LA GUERRA DEL CABLAGGIO, di Pierluigi Fagan

Nella storia culturale, come in quella personale, a volte c’è chi nota come dopo che si è formata una semplice idea -chiara e distinta” (avrebbe detto Cartesio)- è incredibile pensare al perché non ci avevamo pensato prima. Cos’è che ci impedisce di pensare ad una idea e cos’è che ad un certo punto ce lo permette magari dopo molto rovello? Per rispondere dobbiamo scendere in sala macchine.

Sala macchina qui è metafora, si poteva anche dire sottoterra dove ci sono le radici o altro esempio in cui un effetto viene da una causa. La sala macchine della mente è il cervello. Nel cervello ci sono solo cellule nervose (tutte uguali per funzionamento, non per forma e funzione) e loro filamenti con cui le cellule di connettono. Queste connessioni sono di due tipi: a breve raggio e si chiamano dendriti (diverse migliaia per cellula) ed a lungo raggio (solo una per cellula e si chiama assone). Nei dendriti viaggiano sostanze chimiche, negli assoni impulsi elettrici. La cosa sorprendente del cablaggio generale è che, contrariamente a quanto ci venga immediatamente da pensare, tali connessioni non sono di contatto. I dendriti non si allacciano ad altri dendriti ma arrivano a sfiorarsi come nell’attimo prima del bacio. In quel momento, dalla boccuccia di un dendrite escono delle sostanze chimiche che la boccuccia del dendrite dell’altra cellula risucchia. La questione si basa sull’imprecisione perché solo l’imprecisione è adattativa, è predisposta al cambiamento. Il genio è uno che cabla a modo suo, se è funzionale è riconosciuto tale se è disfunzionale lo diciamo affetto da qualche patologia psichica.Così funziona il cervello (be’ poi c’è anche dell’altro ma insomma, questa è la prima cosa di cui tener conto, ai nostri fini).

Un’idea quindi è il funzionamento sincronico di un grumo di cellule nervose attivato da una rete di connessioni tra loro. Prima di pensare quell’idea il sistema del grumo di cellule non è cablato completamente o per niente, dopo si e lì c’è l’eureka! Una singola idea poi può stare in un sistema di idee ed il sistema di idee è quello che a volte permette o a volte impedisce di pensare quella idea. E’ una faccenda fisica, alla base. Ci mettiamo parecchio tempo a capire una idea o a farsela venire o a trarne conseguenze perché ci mettiamo parecchio tempo a cablare tra loro alcune cellule.

Michel de Montaigne, pensatore nel XVI secolo, filosofo guida di un altro filosofo Edgar Morin, diceva che: è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena. Qui siamo nel campo dei sistemi di idee ma i sistemi in fondo sono fatti di idee e connessioni tra loro quindi il principio è attinente anche al nostro discorso. L’eureka! quella improvvisa gioia del pensiero che sopravviene ad un certo punto, sembra essere come una abbondante eiaculazione sincronica di cellule interconesse che finalmente hanno trovato il loro sistema di funzionare assieme. E’ per questa ragione fisica che ci mettiamo tanto ad apprendere, a pensare, a chiarirci le idee per formularle con chiarezza. Ad esempio come quando un pensatore pensa e ripensa a lungo lo stesso concetto (magari per anni) e solo dopo molto armeggiare, trasforma l’iniziale intuizione circondata di confusione, in una frase distinta e ben collocata in un sistema di idee/discorso. E’ per questo che a volte si dice che un pensatore -in fondo- scrive e riscrive sempre lo stesso libro. E’ una pura faccenda di cablaggio (a livello di sala macchine) che fa sì di aver trovato la forma più semplice e pulita per esprimere l’idea. Un primo livello per pensarla, una secondo per comunicarla.

Poi da lì iniziano fasi successive del lavoro cognitivo: collocarla dentro altri sistemi di idee, trarne deduzioni-induzioni-abduzioni, renderla non contraddittoria con altre o col sistema di idee (o dei valori o di altri giudizi), etc. Lavoro e tempo per espletarlo, sembra esser questa la regola per pensare, almeno la prima, la pre-condizione di possibilità di tutti i successivi passi. Chiedete ad una giovane mamma del disagio psichico provato per via del fatto che tutto il giorno, tutti i giorni dei primi anni di un figlio da poco partorito, il cervello è costantemente impegnato sul suo fuori e non ha tempo per il suo dentro. Provate a non dormire ovvero permettere la pulizia delle tante connessioni inutili che si sono formate durante il giorno. Provate ad aver idee chiare e distinte alle 7.00 di mattina e poi provate alle 23.00.

La questione mi veniva in mente prendendo il caffè con la mia signora stamane. “Learning activism” diceva lei potenziata dalla facilità con cui i madre lingua inglese giungono felicemente e sintesi, a volte anche troppo facilmente (ogni facoltà ha il suo rovescio della medaglia ed ogni lingua ha le sue facoltà). Effettivamente, pensando alle tante cose del nostro mondo che non vanno come ci piacerebbe andassero e di contro, alla nostra triste condizione di atomi sociali (ma la metafora qui è sbagliata poiché gli atomi, come le cellule, sono tutti ontologicamente predisposti alla reciproca interrelazione secondo regole ma anche secondo possibilità) o meglio -monadi sociali- (le monadi sono atomi a cui sono state potate le connessioni ed in natura non esistono), registriamo la difficoltà al fare qualcosa di politico che abbia effetto sul reale e concreto.

Ma qualcosa possiamo ancora fare. Il “learning activist” (che non è l’info-activist) per esempio. Molti di noi, espletano la funzione attiva a modo loro, scrivendo, commentando, facendo replay di cose scritte o dette da altri. Anche nel reale, il “fare politica” ebbe il suo tempo per modellarsi. Sindacati, partiti, movimenti non si formarono facilmente nella storia, letti “dopo” ci sembrano fatti naturali ma anche lì, ci furono molti tentativi ed errori prima di giungere a “modi effettivi condivisi ed efficaci”. I comunisti vennero dai socialisti ed i socialisti assieme ai democratici venivano dalle sette “carbonare” prima di salire sulle piazze. Manifesti, comizi, dibattiti, manifestazioni, scioperi, agitazione sociale, furono il risultato di questi tentativi ed errori. Ogni azione ha i suoi fini e dai fini trae le regole per esser espletata al meglio.

Quindi anche per il “learning activist”, si tratta di riflettere meglio (con tempo e lavoro per espletarlo, da solo ma anche in compagnia) sul come render più efficace l’azione. L’azione di condividere idee ma anche aiutare la formazione di idee, la sostituzione di idee sbagliate o fuorvianti, la messa a sistema di idee isolate, la convergenza di idee e sistemi di idee con altri, la comunicazione di idee, la formazione e modellamento dell’intelligenza collettiva.

Forse è questo un mondo, un modo, che dovremmo esplorare meglio. C’è grande impegno da parte dei soliti noti per non darci tempo e modo di pensare, per farci pensare in un certo modo. C’è una vera e propria centrale di produzione di concetti che poi ordinano il dibattito pubblico con molti di noi che gli va anche appresso pensando di doverli criticare, ma anche solo accettare un concetto per poi criticarlo è dargli legittimità di idea, idea che poi condiziona sistemi di idee. Spesso, per pura eterogenesi dei fini, è perdere la partita prima di scendere in campo a giocarla, è aprire i portoni di Troja per far entrare il cavallo. La “società dell’informazione” provoca apposta overdosi informative per non farci trasformare l’informazione in conoscenza. Ci riempie la testa apposta perché questa non sia ben fatta.

C’è da farci una riflessione sul come possiamo esser “learning activist” più efficaci. Per cambiare lo stato di cose, tocca cambiare le menti, aiutare i cervelli a muovere dendriti e sinapsi, le nostre e di chi ci sta accanto, off line ed on line. C’è da esplorare un modo per poterlo fare di più e meglio, ognuno per come può, assieme per provare a cambiare qualcosa. C’è da combattere meglio la guerra per il cablaggio.

tratto da https://www.facebook.com/pierluigi.fagan/posts/10219250709514118