GUERRE PIÙ DEMOCRATICHE CHE GIUSTE, di Teodoro Katte Klitsche de la Grange

GUERRE PIÙ DEMOCRATICHE CHE GIUSTE

già apparso sulla rivista  “Il giusto processo” n. 18/19 (ottobre
2005 – aprile 2006).

E’ diffuso oggigiorno ritenere che guerra giusta sia quella condotta per esportare i “valori” (e gli istituti) della democrazia liberale, tra cui viene collocata (e spicca) l’ideologia dei diritti dell’uomo. Accanto a questa c’è la tesi – spesso connessa – che ad evitare “guerre ingiuste” e punirne i rei  occorrano Tribunali internazionali. Ribaltando così, o meglio applicando in un contesto errato, il giudizio di De Maistre che “dove non vi è sentenza, v’è scontro”.

Diciamo che il contesto è errato perché quella di De Maistre, è la sintesi di un discorso sulla sovranità, il cui esempio è proprio il Tribunale “Nei Tribunali si vede l’assoluta necessità della sovranità; perché l’uomo deve essere governato proprio come deve essere giudicato, e per la stessa ragione; ossia perché dove non vi è sentenza vi è scontro[1]. Ma, in De Maistre, il tutto presuppone sovranità e Stato, e un Tribunale – ufficio di quest’ultimo.

Invece nel pensiero postmoderno, il Tribunale (internazionale) è l’alternativa/sostituto dello Stato. E’ cioè l’opposto del giudizio di Hegel che “non v’è Pretore tra gli Stati”[2]. Qui, di converso, si suppone che possa esservi, e sia in grado di far valere (ovvero far eseguire) i propri giudicati, come, all’interno dello Stato, fanno polizia ed altri servizi e uffici statali, valendosi del monopolio (statale) dell’uso legittimo della forza. Tuttavia che il problema in realtà sia questo e non quello dello jus dicere è dimenticato: e così le varie esperienze storiche che lo provano.

Ma è realmente questo tipo di guerra, giusta?

E il tutto è conforme a criteri di giustizia reali? Una disamina storica può concorrere alla risposta.

  1. Agli albori dello jus publicum europaeum la teologia cristiana che ne ha delineato i principi, identificava i requisiti della guerra giusta nella (legittima) autorità di chi la conduceva (e dichiarava), nel giusto motivo (di guerra), nella giusta intenzione e nel corretto modo di condurla. Il giusto motivo era inteso in senso giuridico “classico”, cioè come protezione di diritti concreti violati. La necessità (e la legittimità) della guerra derivava poi dall’assenza di un’autorità che potesse dirimere le controversie riparando le violazioni dei diritti con un comando efficace ed eseguito dai contendenti. In questa costruzione giuridica non c’è spazio per “diritti” astratti, ma solo (molto) concreti. Suarez nell’elencare esempi di “giusto motivo” di guerra, fa quasi un’enumerazione delle “azioni” riconosciute nel diritto romano per il ripristino dei diritti lesi: occupazione di province altrui (rivendica) impedimento al transito (confessoria servitutis), nonché lesioni del diritto agli usuali rapporti economici. Si tratta di diritti fondati sulla storia e la consuetudine, cioè su un ordine concreto, al mantenimento e conservazione del quale concorre il rimedio della guerra.

L’evoluzione successiva, induceva a fare della guerra giusta piuttosto che un mezzo per ripristinare il diritto, quello per conservare il potere, (la sicurezza, l’equilibrio) degli Stati, e, di conseguenza della comunità internazionale, fondata sul pluralismo delle unità politiche. Non che la tutela del diritto (che in se è un potere) non costituisse più giusto motivo, ma accanto o meglio sopra, si aggiunse (e prevalse) la ragione di difesa del potere. Un esempio l’offre Montesquieu “La vita degli Stati è simile a quella degli uomini: questi hanno il diritto di uccidere per legittima difesa, quelli hanno il diritto di muover guerra per la propria conservazione” e prosegue “Tra cittadini, il diritto di legittima difesa non implica la necessità dell’attacco. Invece di attaccare, essi non hanno che da ricorrere ai Tribunali. Non possono quindi esercitare questo diritto di difesa che nei casi subitanei, nei quali sarebbero perduti se attendessero l’aiuto della legge. Ma tra le società, il diritto di legittima difesa implica qualche volta la necessità di attaccare, quando un popolo si rende conto che una pace più lunga darebbe a un altro Stato la possibilità di distruggerlo, e che l’attacco è in quel determinato momento l’unico mezzo per impedire siffatta distruzione” per concludere “Il diritto di guerra deriva pertanto dalla necessità e da un rigido rispetto del giusto. Se coloro che dirigono la  coscienza o i consigli dei principi non si attengono a queste norme, tutto è perduto; e, se ci si vorrà fondare su principi arbitrari di gloria, di benessere, di utilità, fiotti di sangue inonderanno la terra[3].

Quel far derivare il diritto di guerra dalla necessità, non significa altro, giacchè necessitas non habet legem, che non è necessario vi sia un diritto da ripristinare: al contrario, che, in caso di necessità, è legittimo violare il diritto.

La situazione cambia con la rivoluzione francese: fino a quell’epoca era normale che le guerre fossero un mezzo per regolare controversie (di potere o di diritto) tra Stati che si riconoscevano e rispettavano. La conseguenza di ciò era l’intangibilità del diritto interno e degli Stati medesimi. Le guerre si concludevano col passaggio di “mano” di qualche provincia o (più spesso) di colonie che lasciava sostanzialmente immutato l’ordinamento.

Questo sistema cominciò ad essere scosso dalla Rivoluzione Francese: con il decreto La Révellière – Lépeaux della Convenzione sull’esportazione dei principi rivoluzionari, l’ “indifferenza” delle vicende belliche rispetto all’ordinamento interno degli Stati coinvolti cominciò ad essere scossa. Del pari il rispetto dell’esistenza degli Stati che, nel periodo rivoluzionario e napoleonico prese la forma di creazione di Stati del tutto nuovi (le repubbliche-sorelle e poi gli Stati del sistema napoleonico) politicamente omogenei al vincitore; cosa che lede in positivo il diritto “costituente” e originario a formare una comunità. Scriveva Kant che contro il nemico ingiusto i vincitori non possono giungere “fino a dividersi tra loro il territorio di quello Stato e a fare per così dire sparire uno Stato dalla terra, perché ciò sarebbe una vera ingiustizia verso il popolo che non può perdere il suo diritto originario a formare una comunità[4]. E, quello che dice per la sparizione degli Stati, vale anche per la creazione di nuovi da parte del vincitore. Quel che parimenti interessa è che con la formula della “guerre aux chateaux, paix aux chaumiéres” iniziava e si legittimava l’esportazione di principi formulati astrattamente, estranei alle comunità che dovevano forzosamente importarli e spesso generatori di una “nuova” forma di guerra, quella partigiana (moderna) in cui la comunità “importatrice” , attraverso il movimento guerrigliero, assume progressivamente il carattere del nemico (e del soggetto belligerante), quale popolo in armi. Le cui formulazioni più radicali sono di Mao-dse-dong e la pratica relativa è quella delle guerre anticoloniali del XX° secolo.

La conclusione della II guerra mondiale lo ha confermato in tutt’altro contesto: gia nella Carta Atlantica era scritto che I Governi degli Stati Uniti e del regno Unito dichiaravano a quei tempi di “rispettare il diritto che hanno tutti i popoli di scegliere la forma di governo sotto la quale chiedono di vivere, e desiderare che siano ristabiliti i diritti sovrani e il libero esercizio del governo a coloro cui è stato tolto con la forza”, come confermato a Yalta[5] “per ogni Stato liberato d’Europa, ad ogni Stato europeo antico satellite dell’Asse”. Questo, anche se qualcuno non ne avesse manifestato l’intenzione.

La prassi attuativa di questa dichiarazione fu, come noto, che ciascuno dei liberati si dette la forma di costituzione corrispondente al colore delle divise dei liberatori (occupatori).

Il potere costituente, come poi affermato esplicitamente per la sovranità, ne fu (a dir poco) limitato. Ed è da chiedersi, a tal punto, se limitare poteri di per se illimitati (come, appunto, potere costituente e sovranità) non sia negarli in radice, come implicito nella dottrina dello Stato moderno da Sieyès a Vittorio Emanuele Orlando.

  1. Quanto ai Tribunali penali internazionali, istituti diffusisi nel secolo scorso, al fine di giudicare il nemico vinto (da parte dei vincitori), questi erano del tutto sconosciuti, perché rifiutati dallo jus publicum europaeum, in cui vigeva il principio che par in parem non habet jurisdictionem . Per cui, tra Stati sovrani, l’uno non poteva giudicare l’altro (e il tutto valeva, sia per gli organi “apicali” che per gli altri); di più Kant riteneva connaturale, in ogni trattato di pace, la “clausola d’amnistia” (reciproca) tra i contraenti. Ciò che più colpisce di tale prassi (consolidata per secoli) è il suo realismo che l’adattava assai meglio del pan-giurisdizionalismo contemporaneo all’ordine concreto di comunità dotate di pari diritti e dignità. In primo luogo perché si pone il problema della giustizia (e del diritto) in concreto: l’attività del giudice non è una pura posizione di norme, ma l’applicazione di norme ad un fatto concreto: anche le norme giuste e condivise se applicate selettivamente, o da giudice non imparziale, o sfocianti in sentenze ineseguibili, non possiedono i caratteri comunemente attribuiti alla giustizia né hanno la reale utilità di questa.

Orbene connotati comuni a questi Tribunali sono: (sempre) che l’imputato coincide col vinto; (molto spesso) che i giudici ne sono i vincitori; che ai fini pratici (cioè di conformare il nuovo ordine alla situazione di fatto (e di potere) creatasi a seguito della guerra, le decisioni dei Tribunali non hanno alcuna incidenza. La funzione prevalente è liturgica: rivestire con i panni solenni della giustizia quanto deciso con la guerra, squalificando moralmente il nemico vinto. Sono in sostanza gli autodafé della globalizzazione.

Ma che l’esigenza da risolvere sia stata già risolta con la guerra, il cui esito è realmente “conformativo” dell’ordine e che il giudizio del Tribunale non aggiunga o tolga nulla a questo è evidente. Diversamente da quello di un giudice “interno” la cui decisione è essenziale per i diritti (e la vita) del giudicato.

  1. Connotato comune di queste due “innovazioni” è per lo più ritenuto il carattere “democratico” che lo Stato e la guerra moderna hanno acquisito negli ultimi due secoli. Per cui la democrazia, ritenuta bene prezioso da quei popoli che hanno lottato per acquisirla, sarebbe un dono – altrettanto importante – per quelli che non si sono mai sognati di farlo. Ma, verosimilmente, non l’hanno fatto perché non lo giudicavano così prezioso, da valere una guerra o una rivoluzione. Peraltro e, ancor più, guerre “d’esportazione” e Tribunali internazionali sono collegati ad un’aspirazione (illusione) alla pace. Si ritiene meglio avere dei governi democratici al potere in altri paesi perché giudicati meno propensi alla guerra; e i Tribunali sarebbero il mezzo per conservare la pace con la punizione di quelli che la violano. Ma quanto alla prima, la Storia dimostra che le democrazie non sono meno guerrafondaie di altre forme di Stato: anzi, in concreto, lo sono, quanto a intensità della guerra, di più. Già nel descrivere i caratteri di quella ateniese, Pericle, nel discorso che riporta Tucidide[6], calca, per così dire, la mano sulle imprese (e virtù) belliche della stessa. Ancor più, nei tempi moderni, la democrazia si è (per lo più) coniugata con la levée en masse e l’intensificazione dell’ostilità.

Ma se ancora per la democrazia, c’è la speranza che ne prevalga l’aspetto “moderno” (secondo la nota distinzione di Benjamin Constant) cioè l’elemento liberale, la tolleranza, l’esprit de commerce che comunque condiziona l’esprit de conquête, per il rimedio dei Tribunali non si prospetta alcuna ragionevole speranza.

Perché in tal caso si tratta, in buona sostanza, di sostituire la politica (e il politico) col diritto. Una ricetta vecchia, che può funzionare soltanto se il Tribunale assuma dei connotati politici, cioè cessi di essere un (puro) organo giudiziario e divenga – organizzativamente e funzionalmente – unità o ente politico o organo-ufficio di questo. Cioè capace di avvalersi della forza (quindi con un’organizzazione apposita) e quindi essere “potenza” in senso weberiano, in grado cioè di far valere – in concreto – i propri comandi. Chi crede a ciò, crede di aver inventato la politica senza (il mezzo della) forza. Un Principe (tutto golpe e niente) lione. Un soggetto ancora non apparso nella storia, e che, essendo contrario ad una concezione realistica dell’uomo, non sembra possibile vi apparirà mai. Anche perché se il Tribunale si avvale della forza degli Stati, è questa, e non la sentenza, a determinare il reale rapporto tra giustizia internazionale e Stato (o Stati) esecutori: essendo l’esecuzione delle sentenze il fatto decisivo, sarà la capacità o la volontà di farlo a determinare la possibilità di ciò che realmente conta; che la decisione sia osservata e passi dall’immaginario normativo all’ordine concreto, conformandolo.

  1. Peraltro il razionalismo che è a base della dottrina dello Stato moderno, aveva costruito come “manuale d’uso” del medesimo, la Ragione di Stato. La “ragione di Stato” si basava – ed era una delle conseguenze – sia sulla secolarizzazione, configurantesi (anche) come separazione/limitazione tra potere temporale e potere spirituale; sia sull’autonomia del politico, sulla di esso estraneità-indifferenza rispetto ad altri ambiti dell’esperienza umana.

Da quest’ultimo era determinato anche il fine specifico della politica: la protezione, la sicurezza e il benessere della comunità di riferimento, con l’esclusione – o il passaggio in secondo piano – di obiettivi a carattere religioso o morale. Se un Papa nel Medioevo poteva proclamare una crociata, altrettanto non poteva fare un Monarca assoluto dell’età moderna, la cui funzione specifica è quella sopra ricordata, e non di promuovere la diffusione di una fede o una morale. Diverso, ma solo in parte, per il  diritto (o diritti): in tal caso la protezione di quelli, se corrispondenti ad un interesse dello Stato è compito del medesimo. Tuttavia secondo la dottrina dello jus publicum europaeum per diritto in tali casi s’intende il diritto spettante allo Stato ed ai di esso sudditi; è invece escluso[7] che sia justa causa belli proteggere i diritti non appartenenti al proprio Stato né ai propri sudditi. Cosa che nelle “guerre per la democrazia” è sacrificata ad un prepotente altruismo, e il cui effetto probabile (e visibile) è di moltiplicare (le justae causae) dei conflitti.

Proprio quello che la razionalità di quei giuristi-teologi (v. sopra nota 7) della controriforma cercava di evitare.

In tal senso questa concezione era conforme alla teoria della Ragione di Stato: la quale non è una concezione giuridica (pur avendo grandi riflessi giuridici) nel senso che non si basa sul concetto di diritto, ma piuttosto su quello d’interesse: è compito dello Stato tutelare l’interesse (pubblico-generale) della comunità politica (salus rei publicae suprema lex). Ciò che è conforme a quello è lecito e va fatto. Invece nel caso delle “guerre democratiche” la suprema lex dell’interesse dello Stato finisce, proprio nelle situazioni d’eccezione, in sottordine; e in primo piano è collocata invece una giustizia astratta, promuovente diritti di cui non si sa bene se e quanto i “protetti” aspirino a fruire (e quanto vogliano sacrificare per quelli). Lo scopo della politica e dello Stato non è più primariamente quello del bene comune dello Stato e della comunità, ma l’affermazione-protezione di diritti (astratti) o di un regime politico.

Vero è che interesse dello Stato e difesa delle democrazie liberali possono coincidere, come nell’aiuto prestato da Roosevelt alla Gran Bretagna durante il secondo conflitto mondiale, già prima dell’entrata in guerra degli USA[8]; ma il fatto che il motivo ideologico sia esternato e quello di potere occultato, conferma, e costituisce un’applicazione sui generis, della teoria paretiana dei residui e delle derivazioni, come dell’oblio della lezione di Tucidide[9] che la prima determinante dell’azione politica è (la difesa, la conservazione, l’accrescimento del ) potere.

La prova si è avuta, ripetutamente, durante la guerra fredda: in cui molto spesso gli USA hanno lasciato in pace e financo sostenuto e avuto per alleati dei regimi politici che in fatto di democrazia avevano delle credenziali non migliori di quelle dei regimi sovietici, cioè dei nemici reali.

Scelta politicamente corretta quanto ideologicamente contraddittoria.

  1. In realtà proprio gli esempi sopra addotti dimostrano l’essenzialità della corretta percezione del nemico. Se il nemico è percepito tale perché ha un ordinamento diverso, con un diverso regime politico o altri  valori                di riferimento,   dato che la politica ( e l’ordine internazionale ) é un pluriverso  di differenti comunità umane, ogni popolo, cui di per sé è riconosciuto il diritto di darsi l’ordinamento che preferisce, diventa, in forza solo dell’entità delle differenze, un nemico. Diventa tale perché il suo modo d’esistenza politica e sociale non è omogeneo a quello della potenza (o potenze) “dominanti”. E’ nemico non per le azioni fatte (al limite che possa compiere) ma solo perché esiste in un certo modo: In questo caso le “guerre per la democrazia” facilmente diventano il mezzo per promuovere l’omogenizzazione politica, che a sua volta può portare  non tanto                           alla globalizzazione  (politica) ma alla costruzione di una nuova entità  politica,  imperiale  e non statale, con regole, forme, tipi di comportamento che  ancora non conosciamo, ma di cui qualcosa s’intravede. S’intravede in particolare la perdita (parziale) dell’impenetrabilità dello Stato, per cui i  confini di questo segnavano il limite tra interno ed esterno, tra ordinamento interno ed internazionale.

D’altra parte un simile criterio nella scelta del nemico porta a contraddire la prima regola dell’agire politico che è quella di ridurre il numero dei nemici possibili. Espressa nella storia in tanti modi, sia come regola per la politica interna che per quella internazionale: dalla prassi politica del Senato romano, la cui massima costante era dividere i popoli[10] potenzialmente nemici (divide et impera), fino al “mai la guerra su due fronti” precetto della strategia tedesca nel secolo scorso, due volte violato, con i risultati che si conoscono. Se al nemico reale (cioè quello che è tale per azioni e contrasti di potere ed interessi) si aggiunge quello (o quelli) che lo sono per differenze ideali, la regola è sicuramente violata.

  1. Così le “guerre democratiche” appaiono come la negazione di alcune idee proprie dello Stato e della politica moderni, come delineatisi dal Rinascimento in poi, grazie alla forma peculiare dell’unità politica dell’epoca post-Medioevo e cioè lo Stato, ma anticipati e comunque praticati da millenni.

Proprio lo Stato è la prima vittima di un tale mutamento di prospettiva. I suoi caratteri salienti: la distinzione tra interno ed esterno, tra temporale e spirituale, l’impenetrabilità, il monopolio del politico (e della violenza legittima) sono in misura più o meno rilevante, contraddetti dalla diffusione delle “guerre per la democrazia”. Conseguenza delle quali è l’imposizione di un regime politico, con relative istituzioni e valori di riferimento, di una pretesa alla permeabilità delle frontiere, e quindi ad una sovranità limitata nel proprio territorio in cui vengono a concorrere diversi poteri (di comando). Tutte cose incompatibili con lo jus publicum europaeum. Il quale era costituito sul tentativo (riuscito per secoli) di far convivere popoli diversi. A cui è succeduto l’attuale di farlo con popoli (relativamente e artificialmente) omogenei, a prezzo di un aumento del potere “sovranazionale”.

Vero che la democrazia si fonda su un certo tasso di omogeneità nel popolo, ma questo è un presupposto, non una conseguenza della scelta del regime politico[11]; e, comunque, qua si tratta di rapporti esterni tra Stati, non di relazioni interne tra le diverse componenti di una comunità. Questo a meno che il tutto non sia la premessa della costituzione di una nuova forma politica imperiale, in cui i rapporti tra Stati siano sostituiti da quelli interni all’Impero. Nel qual caso la logica interno/esterno (e non solo) avrebbe un diverso senso, tutto da scrivere.

Comunque dato che forme politiche imperiali sono state (per lo più) caratterizzate dalla distribuzione dello jus belli tra diversi soggetti dell’unità politica, è tutto da vedere se un futuro di unione tra (istituzionalmente) omogenei sia più pacifico della convivenza tra diversi, su cui si basava lo jus publicum europaeum.

T.K.

[1] V. Du Pape, II, 1, trad. it. di A. Pasquali, Milano 1995, p. 155).

[2] Grundlinien der philosophie des rechts, § 313.

[3] Ésprit des lois, X, 2 trad. it., 1965, pp. 247-248.

[4] I. Kant, Methaphisik der Sitten § 61.

[5] V. sul punto Jeronimo Molina Cano La costituzione come colpo di Stato, in Behemoth n. 38, luglio-dicembre 2005.

[6] La guerra del Peloponneso, II°, 35-47.

[7] P. es. v. Suarez De Charitate- De Bello,  Sectio IV “Unde, quod quidam aiunt, supremos reges habere potestatem ad vindicandas iniurias totius orbis, est omnino falsum, et confundit omnem ordinem, et distinctionem iurisdictionum: talis enim potestas, neque a Deo data est, neque ex ratione colligitur” ; v. anche Bellarmino ora in Scritti politici, Bologna 1950, p. 260.

[8] La nota frase del Presidente che gli USA sarebbero stati l’ “arsenale delle democrazie” non esprimeva il fatto che l’interesse degli USA era aiutare la Gran Bretagna e contenere Germania e Giappone anche se i regimi politici delle tre potenze non fossero stati quelli.

[9] V. la nota ambasceria degli Ateniesi al popolo di Melos.

[10] V. Montesquieu Considérations sur les causes de la grandeur des Romains e de leur décadence, cap. VI.

[11] L’ultimo tentativo di formare un’unità politica tra musulmani e cristiani, turchi e slavi, protestanti e ortodossi fu il Trattato dell’Unione progettato da Gorbaciov e finito come tutti sanno. Sul tema ci permettiamo di rinviare al ns. scritto Dal comunismo al federalismo, in L’Opinione – mese giugno 1991.