Nadia Urbinati, Io, il popolo, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Nadia Urbinati, Io, il popolo, Il Mulino, Bologna 2019, pp. 339, € 24,00

 

Nella messe di libri pubblicati sul populismo, spesso esorcizzanti – per conto delle élite – i nuovi soggetti politici, questo lavoro si distingue perché, secondo l’autrice “il populismo non è un’ideologia, ma una forma di rappresentanza politica e di governo democratico, Questo lo rende rischioso e difficile da contrastare e, soprattutto, ne fa un fattore di successo molto remunerativo nell’età della politica dell’audience”; così “Questo libro prende sul serio tale concettualizzazione e cerca di capire che tipo di democrazia è la democrazia populista. Unire le più diverse rivendicazioni, anche quelle trasversali alle ideologie della destra e della sinistra, comporta superare la rappresentanza per mezzo dei partiti e creare un’unica frontiera: quella che separa chi esercita il potere e chi non lo esercita, l’establishment e tutti gli altri”. Il che non è altro che ricondurre al “criterio del politico” la lotta tra popolo ed establishment. Il populismo è contro i partiti (e soprattutto contro la partitocrazia), ma non è antidemocratico: “è lo specchio della democrazia rappresentativa”. Anche in tal senso, ma soprattutto perché i populisti stanno progressivamente conquistando il governo di molti Stati, non lo si può identificare con movimenti di pura protesta (di opposizione), giacché lì sono al governo. La Urbinati scrive che quella che critica è una debolezza concettuale: “La mia idea è che dovremmo abbandonare l’atteggiamento polemico e considerare il populismo alla stregua di un processo politico inteso a conquistare il governo. Suggerisco di vederlo come l’esito di una trasformazione dei tre pilastri sui quali si regge la democrazia moderna – il popolo, il principio di maggioranza e la rappresentanza… prendo in seria considerazione la capacità che i movimenti populisti hanno di costruire un particolare loro regime dall’interno della democrazia costituzionale. Il populismo è rappresentativo: ma una forma sfigurata, che si situa entro la categoria della deformazione”.

Al contrario della narrazione prevalente nei media “di regime” Urbinati ritiene che il populismo è “incompatibile con i regimi politici non democratici” e tuttavia, sfigura la democrazia rappresentativa.

L’autrice ritiene che la democrazia rappresentativa è diarchica: “La diarchia sta a significare che le elezioni e il forum delle opinioni fanno delle istituzioni al contempo il luogo del potere legittimo e però anche un oggetto di discussione, di controllo e di contestazione. Una costituzione democratica deve regolare e proteggere entrambi i poteri”; il populismo tende a svalutare/ridurre il momento del formarsi dell’opinione rispetto all’esercizio della volontà pubblica; con ciò sono anche svalutati gli “intermediari” d’opinione (partiti e mezzi di comunicazione), rispetto al rapporto tra capo e popolo. Scrive “Il cardine della mia analisi del populismo è la relazione diretta con il popolo che il leader stabilisce e mantiene. È questa la dinamica che sfuoca i confini della diarchia democratica. Tale dinamica consiste nell’accentuare il dualismo tra «i molti» e «i pochi» e nell’espandere il potere del pubblico fino a mettere in discussione la democrazia costituzionale”.

Così il populismo col suo insistere sul momento della decisione, sul principio maggioritario e sulla contrapposizione tra il popolo (in effetti la “sua” parte di popolo) e l’establishment “non è il compimento, né la norma, del principio di maggioranza e della democrazia, ma il suo sfiguramento… le cui «conseguenze illiberali non sono necessariamente conseguenti a una crisi del liberalismo in uno stato democratico», ma si possono sviluppare dalla pratica stessa della democrazia, dall’uso della libertà”.

Il populismo è pericoloso, ma non anti-democratico tuttavia, come scrive l’autrice è anti-liberale e ne individua quattro inevitabili tendenze: 1) è refrattario alle tradizionali divisioni partigiane e contempla solo il dualismo di base tra la gente comune e l’establishment; è insofferente del pluralismo 2) Il populismo conquista il potere attraverso la competizione elettorale, ma usa le elezioni come plebisciti per dimostrare la forza del vincitore; il voto serve a confermare l’esistenza del “popolo vero” 3) Il populismo opera questa trasformazione dopo aver respinto l’idea della rappresentanza come articolazione elettorale di rivendicazioni e interpretazioni 4) Il populismo interpreta la democrazia come maggioritarismo radicale… L’esito finale è un radicale fazionalismo, un’ammissione senza infingimenti del fatto che la politica è una guerra più che un gioco… Rappresenta la vittoria di una visione iperrealista e relativistica della politica come costruzione ed esercizio del potere che ha nella vittoria la sua legittimità (v. p. 302-303).

Il saggio, pur così articolato, presente due punti dolenti. Da un lato accomuna sotto il concetto e il termine “populismo” fenomeni che, sviluppandosi in contesti assai differenti, hanno caratteristiche comuni poco rilevanti se non marginali. L’Argentina di Peron a poco a che fare con l’Ungheria di Orban, la Gran Bretagna della Brexit o l’Italia del XX secolo.

La seconda è che a restringere l’esame al populismo contemporaneo, il carattere “illiberale” emerge poco o nulla, se si passa da una valutazione basata su impressioni, esternazioni, proclami polemici a quella sulle realizzazioni, sul piano istituzionale soprattutto.

Esame omesso. Perché, se si va a guardare gli USA di Trump, la Gran Bretagna post-Brexit o l’Ungheria di Orban, tutti gli istituti dello Stato di diritto non sono stati toccati. Non risulta, tra le realizzazioni dei leaders populisti qualcosa  che somigli, neanche lontanamente, alla legge sui pieni poteri votata dal Reichstag nel marzo 1933 (in sostanza l’abolizione della costituzione di Weimar), né alcuna significativa riduzione dei principi di separazione dei poteri o di tutela dei diritti fondamentali che sono, dalla solenne enunciazione nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del cittadino del 26 agosto 1789 i principi del costituzionalismo liberale.

Anzi in taluni casi le garanzie sono state se non rafforzate, almeno estese.

Lo stesso parlamento europeo nell’approvare l’apertura della procedura d’infrazione all’Ungheria nel 2018, non ha saputo trovare altro (di rilevante) che “violazioni” analoghe a quanto regolato analogamente in altri Stati dell’UE (ad esempio l’assenza di azione popolare alla Corte Costituzionale, come anche in Italia), e/o praticato come le attitudini “manesche” della polizia – anche qui condanne all’Ungheria e all’Italia da parte della CEDU – ed altro che i limiti di una recensione non consentono di ricordare. Gli è che, malgrado lo sforzo dell’autrice di non cadere negli esorcismi anti-populisti, le lesioni alla diarchia opinione-volontà appaiono poco non solo per considerarli attentati allo Stato di diritto ed ai suoi istituti, ma anche cambiamenti di qualche sostanza, perché si limitano alle modalità di propaganda ad aspetti marginali della formazione dell’opinione pubblica. Per fortuna.

Teodoro Klitsche de la Grange