Italia e il mondo

TRUMP E IL RATTO D’EUROPA (II)_di Teodoro Klitsche de la Grange

TRUMP E IL RATTO D’EUROPA (II)

Dato che non cessa il dibattito sul National Security Strategy 2025 di Trump, siamo andati a chiedere lumi al sempre cortese Niccolò Machiavelli, il quale ci ha ricevuto.

A concentrarsi sul nocciolo del NSS 2025 questo qual è? E cosa lo distingue dal pensiero delle élite europee?

Il Trump l’è il migliore dei miei allievi, almeno nella vostra parte del mondo. Ciò che accomuna le sue argomentazioni e la distinzione dal pensiero dei governanti europei è che ha capito assai bene che chi trascura la realtà per andare appresso all’immaginazione è destinato a rovinare se stesso e la propria comunità.

Ma non crede che, in definitiva, le buone intenzioni e le belle prospettive possano costituire un punto di incontro tra le comunità umane?

Certo: a patto che tutti i governanti e i governati del pianeta le condividano. Ma questo non risulta né a me né a nessuno. Neppure a quelli che lo pensano, giacché per primi – e logicamente – indicano il nemico, che è colui che non condivide le loro immaginazioni. Cioè Trump, ma anche tanti altri: Putin, Xi, Modi, gli Aiatollà, ecc. ecc. Cioè la grande maggioranza di governanti e governati del mondo.

Ma non crede che nel futuro possano crearsi dei modelli di cooperazione e coordinamento?

Può darsi nel futuro. Fino a quel momento vale quello che scrissi nel Principe: che si governa (e si combatte) con le leggi e la forza. Ma occorre per farlo che le leggi pretese siano accettate dai governati. Il che, adesso, non risulta anche per parte dell’Europa. Se nel futuro ciò si realizzerà, forse sarà possibile.

In cos’altro differisce  il Trump-pensiero da quello “corrente”?

In primo luogo che si basa su fatti ed esperienza storica (cioè sulla realtà), come da me fatto quando mi vestivo elegante per ragionare sulle vicende passate. Ad esempio nel documento si legge: “Chi un Paese ammette entro i propri confini – in quale numero e da dove – definirà inevitabilmente il futuro di quella nazione. Qualsiasi Paese che si consideri sovrano ha il diritto e il dovere di definire il proprio futuro… Nel corso della storia, le nazioni sovrane hanno proibito la migrazione incontrollata e concesso la cittadinanza solo raramente agli stranieri, che dovevano soddisfare criteri rigorosi. L’esperienza dell’Occidente negli ultimi decenni conferma questa antica saggezza. In molti Paesi del mondo, la migrazione di massa ha messo sotto pressione le risorse interne, aumentato la violenza e altri crimini, indebolito la coesione sociale, distorto i mercati del lavoro e minato la sicurezza nazionale”. Quando i romani, i quali tra l’altro, concedevano la cittadinanza con notevole larghezza, persero il controllo dell’immigrazione, l’Impero d’Occidente collassò in circa un secolo.

Al posto di quello subentrarono i regni romano-barbarici che erano tutt’altro dall’impero distrutto (anche se ne conservavano qualche vestigia).

Accusano Trump di non desiderare alleati, ma solo allineati alla visione americana.

Anche le mosche vogliono guidare i cavalli, perfino in politica. Figurarsi se non lo desidera il capo della prima superpotenza del pianeta. Accusare Trump di ciò è sfondare una porta aperta. Attraverso la quale passano tutti.

Ma Trump ha il senso del limite che diversi suoi predecessori avevano smarrito. Scrive infatti che “L’epoca in cui gli Stati Uniti sorreggono da soli l’intero ordine mondiale come Atlante è finita. Tra i nostri molti alleati e partner contiamo decine di nazioni ricche e sofisticate che devono assumersi la responsabilità primaria per le loro regioni e contribuire molto di più alla nostra difesa collettiva”. Io ho sempre sostenuto che per essere indipendenti occorre disporre di potenza e virtù propria, e non fondarsi su quella di altri. Indicando ciò, Trump indica la via maestra per determinare liberamente il proprio destino.

Ma tanto in Europa non vogliono capirlo.

Col rischio di finire a servizio permanente di altri. Oggi Trump, domani Xi o Modi passando per Putin. Gli è che si immaginano che la lotta per il potere si faccia con le favole.

Come scrissi secoli fa, discorrendo dei profeti disarmati o armati “Nel primo caso, sempre capitano male e non conducono cosa alcuna: ma quando dependono da lloro proprii e possono forzare, allora è che rare volte periclitano: di qui nacque che tutti e profeti armati vinsono e li disarmati ruinorno”. Vale in ogni caso, ma ancor più per coloro che credono – e spesso è così – di portare novità, come sostenevo “se uno principe ha tanto stato che possa, bisognando, per sé medesimo reggersi, o vero se ha sempre necessità della defensione d’altri. E per chiarire meglio questa parte, dico come io iudico coloro potersi reggere per sé medesimi che possono, o per abbondanzia di uomini o di danari, mettere insieme uno exercito iusto”.

Gli altri è meglio che si organizzino a difesa, la quale necessita in particolare, della fedeltà e convinzione dei sudditi. Che già ridotta,  diminuisce ancora, come si legge nel documento.

Mi pare però che l’abbiano capito anche in Europa, dato che, specie la Germania, si stanno riarmando.

Era ora. Solo che per non perdere la faccia, seguono già il pensiero di Trump, ma lo attaccano per far dimenticare decenni di prediche contrarie, recitate a ogni piè sospinto. Alcuni a quelle prediche sono così affezionati che mostrano di non averlo capito neppure oggi.

Concludendo che cos’altro l’ha colpita?

Il fatto che Trump abbia ricordato a tutti quello che ha sostenuto il mio successore Hobbes: che lo scambio politico è tra protezione ed obbedienza – lo ripete più volte. Non si obbedisce a chi non protegge: ma se protegge ha diritto all’obbedienza.

Le élite europee le quali pretenderebbero la protezione americana, a gratis e con infedeltà (parziale) compresa, non manifestano il coraggio della libertà politica, tanto si sono mummificate nelle loro illusioni.

La ringrazio tanto

L’aspetto, quando vuole.

Todoro Klitsche de la Grange

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Bosco e conformismo_di Teodoro Klitsche de la Grange

BOSCO E CONFORMISMO

La “famiglia nel bosco”, separata per decisione del Giudice, pone (almeno) due problemi che sono alla radice del diritto.

Il primo è che, a quanto pare, a essere sanzionato è lo stile di vita della famigliola; di converso lo stile di vita normale, che è quello della stragrande maggioranza degli italiani, diventa da facoltativo ad obbligatorio e le relative norme (di cortesia, convivenza, bon ton, e così via) trasformate in giuridiche; come tali lo Stato (e la di esso organizzazione) ne  assicura l’osservanza, anche coattiva. Di questo passo a far osservare il corretto uso delle posate a tavola saranno i marescialli dei Carabinieri.

Ciò non solo sposta vistosamente a danno della libertà il confine tra vietato e permesso, sul quale si fonda il principio c.d. di separazione tra Stato e società civile, ma ancor di più quello del conformismo con un modello di vita che diventa non solo di gran lunga maggioritario, ma anche imposto.

Va da se che fino a qualche decennio orsono gli italiani che vivevano all’aria aperta, a contatto con la natura, consumavano prodotti da loro coltivati (km 0) erano tanti; industrializzazione e successiva prevalenza economica dei servizi ha cambiato una società (in larga misura) agricola, onde il “modello” di vita rurale è divenuto marginale, così che al conformista appare non solo stravagante, ma anche sospetto.

La seconda è che la vicenda ripropone il conflitto tra istituzione e famiglia e istituzione/Stato, ripetuto in tante comunità. A cominciare da quelle dell’antica Roma, dati i vasti poteri riconosciuti al pater familias, limitati progressivamente nel diritto “classico” e giustinianeo. Già nella tragedia Antigone nei due personaggi di Antigone e Creonte, sono state viste tante contrapposizioni. Una delle quali era per l’appunto il conflitto tra il diritto generato dall’istituzione-famiglia (Antigone) e quello promulgato dall’istituzione politica (Creonte).

Nel caso in una materia particolarmente sensibile, come l’educazione e il regime di vita dei figli e, in genere dei componenti la famiglia. Il tutto, senza che i genitori avessero violato alcuna norma (almeno pare) né penale né a carattere pubblico. Il che alla libertà concreta non fa certo bene.

Teodoro Klitsche de la Grange

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TRUMP E IL RATTO D’EUROPA_di Teodoro Klitsche de la Grange

TRUMP E IL RATTO D’EUROPA

1.0 Le reazioni indispettite delle èlite europee e della stampa loro allineata alle  pagine che Trump ha dedicato all’Europa nel documento National Security Strategy 2025, non sorprendono: né per la reazione né nei di essa modi ed argomentazioni. D’altra parte anche le considerazioni del documento americano erano state in gran parte anticipate nelle precedenti esternazioni di Trump (e di Vance); peraltro, diversamente da quello che il Presidente USA afferma urbi et orbi, ossia tutto e il contrario di tutto a giorni alterni, il pensiero sull’Europa è stabile e immutato. I punti essenziali del quale sono di seguito riepilogati.

1) “L’Europa continentale sta perdendo quota nell’economia globale: è scesa dal 25% del PIL mondiale nel 1990 al 14% attuale — in parte a causa di regolamentazioni nazionali e sovranazionali che soffocano creatività e spirito d’iniziativa. Ma questo declino economico è superato da una prospettiva ancor più grave: quella della cancellazione civile” e questo perché l’attività dell’U.E. e di altri organismi internazionali…” conculcano la libertà politica e la sovranità; ed adottano “politiche migratorie che stanno trasformando il continente e creando conflitti; censura della libertà di espressione e repressione dell’opposizione politica; crollo dei tassi di natalità; perdita delle identità nazionali e della fiducia in sé stessi.

Se le tendenze attuali proseguiranno, il continente sarà irriconoscibile in 20 anni o meno”.

2) Il Presidente afferma di volere “che l’Europa rimanga europea, che ritrovi fiducia civile e abbandoni il suo fallimentare modello di soffocamento regolatorio”. Poi un’altra considerazione realistica “Gli alleati europei godono di un significativo vantaggio in termini di hard power rispetto alla Russia in quasi tutte le misurazioni, tranne che nelle armi nucleari”, perciò l’Europa gode di un vantaggio che  dovrebbe impedire o almeno ridimensionare le (pretese) velleità egemoniche di Putin, se ne deduce.

3) “L’amministrazione Trump si trova in contrasto con funzionari europei che nutrono aspettative irrealistiche sulla guerra e governano in maggioranze instabili, molte delle quali calpestano principi democratici fondamentali per reprimere l’opposizione. Una larga maggioranza degli europei vuole la pace, ma questo desiderio non si traduce in politiche concrete, in larga parte a causa della sovversione dei processi democratici da parte di questi governi”.

4) Tuttavia “l’Europa rimane strategicamente e culturalmente vitale per gli Stati Uniti. Il commercio transatlantico resta uno dei pilastri dell’economia globale e della prosperità americana” pertanto “La diplomazia americana deve continuare a difendere la vera democrazia, la libertà di espressione e la celebrazione senza complessi dei caratteri nazionali europei e della loro storia. L’America incoraggia i propri alleati politici in Europa a promuovere questa rinascita dello spirito, e la crescita dell’influenza dei partiti patriottici europei rappresenta effettivamente un motivo di grande ottimismo.

Il nostro obiettivo deve essere aiutare l’Europa a correggere la sua traiettoria attuale… Vogliamo lavorare con paesi affini che desiderano restaurare la propria grandezza.

Sul lungo periodo, è più che plausibile che entro poche decadi almeno alcuni membri della NATO diventeranno a maggioranza non europea”.

5) La migrazione incontrollata può alterare l’anima dell’Europa. Nelle nazioni ove la maggior parte della popolazione divenisse non europea “è una questione aperta se considereranno il proprio ruolo nel mondo — o la propria alleanza con gli Stati Uniti — nella stessa maniera di coloro che firmarono il Trattato NATO”.

6) Segue un elenco di priorità: Ristabilire condizioni di stabilità interna in Europa e stabilità strategica con la Russia; conseguire autonomia militare, invertire la rotta spirituale. Tra queste interessano soprattutto:

“• Rafforzare le nazioni solide dell’Europa centrale, orientale e meridionale tramite legami commerciali, vendite di armi, collaborazione politica e scambi culturali ed educativi;

• Porre fine alla percezione — e prevenire la realtà — di una NATO in espansione perpetua;

• Incoraggiare l’Europa a contrastare sovracapacità mercantiliste, furti tecnologici, cyber-spionaggio e altre pratiche economiche ostili”.

2.0 I capisaldi del discorso di Trump sull’Europa e di tutto il documento, sono il realismo, il pragmatismo, il ridimensionamento (o il rifiuto) di contrapposizioni ideologiche: tipo quella spesso prediletta di democrazie contro autocrazie. Ossia il contrario (spesso) e, in genere, il diverso da quanto praticato dalle élite europee (al tramonto) nell’ultimo trentennio, anche ispirato dalle amministrazioni USA pre-Trump.

D’altra parte che il capitolo sull’Europa s’intitoli “promuovere la grandezza europea” è anch’essa una considerazione realistica, per due motivi. Il primo che in un pluriverso, è essenziale selezionare i nemici e gli amici: se il nemico è un elemento insopprimibile, occorre provvedersi di amici, perché – come insegnato da millenni di storia, non ci si può contrapporre a tutti, pena la sconfitta e, al limite, l’autodistruzione.

E tra i diversi soggetti politici (Russia, Cina, India) l’intesa è più facile con chi, come Europa e USA, appartengono alla medesima Kultur (civiltà): quella del cristianesimo occidentale, con la separazione di Chiesa e Stato, di questo dalla società civile, del popolo e dei suoi rappresentanti, della libertà e delle proprietà garantite (anche nei confronti dei poteri pubblici).

3.0 Dove la critica di Trump coglie nel segno è nel notare come la pratica governativa della maggior parte dei paesi europei abbia contraddetto gran parte dei principi della civiltà euro-occidentale e della capacità di ripresa..

Il primo luogo con la perdita del rapporto tra vertice politico (governanti) e seguito (in senso lato i governati), il cui segno più evidente è il moltiplicarsi di governi populisti o comunque non allineati alle vecchie élite, in particolare nell’Europa “centrale, orientale e meridionale”. Ma risulta anche  laddove i governi “nuovi” non hanno conseguito la maggioranza negli organi governativi, ma l’hanno tra gli elettori, con la conseguenza della difficile governabilità, come in Francia (malgrado la prevalenza nella quinta Repubblica del pouvoir minoritaire presidenziale-governativo). Mentre nel contempo la dirigenza europea esercita pressione sui governi non allineati, malgrado eletti (e confermati) da maggioranze popolari (come l’Ungheria di Orban) o cercando di non condannare, anzi di agevolare la manomissione del procedimento elettorale (come in Romania).

Tutte pratiche aventi in comune la debolezza di élite dal consenso scemante; ovviamente riuscendo sempre meno a raggiungere lo scopo.

In secondo luogo l’irrealismo di certe politiche: dal cominciare col far passare la Russia come nemica principale, quando è evidente che Putin non ha l’intenzione, e a ben vederer neppure la forza di invadere l’Europa centrale ed occidentale in un conflitto convenzionale (l’uso della superiorità nucleare russa appare ancor più irrealistico). O quello di europeizzare masse di migranti, in particolare islamici: poco propensi ad abiurare. O perseguire obiettivi (Green Deal) in modo autolesionistico (per l’economia).

Inoltre Trump nota il tafazzismo europeo quando, invece dell’orgoglio delle proprie civiltà, istituzioni, valori e cioè della propria identità, ne prova quasi vergogna (qua, però, l’esempio è venuto dagli USA e dalla cancel culture).

Le proposte del documento sull’Europa hanno anche un effetto ironico: dopo che le élite europee avevano favorito l’estensione della NATO (e dell’UE) agli Stati dell’Europa orientale, proprio dell’America viene il prudente (ed evidente) consiglio di non espanderla (dato a suo tempo da tanti altri, tra cui Kissinger). Così i tromboni italiani che hanno auspicato la riduzione della sovranità nazionale – cominciando del “vincolo esterno” – e “guerrafondai” europei (italiani compresi) tutti compiaciuti di aiutare gli ucraini a combattere una guerra (persa) a danno dei combattenti e a spese degli europei, che proprio dal referente principale arrivi il consiglio a calmare i bollenti spiriti e a pensare più realisticamete è sintomatico dell’inadeguatezza di élite decadenti.

Alle quali ciò che (più verosimilmente) dispiace del documento è l’incoraggiamento ad alleati politici e partiti patriottici; suona come un preavviso di sfratto alle élite.

Cosa che ovviamente non sopportano e pour cause: avendo collezionato talvolta sconfitte e talaltrA risultati mediocri, non resta loro che consolarsi con l’esercizio del potere.

E’ il potere per il potere, in luogo del potere per uno scopo (l’interesse generale, della comunità.

Ma non vogliono che lo si “racconti in giro” come ha fatto Trump. E per questo fanno passare le critiche del Presidente americano per spirito antieuropeo nel senso delle comunità, quando il bersaglio ne sono le élite europee decadenti.

Teodoro Klitsche de la Grange

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GUERRA IBRIDA, NOVITA’?_di Teodoro Klitsche de la Grange

GUERRA IBRIDA, NOVITA’?

Da qualche anno si è diffuso il termine “guerra ibrida” che vuole significare la compresenza, in un confronto ostile, di condotte di guerra “classica” con altre accomunate dall’assenza di violenza: sanzioni economiche, propaganda, attacchi informatici. Qualcuno vorrebbe identificarla come il modo di guerra del XXI secolo.

Senonché a (parziale) rettifica della “modernità” di tale tipo di guerra, alcuni di tali elementi non violenti sono praticati da secoli.

Le sanzioni economiche soprattutto (che possono essere particolarmente efficaci): è opinione diffusa che se Roosevelt non avesse fatto seriamente rispettare le sanzioni contro il Giappone (come ad un certo momento fece) il Giappone avrebbe dovuto ritirarsi dalla Cina (al più tardi) nel 1943.

Altri che invece sono del tutto nuovi (ad esempio gli attacchi informatici) ma solo perché non c’erano i computer, così come la guerra aerea è nata solo con gli aeroplani (e il loro impiego militare).

Se si rimane fermi al concetto tradizionale di guerra cioè di confronto violento tra sintesi politiche con formazioni organizzate militarmente e provviste di strumenti idonei alla distruzione fisica del nemico, che si fonda sugli aspetti più appariscenti del fenomeno bellico, indubbiamente l’uso del termine guerra, per gli attacchi ibridi, appare una forzatura.

Ma se, come spesso mi capita di scrivere, ci si rifà al concetto che ne avevano pensatori come Clausewitz e Gentile, ossia che la guerra è un mezzo per costringere il nemico a fare la nostra volontà, quella forzatura non è tale o comunque appare secondaria.

Già negli anni 30 del secolo passato Carl Schmitt scriveva che “il concetto di guerra si è nel frattempo molto modificato. Intanto esso non si esaurisce più nella lotta militarmente armata, ma vi è anche una attività extra-militare nelle ostilità, poiché la guerra diventa guerra economica, guerra di propaganda”, e riteneva che aveva ragione Chamberlain a dichiarare, nella primavera del 1939, che non si era né in guerra, né in pace, malgrado la guerra sarebbe stata dichiarata parecchi mesi dopo.

La nota intervista dell’ammiraglio Cavo Dragone ha rinfocolato il dibattito sul tema, e la relativa confusione derivante dal termine “guerra”; corretto per quella ibrida solo se  lo si usa nel senso di Clausewitz e Gentile ma che suscita allarmi se non inteso in tal senso.

Ciò stante a leggere sulla stampa le dichiarazioni dell’Ammiraglio di essere più aggressivi sulla cibersicurezza, siamo ancora nei limiti di una risposta proporzionata: un hacker, un hacker e mezzo avrebbe detto Napoleone se avesse avuto i computer. Quello che invece sarebbe assai imprudente è replicare con bombe e missili ad un attacco informatico.

Le prese di posizione di Tajani e della Kallas, questa che ha parlato di sanzioni “ibride” per “contrastare gli attacchi ibridi” (quindi una difesa omogenea all’attacco) e quello che ha richiamato alla “difesa da una guerra ibrida”, invocando alla prudenza hanno correttamente interpretato il senso dell’intervista dell’ammiraglio.

Resta comunque il fatto che, da secoli la guerra si fa non solo con le azioni e il confronto diretto, ma in varie forme e tipi, compreso quello per procura in cui dietro i belligeranti apparenti c’è una lotta di potenza tra quelli occulti, che sostengono, soprattutto sul piano economico, il proprio alleato. Richelieu finanziò la lotta antiasburgica dei protestanti per i primi diciassette anni della guerra dei trent’anni, prima d’intervenire direttamente, costretto dalla sconfitta disastrosa dei propri alleati a Nordlingen.

C’è da sperare quindi, dato questo (e altri) precedenti, che la Russia non vinca troppo. Soprattutto per non ringalluzzire i nostri guerrafondai.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Carlo Galli, Tecnica_recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Carlo Galli, Tecnica, Il Mulino, Bologna 2025, pp. 170, € 16,00.

Quali contemporanei ci confrontiamo quotidianamente con la tecnica – e ancor più col progresso tecnico – che ci cambia la vita sotto ogni aspetto. Dalla comunicazione alla salute, dalle abitudini al lavoro e al tempo libero.

Questo saggio ne cura in particolare uno, quello decisivo, il rapporto tra tecnica e potere e come quella condizionasse questo, agevolandone l’opera o sovvertendolo.

Partendo dalla sua ineluttabilità. Scrive l’autore che non vi è cura per la tecnica, perché fa parte del modo di esistenza umano, è un fare produttivo: “la tecnica costituisce l’essere umano e la stessa storia della specie umana, ma è anche capace di minacciare l’umanità”. Ciò perché è “neutra” nel senso che non determina i fini, ma è un mezzo: può servire a fare antibiotici come la bomba atomica: “La tecnica è indispensabile ma non è neutra, non può esserlo – e quindi non è possibile una tecnocrazia: il kratos non è della tecnica ma di chi la produce e la impiega. La tecnica è sempre trascinata all’interno di polarità e conflitti, storici ed intellettuali: fra politica e burocrazia, fra azione e fabbricazione, fra tradizione e progresso”.

Per orientarsi sul tema Galli propone due coordinate essenziali: la prima che la tecnica va pensata come azione orientata all’utilità, cioè al profitto e alla potenza; “La seconda è che il pensiero si forma attraverso il fare, che esige la relazione col pensato, ma al tempo stesso il pensiero trascende il pensato se non altro perché è capace di pensare sé stesso e la propria origine. Il pensiero non è disincarnato ma anzi è «concreto»”.

La connessone con la politica e l’economia fa si che ci sia sempre una politica (e una geopolitica) della tecnica. Perché nella tecnica “non c’è solo l’elemento strumentale: vi sono compresi anche il Saper fare, il Voler fare, il Poter fare. Ovvero, nella tecnica sono presenti fattori epistemologici, economici, politici”. La coessenzialità di tecnica e natura umana è nel costruire ma anche nel criticare, nel co-determinare le azioni umane; implica che la “tecnica è necessaria alla definizione dell’umanità, ma non è sufficiente. La ragione tecnica è un universale parziale, ovvero non è tutta la ragione: c’è un’eccedenza, ed è il pensiero che pensa quella ragione”.

Un pensiero interessato, ma non solo strumentale che ri-orienta l’azione. A questo è dedicato il terzo capitolo in cui Galli mostra “i molti modi con cui la filosofia ha messo in rapporto la tecnica, il sapere e l’agire, la realtà naturale e l’artificio, e con cui ha reagito alla moderna esondazione della tecnica, estesa a ogni ambito della società e delle mentalità”; con soluzioni che vanno “dal massimo di estraneità fra teoria e fabbricazione, quindi, fino al massimo di immanenza”. Il libro conclude con due tesi. La prima è che il dominio che si realizza “non è della sola tecnica come strumentale fabbricazione: è dominio di una forma concreta, storica, di combinazione fra sapere pratico, politica, economia, comunicazione. Quando ci accorgiamo di servire la tecnica e il suo nichilismo, o i suoi simulacri, possiamo quindi capire che stiamo servendo il profitto o la potenza di qualcuno: non è l’impersonale ma persone”.

La seconda, collegata alla prima è che così esiste “lo spazio della critica e la possibilità dell’agire politico, che vada al di là di quel fabbricare che ci sta fabbricando”. E Galli prosegue: “Quelle due tesi, combinate, sono insomma un invito alla «critica della tecnica»… Una critica realistica (un «realismo critico») che esige capacità di vedere le contraddizioni tra universalità e parzialità, fra progresso e dominio… la cui esistenza e consistenza è il vero problema – non tanto dalla tecnica quanto dalle coazioni del sistema sociopolitico di cui questa è l’espressione storica concreta”.

Due notazioni del recensore a margine di un saggio esauriente e attuale.

La prima: a differenza delle concezioni tecnocratiche, non c’è soluzione tecnica valida a prescindere dai fini cui è indirizzata. Cioè buona, auspicabile, voluta (da chi i fini determinava). Il che significa che i presupposti del politico (comando/obbedienza; pubblico/privato; amico/nemico) rimangono immutati e pure se condizionati dalla tecnica, non se sono detronizzati.

La seconda che perciò non c’è una tecnocrazia quale forma politica (come monarchia, aristocrazia, democrazia); c’è una conformazione dell’organizzazione pubblica alla novità delle situazioni, tra cui – numerosissime – quelle risultanti dallo sviluppo tecnico. La contraria convinzione già criticata da Croce con ironia è costantemente smentita dal fatto – peraltro energicamente sostenuto da Galli – che è sempre un “modello”, a servizio di un potere (a cui risponde). E che sotto una apparente oggettività finisce per conculcare la soggettività degli individui e delle loro formazioni sociali, con il tramonto di ogni libera prospettiva di piena comprensione di un mondo di cui questi abbiano “piena comprensione e responsabilità”.

Teodoro Klitsche de la Grange

Sempre i soliti, di Teodoro Klitsche de la Grange

SEMPRE I SOLITI

Le ultime occasioni di dibattito pubblico interno e cioè quella sulla patrimoniale e l’altra sulle esternazioni a tavola dall’on. Garofani hanno un carattere comune: di manifestare le costanti di comportamento del centrosinistra italiano. Di guisa da renderle verosimili, anche se non fosse stata (quella sulla necessità d’impedire la vittoria della Meloni alle prossime elezioni politiche) confermata dall’esternatore.

Cos’ha detto l’on. Garofani? A quanto si legge sui giornali che, a distanza di meno di due anni dalle elezioni non c’è tempo per trovare un candidato-premier idoneo, onde per battere la Meloni servirebbe “un provvidenziale scossone”.

Prospettiva preoccupante perché negli ultimi anni gli scossoni sono stati non dipendenti dalla volontà degli italiani e delle forze politiche nazionali, ma ricordano i quattro cavalieri dell’Apocalisse: la peste (il Covid); le guerre (Ucraina e Gaza), e queste due guerre ci hanno riportato la morte. Manca la fame, ma non è escluso che, con gli auspici dell’on. Garofani, non si rifaccia viva, per propiziare la fuoriuscita della Meloni. In fondo cos’è una piccola carestia, a fronte di un risultato così provvidenziale (per il centrosinistra)?

Che buona parte dei dirigenti pubblici nominati dai governi precedenti cerchino di sdebitarsi, remando contro il governo, e diventando così dei partisan (senza la bi) è evidente, ma conoscendo il dettato dell’art. 97 della Costituzione, cercano di farlo sotto traccia, senza chiacchiere da bar o da salotto.

Ai tempo della Riforma, si chiamava nicodemismo. Invece Garofani ha contraddetto questa prassi e il consiglio di Machiavelli di parere (e non di essere) buono, devoto, legale, legittimo, ma soprattutto imparziale come prescrive l’art. 97 della Costituzione.

Una delle conferme che può quindi trarsi da questa vicenda, del tutto in linea con i precedenti (i ribaltoni anti-Berlusconi del 1994 e del 2011) è che, come scriveva Pareto, le classi dirigenti in decadenza si servono più dell’astuzia che della forza: manovre di corridoio, inciuci, finti scandali e vere calunnie sono gli espedienti preferiti per mantenersi al potere. Ciò per compensare la riduzione del potere (e dell’esercizio della forza) conseguente allo scemante consenso dei governati.

In questo Garofani ha perfettamente ragione: una legge elettorale, abilmente sfruttata, può capovolgere i risultati di una votazione persa o dubbia. Come avvenuto nel 1996 e nel 2006.

Anche l’altro tormentone mediatico sulla patrimoniale è in linea col pensiero del P.D. e non solo, come detto, con quello comunista. Se così fosse, ci sarebbe meno da preoccuparsi, perché finito il comunismo non resterebbe che aspettare la fine delle conseguenze.

Ma purtroppo non è così, confermato dalle recenti vicende italiane e dal sistema fiscale la cui maggior imposta patrimoniale, cioè l’IMU, è stata decisa dal governo Monti, non comunista, anzi tutt’altro, “tecnico” e non “politico”. I cui mediocri risultati e le politiche che li hanno causati sono stati continuati dai governi di centro sinistra che li hanno fatti propri. Come ritenuto dal pensiero politico economico realista (e liberale) dell’ultimo secolo (abbondante) la finanza pubblica può essere predatoria, parassitaria o anche mutualistica.

Di tali tipi non ripeto i criteri distintivi, resta comunque la stretta vicinanza tra assetto predatorio e imposta patrimoniale accomunati dal fatto che come in quello lo sfruttamento dei governati è tale da intaccare la capacità contributiva in misura superiore al reddito ricavabile (e così peggiora la situazione economica dei sudditi); nella seconda, proprio perché rapportata al patrimonio e non al reddito la suddetta conseguenza è del tutto irrilevante sul gettito ricavato.

Quindi per le classi dirigenti una rendita assicurata che la sinistra giubilante associa alle solite belle parole come sempre proclamate perché nascondono pessimi comportamenti.

E proprio questa è la novità del caso Garofani (almeno): che pratiche del genere sono tenute rigorosamente riservate, e se possibile segrete. Mentre il consigliere del Quirinale le ha tranquillamente esternate in allegra compagnia: per un congiurato (lo si sarebbe chiamato, in altri tempi) atteggiamento quanto mai imprudente.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Sorteggio sì, sorteggio no!_di Teodoro Klitsche de la Grange

SORTEGGIO SI, SORTEGGIO NO

Tra gli argomenti addotti per rifiutare la recente riforma della giustizia con separazione delle carriere ce n’è uno particolarmente interessante: che il sistema elettivo del CSM garantiva la selezione dei migliori, mentre sorteggiarli significa affidarsi al caso; non è detto che quelli sorteggiati siano migliori di quelli scelti dal “corpo elettorale” (cioè dai componenti il collegio votanti).

In effetti l’uno e l’altro sistema sono considerati connotati l’uno (l’elezione) del principio aristocratico, l’altro (il sorteggio) da quello democratico.

Nel primo possono essere selezionate le capacità (e il comportamento) del candidato, nel secondo è esaltata l’eguaglianza tra gli elettori-candidabili. Come scrive Schmitt: “l’elezione può davvero creare un’autentica rappresentanza ed è quindi un metodo del principio aristocratico, se ha il senso di determinare la scelta dei migliori, se la direzione va dal basso verso l’alto, ossia gli eletti sono i più eminenti. Ma al contrario l’elezione può anche essere una mera nomina di agenti e rappresentanti di interessi. La tendenza va quindi dall’alto verso il basso, cioè l’eletto è un impiegato degli elettori, dipendente e subordinato… Nella determinazione mediante sorteggio l’eguaglianza è assicurata nel modo migliore, per quanto sia esclusa la possibilità di una distinzione secondo la capacità obiettiva”.

Il fatto che talvolta la nomina di magistrati fosse fatta con il metodo stocastico nelle antiche repubbliche, in particolare ad Atene e millenni dopo, a Venezia è dovuto probabilmente al numero dei componenti il collegio elettorale, di poche migliaia (al massimo decine di migliaia) per quelle antiche mentre è di parecchi milioni (o decine di milioni) per le moderne “democrazie rappresentative”, le quali sono un compromesso (status mixtus), coniugando elementi monarchici, aristocratici e democratici nell’ordinamento costituzionale.

D’altro canto il sorteggio, ancor più se accoppiato, come soprattutto a Venezia, dalla temporaneità delle cariche (spesso per pochi mesi) da incompatibilità, da divieti di nomine successive, oltre che derivare dal principio di uguaglianza, difende sia dal professionismo politico sia dalla bulimia del potere. Altro è il potere esercitato, come sta capitando in Italia per gli ultimi Presidenti della Repubblica, cioè per più di sette anni, altro quello dei componenti il Consiglio dei dieci di Venezia, sia per la brevità della carica, che per la rotazione dei capi, l’incompatibilità tra membri della stessa famiglia (e altro).

Nell’ordinamento pubblico italiano il sorteggio trova applicazione, anche se non diffusa, specie in uffici (e incarichi) amministrativi a carattere tecnico o con funzione di controllo quasi a sottolinearne l’aspetto tecnico o di verifica di conformità alla normativa.

Fa eccezione proprio l’amministrazione ella giustizia (anche se non è un’eccezione ampia).

Infatti il sorteggio è impiegato per la formazione delle Corti d’Assise e delle Corti d’Assise d’Appello, competenti a giudicare per le fattispecie delittuose più gravi, relativamente alla quota dei giudici popolari; il tutto avviene tra gli iscritti ad un albo che abbiano un certo grado d’istruzione. Ciò è un’attuazione dell’art. 102 della Costituzione sulla partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia.

Al vertice, e in tema di giustizia politica, è prevista l’integrazione della Corte costituzionale (ove debba giudicare  nei giudizi di alto tradimento e attentato alla Costituzione del Presidente della Repubblica) con sedici giudici sorteggiati da un elenco di 45 eletti, ogni nove anni, dalle Camere riunite. Giustificato dalla necessità di evitare un controllo preventivo e stretto sulla composizione del collegio giudicante.

Indubbiamente, più ancora nel caso delle Corti d’Assise la non professionalità del giudice popolare e sorteggiato non è stata ritenuta argomento sufficiente a contrastare le opposte considerazioni; anche se a sottoporsi al giudizio di giudici dalla ridotta perizia giuridica non è una prospettiva confortante per le parti del processo.

Nel caso del CSM tuttavia, essendo il Collegio da cui sorteggiare i candidati, composto  da funzionari dello Stato di elevata professionalità e selezionati per concorso, gli inconvenienti addotti sono meno rilevanti.
Va da se che comunque qualcuno rimane. Specie se come riteneva Schmitt il corpo elettorale seleziona i migliori non perché i più eminenti e preparati, ma perché i più adatti a rappresentare gli interessi della categoria; deviazione ricorrente nell’esercizio di ogni funzione pubblica.

Concludendo (ma l’analisi va rinviata ad un contributo più diffuso) occorre trovare (in parte già cennato nella legge de qua) le garanzie istituzionali della magistratura (e i diritti del singolo giudice conseguenti) non tanto nell’esterno – come per lo più nello Stato borghese – cioè tra poteri (come scriveva Montesquieu occorre che il potere arresti il potere), ma all’interno del potere stesso, come per l’appunto praticato nella Serenissima.

Teodoro Klitsche de la Grange

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La capra espiatoria_di Teodoro Klitsche del la Grange

LA CAPRA ESPIATORIA

Capita spesso di leggere sulla stampa e ascoltare in televisione che i risultati delle elezioni regionali stiano indebolendo la segreteria del PD. Questo perché la ormai (quasi) triennale  permanenza della Schlein non ha portato alcun significativo cambiamento nel consenso dei governati: il PD mantiene le posizioni, e la coalizione di governo anche: continuando, con tale andazzo, alle elezioni politiche prossime (salvo lo scioglimento del Parlamento)  nel 2027 il risultato sarà lo stesso delle ultime: maggioranza (confermata) al centrodestra. Secondo molti commentatori la prospettiva induce molti maggiorenti del PD a sostituire la (deludente) segretaria.

Non sono convinto che tale ragionamento sia corretto, e per due ragioni. La prima è che la difficoltà principale della Schlein e del PD non sono quelle che la stessa sbandiera a ogni piè sospinto, spesso smentite poco tempo dopo averle esternate.

In primis l’inadeguatezza del governo Meloni a gestire la situazione economica, l’imminente default (o simili) lo spread in agguato, ecc. ecc. Il fatto che da tre anni non sia successo nulla del profetizzato, anzi qualche giorno fa, si legge, l’Italia è tornata ad affacciarsi nella categoria “A” dei paesi debitori, per un governo dipinto come votato alla bancarotta, un risultato sorprendente. E assai migliore di quelli appoggiati dal PD, tanto osannati. E così per il resto: dalla tregua per Gaza dovuta all’amico Trump, della cui corte la Meloni farebbe parte (meglio, anche qua, un armistizio che un massacro ormai biennale); all’andamento dei flussi migratori (calati con i relativi naufragi e spese). Quasi in ogni campo risultati superiori a quanto realizzato dai precedenti governi appoggiati dal PD. Il fatto che il governo Meloni non sia come sostiene il PD, animato da buone intenzioni, non fa che confermare il vecchio detto che le vie dell’inferno (dei governati) è lastricata dalle buone intenzioni (dei governanti). Per cui a scegliere i malintenzionati spesso ci si indovina.

Ma non è questa la sola ragione delle difficoltà del P.D, e dei suoi segretari, così come dei loro omologhi di sinistra (???) negli altri Stati europei. I sistemi politici-partitici europei erano ordinati lungo l’asse destra/sinistra, a sua volta fondato sull’opposizione borghesia/proletariato. Ora largamente soppiantata da quella globalizzazione/sovranismo. Partiti come il PD, fondati sull’inimicizia calante, si trovano in crescenti difficoltà, dovendo nuotare contro corrente (della storia).

Pretendere che ne invertano il corso è chiedere il (quasi) impossibile. Tant’è che non c’è riuscito nessuno dei segretari frequentemente sostituiti negli ultimi (quasi) venti anni. Compresi i reggenti, siamo a 9, mentre il partito comunista dal 1943 al 1991 ne aveva cambiati 6 (durata media 8 anni). Si vede che il contesto era tutt’altro, a beneficio della durata delle leadership.

E di tutto ciò si pensa siano consapevoli i dirigenti del P.D. Onde far carico alla Schlein di non essere riuscita a fare quel che nessuno dei suoi predecessori aveva conseguito è profondamente errato. Nessuno di questi – a parte Renzi – in un’occasione aveva tirato il PD al di sopra del limite (superiore) del 30% dei votanti. Anche se nel 2008 la coalizione di centrosinistra riporti il 37,5% dei voti era per l’appunto una coalizione di più partiti di cui il PD era magna pars, ma non tutto. Nelle elezioni politiche del 2019 il PD conseguiva il 22,8% dei suffragi; nel 2022 il 19,07%.

I predecessori della Schlein non facevano quindi di meglio; anzi a sostegno della stessa, si può dire che i modesti risultati del PD governante non le sono ascrivibili, perché nei governi amici del PD non c’era lei, ma altri, compresi quelli pronti a silurarla.

Perciò se di sicuro la giovane segretaria non è un Bismarck o un Cavour, ma anche se ne avesse le capacità, non  ha la fortuna di tali grandi statisti: di essere spinti dall’onda lunga della storia. Con cui sarebbe più produttivo fare i conti.

Teodoro Klitsche de la Grange

Rudolf Von Jhering, La lotta per il diritto e altri saggi_a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Rudolf Von Jhering, La lotta per il diritto e altri saggi, Castelvecchi editore (traduzione di Roberto Racinaro, a cura di Pasquale Femia e Francesco Mancuso), € 21,00, pp. 254.

A leggere questa nuova edizione della traduzione (del 1989) di Roberto Racinaro di un classico del pensiero giuridico come Der Kampf um’s Recht occorre porsi alcuni interrogativi.

Il primo è: se il saggio di Jhering è uno dei libri giuridici più conosciuto (e pubblicato) degli ultimi centocinquant’anni, tradotto in una ventina di lingue, continuamente ripubblicato (Italia compresa) a che serve una nuova edizione? La prima risposta che si può dare è che i problemi lì affrontati (connaturati al diritto) sono  sempre attuali. Facciamo un esempio. Nelle prime edizioni del saggio, Jhering scriveva “Il concetto del diritto è un concetto pratico, cioè rivolto ad uno scopo, ma ogni concetto rivolto a uno scopo è configurato per sua natura dualisticamente, poiché racchiude in sé l’antitesi di scopo e di mezzo: non basta rendere noto semplicemente lo scopo, ma deve insieme essere fornito il mezzo, attraverso cui esso possa essere raggiunto”.

A chi rimproverava a Jhering di aver enfatizzato la litigiosità perciò rispondeva, nella prefazione del 1891 (non presente nell’edizione italiana precedente, neanche in quella del 1935, traduttore R. Mariano) “mi limito soltanto a rivolgere, a coloro che si sentono chiamati a farmi delle critiche, due preghiere. In primo luogo, che non facciano in modo di distorcere e snaturare le mie vedute, da farmi propugnare la lite e la lotta, l’amore di far liti e processi, mentre io non richiedo assolutamente la lotta per il diritto in ogni lite, ma solo là, ove l’assalto contro il diritto implica parimenti il dispregio della persona… L’arrendevolezza e lo spirito di conciliazione, la mitezza e la natura pacifica, la composizione amichevole e la rinunzia a far valere il diritto trovano anche nella mia teoria il posto che loro compete; ciò contro cui essa si pronunzia è unicamente l’umiliante tolleranza dell’ingiustizia che deriva da viltà, pigrizia, indolenza” e sottolinea il limite di opposte critiche “Cos’ha il dovere di fare chi si trova dalla parte del diritto, quando il suo diritto è calpestato? Chi può darmi al riguardo una risposta diversa dalla mia, ma tollerabile, cioè compatibile con il sussistere dell’ordinamento giuridico e con l’idea della personalità, mi ha battuto”; perché in attività (e problemi) pratici “per quanto riguarda i problemi puramente scientifici ci si può limitare a confutare semplicemente l’errore, anche se non si è in grado di sostituirvi la verità positiva, ma nel caso dei problemi pratici, ove è certo che un problema non può essere non trattato, e ove la questione è come debba essere trattato, non è sufficiente rifiutare come non giusta l’indicazione positiva data da un altro, ma la si deve sostituire con un’altra. Attendo che ciò avvenga riguardo all’indicazione da me fornita; finora, non sono stati compiuti in proposito neanche i primi passi”.

E nell’attualità abbondano quelli che Jhering chiamava i “Sancho Panza… i filistei del diritto”, ai quali conveniva l’espressione di Kant “chi si fa verme, non può lamentarsi se viene calpestato”: il  risultato delle loro condotte, di mancata coltivazione dei diritti soggettivi, è il venir meno del diritto oggettivo come il grande giurista ripeteva “La vita del diritto è lotta, una lotta dei popoli, del potere statale, degli individui.

Ogni diritto nel mondo è stato conquistato, ogni massima giuridica ha dovuto dapprima essere strappata con la lotta a coloro che le si opponevano, e ogni diritto, il diritto di un popolo come quello del singolo individuo, presuppone la disposizione continua alla sua affermazione. Il diritto non è un concetto logico, ma un concetto di forza… La spada senza la bilancia è la cruda violenza, la bilancia senza la spada è l’impotenza del diritto… Il diritto è un lavoro ininterrotto e cioè non è soltanto un lavoro che riguardi il potere dello Stato, ma tutto il popolo. L’intera vita del diritto, vista con uno sguardo d’insieme, ci offre l’immagine di un infaticabile lavorare e lottare… Ogni singolo che si trova nella situazione di dover affermare il suo diritto, svolge la sua parte in questo lavoro nazionale, offre il suo contributo alla realizzazione dell’idea del diritto sulla terra”. Che quello stigmatizzato da Jhering sia l’andazzo prevalente nell’Italia del XXI secolo è evidente.

La ripetuta formulazione di leggi che rendono difficoltosa e onerosa l’esecuzione di sentenze, soprattutto nei confronti delle pubbliche amministrazioni ne è la componente saliente. Così come è trascurato quello che sosteneva Jhering, che il diritto è un lavoro di tutto il popolo e non solo (e non tanto) del potere dello Stato. Tanto più quando questo è strumento per l’approvazione e il mantenimento di una classe dirigente decadente: e proprio perciò propensa, come scriveva Pareto, a far uso della furbizia piuttosto che della forza.

La seconda questione è la capacità di Jhering di coniugare versanti spesso contrapposti, o quanto meno distinti, in una sorta di complexio oppositorum e così diritto soggettivo ed oggettivo, forza e diritto, norma ed eccezione.

Lunità dei quali, o quanto meno la loro coincidenza e sinergia è trascurata o negata.

Gli è che Jhering come scrive in “Das Zweek im Recht” ritiene che scopo del diritto sia la vita (collettiva ed individuale) e in ciò manifesta molti punti di contatto con altri giuristi, a cominciare da Hauriou e Santi Romano. E’ un vitalismo giuridico che vede nella norma lo strumento dell’ordine della (e nella) vita comunitaria (come nella metafora della scacchiera di Romano).

Un cenno, prima di terminare queste note. Jhering rileva che nel “Mercante di Venezia” Shylock lotta per il proprio diritto, che è, a un tempo, quello di Venezia, come afferma il mercante. A fronte di tale domanda “Il giudice aveva l’alternativa di ritenere valida oppure non valida la cambiale”. Tuttavia “dopo che è stata pronunciata la sentenza del giudice, dopo che è stato fugato dal giudice stesso ogni dubbio sul diritto dell’ebreo, non si osa più contraddire tale  diritto… lo stesso giudice, che ha riconosciuto solennemente il suo diritto, glielo rende vano con una scusa, con una malizia così meschina e vergognosa, che non merita alcuna seria critica… egli deve prendere soltanto carne senza sangue e deve tagliare solo una libbra determinata, né più né meno”.

Porzia così vanifica il diritto di Shylock non con l’argomento forte della nullità del contratto per “illiceità della causa” (o illiceità in genere) ma con un espediente da causidico di mezza tacca. E, nell’opera di Shakespeare, anche il Doge ritiene di non poter cambiare la legge di Venezia e la sentenza che la applica. In un altro capolavoro teatrale come il Tartuffe di Molière, la conclusione è inversa, perché il rapporto tra legge ed autorità politica è cambiato. Nello Stato  assoluto di Luigi XIV è l’occhio vigile del Sovrano, il quale cassando la sentenza pronunciata legalmente dai giudici (ingannati da Tartuffe) salva Orgon e la sua famiglia. Ma lo fa senza espedienti, senza ipocrisia, sicuro della propria autorità e decisione.

Come scrive Schmitt a proposito dell’Amleto, in Shakespeare c’è una rappresentazione pre-statuale (cioè pre-moderna) della realtà mentre nella commedia di Moliére, c’è un nuovo protagonista: la monarchia assoluta. E di conseguenza lo Stato sovrano, il quale oggi appare in calo di sovranità (e abbondanza di espedienti).

Teodoro Klitsche de la Grange

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L’ODIO E IL NEMICO, di Teodoro Klitsche de la Grange

L’ODIO E IL NEMICO

Nel prologo del dramma di Montherlant “La guerre civile”, questa, presentandosi, dice “Sono la guerra della piazza inferocita, la guerra delle prigioni e delle strade, del vicino contro il vicino, del rivale contro il rivale, dell’amico contro l’amico. Io sono la Guerra civile, io sono la buona guerra, quella dove si sa perché si uccide e chi si uccide: il lupo divora l’agnello, ma non lo odia; ma il lupo odia il lupo”. Già Clausewitz, col Vom Kriege aveva individuato, anche nella guerra tra Stati lo spazio  per l’odio nel sentimento ostile che s’accompagna, ma non sempre, a molte guerre internazionali, mentre ad ogni guerra è connaturale l’intenzione ostile.

Nel dibattito sull’assassinio di Charlie Kirk l’odio ha avuto un posto rilevante: e non pare che l’abbia occupato abusivamente, almeno a seguire la tesi di Montherlant. Quel che consegue da questa e dall’opinione di Clausewitz è che non è un elemento necessario in tutte le guerre onde ve ne sono state condotte senza odio: nel libro (postumo) che raccoglie scritti di Rommel, il titolo era Guerra senza odio, riferendosi a quella praticata dal generale tedesco.

Ma non è così per le guerre civili: la coesione in un gruppo sociale, e così in un popolo, presuppone una certo tasso d’amicizia che valga a co-fondare l’unità politica con l’idem sentire de re-publica; se questo non c’è o è carente, i contrasti d’interesse, volontà, opinioni diventano determinanti e corrodono l’unità politica, fino (talvolta) a sfociare nelle guerre civili.

Il carburante principale delle quali è l’odio, come ritenuto da Montherlant.

Una delle caratteristiche di quello contemporaneo è che divide le comunità in senso orizzontale: da una parte le élite e il loro seguito, dall’altra  la  parte maggioritaria o comunque in crescita dei governati.

Resta il fatto che, almeno in unità politiche con popolazione omogenea, quindi tale per lingua, religione, costumi, storia (e gli altri “fattori” indicati da Renan) occorre (creare, o) aumentare divisioni esistenti in grado di detronizzare quella principale a fondamento dell’unità politica. Ove non si può contare su differenze reali o almeno decisive, occorre lievitarle di guisa da creare un (nuovo) nemico che abbia la conseguenza, naturale in ogni conflitto, di rinsaldare la coesione del gruppo sociale che a quello si oppone. A portata di mano, per realizzare tale operazione, c’è l’intensificare l’odio al nemico scelto. In mancanza di differenze reali si corre così il rischio di crearne di immaginarie.

Una variante delle quali è di identificare il nemico quale nemico dell’umanità o di caratteristiche umane (vedi i “diritti umani”) come sottolineato già un  secolo fa da Carl Schmitt; a cui non erano estranei neppure i nazisti quando consideravano i popoli dell’Unione Sovietica degli untermenschen, cioè sotto-uomini, destinati a estingursi o a servire quello tedesco. Molto meglio per assicurare la pace e l’intesa tra popoli la concezione (e la prassi) romana che gli stranieri non erano così diversi (alienigeni) dai romani  da non potersi accordare in una pace e una coesistenza concorde e nel comune interesse.

Per cui l’odio è un moltiplicatore dei conflitti, se rivolto a creare nemici all’interno dell’unità politica, inversamente proporzionale alla coesione e potenza della stessa, nei conflitti internazionali, può diventare un elemento di coesione, ma non (o poco) controllabile.

Teodoro Klitsche de la Grange

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