NOTE SU FREUND E LA DECADENZA, di Teodoro Klitsche de la Grange
NOTE SU FREUND E LA DECADENZA
Non ho letto il libro di Freund, per cui queste brevi note si rifanno alle altre opere del filosofo alsaziano, particolarmente L’age de la renaissance, tradotto e pubblicato in italiano nel 1980 (da Armando) con un titolo (quanto mai opportuno): La fine dello spirito europeo.
La concezione della decadenza di Freund è quella “classica” della ciclicità delle istituzioni (e delle civiltà umane) per cui a fasi di espansione e crescita seguono quelle di contrazione e decrescita; a queste ultime succedono poi epoche di “rinascite” (cioè di nuova espansione) e così secondo un andamento che si ripete in cicli per certi aspetti molto simili. Questa concezione applicata alle forme politiche è stata condivisa già dal pensiero antico, dagli stoici e da Polibio di Megalopoli. Nel pensiero moderno tra i tanti che l’hanno sostenuta occorre ricordare G.B. Vico e, ovviamente con le dovute differenze, Spengler; i quali l’applicavano anche alle civiltà umane; e Pareto (alla società prima che alle istituzioni).
Tutte tali visioni hanno in comune di contrapporsi all’idea di progresso, per cui l’uomo progredisce rispetto al passato e questo cammino unidirezionale non conosce marcia indietro (il futuro è e sarà migliore del passato).
Il contrario di quanto ritenevano tanti pensatori antichi (ma non solo) che collocavano l’età dell’oro all’inizio della Storia, per cui la decadenza sarebbe un cammino costante in direzione contraria a quella del progresso. Tra le due, ma in effetti opposta a quella del progresso (prevalente nella modernità) è quella ciclica per cui l’andamento delle fasi di espansione/contrazione somiglia, nello spazio cartesiano, ad una sinusoide.
Scriveva Freund di aver mutuato la nozione di decadenza nel doppio significato datole da Pareto: della degenerazione di un tipo storico di civiltà, ma dall’altro, del rinascimento possibile ad uno stadio successivo sotto nuovi aspetti, differenti, come scrive Jeronimo Molina Cano (nella prefazione dell’edizione 2023) sintetizzando le linee direttrici “del suo opus magnum, la Décadence”. In effetti nei pensatori della ciclicità delle istituzioni e comunità umane, il tutto non stupisce. Perché dalla regolarità della successione dei cicli deriva anche la normalità del processo.
Sempre sul doppio aspetto della decadenza occorre ricordare quel che ne pensava Hauriou con la sua concezione sull’alternanza delle epoche medievali e di rinascimento[1]
Interrotte da crisi che non sono decadenze complete ma fasi di cambiamento intenso, che comunque conserva nella nuova epoca molti elementi della precedente[2]. La coincidenza (anche lessicale) della attuale epoca come di rinascenza – secondo Hauriou e Freund – (la modernità dal XVI secolo ad oggi) è un modulo ulteriore di collegamento dei due pensatori.
Quel che più interessa della concezione di Freund, oltre alla “ciclicità”, sono i caratteri che enumero di seguito:
1) il valore dato ai fatti e all’esperienza, rispetto alle costruzioni intellettualistiche che connotano molti dei nuovi idola della contemporaneità, derivanti da astrazioni di tesi settoriali, anche scientifiche (o pseudo-scientifiche); come ad esempio l’emergenza climatica, il genderismo, ecc. ecc.: ossia la prevalenza di quello che Freund definiva il pensiero razioide, essenzialmente una caricatura della razionalità occidentale[3] e già di per se connotato di decadenza.
Di converso il fatto che l’Europa sia in fase di decadenza è un’affermazione constatabile da una pluralità di circostanze reali e percepibili: in primo luogo l’arretramento territoriale, con la perdita degli imperi coloniali. In secondo luogo, al posto dell’aggressività della fase d’espansione, nel presente prevale – nel migliore dei casi – l’esigenza di conservazione. A questo si accompagna la perdita di fiducia nei valori che avevano ispirato la fase ascendente, i quali anzi, sono occasione di autocolpevolizzarsi, con una mollezza spirituale, prima ancora che materiale. Peraltro, come scriveva Freund, l’aberrazione delle autocolpevolizzazioni (oltre che le loro evidenti parzialità) consiste nel credere che biasimando l’azione degli europei si puliscono quelli che puliti non sono, cioè i governanti dei paesi decolonizzati, alcuni dei quali artefici di predazioni, stragi e genocidi non inferiori, e spesso più efferati di quelli degli ex colonizzatori.
Secondariamente la tesi di Freund si basa sul fatto che quella materiale deriva dalla decadenza spirituale; la razionalità e la libertà, caratteri della rinascenza occidentale ne hanno fatto le spese, essendo trasformate da una ipertrofia senza limiti che le distorce.
Questa consiste nell’intellettualizzazione. Nell’esempio di Freund la civiltà europea ha costruito una serie di libertà concrete (di pensiero, di riunione, ecc.) per difenderle dall’arbitrio del potere; ovviamente. come affermato da secoli di pensiero, libertà e dominio sono opposti ed insopprimibili.
Invece l’intellettualizzazione “preconizza l’emancipazione totale del genere umano… restituisce al sistema delle libertà il fine escatologico di una libertà totale, senza condizioni” (ossia la fine del dominio). Così “l’intellettualizzazione svia la razionalità appartenente alla Rinascenza, da cui peraltro è nata, assegnandole una missione radicale nella quale perde il proprio significato”. E, sotto un altro aspetto “l’intellettualizzazione trasforma la razionalizzazione in una pura attività razioide, ossia in una discussione sterile, senza alcun riferimento al reale”. Inoltre “una delle illusioni dell’intellettualismo sta nel non accorgersi del rapporto sottile e spesso oscuro tra il tutto e le parti”; nonché tra fine e mezzi. È un modo di argomentare scombinato e sofistico: a farne le spese è soprattutto il principio che “nomina sunt consequentia rerum” sostituito dalla “produzione” di parole a mezzo di parole.
In terzo luogo Freund, come sopra detto, non ritiene che la decadenza sia annientamento delle istituzioni e, ancor di più, delle comunità, ma una fase di trasformazione. La gestione della quale, al fine di migliorare le doglie del nuovo che nasce, richiede la consapevolezza di essere decadenti. Ovviamente è una consapevolezza rigettata a priori da chi condivide l’idea che la Storia sia in costante progresso, che l’oggi è meglio di ieri, e domani lo sarà di oggi. Per cui i progressisti (più i convinti, meno quelli strumentali) sono i più inadatti a gestire le fasi di decadenza. E quindi le peggiorano, anche trascinando e ritardando i cambiamenti con doglie di durata pluridecennale. Gli europei pensano di non essere in decadenza perché vivono bene, e il loro benessere attrae i non europei, scrive Freund in una prolusione del marzo 1985, prevedendo gli inconvenienti delle conseguenze (multi-culturalismo, terrorismo). Profezia quanto mai azzeccata: “Assumere la condizione di decadenza, induce a prevedere il peggio di essa in vista di fermarla, d’impedire che questo arrivi. Se la politica europea è in procinto di fallire, è perché essa si incammina contro una condotta politica lucida che consiste nell’individuare il peggio per darsi i mezzi per affrontarlo”.
Anche perché, aggiunge Freund, per percepire la decadenza occorre (previamente) aver coscienza della propria identità “come popolazione particolare e come civilizzazione originale”.
L’identità “implica due elementi: da una parte la coscienza corrispondente della alterità, dall’altra la coscienza di un passato, di una tradizione”. E l’identità presuppone la distinzione dall’altro perché “non possiamo attribuire significato a noi stessi senza rapportarci all’altro”. Peraltro l’identità è anche “il riferimento a un passato, il riferimento quindi alla durata nel tempo. È nel tempo che io resto identico, non nell’istante. È impossibile restare identico a se stesso mutando senza sosta, senza essere fedele a ciò che si è, a ciò che si è stati e a ciò che si tenterà di restare”.
Aggiunge Freund che “La conservazione non esclude comunque il cambiamento; al contrario essa è creazione continua nel rispetto della propria identità. Detto altrimenti, l’identità esige un continuo rinnovamento, così come il corpo non si conserva se non creando ripetutamente nuove cellule. L’identità europea risiede nella capacità della propria civilizzazione di uscire dagli stereotipi, di uscire da un tempo prefissato, di rinnovarsi continuamente nella critica”. Anche in queste affermazioni Freund ricorda Hauriou secondo il quale l’istituzione è caratterizzata non dalla stasi (che il giurista francese rimproverava al sistema di Kelsen) ma da un movimento lento ed uniforme che le consentiva di rinnovarsi pur durando nel secoli.
Ne consegue che comunque “La decadenza, però, non esclude di poterla contrastare, a patto di averne la volontà. Non foss’altro che per darci dei nuovi mezzi nella stessa azione”. L’importante, al fine di contrastare la decadenza, è non farsi illusioni rifiutandone l’idea. Come spesso, fanno le classi dirigenti detronizzate.
Teodoro Klitsche de la Grange
[1] Secondo il quale esistono nelle istituzioni fattori di decadenza e all’inverso, di fondazione: “come fattori di crisi il denaro e lo spirito critico; come fattori di trasformazione (cioè di crisi, ma anche di rifondazione comunitaria e istituzionale) la migrazione dei popoli e il rinnovamento religioso”.
[2] V. La science sociale traditionnelle, cap. III section I e ss.
[3] Hauriou l’avrebbe chiamato l’eccesso di spirito critico.
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