I SINDACATI E LA LOGICA DEL più uno, di Giuseppe Germinario
Il 9 febbraio sono riapparse a Roma con una importante manifestazione unitaria le tre confederazioni sindacali CGIL, CISL e UIL. Non accadeva da cinque anni. Un lungo letargo. La gestazione dell’iniziativa ha richiesto cinque lunghi mesi; si era praticamente agli albori del Governo Conte. Di fatto la negazione a prescindere di ogni credito al nuovo arrivato. Eppure lo stesso dibattito congressuale in CGIL aveva coltivato, in diversi momenti di questi ultimi mesi, l’impulso ad una maggiore autonomia del sindacato rispetto al quadro politico cogliendo esplicitamente l’occasione dell’avvento di una compagine governativa costituita da forze politiche prive di cordoni ombelicali nel movimento sindacale. A ben vedere però quel che appare come una professione di una autonomia, è in realtà una confessione di dipendenza da una delle componenti politiche schierate nell’agone. I militanti hanno visto in esso una manifestazione di orgoglio, un risveglio sia pur tardivo degli antichi fasti; si tratta in realtà di una implicita ammissione che quei cordoni sussistono tuttora con le forze avverse al Governo e sono tanto più vincolanti e stringenti quanto più quelle forze sono vicine alle leve di governo e di potere. Lo si è visto chiaramente con il Governo Monti, ma sostanzialmente l’atteggiamento non è cambiato con i tre governi successivi.
È stata ed è stata rappresentata comunque come una iniziativa unitaria. Quale sia lo spirito reale che guida i gruppi dirigenti lo si vedrà. Lo spettacolo offerto dall’avvicendamento degli oratori, accompagnati ciascuno dai propri declamatori, corifei ed angeli custodi, non è stato però convincente. Non sono nemmeno riusciti a garantire una ripresa televisiva comune degli interventi degli oratori. Una immagine a dir poco dimessa rispetto ai rituali solenni offerti dai palchi nell’epopea dei sindacati confederali unitari di quaranta anni fa.
Tutto sembrava avere soprattutto il sapore di una testimonianza piuttosto che la determinazione di un movimento ben determinato, in grado di conseguire propri obbiettivi significativi.
Non che questi mancassero. La piattaforma di ben sedici pagine è nutrita di indirizzi da perseguire, obbiettivi da raggiungere, critiche ai provvedimenti e all’impostazione generale di politica economica del governo. Alcuni fondati, altri pretestuosi, altri ancora espressione di impostazioni da esso divergenti, antitetiche.
La costante che informa il documento non si smentisce. Boccia senza appello la politica di bilancio del Governo come recessiva ed assistenziale. Non è stata necessario un grande esercizio di fantasia per escogitare le soluzioni. Le ritroviamo puntualmente in ogni piattaforma che si rispetti di questi ultimi decenni anche se in forme vieppiù edulcorate e ossequiose del verbo dominante. Un grande piano di investimenti nelle infrastrutture, nei servizi, nel recupero del territorio, nell’economia verde; risorse nazionali aggiuntive rispetto ai finanziamenti europei; sviluppo della ricerca scientifica, specie di base e delle applicazioni in apposite piattaforme industriali; politiche attive di formazione ed avviamento al lavoro. Così come puntualmente ritroviamo la ricorrente tentazione di un gruppo dirigente sindacale a rifugiarsi comodamente nell’autocompiacimento e nella funzione salvifica ed autoavverante degli slogan e delle parole.
Eppure i diversi gruppi dirigenti dovrebbero chiedersi il motivo della sterilità di questi propositi ricorrenti ormai da oltre quaranta anni.
Sono centri decisionali disposti alle più audaci acrobazie verbali, ma riluttanti a riesaminare i presupposti delle loro impostazioni o il contesto politico necessario a realizzarle, quantomeno ad accettare un dibattito aperto su di essi. Una cecità che impedisce loro di scorgere le novità di un Governo disposto a infrangere quei vincoli europei così duramente stigmatizzati. Una faziosità che impedisce loro di cogliere l’importanza del documento “politeia” dell’ex Ministro Paolo Savona, tra l’altro tutto interno alla logica europeista a loro così cara e congeniale. Nei quattro mesi di convulse trattative tra Governo e Commissione Europea non c’è stata una sola presa di posizione convinta, tanto meno una parvenza di mobilitazione a sostegno delle posizioni italiane. Al contrario non si è trovato di meglio che criticare la politica “muscolare” antieuropeista del Governo.
Eppure in momenti di distanze oggettive ben più stridenti e provvedimenti pesanti e provocatori verso il lavoro dipendente del quale si ritengono paladini, messi in atto da governi composti da forze “amiche”, le dirigenze sindacali si sono il più delle volte premurate di sottolineare le “basi comuni di confronto”, una formula gergale tipica di quel mondo, pur di non recidere le occasioni residue di contraddittorio.
Non si è trattata di totale passività. Alcuni passaggi significativi sono stati compiuti. La carta dei diritti universali del lavoro, il mantenimento di un livello sufficiente di contrattazione sono tra questi. Ma tutti sotto tono ed alcuni con una impostazione più aziendalistica che confederale.
Questi gruppi dirigenti si sentono investiti in realtà di una missione: combattere il populismo, il sovranismo e il nazionalismo, non poteva mancare il razzismo e il fascismo, senza alcuna distinzione tra di essi e con una visione dozzinale in nome dell’internazionalismo e dell’europeismo, sua variante continentale, del multilateralismo anch’esso ridotto ad una definizione altrettanto dozzinale, ignara del presupposto unipolarista. Dimentichi della base e della strutturazione nazionali delle relazioni internazionali e delle formazioni sociopolitiche, quindi degli stessi sindacati, vagheggiano di una comunità indistinta di dipendenti e proletari, a seconda della matrice ideologica, europei e mondiali e dell’esistenza di una conseguente funzionale organizzazione sindacale di quelle dimensioni.
Una fuga in avanti nella valutazione e sopravvalutazione di organismi sindacali sovranazionali sorprendente in gente adusa al pragmatismo e al realismo delle trattative e dello scambio.
Il risultato di questo opportunismo e di questi cordoni ombelicali non recisi sono una fuga in avanti per nascondere l’ambiguità nel presente. Di fronte ad un contenzioso legato alla finanziaria da dirimere in pochi mesi la scelta è di proporre un aumento delle competenze del Parlamento Europeo e di una Commissione Europea di esso espressione. Quali siano il significato e la realizzabilità in tempi storici ragionevoli di tale proposito non viene spiegato; né viene sottolineato che comunque un tale processo dovrebbe essere implementato e gestito dagli stati nazionali europei così vituperati, nella loro varia ed eterogenea coloritura politica e di interessi.
La conseguenza è la fuga nella demagogia del “più uno” a prescindere. Più investimenti senza spiegare la loro realizzabilità con il rispetto dei vincoli di bilancio imposti dagli accordi europei. Non solo. Si rimuove del tutto il pur insufficiente sforzo di investimenti diretti ed indiretti alimentato dal Governo. A dispetto della ridondanza dei centri studi, in particolare della CGIL, ci si guarda bene da una disamina della logica vincolante di impiego dei fondi strutturali e di coesione comunitari anche per la componente integrativa nazionale, orientati ad accentuare la polarizzazione, il dualismo e la fragilità del sistema economico e delle imprese europee piuttosto che l’equilibrio e la coesione. Più spesa sociale e più ricerca connessa all’implementazione di piattaforme industriali è l’altro motivo che guida le danze, senza specificare i limiti e i veti comunitari posti all’intervento dirigistico dello stato e alla possibilità di creazione di imprenditoria autoctona e di sviluppo concordato e pilotato di grandi aziende strategiche in grado di sostenere gli stati e di competere nell’agone mondiale.
Una rimozione ed una fuga che consente il consolidamento sbandierato di sodalizi innaturali con controparti, in particolare Confindustria, costitutivamente incapaci di promuovere quelle stesse “politiche selettive” specie nella ricerca e nella scelta dei settori da potenziare propugnate dal sindacato. Sodalizi una volta inconcepibili o almeno da mantenere pudicamente riservati.
Messi alle strette sugli argomenti più sensibili, come quello dell’immigrazione e dell’emigrazione, piuttosto che porre il problema del controllo e della riduzione dei flussi immigratori secondo la condizione del paese di accoglienza e dando come esito naturale un risultato altrimenti frutto di azione politica recente, si rifugia in un altro marchingegno retorico: “non è questo il problema!”. Quello vero è la fuga all’estero di cittadini italiani, anche se non sono solo più questi soltanto ad andar via. Lo sono anche tanti immigrati formatisi da anni nel nostro paese.
Non rimane, per il resto, che la solita via di fuga della lotta salvifica all’evasione fiscale. La battaglia che consentirebbe di salvare capra e cavoli, il rispetto dei vincoli del deficit e la redistribuzione di reddito e gli investimenti. Nel suo approccio moralistico e ferocemente repressivo, avulso dalle ragioni economiche, politiche e sociali di tale fenomeno, il modo concreto per dissociare definitivamente il mondo del lavoro dipendente da quello autonomo. Una ipoteca definitiva alle ambizioni di rappresentanza generale di questi gruppi dirigenti.
I proclami e le rivendicazioni di autonomia dal quadro politico di questi gruppi dirigenti sindacali lasciano quindi il tempo che trova. Il richiamo della foresta appare irresistible. La stessa filippica di Landini contro le correnti sindacali più che dare alimento a questa esigenza di autonomia sembra dettata dal timore che nei sindacati possano sorgere nuove componenti organizzate secondo le trasformazioni politiche in corso. Uno spauracchio dettato dalla discrasia sempre più evidente tra la formazione politica dei gruppi dirigenti sindacali e l’orientamento politico ed elettorale di parti sempre più consistenti della base sindacale.
Le forze politiche costitutive di questo governo e quindi l’azione politica di quest’ultimo, nell’intento di plasmare la formazione sociale italiana, soffrono di due limiti difficilmente superabili secondo i tempi serrati ormai necessari:
- la contraddittorietà e la scarsa lucidità politica sia negli obbiettivi che nella tattica da adottare specie nell’agone internazionale, in particolare atlantico ed europeista. Una carenza che rischia di dare assoluta priorità alle logiche meramente redistributive, ripiegate progressivamente secondo forme di assistenzialismo le più deleterie. In questo, l’abbandono di Paolo Savona rappresenta un segnale poco confortante
- il marchio ideologico delle due forze, caratterizzato dal valore assoluto della democrazia diretta e dall’affermazione dell’autonomismo locale-regionale scevro da una determinazione chiara delle gerarchie e delle competenze rispetto allo stato centrale, elude pericolosamente la funzione delle forze intermedie nel determinare il funzionamento delle formazioni sociali complesse, tanto più in un regime crescente di decentramento e autonomie locali. Un ruolo forte che ad esempio ha consentito alla Germania, in presenza di un regime federalista, di mantenere la necessaria coesione e di essere politicamente più incisiva; almeno sino allo ieri prossimo
Il primo limite offre spazi inattesi alle rivendicazioni e alle denunce politiche nell’azione di forze di opposizione apertamente in crisi e prive di capacità egemonica. Il secondo lascia completo campo libero alla loro azione nelle rappresentanze degli organismi intermedi indispensabili come il sindacato. Le organizzazioni sindacali sono pur sempre strutture capillari di migliaia di funzionari e militanti presenti sul territorio, capaci ancora di una azione di interdizione significativa. Rischia paradossalmente di offrire su un piatto d’argento l’aura di difensori dell’unità nazionale alle forze politiche direttamente responsabili del condizione di degrado e subalternità politica del paese.
La differenza con il sindacato attivo tra gli anni ’60 e ’80 è evidente. Allora, il carattere confederale della loro azione politica era ispirato da una ipotesi di modello di sviluppo in gran parte velleitaria, ma sufficiente a dare un senso unitario e una prospettiva omogenea alle rivendicazioni. Godeva inoltre, pur in una condizione di progressivo degrado, del supporto sostanziale e fattivo di buona parte delle forze del centrosinistra e del PCI.
La asserzione attuale di confederalità, particolarmente vivace nella CGIL, rappresenta poco più di una affermazione di principio realizzata con atti di imperio e di mediazione pattizia, carenti di capacità egemonica. La ragione risiede nella mancanza di volontà di trarre le necessarie conseguenze politiche, specie rispetto alla Unione Europea, di una ipotesi accettabile di sviluppo e di autonomia politica del paese.
Essa è vittima di una visione dualistica delle contrapposizioni su scala planetaria; in pratica una proiezione, una sorta di deformazione professionale che vede il mondo diviso tra dipendenti e padroni, tra pochi grandi ed una moltitudine di poveri e subordinati
Il rifiuto aprioristico e indignato del famoso piano B dell’ex Ministro Savona vale in propsito più di cento proclami di difesa compassionevole “dei deboli”. Un atteggiamento tanto più sorprendente per professionisti della contrattazione adusi, nei più diversi frangenti, a sbandierare ed eventualmente mettere in opera piani di riserva.
Una confederalità, quindi, che rischia di trasformarsi in un simulacro frutto di una sommatoria di rivendicazioni di strati sempre più circoscritti e di iniziative rituali entro cui convogliare il malcontento generale. L’elezione di Landini, un personaggio particolarmente sensibile ed esposto alle intemperie e alla volubilità delle congiunture politiche e sociali, rappresenta per altro la sanzione definitiva di questa tendenza. Una propensione che spinge oggettivamente verso quell’alveo conservatore e reazionario in grado di paralizzare e polverizzare ulteriormente il paese.
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