PRESCRIZIONE E BUROFILIA (II), di Teodoro Klitsche de la Grange

PRESCRIZIONE E BUROFILIA (II)

Aveva la vista lunga Giustino Fortunato, quando, oltre un secolo fa, sintetizzò il programma dei socialisti suoi contemporanei nello slogan “le terre ai contadini, le fabbriche agli operai, gli uffici agli impiegati”. Nel secolo passato sono venute meno le prime due rivendicazioni. La terra ai contadini, perché con la riforma agraria dei governi De Gasperi (soprattutto, ma non solo) il latifondo fu espropriato e le terre distribuite, onde la rivendicazione è cessata. Anche le fabbriche agli operai non è più d’attualità: un po’ perché di operai ce ne sono assai di meno, ma soprattutto per scarsità delle fabbriche le quali in gran parte, nell’ultimo trentennio, sono state delocalizzate in paesi dalla manodopera più economica e dal fisco meno rapace. Resta, anzi è incrementata, la terza, cioè la patrimonializzazione surrettizia degli uffici, non nelle forme delle società feudali, con le funzioni pubbliche conferite (appaltate, vendute) ai privati (che in tali casi, almeno, ne sopportavano i costi, oltre a percepirne i benefici); ma attraverso la riduzione delle responsabilità del funzionario (disciplinare ma soprattutto patrimoniale) il boicottaggio legale delle pretese dei cittadini danneggiati da atti illegittimi, la compiacenza politica e talvolta giudiziaria nei confronti dei comportamenti delle PP.AA.. Ma soprattutto, come spesso scrivo, dalla disparità – processuale e sostanziale – tra cittadino e P.P.A.A..

Fortunato avvertiva a cosa avrebbe portato l’andazzo, in gran parte confermato a distanza di oltre un secolo: che non è solo un problema di diritti lesi, ma anche di ordinamento dello Stato. Scrive l’economista lucano: “non è punto immaginario, di avere, un giorno, i pubblici poteri a disposizione de’ funzionari contro l’interesse della collettività” e “noi, vecchi liberali,  crediamo ancora di parlare, come già i partiti storici della Destra e della Sinistra, in nome del popolo, ossia, secondo il significato classico della parola, in nome della universalità de’ cittadini” mentre i socialisti impiegano “le maggiori energie a vantaggio degl’impiegati dello Stato; e assumendone ufficialmente il patrocinio, mettendosi a capo di tutto il movimento burocratico”. La burocrazia “non concepì i servizi amministrativi se non immaginandoli pari a quelli di una macchina, che dovesse agire per solo uso e consumo de’ suoi congegni, nel particolare esclusivo interesse di coloro che vi fossero addetti, – la macchina per la macchina, l’ultima forma, e la più bizzarra, di un nuovo assolutismo di classe” (il corsivo è mio); e questo implica “la tendenza al dominio universale della burocrazia, – il cui trionfo sarebbe la resurrezione, sott’altra forma, dell’antico assolutismo, o, meglio, della peggiore delle tirannie, quella della servilità uniforme e meccanica”.

Dato, quindi, che tra i principi dello Stato borghese c’è che la funzione pubblica è nazionalizzata e pertanto tutti i poteri pubblici non sono appropriabili, ottundere e ridurre, escludere le correlative responsabilità e doveri è difficile.

Ma lo si è fatto, in particolare in Italia, come constatava (e prevedeva) Fortunato sia attraverso normative apposite, sia con comportamenti compiacenti ed assolutori.

Per la prescrizione la normativa non è del tutto favorevole alla P.A., e comunque la possibilità di sanzionare i funzionati inerti c’è, anche se di attivazione non facile; pertanto occorre ai burofili, come è stato fatto, cambiare il bersaglio: dal funzionario pigro al contribuente fetente. Proprio cioè il contrario di quello che succederebbe in un’impresa privata: nella quale un impiegato che, incaricato di recuperare i crediti, li facesse prescrivere, sarebbe licenziato subito e magari gli sarebbe richiesto di rifondere i danni. Nella seconda repubblica, le privatizzazioni hanno imperversato, ma spesso a chiacchiere, perché in tanti casi, come questo, i comportamenti sono stati opposti; la burofilia continua ad imperversare. E il potere non ha di meglio per occultare prassi complici o, nel migliore dei casi, fiacche e di prendersela, come il re di G.G. Belli con i vastalli buggiaroni, colpevoli di tutto. E quindi da punire, anche con la forca perché il potere, come il sovrano del poeta “la vita e la robba ve l’affitto”.

L’unico tentativo per far cessare queste mistificazioni è non fare come i sudditi nel sonetto, che rispondono, inconsapevoli, “è vero è vero”.

Teodoro Klitsche de la Grange

TIMEO DANAOS…, di Teodoro Klitsche de la Grange

TIMEO DANAOS…

Non è vero che il Covid-19 faccia solo dei danni: tra gli effetti benefici (rari) ha aperto gli occhi (perfino!) alle élite decadenti del centrosinistra nostrano. E cosa ha rivelato? che, come da molti decenni risultava da rilevazioni e statistiche, l’handicap (principale) dell’Italia è di avere, rispetto non solo agli altri paesi sviluppati, ma a gran parte di quelli esistenti sul pianeta, amministrazione e burocrazia di rara inefficienza, di guisa da riuscire a sminuire, travisare, minimizzare le misure decise dal Parlamento e dal governo. Meglio tardi che mai. Non solo Salvini, la Meloni e Berlusconi, ma anche dall’opposta sponda è tutta un’invocazione, meglio una maledizione – a San Burocrazio. Anche da coloro che dell’inefficienza dell’amministrazione hanno fatto una risorsa di governo (e spesso per tirare a campare, anche sul piano personale e privato).

Ma a tale “conversione” sulla via di Damasco, occorre prestare, per così dire, una fede critica. Ovvero valutarla dall’esperienza, dalla forma istituzionale e dalla storia.

In primo luogo: tutti sostengono che le misure straordinarie per compensare gli italiani dei danni sono state attuate con sconcertante lentezza; molti aggiungono, argomentando della (rapida) realizzazione del ponte di Genova, che occorre fare a meno di (gran parte) dei passaggi amministrativi i quali appesantiscono i procedimenti di esecuzione delle opere pubbliche. Si può replicare che non basta. In effetti le amministrazioni pubbliche italiane – salvo qualche eccezione – sono lente e gravate da passaggi inutili sia nell’erogare sussidi che nel concedere autorizzazioni, pagare debiti o realizzare opere ed interventi. Cassa integrazione lenta, bonus per partite IVA, esecuzioni di lavori pubblici sono solo i capitoli di un libro assai più esteso. Intervenire solo per questi significa da un lato mettere la classica toppa a un vestito vecchio e liso, dall’altro  gattopardescamente, a cambiare qualcosa perché (quasi) tutto rimanga uguale. Se l’Italia da circa trent’anni non cresce lo si deve, in buona parte, all’inefficienza dell’amministrazione. La costruzione in tempi record di qualche ospedale, grazie a deroghe alle leggi, non può cambiare l’andazzo generale. Così come, ad esempio, non servirono i vasti poteri concessi ad organi commissariali tenuti alla sola osservanza dei principi generali dell’ordinamento (e non della legge) nominati in forza della legislazione per il terremoto campano-lucano (1980); poteri che non trasformarono Campania e Basilicata nella Svizzera o nel Lussemburgo del sud.

Secondariamente l’“ideologia” alla base dell’intervento pubblico nell’economia è una specie robusta di costruttivismo, fondato sulla (pretesa) razionalità di un disegno di sviluppo centralizzato, guidato e iper-regolato rispetto alla disordinata (ed ingiusta) spontaneità del libero gioco degli interessi.

A parte altri tipi di obiezione che le si possono muovere è sicuro che anche il più razionale, corretto e giusto dei pianificatori-programmatori-amministratori non è in possesso né di tutte le informazioni di chi opera sul mercato (tutti) né può sostituirsi alle loro intenzioni e volontà, O meglio, se lo fa (e lo fa sempre) deve usare una coazione tanto più estesa quanto è il potere che esercita.

Il maggior esempio nel XX secolo di costruttivismo realizzato è stato il socialismo reale, con i suoi piani quinquennali (e altro). Quando, con l’ultima costituzione sovietica il PCUS ne annunciò la realizzazione, mancavano pochi anni a che tutto crollasse nell’indifferenza generale.

In terzo luogo, la crescita dell’amministrazione e della burocrazia è tendenza pluricentenaria dello Stato moderno, in particolare negli ultimi due secoli. Tanti pensatori, da Tocqueville a Donoso Cortes, Da Marx a Silvio Spaventa, da Fortunato a Don Sturzo (tra i tanti) l’hanno trattata. Ma è ineluttabile che la burocrazia, come scrive Max Weber, è la componente tipica  dello Stato moderno. Perché, anche se spesso ipertrofica, costituisce il tipo razionale di gestione pubblica.

Anche al fine di limitarne il potere, furono previste, nella successiva evoluzione dello Stato borghese vari tipi di garanzie. Tra queste la più importante (e incisiva) è il controllo dell’operato amministrativo da parte del giudice;  quello “ordinario” e/o quelli “nuovi”: la giustizia amministrativa e, successivamente, quella costituzionale.

In particolare quella amministrativa ed ordinaria è stata oggetto di limitazioni (e perfino di autolimitazioni) inconsuete e ripetute negli anni della “seconda Repubblica” al fine esternato di “ridurre le spese”. Che alla faccia dell’intenzione virtuosamente manifestata, non hanno fatto altro che aumentare. Anche in occasione della presente crisi sanitaria, si è sentito spesso dire che, per accelerare le procedure, occorre limitare i poteri dei giudici penali e dei TAR. Gli invocati “scudi” proliferano; un’avvenente ex-ministro pochi giorni fa, in televisione, se l’è presa con i TAR.

Ma non è dato capire a chi, se non ai giudici, devono rivolgersi le centinaia di migliaia di cittadini creditori insoddisfatti delle PP.AA. (spesso da lustri).

Piuttosto è il caso di attuare e far finalmente funzionare la normativa sulle responsabilità dei funzionati, prevista dall’art. 28 della Costituzione, e mai realmente attivata. Non quindi di limitare i poteri dei giudici (spesso timidamente esercitati) ma di rendere effettiva la responsabilità dei funzionari. Ma la classe politica consentirà ad abbandonare al rispetto del diritto l’aiutantato amministrativo?

Teodoro Klitsche de la Grange