Murray N. Rothbard, L’etica della libertà, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange
Murray N. Rothbard, L’etica della libertà, Liberilibri editore, Macerata 2021, pp.468, € 14,00.
Pubblicata dall’editore Liberilibri oltre vent’anni fa, ora è ristampata dallo stesso editore, in un momento in cui il “liberalismo” (come inteso dai media mainstream) è colpevolizzato di tutto: dalla globalizzazione fino all’inadeguatezza della risposta alla crisi pandemica. Non riportiamo quanto già scritto in molte recensioni, tra cui una apparsa sull’Opinione circa un mese orsono. Ci limitiamo alla critica che un liberale “archico”, come chi scrive può muovere ad un libertario (o liberale anarchico).
Rothbard propone una società in cui sia abolito il monopolio statale della violenza (legittima) e tutti i servizi pubblici siano offerti (ed acquistati) sul mercato. L’etica di tale società senza Stato si basa sul carattere pre-statale e naturale (giusnaturalistico) dei diritti dell’individuo; sviluppa (in particolare) il pensiero di John Locke. La contrarietà dello Stato all’etica è costituita dal fatto che obbliga i sudditi senza il consenso (individuale e volontario) degli stessi.
Così sintetizzando al massimo quello che Rothbard sviluppa in centinaia di pagine di Etica della libertà.
A questo un liberale archico può svolgere due critiche fondamentali.
La prima che l’uomo è sia homo aeconomicus che zoon politikon; ma politico ed economico sono essenze non dipendenti – anche se interferiscono l’una sull’altra – e tantomeno la scelta per una può eliminare ragioni, presupposti e regolarità dell’altra. Come scriveva tra i tanti e da ultimo Miglio, vi sono contratti-scambio e obbligazioni politiche. Quest’ultime intese hobbesiamente, volte a barattare protezione con obbedienza. Prima di Miglio, Hauriou riteneva che ci sono (sempre) due diritti (e due giustizie): quella comune tra soggetti pari e quella disciplinare (istituzionale) tra soggetti non in condizione di parità. Pretendere di eliminare uno dei due è, in sostanza, voler cambiare la natura umana. Cioè proprio quello che non solo preti e teologi, ma anche i giusnaturalismi non credono.
L’altra è che, anche perciò il liberalismo ha costruito lo Stato borghese di diritto, al quale accanto alla tutela dei diritti fondamentali è essenziale la distinzione dei poteri (Montesquieu); come mezzo e organizzazione di uno Stato attento alle libertà politica, sociale ed economica. Il potere statale non è così eliminato, ma limitato e controllato. In fondo, vale quanto scritto nel Federalista sul rapporto tra natura umana e governi: che se gli uomini fossero angeli, i governi non sarebbero necessari; e se fossero angeli i governanti, non servirebbero i controlli sui governi. Ma dato che gli uomini (tutti) non sono angeli, sono necessari sia i governi che i controlli sui medesimi.
Una concezione realistica della natura umana conduce necessariamente, coniugata all’aspirazione alla libertà, alla forma dello Stato di diritto, allo Stato liberale. Il quale è una species del genus “Stato”. Vi appartengono altre species, lo Stato assoluto che l’ha preceduto, gli Stati comunisti del XX secolo (meteore spente), gli Stati nazi-fascisti, e così via.
Lo Stato liberale è uno Status mixtus, mescolanza di principio politico (in genere, prevalentemente democratico) e dei principi dello Stato borghese di diritto. In questa fusione testimonia l’impossibilità di prescindere dal politico (e da uno o più principi politici) per realizzare una sintesi che sia “la realtà della libertà concreta” (Hegel).
Rothbard trascura perciò la realtà storica dalla forma che ha assunto il liberalismo, man mano che si realizzava, divenendo ordine ed istituzione. La polemica sull’immoralità dello Stato del filosofo nordamericano è serrata, radicale e a giro d’orizzonte: la tassazione è “obbligatoria e perciò indistinguibile dal furto, segue che lo Stato, che prospera grazie ad essa, è una vasta organizzazione criminale, di gran lunga più fortunata e formidabile di qualsiasi mafia privata”; essendo un’istituzione permanente, ha bisogno al contrario di un bandito di strada, di assicurarsi almeno l’acquiescenza dei governati attraverso una pletora di tirapiedi ideologici la cui funzione è “di spiegare alla popolazione che in realtà il re indossa bellissime vesti. In sintesi gli ideologi devono spiegare che, mentre il furto commesso da una persona o più persone o gruppi è un male, se è lo Stato a compiere tali azioni, allora non si tratta più di un furto, bensì dell’atto legittimo, e persino consacrato, detto tassazione” e anche “quando è lo Stato a uccidere, allora non si deve parlare di omicidio, ma di una pratica glorificata detta “guerra” o “repressione della sovversione interna””, onde “Il successo consolidato nel tempo degli ideologi dello Stato è probabilmente la più colossale frode nella storia dell’umanità”. Dato però che lo Stato è necessariamente fondato sul furto e l’omicidio, è costretto a servirsi di intellettuali che giustifichino queste pratiche giudicate da Rothbard immorali.
E qui troviamo un problema di etica politica che va da Platone a Croce (ed oltre), passando per la teologia cristiana: per il governante (lo “stato”) vale la stessa etica che per i governati? La risposta dei teologi e dei filosofi (molti) è che non è la stessa: sostenuta dai teologi con l’argomento che difendere la vita e la proprietà dei sudditi è opera “preziosa e divina”, come sosteneva (tra i tanti) Lutero. Deducendolo dall’antropologia negativa (l’esistenza del male e dei malvagi) cui il potere politico, istituito dalla Provvidenza divina, deve porre rimedio.
Malgrado il mio (parziale ma esteso) dissenso, il libro di Rothbard è comunque una lettura quanto mai salutare, soprattutto perché contraddice in modo radicale quegli idola propinati con dovizia e costanza da governanti e dai loro intellos, con argomenti che il filosofo nordamericano demolisce con acume e vis polemica. Una terapia di cui, in tempi di decadenza, non si può fare a meno.
Teodoro Klitsche de la Grange