali:
1) Come area di contatto e di transizione, ma anche come frattura razziale tra l’Africa “bianca” e “nera”, il Sahel riunisce la civiltà meridionale dei granai, o Bilad el-Sudan (la terra dei neri), e la civiltà nomade del nord, Bilad el-Beidan (la terra dei bianchi).
2) Ambiente naturalmente aperto, il Sahel è oggi diviso da confini artificiali, vere e proprie trappole per le persone, il cui tracciato non tiene conto delle grandi zone di transumanza attorno alle quali si è scritta la sua storia.
3) La vastità del Sahel è il dominio del lungo periodo, in cui l’affermazione di una costanza islamica radicale è soprattutto l’alibi per l’espansionismo di alcuni popoli (berberi almoravidi nell’XI secolo, peul nel XVIII e XIX secolo).
4) A partire dal X secolo, e per oltre mezzo millennio, dal fiume Senegal al lago Ciad si sono succeduti regni e imperi (Ghana, Mali e Songhay) che hanno controllato le rotte meridionali del commercio trans-sahariano. Il commercio odierno si basa su queste grandi rotte.
5) A partire dal XVII secolo, le popolazioni sedentarie furono prese nella tenaglia predatoria dei Tuareg a nord e dei Peul a sud.
6) Alla fine del XIX secolo, la conquista coloniale bloccò l’espansione di queste entità nomadi e offrì la pace alle popolazioni sedentarie.
7) La colonizzazione ha certamente liberato i meridionali dalla predazione del nord, ma allo stesso tempo ha riunito razziatori e razziati entro i confini amministrativi dell’AOF (Africa Occidentale Francese).
8) Con l’indipendenza, i confini amministrativi interni dell’AOF divennero confini statali all’interno dei quali, essendo i più numerosi, i meridionali prevalsero sui settentrionali secondo le leggi dell’etnomatematica elettorale.
9) La conseguenza di questa situazione fu che in Mali, Niger e Ciad, a partire dagli anni ’60, i Tuareg e i Toubou che rifiutavano di essere sottomessi dai loro ex affluenti meridionali si sollevarono.10) I trafficanti fiorirono allora in tutto il Sahel.
Poi, a partire dagli anni Duemila, gli islamojihadisti si sono opportunisticamente intromessi nel gioco politico locale, facendo sì che la ferita etnico-razziale, aperta dalla notte dei tempi, si incancrenisse. Una ferita tanto più difficile da rimarginare se si considera che la regione è una terra in palio per le sue materie prime e il suo ruolo di snodo per numerosi traffici, con l’esplosione demografica suicida sullo sfondo.

RIFLESSIONI SULLA QUESTIONE DEL SAHEL

Il conflitto che attualmente sta coinvolgendo Mali, Burkina Faso e Niger è scoppiato nel gennaio 2012 nel nord del Mali, quando i combattenti tuareg hanno messo in fuga le forze armate maliane. All’epoca, stavamo assistendo alla chiara rinascita di un conflitto secolare tra Tuareg e sedentari del Sud, ma i “decisori” francesi commisero un grave errore di analisi. Non hanno capito – o si sono rifiutati di farlo – che l’islamismo non era altro che una copertura per le continue rivendicazioni dei Tuareg fin dall’indipendenza del Paese, e che non era altro che la superinfezione di una piaga etno-razziale millenaria. Accantonata l’operazione Serval, con la partenza dal Mali delle forze francesi e poi di quelle dell’ONU, il vero problema maliano è riapparso alla luce del sole. E non è l’islamismo, ma l’irredentismo tuareg. Lo scorso 12 settembre le forze armate maliane hanno subito un attacco mortale a Bourem, proprio il luogo in cui, nel gennaio 2012, è iniziata la guerra in Mali e che ha mandato in fiamme l’intera regione. Quanto a Timbuctù, all’inizio di ottobre era praticamente circondata, ma da allora si è assistito a un’inversione di tendenza, con una sorta di tregua tra i gruppi dello Stato Islamico e le Forze armate maliane che, sostenute da Wagner, sono riuscite a liberare Timbuctù prima di prendere la città di Kidal, la “capitale” tuareg. Le implicazioni di queste operazioni sono chiare: per lo Stato Islamico, il cui nemico prioritario è l’alleanza Tuareg-Al Qaeda, i suoi leader sembrano aver scelto di lasciare che l’esercito maliano e i Tuareg si affrontino in una battaglia che li esaurirà entrambi… prima di lanciare una grande offensiva in un secondo momento.

I TUAREG SCOMPARIRANNO?

Con la progressiva riduzione del loro territorio, i Tuareg sono minacciati di estinzione dal suicidio demografico sahelo-sahariano, poiché la loro terra d’origine viene gradualmente colonizzata da migranti provenienti da tutto il Sahel. Il risultato è una crisi sociale che non offre prospettive ai giovani inattivi. Senza futuro se non nel traffico di ogni genere, i giovani tuareg vengono lentamente, e per certi versi inesorabilmente, emarginati.

All’inizio del XX secolo, la vastità del Sahel-Sahara era abitata da quasi 2.500.000 persone suddivise in diversi gruppi etnici, alcuni nomadi, altri sedentari, distinti per lingua: a nord vivevano i Berberi (Sanhaja, Touareg, Mozabiti), i Mori (Arabi-Berberi), gli Arabi (Chaamba, Kunta), i Toubou e gli Zaghawa. Nel sud c’erano molti popoli, alcuni nomadi come i Peul, altri prevalentemente sedentari. Oggi i Tuareg costituiscono solo una minoranza tra i gruppi etnici del nord. Stimati in circa un milione e mezzo, si trovano nel sud dell’Algeria, intorno al Tassilin’Ajjer e alle città di In Salah, Djanet e Tamanrasset, nel nord del Mali e in Niger, intorno a Bilma e Agadez. L’esplosione demografica fa sì che entro il 2040 la popolazione del Sahel sarà raddoppiata, raggiungendo i 150 milioni. Le regioni tuareg settentrionali del Mali hanno visto la loro popolazione crescere del 72% dal 1987, con una media annua del 3,6%, e addirittura dell’80% a Kidal e Timbuctù in soli quattro anni, dal 2005 al 2009. In Niger, Paese con il più alto tasso di fertilità al mondo (7,1 figli per donna), il tasso di crescita annuale è stato di circa il 3% negli ultimi dieci anni e la regione sahariana di Agadez (Arlit, Bilma, Tchirozérine) ha accolto non meno di 70.000 nuovi arrivi tra il 2008 e il 2011. In Ciad, Abéché supera oggi i 200.000 abitanti, grazie soprattutto a un tasso di natalità che si avvicina al 45‰ e a una popolazione molto giovane (il 46% ha meno di 15 anni). La crescita demografica e l’urbanizzazione hanno un’influenza diretta sulle popolazioni locali, sempre più emarginate numericamente: nelle regioni di Gao e Timbuctù i touareg, che costituivano un terzo della popolazione all’epoca dell’ultimo censimento coloniale del 1950, sono oggi meno del 20%.
Questo declino, dovuto essenzialmente alla migrazione, può essere spiegato anche da un tasso di natalità inferiore a quello di altri gruppi etnici, da un aumento dei matrimoni esogami e da una significativa migrazione verso il Nord e il Golfo di Guinea. Tuttavia, questo declino è essenzialmente il risultato di nuove popolazioni provenienti dal nord (arabi del Maghreb) e dal sud (bambara, zerma) che si sono insediate nelle terre dei tuareg, sia come migranti che come lavoratori attratti da aziende straniere. La rete urbana è quindi cambiata nell’arco di un decennio. Più grandi e più numerose, le città della regione del Sahel-Sahara sono anche più varie e, accanto alle vecchie città crocevia come Timbuctù, Mourzouk e N’Djamena, stanno emergendo nuove città come Faya-Largeau, Dirkou, Arlit e Taoudéni, oltre a città di medie dimensioni (Djanet, Ghat, Ain Guezzam e Zouar) che fungono da punti di sosta sulle rotte trans-sahariane, ma anche da alternative alle grandi città incapaci di offrire un futuro ai migranti. In Mali, diverse città, come Koro e Tonka, che non esistevano nel 2005, hanno ora più di 50.000 abitanti. Questo fenomeno sta interessando anche il Nord. In Libia, ad esempio, la popolazione del Fezzan è cresciuta a un tasso annuo superiore al 10% dal 1984, mentre quella delle wilaya del sud della Tunisia (Médenine, Tataouine, Kébili e Tozeur) è aumentata dell’80% dal 2004. In Algeria, la popolazione della sola wilaya di Adrar è aumentata del 39% dal 1998.

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In Niger, signor Presidente della Repubblica, non è Trafalgar, ma Fachoda più la Berezina. Ancora una volta, complimenti a chi vi consiglia!_di Bernard Lugan

Devo ammettere un errore. Nel mio comunicato stampa del 15 agosto sul fiasco dell’Eliseo in Niger, ho scritto “oggi Trafalgar, domani Fachoda”. La realtà è diversa: in realtà è “Fachoda più Berezina”.

Fachoda appunto, perché i nostri ottimi alleati e fedeli amici laici, gli Stati Uniti, si sono ancora una volta totalmente dissociati dalla Francia. E, come sempre in questi casi con i nostri affidabili e infallibili partner anglosassoni, questi ultimi hanno “giocato d’anticipo”. Hanno negoziato alle spalle di Parigi con la giunta nigerina per mantenere la loro base ad Agadès! Di conseguenza, noi siamo stati sputati quando ce ne siamo andati, ma loro sono rimasti con i loro dollari!

È una Berezina anche perché l’arroganza, la compiacenza, l’ingenuità e soprattutto l’incompetenza dei ballerini di tip tap che consigliano l’Eliseo hanno messo il contingente francese in Niger in una situazione tale che il ritiro assumerà automaticamente la forma di una ritirata. Ora, essendo il Niger un Paese senza sbocco sul mare, ci sono due possibili opzioni, che di fatto equivalgono a una nuova Bérézina… ma senza il Corpo dei Pontonniers… :

1) Verso il Ciad. Questo comporterebbe lunghi e pesanti convogli che attraversano tutto il Niger sotto l’attacco di civili spinti sui nostri convogli per costringere le nostre forze ad aprire il fuoco, con tutte le conseguenze mediatiche che possiamo immaginare… A meno che, naturalmente, non paghiamo alla giunta un riscatto molto alto… Per non parlare del fatto che il Ciad è un vicolo cieco dove, inoltre, si pongono gli stessi problemi di base del Niger e del Mali… e poi, quando questo Paese esploderà, perché prima o poi esploderà, dove evacueranno le nostre forze? Una mappa è istruttiva a questo proposito…

2) Verso il Benin e il mare. Fortunatamente il Benin ha un confine di 266 chilometri con il Niger, una distanza relativamente breve dalle nostre basi nella regione di Niamey. Ma Cotonou dovrebbe comunque acconsentire al transito, cosa che probabilmente avverrà, ancora una volta in cambio di “denaro contante” e vari altri vantaggi…

In ogni caso, il prestigio della Francia non esiste più, quindi bisognerà pensare a ridefinire una politica africana, tema che sarà al centro del numero di ottobre de L’Afrique Réelle, che gli abbonati riceveranno il 1° ottobre.

Ma per il momento la realtà impone che i nostri futuri orientamenti strategici in Africa prevedano un ritiro dal Sahel, dove ci sono solo assi nella manica – e dove la Francia non ha interessi, come dimostra lo stesso numero di ottobre de L’Afrique Réelle – e un ritorno alla tradizione marittima del XVIII secolo, cioè facendo delle coste le nostre basi d’azione.
E, soprattutto, facendo scoprire a chi non ha ancora “bruciato le ali” le sottigliezze politiche, economiche, etniche e demografiche dell’interno di un continente che Stanley ha definito “misterioso”…

Mali, si torna al punto di partenza…, di Bernard Lugan

Il punto di partenza dell’attuale guerra in Mali, Burkina Faso e Niger non è l’islamismo, ma l’irredentismo tuareg. Il conflitto è scoppiato nel gennaio 2012 nel nord del Mali, quando i combattenti tuareg hanno messo in fuga le forze armate maliane. Gli insorti hanno dichiarato di essere membri del MNLA (Mouvement national de libération de l’Azawad), fondato nell’ottobre 2011, due anni dopo la fine della quarta guerra tuareg. L’MNLA riuniva diversi movimenti tuareg e la sua spina dorsale era costituita da membri della tribù Ifora che avevano servito nell’esercito del colonnello Gheddafi.

Con l’MNLA, oltre al riemergere di un conflitto secolare tra Tuareg e sedentari del Sud, si stava formulando una nuova forma di rivendicazione. Durante le quattro guerre precedenti, i Tuareg avevano lottato per ottenere maggiore giustizia dallo Stato maliano guidato dal Sud. Nel gennaio 2012, chiedevano qualcosa di molto diverso, ovvero la divisione del Mali e la creazione di uno Stato tuareg, l’Azawad.

Tuttavia, per le classiche e più che consuete ragioni di rivalità tra sottoclan tuareg, Iyad Ag Ghali, anch’egli Ifora e leader delle precedenti rivolte, era stato tenuto fuori dalla fondazione dell’MNLA. Non potendo accettare questa situazione, ha dato vita a un movimento rivale i cui obiettivi etno-nazionali erano gli stessi dell’MNLA. Ma, per poter esistere, lo ha dichiarato islamista. All’inizio di gennaio 2013, Iyad Ag Ghali ha superato l’MNLA lanciando un’offensiva a sud, verso Mopti e poi Bamako. L’8 gennaio 2013 è stata presa la città di Konna e l’11 gennaio 2013 diverse colonne dirette a sud sono state “trattate” dagli elicotteri francesi. Il regime del sud a Bamako è stato quindi salvato da una sconfitta prevista, cosa che i membri dell’attuale giunta hanno ben dimenticato…

Da quel momento in poi, l’analisi francese era sbagliata. I “decisori” francesi non hanno visto – o si sono rifiutati di vedere – che l’islamismo non era altro che una copertura per le rivendicazioni dei tuareg, che in un certo senso non era altro che la superinfezione di una ferita etno-razziale millenaria. Questo significava che per l’Eliseo Iyad Ag Ghali era il nemico, mentre in realtà era la soluzione del problema e bisognava parlare con lui… Negli anni successivi, la Francia si è rifiutata di comprendere questa realtà, con il presidente Macron che ha persino ordinato l’eliminazione di Iyad ag Ghali, cosa che quest’ultimo non ha dimenticato…

Ora, con la partenza delle forze francesi e dell’ONU dal Mali, il vero problema, il cuore della questione, è riapparso alla luce del sole: non si tratta di islamismo, ma di irredentismo tuareg. Vorrei chiarire questo punto a coloro che si compiacciono di distorcere le mie parole: sto parlando solo del nord del Mali, non della regione transfrontaliera, dove la situazione è diversa perché l’islamismo e il problema dei Fulani sono sovrapposti o intrecciati.

Come scrivo da anni, e come ben sanno gli abbonati a L’Afrique Réelle, Iyad Ag Ghali, il leader storico dei combattenti tuareg, ha costantemente cercato di riunire i clan tuareg attorno alla sua leadership. E ci è riuscito! I gruppi armati tuareg si sono riuniti nel CSP-PSD (Quadro Strategico Permanente – Per la Pace, la Sicurezza e lo Sviluppo), di cui fa parte anche la CMA (Coordination des mouvements de l’Azawad), per offrire un fronte comune contro l’esercito maliano che, con l’appoggio finora poco determinante del gruppo Wagner, sta cercando di riconquistare l’Azawad da cui era stato cacciato nel 2012.

Di conseguenza, il 12 settembre, le forze armate maliane hanno subito un attacco mortale a Bourem, proprio il luogo in cui, nel gennaio 2012, è iniziata la guerra che ha incendiato l’intera regione. La città di Timbuctù è praticamente circondata. E poiché questa volta le forze francesi non verranno a salvarli, i meridionali potrebbero presto pentirsi di aver chiesto la partenza di Barkhane…

La lunga storia è riemersa in modi che sono naturalmente ignorati da coloro che pretendono di definire la politica africana della Francia e che portano la terribile responsabilità dell’umiliazione che il nostro Paese sta attualmente subendo nel Sahel e, più in generale, in tutta l’Africa. Questa lunga storia è raccontata nel mio libro Histoire du Sahel des origines à nos jours (Storia del Sahel dalle origini ai giorni nostri).

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Un colpo di stato singolare, di Bernard Lugan

Quello appena avvenuto in Gabon è un colpo di Stato singolare, in cui il cuore del sistema ha spodestato in modo non violento il suo leader, un fantoccio diventato un fastidio per la sua stessa sopravvivenza… Nulla in comune con quanto accaduto in Mali, Burkina Faso o Niger. Qui non c’è jihadismo, né la “mano nascosta” della Russia, né il rifiuto della Francia, ma semplicemente una classica rivoluzione di palazzo. In Niger, la giunta è finanziariamente paralizzata perché non riesce a pagare gli stipendi (vedi pagina 17 di questo numero). Per salvarla, l’ex presidente Issoufou (che ha ispirato il colpo di Stato?) sta usando tutte le sue conoscenze per trovare denaro alla giunta. Una forte delegazione, tra cui il suo stesso figlio, è volata in Guinea Equatoriale per chiedere aiuto nel garantire gli stipendi e i salari di agosto in cambio della concessione di permessi per lo sfruttamento delle risorse naturali del Niger. Anche la situazione della sicurezza del Niger è catastrofica. Senza il supporto aereo, logistico e corazzato francese, le FAN (Forze Armate del Niger) hanno progressivamente abbandonato il terreno ai terroristi, che hanno inflitto loro pesanti perdite (17 morti il 15 agosto e 20 pochi giorni dopo). Temendo un contagio, Nigeria, Benin e Costa d’Avorio hanno adottato una posizione anti-giunta. La Nigeria ha interrotto la fornitura di elettricità al Niger. L’Algeria, da parte sua, è preoccupata e punta sui movimenti tuareg che potrebbero consentirle di creare un cuscinetto con lo Stato Islamico. All’interno della giunta sono sorti dissensi tra il generale Salifou Modi, che sarebbe filo-russo, il generale Barmou, che è l’uomo degli americani – decisi a mantenere la loro base ad Agadès – e il generale Tchiani, “vicino” all’ex presidente Issoufou, il cui ruolo nel golpe sta diventando sempre più chiaro. Inoltre, il leader dei KelAïr Touareg Ghissa Ag Boula, leader storico delle precedenti guerre Touareg, ha lanciato un appello alla rivolta contro la giunta.

I possibili scenari sono ora quattro:

1) Il movimento si esaurisce e muore.

2) Un attacco all’ambasciata o la dispersione di una folla incontrollata sulla BAP (base aerea prevista) francese sarebbe uno scenario simile a quello di Abidjan nel 2005, costringendo le forze francesi a intervenire.

3) Un colpo di Stato all’interno di un colpo di Stato.

4) Un intervento militare dell’Ecowas. Per comprendere i retroscena della questione nigerina, si rimanda al mio libro “Histoire du Sahel des origines à nos jours”.

GABON: UN COLPO DI STATO “FAMILIARE”? Ciò che è appena accaduto in Gabon non ha nulla in comune con quanto accaduto in Mali, Burkina Faso o Niger. Qui non c’è jihadismo, né “mano nascosta” della Russia, né rifiuto della Francia, ma semplicemente una classica rivoluzione di palazzo volta a salvare l’essenziale del regime. Un francofilo, il generale Brice Oligui Nguema, comandante in capo della Guardia presidenziale, ha rovesciato un presidente al quale era molto legato e al quale aveva giurato “fedeltà”[1]. Ora alla guida dello Stato attraverso il CTRI (Comitato per la transizione e il ripristino delle istituzioni), il generale Brice Oligui Nguema è Fang per parte di padre, come dimostra il cognome Nguema, e Teke per parte di madre. I Teke costituiscono il gruppo etnico maggioritario dell’Haut-Ogoué, la cui capitale è Franceville. Ali Bongo è egli stesso Teke. Da parte di madre, il generale Brice Oligui Nguema, cresciuto nell’Haut-Ogoué, è cugino di primo grado di Ali Bongo, che ha appena rovesciato. È essenziale rendersi conto che il colpo di Stato appena avvenuto è il risultato della difficile questione della successione di Ali Bongo. Di fronte a questo problema, i caciques dell’Haut-Ogoué, che costituiscono lo Stato profondo, si sono trovati di fronte a una scelta:

1) lasciare che Ali Bongo, molto indebolito dall’ictus che l’ha colpito nel 2018, svolgesse un terzo mandato presidenziale grazie a elezioni truccate. Un mandato marcio di affari e guerre tra clan che avrebbe finito per favorire l’opposizione. Questa opzione a breve termine, che era solo una tregua, non risolveva il problema alla radice, ovvero che l’opposizione avrebbe probabilmente vinto alla fine, spazzando via il sistema e i suoi beneficiari.

2) Tagliare il nodo gordiano per salvare il regime. Le discussioni sono state vivaci e i clan si sono scontrati. Ali Bongo ha difeso l’opzione di un terzo e ultimo mandato, che non avrebbe portato a termine, per consegnare il potere al figlio Valentin Noureddin Bongo. Alla fine, i sostenitori dell’opzione 1 hanno prevalso. Tuttavia, al momento dello spoglio dei voti per le elezioni presidenziali, fu chiaro che la candidatura di Ali Bongo era stata respinta a larga maggioranza. Da quel momento in poi, con le principali tendenze conosciute per strada e l’opposizione che aveva annunciato la sua vittoria, è apparso chiaro che era impossibile far credere che il Presidente avesse ottenuto la maggioranza dei voti. Durante le 48 ore in cui il Paese ha atteso i risultati, le discussioni si sono accese nel palazzo presidenziale. Il 30 agosto, per uno scherzo del destino, la Presidenza ha annunciato che Ali Bongo era stato eletto con il 64% dei voti. Pochi minuti dopo, giudicando la situazione insostenibile e tenendo conto dello stato di salute di Ali Bongo e delle “irregolarità” nelle elezioni presidenziali, il generale Brice Oligui Nguema ha preso il potere dal palazzo presidenziale. Tuttavia, per evitare di apparire troppo apertamente come il successore “consensuale” di Ali Bongo, ha dovuto mostrare il suo sostegno al popolo “epurando” il sistema dai suoi membri più cospicui. Sono state individuate alcune vittime dell’espiazione, tra cui Sylvia Nedjma Bongo Odimba, ex moglie di Ali Bongo, e suo figlio Valentin Nourddin Bongo. Una situazione che ricorda quella che si verificò in Tunisia nel 1987, quando il generale Ben Ali, sostenuto dalla perizia di sette medici che attestarono la sua incapacità mentale, depose Habib Bourguiba, la cui permanenza al potere rappresentava un rischio per lo Stato profondo.

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Dopo il Mali e il Burkina Faso… oggi il Niger… e domani il Ciad…, di Bernard Lugan

Gli eventi in Niger sono la logica conseguenza della disastrosa politica africana della Francia – da Nicolas Sarkozy a Emmanuel Macron, senza dimenticare François Hollande – e chi l’ha decisa deve finalmente risponderne. Com’è possibile che un conflitto etnico scoppiato nel 2011 nel nord-est del Mali e inizialmente limitato a una sola fazione tuareg si sia trasformato in un’incontrollabile conflagrazione regionale, la cui conseguenza più visibile è l’espulsione della Francia dalla regione del Sahel?

A causa della valanga di errori politici e sociali, e come ho costantemente annunciato dal 2011, il fallimento della Francia nel Sahel era purtroppo una certezza (si veda il mio libro Histoire du Sahel). È stato un fallimento politico mascherato per un certo periodo dai successi delle nostre Forze Armate, al costo del sacrificio di decine di figli migliori della Francia, caduti al posto di disertori africani che hanno preferito venire in Francia per approfittare delle grazie dell'”odiosa” ex potenza coloniale piuttosto che difendere i loro rispettivi Paesi.

Indottrinati dalla loro ideologia, i leader francesi hanno voluto che i diritti dei popoli africani passassero in secondo piano rispetto ai “diritti umani”, alla chimera del “buon governo” o alla nozione surrealista di “convivenza”. Per non parlare delle provocazioni LGBT e delle loro varianti, che in Africa sono viste come un abominio e che sono costate alla Francia la stima e il rispetto degli africani.
Privilegiando le analisi economiche e sociali, accecati dall’imperativo di un impossibile “sviluppo”, i decisori francesi hanno rifiutato la realtà, dimenticando le sagge raccomandazioni fatte nel 1953 dal governatore delle Indie Occidentali francesi: “Meno elezioni e più etnografia, e tutti troveranno qualcosa da amare”.

I “piccoli marchesi” storicamente sprovveduti che si sono laureati a Sciences-Po o all’ENA e pretendono di parlare dell’Africa non hanno capito che alla fine del XIX secolo la colonizzazione, che ha liberato i meridionali dalla predazione del nord, ha riunito dominati e dominanti entro confini amministrativi comuni. Con l’indipendenza, questi confini interni dell’ex AOF sono diventati confini di Stato e le leggi dell’etnomatematica elettorale hanno dato automaticamente il potere ai meridionali perché le loro donne erano state più fertili di quelle dei settentrionali. Così, in Mali, Niger e Ciad, dal 1960 al 1965, i settentrionali che rifiutavano di essere sottomessi dai loro ex affluenti meridionali si sono sollevati. La guerra scoppiata nel 2011 – quindi prima della presenza russa – e che si sta svolgendo sotto i nostri occhi, è una recrudescenza di questo fenomeno.

Di fronte a una realtà che non hanno capito o che si sono rifiutati di vedere, confondendo cause e conseguenze, gli irresponsabili che definiscono la politica africana della Francia hanno naturalmente commesso un errore diagnostico. Hanno parlato di un pericolo islamista quando si trattava chiaramente di una ferita etnico-razziale secolare superinfettata dall’islamismo contemporaneo.
Di conseguenza, la strategia francese si è basata sulla “essenzializzazione” della questione religiosa, etichettando perentoriamente come “jihadista” ogni bandito armato, pistolero e trafficante. Questo è stato un grosso errore, perché nella maggior parte dei casi si trattava di trafficanti che si dichiaravano jihadisti per coprire le loro tracce, e perché è più gratificante affermare di combattere per la maggior gloria del Profeta che per le stecche di sigarette o i carichi di cocaina. Da qui il legame tra traffico e religione, il primo dei quali si svolge nella bolla resa sicura dall’islamismo.
Di fronte a un’accozzaglia di istanze etniche, sociali, mafiose e politiche, opportunamente ammantate da un velo religioso, con diversi gradi di importanza attribuiti a ciascun punto a seconda del momento, la politica francese è stata rigida e incoerente.

In Niger, dove sono in corso diversi conflitti sia a ovest che a sud-est, la situazione è stata ulteriormente complicata dal fatto che il presidente Mohamed Bazoum è arabo. È un membro della tribù libica Ouled Slimane (Awlad Sulayman), che ha ramificazioni in Ciad e nel nord-est del Niger.
Anche in questo caso, un minimo di conoscenza storica avrebbe insegnato ai “ballerini di tip tap” che pretendono di definire la politica africana della Francia che questa potente tribù si è divisa in due negli anni Trenta del XIX secolo, quando il potere ottomano decise di riprendere effettivamente il controllo della Reggenza di Tripoli. Gli Ouled Slimane, una tribù Makhzen fedele ai Karamanli che erano stati rovesciati dai turchi, dissentirono (si veda il mio libro Histoire de la Libye).
Poiché la porta ottomana ebbe la mano pesante nel reprimere la rivolta, parte della tribù emigrò in Ciad e in Niger, dove prese parte al grande movimento di predazione del nord contro i sedentari del sud, che ha lasciato il segno nella nostra memoria collettiva.
In Niger, dove gli Ouled Slimane rappresentano meno dello 0,5% della popolazione e sono considerati stranieri, il fatto che uno di loro abbia raggiunto la presidenza è stato risentito. E, come se non bastasse, gli Ouled Slimane sono visti come amici della Francia da quando, nel 1940-1941, hanno opportunamente seguito la colonna Leclerc nella sua operazione di conquista del Fezzan italiano, operazione iniziata in Ciad e in Niger. Fu in quell’occasione che alcune frazioni degli Ouled Slimane tornarono in Libia, dove da allora si scontrano con i Toubou che occupano i loro antichi territori, abbandonati dopo l’esodo del XIX secolo.

Se la politica africana della Francia avrebbe dovuto essere affidata a uomini in loco che avessero ereditato il “metodo Lyautey” e l’approccio etno-differenzialista dei vecchi “Affari indigeni”, è stata invece gestita da insignificanti e pretenziosi maggiordomi che portano la terribile responsabilità del fallimento della Francia in Africa.
Un fallimento che non si è ancora consumato del tutto, visto che c’è ancora il Ciad, il cui turno arriverà prima o poi… inesorabilmente… E sempre per gli stessi motivi…

Come se non bastasse, invece di mettere in discussione i propri errori, aggiungendo ingenuità a incompetenza, i dirigenti francesi cercano ora di scagionarsi dalle proprie responsabilità indicando la “mano russa” ….. Come se, essendo in guerra con la NATO, la Russia si lasciasse sfuggire l’opportunità che le viene offerta di tuffarsi nell’abisso sbadigliante della nullità francese per aprire un fronte africano sulle spalle di coloro che lo combattono sul fronte europeo… Il discorso del presidente Putin all’ultimo vertice russo-africano di San Pietroburgo è stato molto chiaro su questo punto.

Le carenze dei leader francesi si riflettono nella loro incapacità di reagire alla menzogna sul presunto “saccheggio” delle risorse del Niger. Ci aspetteremmo che i “capponi” che parlano a nome della Francia dicessero chiaramente che la Francia non ha interessi in questo Paese desertico – il Mali, invece, è solo in parte desertico – destinato a soccombere alla sua demografia poligama suicida. Un Niger che, con tutto il rispetto per l’ineffabile Sandrine Rousseau, ha osato affermare che la Francia dipende da lui per l’uranio, quando il Paese rappresenta attualmente, nella migliore delle ipotesi, appena il 10% del fabbisogno francese… e quando è molto più facile ed economico approvvigionarsi altrove nel mondo.
Per non parlare dei giacimenti francesi, il cui sfruttamento è stato vietato per legge dagli ambientalisti…

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L’afrocentrismo tra miti e menzogne, di Bernard Lugan

Il primo uomo era nero. L’antico Egitto era “nero”, Cleopatra aveva la pelle nera.

Tutte le invenzioni primordiali sono state fatte dagli egiziani da persone di colore. La civiltà nera egiziana

civiltà egizia nera è quindi all’origine di tutti gli sviluppi intellettuali e tecnologici, in particolare dell’elettricità prodotta dalle piramidi, che di fatto erano centrali elettriche. I neri Africani hanno scoperto l’America prima di Colombo, sono all’origine della civiltà Maya e hanno imparato la mummificazione dagli Inca… ecc…

Queste sono solo alcune delle sciocchezze che costituiscono il “corpus dottrinale” dell’afrocentrismo. Eredità dei postulati “pittoreschi” e fantasmagorici di Cheick Anta Diop, ha avuto origine in America, in particolare nei campus degli Stati Uniti. Tormentati dall’inferno della loro storia, gli intellettuali afroamericani  inventarono l’afrocentrismo, un miraggio che permise loro di seppellire le loro frustrazioni nel rifugio dell’immaginario.

Con l’afrocentrismo e i suoi derivati, non ci troviamo però di fronte a semplici voli di fantasia prodotti dagli illuminati. Si tratta di un’ideologia coerente nella sua dottrina presentata come un’alternativa alla storia ufficiale  che si ritiene essere lo strumento della dominazione maschile bianca.

Un’ideologia razziale alimentata dal mito di una  “nazione africana la cui grande storia è stata oscurata a causa di una “cospirazione razzista” di cospirazione” dei bianchi-coloniali scienza storica bianco-coloniale.

Oggi, nell’epoca del wokismo e del de colonialismo  (si veda il mio libro Pour répondre aux décoloniaux),

per alcuni intellettuali afroamericani e africani, gli inverosimili postulati dell’afrocentrismo sono diventati

tante verità che prosperano sulla negazione della realtà.

Chi vi aderisce si rifiuta di riconoscere che esiste una differenza di natura tra fatto e mito.

Per gli afrocentristi e i decolonialisti la storia non è una scienza con regole e leggi proprie, metodologia, ma uno strumento dell’imperialismo coloniale bianco, progettato per sminuire i neri per far dimenticare di essere stati  il motore della storia umana.

In risposta alla storia bianca-coloniale, la “storia scritta dagli afrocentristi e dai decoloniali pretende di ristabilire la verità. In realtà, però, non è altro che un tentativo di affermare visioni tali da superare le frustrazioni dei gruppi lacerati dai loro complessi esistenziali.

Nel tentativo di giustificare i propri postulati, afrocentristi e decolonialisti hanno definitivamente rinunciato alla storia scientifica. Qualsiasi critica è vietata  “in quanto razzista” da parte degli afrocentristi. Questo permette loro di porre fine al dibattito, i loro avversari sono immediatamente disarmati e paralizzati da una un’accusa del genere…

Bibliographie du dossier – Carbonell, E et alii (2008) « The first hominin of Europe ». Nature, 452, 465-469. – Froment, A., (1992) « Origines du peuplement de l’Egypte Ancienne : l’apport de l’anthropobiologie ». Archéonil, 2, pp 79-98. – Froment, A., (1994) « Race et Histoire : la recomposition idéologique de l’image des Egyptiens Anciens. » Journal des Africanistes, 64, pp 37-64. – Hrdy, D.R., (1978) « Analysis of Hair Samples of Mummies from Semna-South ». American Journal of Physical Anthropology, n°49, 1978, pp 277-283. – Lazaridis, I et alii (2014) « Ancient human genomes suggest threre ancestral populations for presentday Européans ». Nature, 513, 409-413. – Lieberman, D.E (2007) « New described fossils from Georgia in Eurasia and from Kenya ». Nature, 449, 291-292. – Lucotte, G et Mercier, G., (2003) « Brief Communication : Y- Chromosome Haplotypes in Egypt. ». American Journal of Physical Anthropology, n°121, pp 63-66, 2003. – Lucotte, G ; Aouizérate A et Berriche, S., (2000) « Y-chromosome DNA haplotypes in North African populations. » Human Biology, 72 : 473-480, 2000 – Rabino-Massa, E et Chiarelli, B., (1972) « The Histology of Naturally Dessicated and Mummified Bodies ». Journal of Human Evolution, 1972, 1, pp 259-262. – Shuenemann, V et alii., (2017) « Ancient Egyptian mummy genomes suggest an increase of SubSaharan African ancestry in post-Roman periods ». Nature Communications, 8, 2017, 11 pages. – Taylor, J.H., (1991) Egypt and Nubia. London, British Museum. – Vercoutter, (1976) L’iconographie du Noir dans l’Egypte ancienne, des origines à la XXVe dynastie. In Vercoutter, Leclant, Snowdon, Desanges, « L’image du Noir dans l’art occidental », Fribourg, pp 33- 88. – Vercoutter, J., (1996) « L’image du Noir en Egypte ancienne ». Bulletin de la Société française d’Egyptologie, n° 135, 1996, pp 167-174. – Walker, S., (1997) « Ancient Faces : an exibition of Mummy Portraiture at the British Museum ». Egyptian Archaeology, 10, 1997, pp 19-23. – Wilding, D., (1997) « L’image des Nubiens dans l’art égyptien ». In Soudan, Royaumes sur le Nil, catalogue de l’exposition de l’Institut du Monde Arabe, 1997, pp 144-157.

ALL’ORIGINE DELL’AFROCENTRISMO C’È CHEIK H ANTA DIOP

Cheikh Anta Diop (1929-1986) è il principale ispiratore dell’afrocentrismo e del nazionalismo culturalista nero su base razziale, che afferma il primato creativo della negritudine.

Di nazionalità senegalese, Cheikh Anta Diop era un uomo di biblioteca e un compilatore selettivo, conservando solo gli elementi che confermavano i suoi postulati, tutti rifiutati dagli specialisti di tutte le discipline interessate.

Per Cheikh Anta Diop:

“Il negro non sa che i suoi antenati (…) sono le più antiche guide dell’umanità nel mondo.

Le più antiche guide dell’umanità sulla strada della civiltà; che sono stati loro a creare l’arte, la religione (in particolare il monoteismo), la letteratura, la prima letteratura filosofica, i primi sistemi filosofici, la scrittura, le scienze esatte (fisica, matematica, meccanica, astronomia, calendario…), la medicina, l’architettura, l’agricoltura, l’arte e la cultura.[1], ecc. in un’epoca in un momento in cui il resto del mondo (Asia, Europa: Grecia, Roma…) era immerso nella barbarie”.

(Allarme ai tropici, 196, 48).

Quindi, secondo Diop, i neri hanno la precedenza in tutte le aree della storia umana.

1) Le australopitecine, l’Homo erectus e l’uomo moderno (Homo Sapiens)  erano neri. Grazie all’incrocio – con chi? -poi sono comparsi i bianchi e i gialli.

2) L’Egitto, che era “negro”, fu la madre della civiltà.

La cultura greca gli deve tutto. La civiltà europea da cui scaturisce è quindi un eredità e retaggio. Inoltre, gli antichi greci non erano altro che plagiatori.

I postulati di C.A.Diop furono esposti a partire dal 1952 nel n. 1 de La Voix de l’Afrique, l’organo studentesco dell’RDA (Rassemblement Démocratique Africain), un partito che sosteneva l’indipendenza delle colonie africane dalla Francia. L’articolo, pubblicato nel febbraio 1952 e intitolato “Verso un’ideologia politica africana”, era una sintesi della tesi che avrebbe dovuto difendere alla Sorbona nel 1951, ma che era stata respinta per l’impossibilità di formare una giuria, motivo che nascondeva i suoi colossali “errori” metodologici. Un intero gruppo si attivò immediatamente per trovare un editore e la tesi fu pubblicata in forma di libro nel 1954 con il titolo “Nations nègres et culture”, che Aimé Césaire definì nel suo “Discours sur le colonialisme” come “il libro più audace che un negro abbia mai scritto”. Nel 1960, sotto la pressione degli intellettuali africani di lingua francese, la tesi fu finalmente difesa. Tuttavia, la giuria le assegnò solo una menzione “molto onorevole”, il che significava che era “mediocre”. Un voto così squalificante significava che C.A. Diop non poteva contemplare una carriera universitaria, che poteva essere raggiunta solo con la distinzione “Très Bien avec félicitations du jury”. Tenuto fuori dal mondo accademico senegalese dal presidente Senghor, anch’egli un vero accademico, C.A. Diop è stato nominato professore all’Università di Dakar per decisione politica del presidente Abdou Diouf nel 1981. C.A. Diop ha ripreso i suoi postulati e li ha sviluppati ulteriormente, in particolare in :

– “Nations nègres et Culture: de l’antiquité nègre égyptienne aux problèmes actuels de l’Afrique noire aujourd’hui”, Présence Africaine, Parigi. Présence Africaine, Parigi, 1954 (nuove edizioni nel 1964, 1979 ecc.) – “Les fondements culturels techniques et industriels d’un futur Etat fédéral d’Afrique noire”, Présence Africaine, Parigi, 1960. – Antériorité des civilisations nègres. Mito o verità storica? Présence Africaine, Parigi, 1967. – Civilisation ou Barbarie”, Présence Africaine, Parigi 1981. La critica ai postulati di Diop è iniziata negli anni Sessanta con la potente confutazione di Raymond Mauny, seguita nel 1972 da quella di Marcel d’Hertefelt, professore di antropologia al Museo Reale di Tervuren. Per quest’ultimo: “Le tesi di C.A. Diop ci impongono di decidere una volta per tutte di ignorare ciò che l’archeologia preistorica e protostorica, l’iconografia e la critica storica dei testi antichi ci dicono sulle popolazioni del Vicino Oriente e dell’Egitto, sullo sviluppo e la diffusione dell’agricoltura e della metallurgia e sui rispettivi contributi di queste due culle di civiltà alla scienza e alla scrittura. Va detto subito che generazioni di archeologi, egittologi, sumerologi, indoeuropei, semitologi e persino africanisti sono stati ideologicamente mistificati fino a falsificare la storia culturale, finché C.A. Diop non ha scoperto la verità. Questo è davvero chiedere molto. [2] Per una critica approfondita delle tesi di Diop, vedere :

– En collaboration (2000) Afrocentrismes. L’histoire des Africains entre Egypte et Amérique, Paris. – Fauvelle, F-X., (1996) L’Afrique de Cheikh Anta Diop, histoire et idéologie., Paris. – Froment, A., (1991) « Origine et évolution de l’homme dans la pensée de Cheikh Anta Diop : une analyse critique. ». Cahiers d’Etudes africaines, 121-122, XXXI-1-2, 1991, pp 29-64. – Hertefelt, (d’) M., (1972) Eléments pour une histoire culturelle de l’Afrique. Université du Rwanda. – Lugan, B., (2023) Histoire de l’Egypte des origines à nos jours. Paris. – Mauny, R., (1960) Recension de Nations nègres de C.A.Diop, in Bulletin de l’IFAN. XXII (1960), série B/544-551). Traduction anglaise sous le titre « Nations nègres et culture. A review. In Problems in African History, London, 1968, pp 16-23.

1_[Se ci limitiamo all’agricoltura, gli afrocentristi ignorano che intorno al 5000 a.C., dalle Fiandre al Danubio, si è formata una civiltà contadina europea che utilizzava la trazione animale.
La civiltà contadina europea utilizzava la trazione animale, mentre l’Africa sud-sahariana, l’Africa nera, ha scoperto questa tecnologia solo alla fine del XIX secolo.
L’Africa nera, da parte sua, ha scoperto la trazione animale, così come la ruota, la carrucola e la coltivazione a cavallo… solo con la conquista araba e poi la colonizzazione, cioè quasi un secolo dopo l’arrivo degli arabi.
conquista e la colonizzazione, cioè quasi 6.000 anni dopo… Per quanto riguarda i tre quarti delle piante alimentari consumate
consumati oggi a sud del Sahara (mais, fagioli, manioca, patate dolci, banane, ecc.) sono di origine americana o asiatica…
origine asiatica…

http://bernardlugan.blogspot.com/

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François Mitterrand e Vladimir Putin: due visioni contrapposte del futuro dell’Africa, di Bernard Lugan

Il 20 giugno 1990, nel suo famoso discorso al 16° vertice franco-africano di La Baule, François Mitterrand dichiarò che era a causa della mancanza di democrazia che il continente non riusciva a “svilupparsi”. Di conseguenza, condizionò gli aiuti francesi all’introduzione di un sistema multipartitico.

Il risultato fu che, in tutta l’Africa francofona, la caduta del sistema monopartitico provocò una cascata di crisi e guerre, poiché il sistema multipartitico esacerbò l’etnismo e il tribalismo, che in precedenza erano stati contenuti e incanalati dal partito unico. Il risultato è stato il trionfo elettorale dei gruppi etnici più numerosi, che più di tre decenni fa ho definito “etno-matematica elettorale”.

Il fallimento è stato totale perché non si è verificato il postulato francese secondo cui le elezioni avrebbero permesso di ottenere un consenso “nazionale” tra le fazioni etno-politiche. In effetti, la democrazia non solo non ha risolto i conflitti africani, ma li ha anche alimentati. Tre esempi:

1) Nel Sahel, essendo in minoranza, i settentrionali, che hanno la garanzia di perdere le elezioni, sono quindi esclusi dal potere attraverso le urne. Per loro, la “soluzione” elettorale è quindi una farsa, poiché non fa che confermare le percentuali etniche a ogni elezione, e quindi la loro subordinazione democratica ai meridionali (si veda il mio libro Histoire du Sahel des origines à nos jours).

2) In Ruanda, dove i tutsi rappresentano il 10% della popolazione e gli hutu il 90%, su pressione della Francia, il presidente hutu Habyarimana fu costretto ad accettare un sistema multipartitico. Tuttavia, questo sistema portò alla luce le profonde divisioni nella società ruandese che esistevano in precedenza all’interno del partito unico. Il risultato fu un’atroce guerra civile seguita dal genocidio del 1994, al termine del quale i tutsi del generale Kagame, che erano ancora solo il 10% della popolazione, si ripresero con la forza delle armi il potere perso attraverso le urne tre decenni prima. In questo caso, la democrazia ha portato al caos, poi al genocidio (si veda il mio libro Rwanda, un genocidio in discussione) e infine alla destabilizzazione dell’intera regione dei Grandi Laghi e del Kivu.

3) In Libia, dopo aver provocato l’anarchia, la Francia, i suoi alleati della NATO e i suoi partner dell’UE hanno preteso di ricostruire il Paese sulla base di una precondizione elettorale. Tuttavia, quest’ultima è inapplicabile perché si scontra frontalmente con il sistema politico-tribale, in quanto le tribù libiche hanno le loro regole interne di funzionamento che non coincidono con la democrazia individualista occidentale basata su “Un uomo, un voto” (si veda il mio libro Histoire de la Libye des origines à nos jours).

La Russia di Vladimir Putin si è schierata esattamente all’opposto del “diktat” democratico di François Mitterrand. A differenza del presidente francese, ritiene che la causa dei blocchi dell’Africa non sia la mancanza di democrazia, ma la sua instabilità politica… Un’instabilità in gran parte causata da questa stessa democrazia…

Oggi sempre più Paesi africani fanno la stessa analisi. Queste sono le ragioni dell’estromissione della Francia, un fenomeno che fa parte del grande cambiamento in atto e che i leader francesi, impantanati nei loro concetti universalistici, non hanno visto arrivare. In Africa, come in molte altre parti del mondo, stiamo assistendo sia alla fine di un ciclo che a un cambio di paradigma.

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Africa, prima la politica_di Bernard Lugan

In Africa, a sud del Sahara, la costruzione degli Stati precoloniali era basata sull’etnicità.
Quando hanno portato a gruppi multietnici, in genere non hanno avuto successo.
Di fatto senza futuro. I controesempi sono rari: l’entità dei Toucouleur e alcuni imperi musulmani nati dalla jihad, esempi che hanno avuto successo.
Imperi musulmani nati dalla jihad, che sono stati in effetti dei parziali “agglomeratori” o “coagulatori” etnici.
Oggi, a sud del Sahara, con le tre eccezioni di Botswana, Lesotho ed Eswatini (ex Swaziland), tutti e tre monoetnici e dove quindi c’è confusione o osmosi tra etnia, nazione e Stato, non esiste un unico gruppo etnico, nazione e Stato, non c’è stata coagulazione etnica da nessuna parte.
L’Etiopia fa eccezione per la sua profondità storica, ma il divario etnico è così profondo che non è stata egualmente in grado di raggiungere lo stesso livello di coesione.
Le divisioni etniche sono così profonde da minacciare permanentemente la sua coesione, come ha appena dimostrato l’ultima guerra in Tigray.
Gli attuali sviluppi politici, che avvengono attraverso un rifiuto sempre più marcato del “modello democratico occidentale”, dimostrano che il futuro è in un sistema in cui la rappresentanza dei gruppi piuttosto che degli individui. Si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione culturale perché, in ultima analisi, sono i fondamenti filosofici delle società democratiche “occidentali” a essere messi in discussione.
Ma la sopravvivenza dell’Africa sud-sahariana dipende da questo, e non può più essere messa in discussione. La posta in gioco è la sopravvivenza dell’Africa sud-sahariana, che non può più continuare a determinarsi secondo questi imperativi morali stranieri che la stanno lentamente uccidendo?

IL QUADRUPLICE PROBLEMA POLITICO
DELL’AFRICA

Nel 1968, Georges Balandier scriveva che: “(…) i nuovi Stati africani [hanno] il compito di realizzare rapidamente e allo stesso tempo (rivoluzioni) che la storia aveva scaglionato nel tempo [devono] reintegrarsi in una società che si è organizzata al di fuori di loro […]”. Questa osservazione evidenzia chiaramente i problemi politici che l’Africa indipendente dovette affrontare.

I quattro problemi principali che l’Africa deve affrontare sono:
1) La questione della trasposizione delle istituzioni politiche occidentali che ha causato il caos in Africa.
La ragione di ciò è che in Africa, dove l’autorità non è condivisa, l’autorità non è condivisa; si è proceduto senza alcuna preventiva creazione di contro-poteri con la conseguenza che la modalità di rappresentanza e di associazione al governo dei popoli minoritari li ha condannati dalla matematica elettorale ad essere esclusi dal potere per l’eternità.
2) L’idea di Nazione non è la stessa in Europa e in Africa perché, in un caso, l’ordine sociale si basa sugli individui e nell’altro sui gruppi. Tuttavia, il principio “un uomo, un voto”,
vieta di prendere in considerazione l’unica realtà politica africana, che è la comunità.
3) Gli Stati sono gusci giuridici vuoti che non coincidono con le patrie carnali che sono alla base delle vere radici umane.
4) I confini tracciati dalla colonizzazione sono sconosciuti e spesso incomprensibili. a livello locale. È importante rendersi conto che nell’Africa antica, i territori dei popoli
e che non si usciva dalla propria casa per entrare subito nella casa del vicino.
Tra i nuclei nucleari territoriali esistevano vere e proprie “zone cuscinetto”, che a volte si spostavano, appartenenti a nessuno dei due. In alcuni casi, questi spazi potevano essere attraversati da entrambe le parti da una parte o dall’altra. Altrove, erano il dominio degli spiriti in cui ci si poteva avventurare solo sacrificando a loro.
Le frontiere hanno anche distrutto, in modo irrimediabile, l’equilibrio interno delle grandi aree di allevamento dove la millenaria transumanza è stata interrotta dalla suddivisione degli spazi.
I confini hanno anche fatto sì che le persone siano state tagliate fuori da queste linee di demarcazione artificiali. Altrove, la colonizzazione ha altrettanto artificialmente riunito un mondo che era stato frammentato in numerose entità etniche, tribali o di altro tipo, addirittura di villaggio, al fine di renderle amministrativamente coerenti, ma che non avevano alcuna vocazione a diventare Stati.
Gli ex colonizzatori erano ben consapevoli di questi quattro
problemi nell’Africa sud-sahariana. Ecco perché, per tre decenni, dal 1960 al 1990, la priorità è stata costruire o rafforzare gli Stati. Poiché bisognava bruciare le tappe, gli Stati africani che erano emersi dalle divisioni coloniali hanno preso la “scorciatoia autoritaria”.
Per questo motivo, di norma, il partito unico si identificava con lo Stato che doveva essere essere creato. I particolarismi etnici erano allora combattuti e persino negati come potenziali fattori di divisione e indebolimento dell’edificio statale emergente.
Questa realtà ha dominato per tutto il periodo della “guerra fredda”, che per l’Africa corrispondeva al periodo della sua indipendenza.
Durante questa sequenza di confronto ideologico, la priorità per entrambi i blocchi è stata quella di mantenere le loro posizioni in Africa e quindi lo status quo politico era ricercato attraverso regimi forti su cui entrambe le parti potevano contare.
Poi, negli anni Novanta, dopo la scomparsa del blocco sovietico e di fronte ai fallimenti dell’Africa in campo politico, economico e sociale, la questione del potere è stata sollevata.
Nel 1990, in occasione della Conferenza franco-africana di La Baule, il presidente François Mitterrand affermò che l’Africa indipendente era fallita per mancanza di democrazia, e condizionò l’aiuto francese all’introduzione di un sistema multipartitico.
Il continente è stato quindi sottoposto a un vero e proprio “diktat democratico” che ha portato alla caduta del sistema o alla sua ridefinizione e, di conseguenza, all’indebolimento degli Stati che erano stati costruiti con tanta fatica.
Il risultato è stato che in tutta l’Africa francofona il crollo del sistema monopartitico ha portato a una cascata di crisi e guerre, con il multipartitismo che ha aggravato la situazione. Il sistema multipartitico ha esacerbato l’etnismo e il tribalismo che erano stati contenuti e incanalati dal partito unico.
partito. Il risultato è stato il trionfo dell’etnomatematica elettorale, con la vittoria delle etnie più numerose sulle meno numerose.
Il principale problema politico che l’Africa sud-sahariana deve affrontare è in definitiva chiaro. A non lasciare che le forze motrici della storia africana, non riuscendo a ritrovare il dinamismo perso con la colonizzazione.
Si tratta di trovare un modo istituzionale per permettere la convivenza etnica in modo che i popoli più numerosi non siano automaticamente i detentori di un potere matematico scaturito dalle urne.
La soluzione potrebbe quindi essere cercata in un sistema in cui la rappresentanza vada ai gruppi e non più ai singoli. Ma perché ciò avvenga, sarebbe importante ripudiare il sistema occidentale basato sul principio democratico di “un uomo, un voto”.

LE RAGIONI DEL FALLIMENTO DI SETTE
DECENNI DI “SVILUPPO

Più di settant’anni di politica di “sviluppo” si sono tradotti in un totale fallimento in Africa per tre ragioni principali; tutte e tre legate alla proiezione di ideologie “occidentali” su un corpo sociale che è antropologicamente impossibilitato ad assorbirle”.
Le tre ragioni principali sono
1) Il primato dato all’economia.
In tutti i modelli proposti o, più precisamente, imposti all’Africa sud-sahariana, l’economia è sempre stata messa in primo piano. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale, con l’obiettivo di integrare l’Africa nell’economia globale, hanno cercato di costringere i paesi africani alla deregolamentazione, alla privatizzazione e alla liberalizzazione.
I veri problemi del continente non sono fondamentalmente economici, ma politici, istituzionali e sociologici. Il primo errore di questo mezzo secolo perduto è quindi quello di avere sempre dato la priorità all’economia, come hanno fatto e continuano a fare tutti i progetti di sviluppo, mentre ci troviamo prima di tutto di fronte a un evidente problema politico.
2) Il rifiuto di prendere in considerazione la nozione di differenza.
Le nostre definizioni universalistiche ci impediscono, anzi ci vietano, di vedere l’evidenza della differenza. Gli africani non sono poveri europei dalla pelle scura. Ed è perché il corpo sociale africano non è quello dell’Europa o dell’Asia, che l’innesto non è avvenuto.
Come se un giardiniere che insiste nell’innestare un albero di prugne su una palma si stupisce che nonostante le montagne di fertilizzante versate su di esso, la sua operazione non riesca.
Le ricette utilizzate in Asia e altrove hanno fallito in Africa semplicemente perché abbiamo un caso comprovato di incompatibilità delle colture. Quindi non è continuando ad affogare gli africani negli aiuti e nei sussidi che alla fine finiranno per assomigliare agli europei, agli asiatici o agli americani.
3) Il presupposto democratico.
Durante gli anni Novanta si è ipotizzato che lo sviluppo fosse fallito a causa della mancanza di democrazia.
Di conseguenza l’Africa è stata sottoposta a un vero e proprio “diktat democratico”.
Il risultato è stata la matematica elettorale, con il potere automaticamente assegnato
ai gruppi etnici più numerosi, che ho definito etno-matematica.
In Africa, dove la questione preliminare non è economica ma politica, gli esperimenti costituzionali importati sono quindi falliti. Non sono al passo con le realtà continentali, non permettono ovviamente ai diversi gruppi etnici che compongono gli Stati risultanti dalle divisioni coloniali di convivere in un’armonia sociale che integri le nozioni contraddittorie di unità di destino e di rispetto delle differenze.
Infatti, in Africa, l’autorità non è condivisa e l’idea di contropotere è sconosciuta.
In queste condizioni, gli Stati emersi dalla decolonizzazione non sono stati in grado di inventare uno strumento di rappresentazione o di associazione dei popoli minoritari.
Tolti dal potere, questi ultimi non hanno altra scelta che sottomettersi o ribellarsi.
Tra sottomissione o rivolta, nozioni che non sono molto portatrici del potenziale di fusione nazionale.
È per questo che i giovani Stati africani non sono stati in grado di trasformarsi in nazioni come avevano postulato gli ex colonizzatori.
Il fallimento era stato addirittura previsto e come avrebbe potuto essere altrimenti?
Costruiti entro confini artificiali che imprigionano popoli diversi senza un passato comune,
questi Stati non sono altro che gusci giuridici vuoti che non coincidono con le patrie carnali
che sono il fondamento delle vere radici. Inoltre, l’idea di nazione non è una realtà.
L’idea di Nazione non è la stessa in Europa e in Africa, poiché in un caso l’ordine sociale è basato sugli individui e nell’altro sui gruppi.

Tuttavia, il principio europeo-americano di “un uomo, un voto”, vieta precisamente di prendere in considerazione la grande realtà politica africana costituita da gruppi (etnie, tribù, clan o stirpi).
La soluzione non è ovviamente economica e non comporta un nuovo e inutile aumento degli aiuti. Non è nemmeno sociale o sanitaria, perché l’auspicabile miglioramento delle condizioni di vita non affronta le cause del disastro.

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LA SITUAZIONE IN MALI DOPO LA PARTENZA DELLE FORZE FRANCESI, di Bernard Lugan

LA SITUAZIONE IN MALI DOPO LA
PARTENZA DELLE FORZE FRANCESI
Dopo la partenza delle truppe francesi, come era prevedibile, il Mali ha praticamente cessato di esistere come Stato.
Il Mali ha cessato di esistere come Stato, con le FAMa (Forze armate maliane) e i loro alleati russi del gruppo Wagner che controllano – e continuano a controllare – solo un piccolo triangolo intorno a Bamako.
controllano – e anche allora – solo un piccolo triangolo intorno a Bamako.
Al di fuori dell’area di Bamako, il resto del Mali è sotto il controllo di gruppi armati.
Il Mali è sotto il controllo di gruppi armati con affiliazioni multiple e fluttuanti. Combattenti, banditi, trafficanti e contrabbandieri cambiano alleanze e
e alleanze in base ai loro interessi del momento.
interessi del momento. Tuttavia, è possibile
Tuttavia, possono essere raggruppati in tre gruppi principali:
1) I gruppi armati tuareg (MNLA, HCUA,
MAA).
2) I gruppi affiliati ad Aqmi, il ramo saheliano di Al Qaeda.
di Al Qaeda, compreso il GSIM (Groupe de soutien à l’islam
e musulmani), un fronte per Iyad ag Ghali, oppure
come il Macina Katiba, che è una propaggine di
gruppi.
3) Gruppi affiliati all’EIGS (Stato Islamico nel Grande Sahara).
nel Grande Sahara)
Un’importante novità è che le varie componenti tuareg
componenti Tuareg (MNLA, HCUA e MAA) hanno deciso di
(per quanto tempo?) le loro lotte fratricide e si sono riunite, offrendo ancora una volta un blocco tuareg unito da poter
blocco per combattere l’EIGS.
Iyad Ag Ghali (leader del GSIM) si è addirittura avvicinato all’ex generale dell’esercito maliano El Hadj
Ag Gamou (leader del Gruppo di autodifesa tuareg Imghad e alleati). Gli Imghad sono i “Tuareg neri”.
Come ho detto e scritto per anni, i Tuareg
il leader tuareg Iyad Ag Ghali, che avrebbe dovuto essere il nostro interlocutore e non l’uomo di Emmanuel Macron, è quindi il nuovo forte.
Macron, è quindi il nuovo uomo forte del nord del
Mali perché ha finalmente preso il controllo delle varie
le varie fazioni tuareg che un tempo erano artificialmente
fazioni artificialmente rivali.
Il Nord del Mali è ora sotto il suo controllo,
che è facile da spiegare perché il problema qui non è principalmente quello dell’islamismo, ma quello del
ma quello dell’irredentismo tuareg.
Questo annoso problema, che affonda le sue radici nella notte dei tempi, è stato
nella notte dei tempi, si è manifestato a partire dal 1962 attraverso
periodiche recrudescenze
[1]
. A seconda dell’equilibrio di
forza del momento, si esprime sotto varie bandiere. Oggi è sotto quella dell’islamismo.
Ma un islamismo che non è quello dello “Stato Islamico”.
perché è un etno-islamismo.
Ignorando le sottigliezze etniche locali, i decisori francesi hanno trascurato di prendere in considerazione il peso dell’etnostoria e della storia.
peso dell’etnostoria e si sono invece bloccati in una politica che confonde effetti e cause.
politica che confonde effetti e cause.
cause.
Infatti, come ho scritto più volte, con i suoi “emiri” algerini uccisi uno dopo l’altro da Barkhane, il governo francese si trova ora in uno stato di confusione.
uccisi uno dopo l’altro da Barkhane, al-Qaeda-Aqmi
non è più guidata localmente da stranieri, ma dal tuareg Iyad Ag Ghali.
L’EIGS (Stato Islamico nel Grande Sahara), affiliato a Daech, si è accorto del pericolo e ha deciso di non fare nulla.
L’EIGS (Stato Islamico nel Grande Sahara), affiliato a Daech, si è accorto del pericolo e quindi accusa Iyad Ag Ghali di aver tradito l’Islam per
la rivendicazione tuareg a scapito del califfato trans-etnico che dovrebbe comprendere gli attuali Stati saheliani.
gli attuali Stati saheliani. Da qui la feroce guerra che i Tuareg e gli
Da qui la feroce guerra tra i Tuareg e le EIGS, soprattutto nella parte settentrionale della regione trifrontaliera.
Ora che le forze francesi hanno evacuato il Paese, l’Algeria
il Paese, l’Algeria, che considera il nord del Mali come
Mali come il suo cortile di casa, sarà in grado di gestire le “sottigliezze” politiche locali.
le “sottigliezze” politiche locali, tanto più facilmente in quanto i suoi servizi non saranno
facilmente in quanto i suoi servizi non saranno paralizzati da
paralizzati dai “vapori” umanitari che hanno
che hanno impedito alle nostre forze di intraprendere un’azione realmente efficace
sul terreno…

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Comprensione dell’attuale guerra in Sudan, di Bernard Lugan

Secondo i media, la guerra civile scoppiata in Sudan il 15 aprile 2023 si riduce a una rivalità tra il numero due del regime, Mohamed Hamdane Daglo, detto “Hemedti”, leader delle Forze paramilitari di supporto rapido ( RSF ) , e l’esercito regolare fedele al generale Abdel Fattah al-Burhane, al potere dal colpo di stato dell’ottobre 2021, il tutto in un contesto di lotte per l’accaparramento delle risorse.

A questa spiegazione giornalistica di una angosciante superficialità si oppone ancora una volta, e come sempre, l’analisi scientifica fondata sulla storia e sulle realtà etnogeografiche.

Le cause immediate dell’attuale conflitto sudanese sono chiare: l’esercito che ha governato il Paese dall’indipendenza ha deciso di integrare al suo interno la FSR, cosa che il leader di quest’ultima rifiuta, volendo invece liberarsi dall’establishment militare. Di conseguenza, l’uomo forte dell’esercito, il generale al-Burhane decretò lo scioglimento della FSR, ora considerata ribelle.

Un passo indietro è necessario se vogliamo uscire dalla mediocre superficialità mediatica, la cronologia ci regala un’utile “traccia di pane”:
– Il 6 aprile 1985, il generale Nimeiry fu rovesciato da un colpo di stato fomentato dal generale Dahab.
– Il 6 maggio 1986, quest’ultimo ha ceduto il potere a un governo civile guidato da Sadek el-Mahdi.
– Il 30 giugno 1989 Sadek el-Mahdi fu rovesciato dal generale Omar Hassan el-Béchir che compì un colpo di stato di ispirazione islamista. Fu formato un Consiglio Rivoluzionario per la Salvezza Nazionale che soppresse tutte le libertà e sospese le istituzioni democratiche. Hassan el-Tourabi era l’ideologo del regime.
Il Sudan è poi diventato uno stato paria. Nel 1991 l’Unione Europea ha sospeso la sua cooperazione e poi, nel 1993, Washington l’ha inserita nella lista degli stati terroristi.
– Nel 2003 è scoppiata la guerra del Darfur, che è stata la matrice della FSR e sulla quale è quindi importante soffermarsi.

Un membro dei Rizeigat, tribù nomade araba della zona sudanese-ciadiana, Mohamed Hamdane Daglo detto “Hemedti”, ha poi formato una milizia, i famigerati janjawid , miliziani arabi che hanno moltiplicato le atrocità contro le minoranze etniche non arabe.

La regione del Darfur è infatti costituita dalla giustapposizione della steppa saheliana in cui tradizionalmente vivevano i pastori nomadi arabi “bianchi”, e un’area con forti nuclei di agro-pastori neri che ne occupano le alture.

Il governo sudanese ha poi affidato la conduzione della repressione a questi janjawid o “uomini a cavallo”, che continuano su larga scala, e con il consenso delle autorità sudanesi, una tradizionale pratica di razzia. Questi miliziani arabi appartenenti al gruppo Djohana erano costituiti da due grandi suddivisioni tribali, ovvero gli El Djuzm, gli El Fezara e gli Homs, a loro volta suddivisi in diverse decine di tribù i cui legami sono molto complessi [1 ] . Queste milizie tribali, la cui funzione tradizionale era quella di proteggere le mandrie dai tentativi di furto, hanno svolto un ruolo essenziale nel conflitto.

Secondo le Nazioni Unite, il conflitto che avrebbe causato 300.000 morti e diversi milioni di sfollati, è valso a Omar el-Bashir l’incriminazione della Corte penale internazionale per “genocidio” e “crimini di guerra”.

Mohamed Hamdane Daglo, detto ” Hemedti ” ha poi assunto la guida della FSR, un gruppo paramilitare di recente formazione composto da janjawid con cui, nel 2010-2011, ha soppresso l’ondata di protesta che ha scosso il Sudan nell’ambito della “guerra araba” Primavera”. . Dimostrata la loro “efficacia”, l’FSR ha preso un posto essenziale all’interno dell’apparato di sicurezza, a tal punto che Omar el-Bashir ne ha fatto la sua stretta guardia. In cambio della loro lealtà, ha lasciato che i suoi membri “si pagassero con la bestia” e in particolare prendessero il controllo delle miniere d’oro del paese.

Nel 2015, tra le 30.000 e le 40.000 RSF sono state inviate nello Yemen per sostenere l’esercito saudita, che è venuto in aiuto del presidente Abd Rabbo Mansour Hadi, nella guerra contro la ribellione Houthi sostenuta dall’Iran.

Nel 2019, l’esercito sudanese ha affrontato un’enorme protesta popolare. Non volendo affrontare direttamente la folla, ha lasciato che quest’ultima estromettesse dal potere il generale Omar al-Bashir. Ma, proprio come in Egitto, ha mantenuto il controllo grazie alla creazione di un Consiglio di sovranità presieduto dal generale Abdel Fattah al-Burhane e di un governo di transizione composto per metà da soldati e per metà da civili presieduto da Abdallah Hamdok.

Sempre come in Egitto, l’esercito ha poi lasciato che la situazione si deteriorasse, spingendo la componente civile del governo ad incolpare. Questo è stato tanto più facile per lui dal momento che il paese era in bancarotta da quando l’indipendenza del Sud Sudan nel 2011 lo ha privato di circa il 75% delle sue entrate petrolifere. Prima della spartizione del 2011, il Sudan produceva 470.000 barili/giorno, tre quarti dei quali nell’attuale Sud Sudan. Il debito nazionale era colossale, le carenze apocalittiche e, come se non bastasse, il polmone del Paese che è Port-Sudan sul Mar Rosso, e che è collegato a Khartoum da una linea ferroviaria, vera e propria arteria vitale del Paese, è stata regolarmente bloccata dall’insurrezione dell’etnia Bedja che vive nel suo entroterra.

Nella notte tra il 24 e il 25 ottobre 2021, giudicando il momento favorevole, e per salvaguardare gli interessi dell’esercito, il generale Abdel Fattah al-Burhane ha assunto un potere che già esercitava in gran parte attraverso il Consiglio di sovranità . Il momento era cruciale perché la componente civile dello Stato minacciava i suoi interessi in due modi:

– Economicamente perché, come in Egitto, anche qui in Sudan, sono le forze armate i veri attori economici del Paese.

– Legalmente a causa dei crimini commessi durante la guerra in Darfur. Crimini che, come si è detto, avevano portato l’ex presidente Omar al-Bashir a essere incriminato dalla Corte Penale Internazionale. Tuttavia, la componente civile del governo aveva acconsentito alla sua consegna a questo tribunale, che molti soldati percepivano come una minaccia perché tutti gli alti ufficiali dell’esercito sudanese avevano partecipato a questi terribili eventi.

In seguito a questo colpo di stato, forti manifestazioni di protesta hanno scosso Khartoum e le RSF hanno giocato ancora una volta un ruolo chiave nella loro feroce repressione.

Oggi l’equilibrio di potere è bilanciato. L’FSR è forte con diverse decine di migliaia di combattenti esperti – alcune fonti li stimano in più di 120.000 uomini contro 100.000 soldati – che hanno combattuto in Yemen e Libia a fianco delle forze del generale Haftar.

Esperti e pesantemente armati, gli FSR non hanno tuttavia né carri armati né aviazione, a differenza dell’esercito regolare. Nei giorni scorsi i ribelli della Fsr hanno cercato di prendere gli aeroporti. Se ci riuscissero, l’esercito lealista perderebbe gran parte della sua forza d’attacco.

Conclusione

In realtà, e al di là di ogni spiegazione, l’attuale guerra civile sudanese contrappone i nubiani che vivono lungo il Nilo, che costituiscono la spina dorsale del Paese, e che controllano l’esercito, con gli arabi beduini delle steppe e dei deserti dell’Occidente.

Una dicotomia ulteriormente rafforzata dalle affiliazioni di fratellanza. Il Sudan è infatti politicamente bipolare perché tradizionalmente dominato dai capi ( Sayyid) delle due principali confraternite religiose del Paese ( Tariqa) ​​che sono Mahdiya , da cui il Mahdismo, e Khatmiya.

Storicamente, il primo era anti-egiziano e il secondo filo-egiziano, il che portò alla persecuzione dei membri del secondo durante la vittoria mahdista del 1885, poi all’aiuto dato da quest’ultimo agli inglesi durante la campagna del generale Kitchener nel 1898 .

Opposizioni che hanno lasciato tracce profonde. Tanto più che, geograficamente ed etnicamente, i Khatmiya , che sono piuttosto nubiani, reclutano da popolazioni sedentarie quando il Mahdiya , che è invece insediato tra le tribù nomadi, incarnava il nazionalismo sudanese radicato nella memoria dello Stato teocratico mahdista fondato nel la fine del XIX secolo.

Mentre la capitale Khartoum si sta gradualmente trasformando in un campo di battaglia, poiché il Sudan confina con due Paesi estremamente fragili e instabili, il Ciad e la Libia, il timore di una destabilizzazione regionale sta ora preoccupando i suoi vicini. Una destabilizzazione che potrebbe risvegliare diversi conflitti sopiti, tra cui quelli in Ciad.

[1] Il riferimento alla questione è: MacMichael, HA, A History of The Arabs in The Sudan and some Account of The People who precedent them and of The Tribes Inhabiting Darfur. 2 volumi, Londra, 1967.

http://bernardlugan.blogspot.com/

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