IL PIZZO DI STATO, di Teodoro Klitsche de la Grange

IL PIZZO DI STATO

Qualche giorno orsono, accendendo la televisione, mi è capitato di sentire un’omelia scandalizzata di un noto giornalista contro la Meloni che avrebbe qualificato “pizzo di Stato” le sanzioni, interessi e così via, applicate in caso di ritardo nel pagamento delle imposte (ovvero il pagarne troppe – non ho avuto occasione di ascoltare il discorso della Presidente).

Subito si è destato il solito coro (per lo più) dei burosauri  di regime i quali, con toni e argomenti            spazianti da quelli dell’agit-prop (post-moderno, cioè dell’epoca della globalizzazione) a quelli di un prefetto o generale ultraottantenne in pensione hanno stigmatizzato la carenza di senso dello Stato e di sensibilità sociale (???) della Meloni.

Vediamo un po’ se tanto sdegno trova fondamento nel pensiero politico e nella dottrina dello Stato moderno, quello che i parrucconi dicono di voler difendere chiamandolo “Stato di diritto” (e distorcendone il concetto).

Pizzo di Stato presuppone che: a) chi te lo chiede sia assimilabile a un criminale o brigante; b) che la richiesta sia ingiusta. A tale riguardo il primo (ma non è statisticamente “il primo”) a chiamarlo è stato Sant’Agostino – il quale si chiede (domanda che è già una risposta) “cosa sono gli Stati senza la giustizia se non grandi associazioni a delinquere?” (magna latrocinia). Qualche decina d’anni dopo un altro scrittore ecclesiastico, Salviano di Marsiglia, attribuiva alle malefatte del governo imperiale e all’avidità della burocrazia e del fisco decadenza e (prossima) caduta dell’Impero romano d’occidente (scusate se è poco…)[1].

Nel secolo successivo lo (pseudo) Procopio di Cesarea con la “Historia arcana” offre un quadro dettagliato delle ruberie e malefatte del governo di Giustiniano (dall’imperatore in giù). Non parliamo dei secoli successivi per non annoiare il lettore: facciamo presente che per l’alto medioevo la difficile reperibilità dei contributi sul “pizzo” è dovuta più che alla condivisione della concezione contraria (quella dei parrucconi) alla decadenza letteraria dell’occidente latino (anche se quanto a governanti delinquenti gli esempi non mancano). Arrivando all’età moderna e alle rivoluzioni borghesi il “pizzo di Stato” è il leitmotiv dei grandi rivolgimenti politici: ship money, no taxation without representation, deficit, sono le sintesi delle rivoluzioni.

Come i rivoluzionari consideravano la burocrazia, tra i tanti ricordiamo Saint-Just il quale nel rapporto presentato alla Convenzione a nome del Comitato di salute pubblica il 19 vendemmiaio dell’anno II scrive: «Tutti coloro che il governo impiega sono parassiti; … e la Repubblica diventa preda di ventimila persone che la corrompono, la osteggiano, la dissanguano». Tutt’altro che dato per scontato, il fatto che l’amministrazione agisca realmente per l’interesse generale è problematico; e conseguentemente le somme prelevate possono (almeno) diventare retribuzione per parassiti di Stato (pubblici e privati). La scienza della finanza italiana, a partire da Maffeo Pantaleoni per arrivare a Cesare Cosciani, distingueva diversi assetti della finanza pubblica (tra governanti e governati) come mutualistico, parassitario e predatorio a seconda della quantità, utilizzazione (e risultati) del prelievo fiscale.

Non mi risulta che quando Giustino Fortunato scriveva che la legge fondamentale del funzionamento della burocrazia italiana era l’inverso di quella di Carnot; ovvero che tutta l’energia prelevata doveva essere consumata per il sostegno e il frazionamento della macchina amministrativa (cioè in stipendi, gettoni, contributi, pensioni, missioni ecc. ecc.) e il minimo reso in servizi al contribuente, fosse mai stata oggetto di tanto sdegno, Né lo sia stato don Sturzo, il quale giudicava così la “costituzione più bella del mondo” «Purtroppo di statalismo, l’attuale schema di costituzione puzza cento miglia lontano» e molte norme «invocano l’intervento dello Stato ad ogni piè sospinto, e risolvono tutti i più assillanti problemi con il rinvio all’autorità, all’ingerenza e alle casse dello Stato». A fronte di Fortunato, Sturzo e di tutti gli altri che condividevano il loro giudizio realistico, la Meloni, con il suo “pizzo” e la volontà di riscrivere la Costituzione, appare una moderata.

E lo stesso risulta a considerare quanto scrivevano i teorici dello Stato di diritto moderno.

A citare per tutti questo se pensavano gli autori del Federalista: ossia che se gli uomini fossero degli angeli, di governi non ce ne sarebbe la necessità; e se fossero angeli i governanti, neanche servirebbero i controlli sui governi.

Ma dato che di angeli in giro non se ne vedono, sono necessari sia i governi che i controlli sugli stessi. Invece per i parrucconi tecno-burocrati, chi insinua che imposte ed accessori siano la mangiatoia di interessi e clientele tutt’altro che sollecite del bene comune (ossia che il governante non è, come la moglie di Cesare, al di sopra di ogni rispetto) bestemmia e merita l’anatema da cotanti sant’uomini.

Come scriveva Gogol nell’ “Ispettore generale” il giudizio dei parrucconi su chi la pensa come (anche) la Meloni è quanto uno dei personaggi dice parlando dell’autore della commedia «Ma che razza di uomo è? un… un..,. un… non c’è nulla di sacro, per lui! Oggi sparla d’un consigliere, mettiamo, e domani verrà fuori a dire che Dio non esiste. Il passo  è breve».

Giudizio che avrebbe condiviso, tra i letterati, il nostro Giusti col suo Gingillino ed il suo credo nella Zecca onnipotente.

Sacralizzare il prelievo fiscale e l’uso che se ne fa, è materia per facile ironia. Ben vengano una, cento, mille Meloni a demistificarlo, laicizzarlo e (speriamo) a ridurlo.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Giova riportare qualche breve passo di Salviano: «Ci sono forse non dico città, ma anche municipi o villaggi, dove tutti quanti i decurioni non siano altrettanto tiranni?… Nessuno, pertanto, è al sicuro… si salva dalla razzia di quei ladri che ti spolpano, a meno che uno sia un pirata loro pari. Si è arrivati a questa situazione, o meglio a questo livello di criminalità, che uno non ce la fa a cavarsela se non è un brigante pure lui». I governanti « con la scusa dell’esazione delle imposte, hanno dirottato queste imposte a profitto personale e hanno fatto delle tasse straordinarie un bottino privato… li hanno spolpati; si sono pasciuti non solo dei loro beni come normalmente fanno i ladri, ma anche del loro sangue dopo averli ammazzati».

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CICERONE VOTA LEGA, di Teodoro Klitsche de la Grange

CICERONE VOTA LEGA

L’approvazione delle nuove norme sulla legittima difesa ha provocato una (scontata) serie di reazioni da parte del centrosinistra (e alleati).

La prima è che la riforma riguarda pochi casi, ed è quindi irrilevante. Sono d’accordo sul punto: i casi sono relativamente pochi (ma comunque non vanno dimenticati) e soprattutto meriti e demeriti di questa maggioranza dovranno valutarsi in altri ambiti.

La seconda che Salvini avrebbe una mentalità da sceriffo del Farwest: rozzo, ignorante e violento. La predilezione per l’uso delle armi e l’autodifesa denoterebbe addirittura una sottovalutazione dello Stato E perché? Perché facilitando i cittadini a difendersi da soli andrebbe a confliggere con la funzione dello Stato che è quella di dare protezione ai diritti (in primis, quello alla vita) di tutti i componenti la comunità. Ossia trascurerebbe (almeno) quattro secoli di Stato moderno che tra tutte le sintesi politiche è quella che più ha enfatizzato (e strutturato) detta funzione. Con ciò Salvini è dai politici ed intellos bocciato.

Ma è proprio vero che la legittima difesa è così in contrasto alla concezione dello Stato e che coloro che se ne sono occupati erano dei rozzoni dal modesto quoziente d’intelligenza? A fare qualche riscontro pare proprio di no.

Cominciamo da Cicerone. Questi difendendo Milone fece la più grande difesa dell’istituto. Definì legge naturale il diritto di difendersi “Esiste dunque, o giudici, una legge non scritta ma naturale, da noi né appresa né ereditata né letta, ma attinta dalla natura stessa, una legge che conosciamo non per insegnamento ma fin dalla nascita, non per educazione ma per istinto”, e la legge naturale (nel De re publica) per il grande oratore era “conforme alla natura, la si riscontra in tutti gli uomini; è immutabile ed eterna”; a questa “non è lecito apportare modifiche né toglierne alcunché né annullarla in blocco, e non possiamo esserne esonerati … non sarà diversa da Roma ad Atene o dall’oggi al domani, ma come unica, eterna, immutabile legge governerà tutti i popoli ed in ogni tempo”. Questa legge è naturale perché conforme alla natura umana; è immutabile ed eterna e non dipende dalle decisioni di chi detiene il potere. Essendo, nel caso sia in pericolo la vita, l’unica possibilità di conservarla è rapportabile al conatus di Spinoza, per cui ogni vivente tende a “in suo esse perseverari”, ossia a conservare la propria esistenza.

Se poi passiamo al filosofo che più ha teorizzato lo Stato moderno e la funzione di protezione del potere politico, cioè Hobbes, il quadro non cambia. Il filosofo scriveva che né l’uomo può rinunziare a difendere se stesso, né il sovrano può pretendere l’obbedienza ad un tale precetto; così il suddito ha diritto, nel caso, a rifiutare obbedienza. E potremmo continuare ad elencare le legislazioni, le più varie, le quali, per quanto se ne sa, non dispongono di porgere l’altra guancia, ma, per continuare con Cicerone a legittimare che, in casi estremi, vim repellere licet. Perché in sostanza sono quei casi in cui non è possibile al sovrano assicurare protezione. Ed è tragicamente comico che un uomo, minacciato da energumeni armati, li possa fermare minacciandoli di “fargli causa”. Neppure i teologi cristiani pretendono ciò: resistere o non resistere è una scelta morale, ma difendersi è un diritto.

Anzi secondo taluni, come Jhering, chi difende il proprio diritto è un buon cittadino, perché collabora (attivamente) all’attuazione del diritto oggettivo.

C’è da chiedersi per quale ragione, a parte la evidente necessità di propaganda, in certi ambienti politici si sostengano tesi così contrarie a qualche millennio di pensiero e così ragionevoli (se non razionali).

Probabilmente perché – per un vizio congenito della “sinistra” – questa ha l’abitudine di paragonare la realtà socio-politica non con altre realtà ma con le proprie idee e aspirazioni. Raffronto cioè tra realtà ed immaginazione, in cui questa è sempre vincente proprio perché svincolata dal “fattuale”, ossia dal concreto. Non conoscendo la fantasia i limiti della realtà, è possibile fantasticare di mondi e società perfetti dove gli uomini si vogliono tutti bene, oppure in cui lo Stato è così efficiente da impedire il compimento di qualsiasi delitto. Come in un film di fantascienza di successo, dove il tutto era affidato a mutanti con capacità di pre-cognizione (cioè da profeti); gratta, gratta si parte dal rivendicare utopie come “ragione” e si finisce per affidarsi a Nostradamus o alla Sibilla. Cioè a film, maghi, indovini (e ciarlatani). Diversamente da Cicerone, Hobbes e gli altri che si accontentavano della ragione umana e della realtà dei fatti.

Teodoro Klitsche de la Grange