Lorenzo Castellani, L’ingranaggio del potere, _ a cura di Teodoro Klitsche de la Grange
Lorenzo Castellani, L’ingranaggio del potere, Liberilibri Macerata, pp. 240, € 17,00.
L’amministrazione, scriveva Weber, è quel “potere quotidiano” il quale, anche se quasi sempre non provvede con atti normativi primari, condiziona di più l’esistenza individuale (e collettiva). Ciò non è per lo più compreso dall’opinione pubblica – e dai soggetti che la guidano o almeno la condizionano come i media – i quali focalizzano l’attenzione sugli atti degli altri poteri (intesi à la Montesquieu): sul decreto-legge, sul D.P.C.M. (atto governativo) o sul mandato di cattura per il Sindaco o il Ministro.
Ne consegue che non è percepito come l’assetto del potere amministrativo – teoricamente servente di quelli governativo e, mediatamente, legislativo – condiziona la forma politica cioè l’assetto costituzionale. Questo libro parte da una considerazione diversa: che “Il principio di competenza ha eroso gli spazi e le responsabilità recati dal principio democratico; la tecnica e la politica si sono progressivamente sovrapposte; le comunità sono state spodestate da istituzioni lontane e burocratiche”; e prosegue “Come scrisse Carl Schmitt in Dialogo sul potere «anche il principe più assoluto deve fare affidamento su resoconti e informazioni ed è dipendente dai suoi consiglieri […] Davanti a ogni camera del potere diretto si forma un’anticamera di influssi e poteri indiretti, un accesso all’orecchio del potente, un corridoio verso la sua anima. Non c’è potere umano che non abbia questa anticamera e questo corridoio». Un’anticamera che, nel regime demo-burocratico moderno, la tecno-democrazia, è popolata da tecnici che talvolta eseguono meramente e talaltra desiderano oppure esercitano direttamente il potere”.
La tecnocrazia sia nella sua “branca” pubblica (la P.A.) sia in quella privata (che accede o influenza le funzioni pubbliche) fonda il proprio ruolo e potere sul “sapere specializzato” ossia sulla competenza “tecnica”; così la democrazia, fondandosi anche sulla competenza specialistica degli “esecutori-consiglieri” si trasforma in una tecno-democrazia, la quale da un lato si basa sulla legittimità del principio democratico, dall’altro sul possesso del sapere, cioè su un’aristocrazia non di spada, ma di penna. “La tesi di questo libro è, dunque, semplice: nelle società avanzate il principio aristocratico ha, nell’organizzazione del potere politico della società, un peso superiore rispetto a quanto comunemente si è portati a credere o ad ammettere… Questo principio aristocratico-gerarchico convive con il principio democratico-rappresentativo di cui, negli ultimi decenni, ha progressivamente eroso significativi spazi. Di conseguenza i poteri non elettivi, a carattere tecnico, oggi condizionano la vita dei cittadini e le scelte politiche allo stesso modo, se non fosse ancor di più, di quelli elettivi e rappresentativi”. Pertanto “lo sviluppo di questo potere parallelo, tuttavia, può essere compreso solo tenendo insieme i due demoni della vita politica moderna: lo Stato e il capitalismo”. Così “lo Stato-Leviatano e il capitalismo-Behemoth si corrompono a vicenda, ed in questo legame di reciproco clientelismo mirano a edificare uno stabile apparato di potere, un sistema di élites, che proprio per mantenere la sua stabilità tende a limitare la libertà di individui e comunità” e “l’osmosi tra burocrazia pubblica e grande capitalismo produce tecnocrazia, che non a caso sul piano storico si è sviluppata pienamente con l’avvento della società industriale, ma affonda le sue radici nello Stato moderno”.
Il saggio prosegue poi analizzando i vari aspetti del problema del nichilismo politico, la mentalità tecnocratica, la razionalità, spirito della politica e della burocrazia, le prospettive future. Tutti aspetti considerati con attenzione dall’autore ma non esaminati perché esulano dalla dimensione di una recensione. Ma su due punti è il caso di intervenire. Il primo è che tra le leggi (la regolarità della politica) c’è quella della classe politica (dell’aiutantato come scriveva Miglio), per cui non c’è governo senza “classe” politica. Talvolta non professionale, in altre si. Spesso riservata per nascita (in un ceto privilegiato); in altri casi dalla considerazione sociale (come per le democrazie classiche) e dall’elezione; in altri, come in molte “società idrauliche” favorita dalle mutilazioni sessuali (gli eunuchi in Cina, e nel tardo impero romano). Ma accanto a quella c’è il rapporto tra vertice e base, tra capo/i e governati, anch’esso necessario. Il problema, uno dei principali che si presentano all’uomo politico è come tener in equilibrio questi due “circuiti”. Perché a squilibrarli il rischio è che si mandi in rovina l’istituzione politica (e, spesso, la stessa comunità): come avvenne nel tardo impero romano d’occidente, la cui caduta fu co-determinata, o grandemente favorita dallo squilibrio a favore della “classe” burocratica. Dall’altro che la democrazia moderna è uno status mixtus: Schmitt la considerava tale sia per la compresenza di organi risalenti a principi politici diversi: democratico (per la nomina/elezione dei componenti dei maggiori organi di direzione politica); aristocratico (per il carattere del parlamento); monarchico (per il ruolo del capo dello Stato). E inoltre per l’equilibrio tra principi di forma politica e principi dello Stato borghese. Nell’analisi di Castellani si aggiunge la compresenza di elementi democratici e tecnocratici: un’altra antitesi da sussumere nella concezione dello Status mixtus, e da addizionare alle altre. Spesso identificata come opposizione tra politica ed economia (ma non è solo questo), specie in momenti d’emergenza come l’attuale. Resta comunque il fatto che negli stati di crisi il problema si presenta nella risposta al quis judicabit: cioè chi decide come superare la crisi?
E chi ha la forza di rispondere efficacemente è il (reale) sovrano. Che diventi poi legittimo è, come scrivevano Hauriou e Santi Romano, solo la durata a poterlo dire.
Teodoro Klitsche de la Grange