IL DISADATTAMENTO DELLE ELITES OCCIDENTALI. Intervista a Roberto Iannuzzi

 

Il sito italiaeilmondo.com ha iniziato a rivolgere quattro domande a Aurelien[1], e continua a proporle, identiche, a diversi amici, analisti, studiosi italiani e stranieri.

Oggi risponde Roberto Iannuzzi, che ringraziamo sentitamente per la sua gentilezza e generosità. Roberto Iannuzzi è stato ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). Il suo ultimo libro, Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo, è uscito nell’aprile 2017.

Qui il collegamento con la raccolta di tutti gli articoli sino ad ora pubblicati_Giuseppe Germinario, Roberto Buffagni

 

1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

Per comprendere quali sono state le ragioni degli errori occidentali (e bisogna distinguere quelli americani da quelli europei) nella crisi ucraina, è necessario partire da una premessa: l’Occidente attraversa una profonda crisi politica, economica, sociale e culturale, il cui spartiacque è rappresentato dal tracollo finanziario del 2008. Se l’11 settembre aveva segnato la crisi “culturale” (se mi si passa il termine) della globalizzazione nell’era unipolare americana, allorché l’omogeneizzazione senza precedenti imposta dal modello globalizzato occidentale aveva ceduto il passo alla logica dello “scontro di civiltà”, il tracollo finanziario del 2008 ha fatto emergere le gravi crepe presenti nelle fondamenta economiche di tale modello. Gli americani escono da quella crisi non solo con una credibilità a pezzi – agli occhi soprattutto del mondo non occidentale – riguardo al loro sistema finanziario ed al modello di globalizzazione da essi propagandato, ma anche con due guerre enormemente dispendiose e fallimentari alle spalle, in Iraq e Afghanistan. È l’eredità dell’era Bush, anche se la crisi ha radici più lontane. Da quel momento in poi, due dinamiche prendono corpo: da un lato il dibattito serrato, quasi ossessivo, all’interno dell’establishment USA su come ristabilire la credibilità ed il prestigio americano a livello internazionale. Dall’altro, il “risveglio” del cosiddetto “Sud del mondo”, il mondo non occidentale, trainato in gran parte dalla Cina. Pechino comincia a concepire un progetto per emanciparsi dalla dipendenza da Washington, che ormai viene vista più come un rischio che non come un vantaggio. Da qui prenderanno corpo i BRICS (alla cui nascita la Russia dà un contributo chiave, avendo già compreso con Primakov, alla fine degli anni ’90, di poter sopravvivere solo in un mondo multipolare), la via della seta, e le altre strutture del nascente multipolarismo. Nel frattempo a Washington, la presidenza Obama, che avrebbe dovuto essere quella del riscatto, si risolve in un fallimento. Obama dapprima annuncia il “pivot” verso l’Asia, cioè il ridispiegamento della parte più consistente delle forze navali USA nel Pacifico per contenere la Cina, e lancia l’idea di due gigantesche aree di libero scambio – la Trans-Atlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) e la Trans-Pacific Partnership (TPP) – per isolare Russia e Cina. Quello di Obama è di fatto il primo tentativo americano di smontare la globalizzazione nella quale gli USA non riescono più a primeggiare. Poi però, il presidente che doveva risollevare l’America, “stuzzicato” dalle rivolte arabe del 2011, si lascia “risucchiare” ancora una volta in guerre infruttuose e fallimentari in Medio Oriente, in particolare in Libia e Siria. Soprattutto questo secondo conflitto sarà causa di pericolose tensioni sul terreno, e di aspri confronti in sede ONU, con la Russia. Il pivot verso l’Asia, e le due aree di libero scambio nell’Atlantico e nel Pacifico, resteranno sulla carta. Sotto Obama abbiamo però anche il culmine dell’annoso processo di infiltrazione americana dell’Ucraina, in particolare tramite il costante sostegno statunitense ai nazionalisti del paese, con la rivolta di Maidan nel 2014 (scoppiata naturalmente anche per ragioni economiche e sociali) pesantemente appoggiata dagli USA. Basti ricordare le immagini di Victoria Nuland e John McCain nelle strade di Kiev. Il rovesciamento del presidente ucraino Viktor Yanukovych, e l’insediamento a Kiev di un governo nazionalista e violentemente antirusso, costituiscono il prologo indispensabile per comprendere l’attuale conflitto in Ucraina. La presa della Crimea da parte della Russia e lo scoppio della guerra civile in Donbass, dove il nuovo governo non viene riconosciuto, ne sono la prima conseguenza. Dopo le iniziali avvisaglie avutesi con il conflitto siriano, Maidan 2014 segna il riacutizzarsi di una guerra fredda fra USA e Russia che per gli angloamericani non si era mai realmente conclusa. Il rifiuto di accogliere Mosca, dopo il crollo del muro, in una comune architettura di sicurezza europea, in primo luogo a causa del veto di Washington e Londra, ha progressivamente trasformato i paesi dell’Europa dell’Est, tramite la continua espansione della NATO, nel fronte di un nuovo conflitto con l’erede dell’Unione Sovietica. La brama dell’establishment americano di ristabilire il “primato” degli USA, dopo la drammatica crisi del 2008, ha contribuito ad infiammare questo fronte mai realmente pacificato. Una costante del dibattito interno statunitense dopo il 2008 è stata infatti il dilemma riguardo a quale avversario affrontare e contenere prima: disimpegnarsi dal Medio Oriente o no? Affrontare prima la Russia o la Cina? Dopo la parentesi imprevista della presidenza Trump, manifestatasi proprio a causa del fallimento di Obama anche sul fronte interno, con Biden il confronto con la Russia riacquista la precedenza, mentre quello con la Cina, avviato dalla guerra dei dazi promossa dal suo predecessore, rimane principalmente sul piano delle contromisure economiche. Fin dal tentativo americano di isolare Mosca sia politicamente che economicamente, attraverso l’imposizione delle prime sanzioni, nella crisi internazionale seguita a Maidan 2014, si comprende qual è l’obiettivo di Washington: porre fine alla progressiva integrazione economica fra Russia ed Europa, riconducendo gli europei ad una più stretta fedeltà e dipendenza dall’alleato statunitense. Tale integrazione costituisce infatti un tassello essenziale della più vasta integrazione eurasiatica che rappresenta la principale minaccia al primato americano a livello mondiale. Appena entrato alla Casa Bianca, Biden dà nuovo impulso alla penetrazione della NATO in Ucraina, mai realmente interrottasi dal 2014 attraverso esercitazioni militari congiunte, invio di armi all’esercito ucraino, costruzione di basi navali e fornitura di navi da guerra compatibili con gli standard NATO, sostegno logistico e di intelligence alla campagna militare di Kiev nel Donbass. I preparativi ucraini per un’offensiva militare finalizzata a riguadagnare definitivamente il controllo sul Donbass, e la firma, nel novembre 2021, di una Carta di partnership strategica da parte di Washington e Kiev, che prevedeva fra l’altro l’impegno a ristabilire la “piena integrità territoriale” ucraina (inclusa la Crimea), sono gli ultimi elementi che probabilmente hanno spinto Mosca a ritenere che una guerra fosse inevitabile. Questa lunga premessa sulle fasi storiche che hanno preceduto lo scoppio del conflitto dovrebbe far comprendere, in primo luogo, che lo slogan occidentale della “aggressione non provocata” da parte di Mosca è in realtà un mito privo di fondamento. Un mancato intervento militare da parte del Cremlino avrebbe infatti potuto portare non solo alla totale sottomissione del Donbass, ma anche alla successiva perdita della Crimea e di Sebastopoli, dove risiede la base navale (per Mosca insostituibile) che ospita la flotta russa del Mar Nero. Temporeggiare ulteriormente avrebbe dunque potuto comportare per Mosca l’estromissione di fatto dal Mar Nero e la trasformazione dell’Ucraina in un paese completamente integrato con la NATO, che a quel punto sarebbe potuto diventare membro effettivo dell’Alleanza, eventualmente schierando missili in grado di raggiungere Mosca in 4-5 minuti. Un esito inaccettabile per la Russia qualora non avesse voluto rassegnarsi al proprio inarrestabile declino. Del resto Washington era consapevole del fatto che la Russia sarebbe probabilmente intervenuta, poiché Mosca aveva tentato un ultimo approccio diplomatico nel dicembre 2021, presentando ai negoziatori USA un trattato vincolante, di fatto una sorta di ultimatum, che la Casa Bianca rifiutò. Da ciò segue che i decisori politico-militari occidentali – in particolare quelli americani – dovevano quantomeno aspettarsi che la deflagrazione di un conflitto fosse del tutto plausibile. Ed in effetti, nelle settimane che hanno preceduto l’invasione russa dell’Ucraina, l’intelligence statunitense aveva incessantemente fatto trapelare sulla stampa notizie sull’imminenza dell’intervento di Mosca. Si può dunque concludere che la scelta americana di spingere la Russia verso un possibile conflitto sia stata consapevole. Naturalmente, si può affermare che questo sia stato il principale errore strategico di Washington. Altri sosterranno invece che gli USA hanno ottenuto ciò che volevano, ovvero separare la Russia dall’Europa e riaffermare l’egemonia americana sul vecchio continente. Il punto dirimente, a questo riguardo, sono gli enormi costi che una scelta del genere ha comportato, i quali probabilmente si ritorceranno contro gli stessi Stati Uniti sul lungo periodo. Ma prima di esaminare questo punto, vale la pena sottolineare che gli errori di valutazione “tecnicamente” più gravi i decisori occidentali, ed americani in particolare, li hanno commessi a conflitto iniziato. Naturalmente, almeno un grave errore lo hanno commesso anche i russi, ma gli strateghi statunitensi non hanno saputo interpretarlo. Inizialmente, infatti, l’invasione russa era stata davvero concepita come una “operazione militare speciale”, come l’aveva definita il Cremlino, ovvero un’operazione rapida, compiuta da una forza relativamente esigua (150.000 uomini), che con uno spargimento di sangue contenuto avrebbe dovuto assumere il controllo di alcuni punti nodali del territorio e, grazie alla defezione di parte dell’esercito ucraino e di elementi delle istituzioni, avrebbe spinto il governo di Kiev ad accettare di sedersi al tavolo negoziale (una sorta di replica in grande stile dell’operazione compiuta in Crimea nel 2014). Emblematica a questo proposito la marcia russa su Kiev con una forza di 40.000 uomini, del tutto insufficiente a conquistare militarmente la città, ma utile come strumento di pressione politica. Il piano di Mosca fallì (in particolare, l’esercito ucraino rimase compatto) ma non completamente, se si pensa che russi ed ucraini effettivamente negoziarono fra marzo ed aprile 2022, ed erano prossimi a giungere ad un accordo. Come riferiscono diverse testimonianze, fra cui quella dell’ex premier israeliano Naftali Bennett, il negoziato fallì soprattutto a causa delle pressioni britanniche su Kiev. La chiusura della finestra negoziale comportò di fatto il fallimento dell’operazione militare speciale. A questo punto, Mosca avviò un lungo processo di riorganizzazione militare per prepararsi ad un vero e proprio confronto bellico. Ciò comportò il ritiro da Kiev, poi da Kharkiv ed infine da Kherson, per attestarsi su linee effettivamente difendibili a protezione della Crimea e del corridoio terrestre che la univa al Donbass. Mosse affiancate dalla mobilitazione di 300.000 riservisti nel settembre del 2022. Quella di Mosca, tuttavia, non era stata una sconfitta militare sul campo, bensì una sconfitta dell’intelligence che non aveva saputo valutare la coesione dell’esercito ucraino né la determinazione occidentale ad alimentare lo scontro bellico. Paradossalmente, proprio l’errore russo ha spinto gli occidentali a commettere uno sbaglio ancora più grande, quello cioè di interpretare il fallimento russo come frutto di mera impreparazione militare, e di ritenere conseguentemente di poter sconfiggere militarmente i russi sul campo, in un conflitto aperto. Vi sono indicazioni secondo cui, nell’imminenza dell’invasione, l’intelligence americana si attendeva (proprio come i russi) che il governo e l’esercito ucraini si sarebbero sgretolati, che i russi avrebbero imposto un governo fantoccio a Kiev, e che Washington ed i suoi alleati avrebbero organizzato un’insurrezione armata contro di esso, come avevano fatto in Afghanistan, utilizzando questa volta la Polonia come retrovia. Gli USA avrebbero raggiunto ugualmente il loro obiettivo strategico, ovvero quello di spezzare il legame tra Russia ed Europa imponendo durissime sanzioni contro l’economia russa e creando una nuova cortina di ferro nel vecchio continente, tuttavia con un coinvolgimento militare molto inferiore, lasciando a Mosca l’onere di governare l’Ucraina e la possibilità di “dissanguarsi” contro un’insurrezione armata come era accaduto in Afghanistan. La scelta di Mosca di optare per un’operazione “leggera”, incomprensibile agli occhi di Washington, e il fallimento di questa scelta, hanno paradossalmente attirato gli USA e l’intera NATO in un conflitto militare tradizionale contro la Russia in territorio ucraino, con l’illusione di poter sconfiggere militarmente l’esercito russo e, come taluni politici a Washington hanno vagheggiato, addirittura di provocare un eventuale cambio di regime a Mosca. Il punto è che, mentre la Russia si preparava ad un possibile conflitto armato con la NATO fin dalla guerra in Georgia del 2008, l’Alleanza Atlantica era completamente impreparata ad affrontare un conflitto militare ad alta intensità come quello ucraino, essendo ormai abituata da decenni a combattere al più insurrezioni armate come quella dei talebani. L’altro errore fatale dei decisori occidentali è stato quello di ritenere che l’imposizione di dure sanzioni avrebbe fatto collassare l’economia russa. Ciò non è avvenuto perché, fin dal 2014, cioè dall’imposizione delle prime misure economiche punitive – all’epoca relativamente leggere – contro la Russia, Mosca (traendo insegnamento dall’esperienza dell’Iran e di altri paesi colpiti dalle ritorsioni economiche di Washington) aveva ristrutturato la propria economia così come il proprio sistema finanziario al fine di renderli il più possibile immuni all’eventuale shock delle sanzioni occidentali. Naturalmente, l’economia russa ha resistito anche grazie ad un terzo grave errore commesso dall’Occidente. Quello di confidare nel fatto che il mondo non occidentale lo avrebbe assecondato, applicando alla lettera le sanzioni. Riassumendo, americani, britannici, ed europei continentali, in varia misura, non hanno saputo interpretare militarmente il conflitto, hanno drammaticamente sottovalutato le capacità militari di Mosca e sopravvalutato le proprie, non hanno compreso che la Russia si era preparata anche economicamente all’eventualità di uno scontro con l’Occidente, e non hanno capito che gli equilibri mondiali sono enormemente cambiati dal 2008 e che i paesi occidentali non sono più in grado di dettare la propria volontà al resto del mondo. Gli europei, inoltre, hanno commesso un gravissimo errore strategico ben prima dello scoppio del conflitto. Quello cioè di non rendersi conto che assecondare l’espansione inarrestabile della NATO, e la nuova “guerra fredda” di Washington, avrebbe finito per scardinare il modello produttivo europeo fondato sulle fonti energetiche russe a basso costo. Naturalmente, per certi versi, l’obiettivo strategico che Washington si prefiggeva è invece raggiunto: una nuova cortina di ferro, apparentemente insanabile, spacca il vecchio continente, e gli alleati europei sono tornati sotto l’ala protettrice di Washington. Ma la Russia non è isolata a livello mondiale, come gli Stati Uniti si auguravano. E gli alleati europei hanno pagato un costo economico altissimo, che probabilmente sul lungo periodo finirà per indebolire anche Washington. Inoltre, gli USA hanno a tal punto investito la loro credibilità in questo conflitto, lasciandosi coinvolgere militarmente oltre ogni ragionevole cautela, che un’eventuale vittoria della Russia in Ucraina sarà devastante per il prestigio di Washington e per la coesione del fronte occidentale e della NATO. Difficilmente gli USA – ed ovviamente ancor meno l’Europa – usciranno da questo conflitto con un vantaggio strategico.

2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

Gli errori fin qui enumerati sono ovviamente in primo luogo quelli di una classe dirigente. Tuttavia è evidente che tali errori nascono anche dal retroterra culturale a cui tale classe attinge. Essa non è più in grado di leggere la realtà globale poiché prigioniera della propria convinzione di superiorità, frutto di secoli di dominio sul resto del mondo. Le recenti dichiarazioni dell’alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri, Josep Borrell, che ha definito l’Europa un “giardino”, contrapponendolo alla “giungla” che rappresenterebbe il resto del mondo, sono indicative di un modo di pensare diffuso fra le élite occidentali, che le rende incapaci di attribuire il giusto valore agli enormi progressi compiuti da svariate aree del resto del pianeta. Il “complesso di superiorità” dell’Occidente è un ingrediente essenziale della sua incapacità di reagire alla crisi in cui è sprofondato. A ciò si aggiunge un problema drammatico di incompetenza, clientelismo, corruzione, interessi corporativi delle classi dirigenti, ed in particolare della classe politica, che è frutto dell’assenza di un valido processo di selezione, e in ultima analisi di una gravissima crisi democratica che impedisce il ricambio di tali classi, l’afflusso di idee nuove, e un’azione nel reale interesse della collettività.

3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

Come ho già accennato nella lunga premessa alla prima domanda, le radici di questa crisi vengono da lontano. La globalizzazione avviata negli anni ’70 del secolo scorso ha prodotto enormi trasformazioni nell’economia mondiale. La liberalizzazione del commercio e dei flussi finanziari, e la propensione alla massimizzazione dei profitti da parte delle grandi multinazionali, hanno contribuito alla delocalizzazione della produzione, alla progressiva deindustrializzazione di molti paesi occidentali, alla finanziarizzazione dell’economia angloamericana, e alla precarizzazione del lavoro, favorita anche dall’ingresso nel mercato mondiale di centinaia di milioni di lavoratori cinesi e indiani e dalla crescente immigrazione. L’11 settembre, e la retorica dello scontro di civiltà che ne seguì, hanno messo in evidenza le aporie culturali del mondo globalizzato. Ma quella data ha segnato anche l’inizio della perdita di credibilità delle democrazie occidentali, allorché le “extraordinary renditions” permisero detenzioni arbitrarie e sparizioni forzate. Da Guantanamo a Cuba, ad Abu Ghraib in Iraq, Washington costruì una rete di centri di detenzione dove sono state commesse terribili torture ed altre violazioni dei diritti umani. Contemporaneamente, l’11 settembre ha segnato l’inizio dell’erosione dei diritti democratici negli USA (e in Europa), consentendo la sorveglianza di massa di milioni di americani, permettendo detenzioni senza precisi capi di accusa, e segnando l’introduzione della “logica dell’emergenza” all’insegna dello slogan che garantiva “sicurezza in cambio di libertà”. La crisi del 2008 ha rappresentato un nuovo punto di svolta: le misure di austerità, le crescenti disuguaglianze, l’aumento della corruzione, il potere sempre più incontrollato delle multinazionali, la spettacolarizzazione del processo elettorale, e l’asservimento della politica a interessi e capitali privati, hanno svuotato la democrazia dall’interno. Davanti all’inarrestabile deterioramento del clima economico e sociale, le élite al potere hanno reagito ricorrendo ad un unico schema: la logica dell’emergenza, e la demonizzazione del dissenso. L’attuale crisi sarebbe reversibile se le élite occidentali fossero in grado di “cambiare rotta”, modificando le politiche che l’hanno determinata. Nella pratica, però, gli interessi di casta, il radicamento del sistema, l’impossibilità di rinnovare la classe di governo a causa di un processo elettorale che ripropone invariabilmente figure ritenute accettabili dal sistema di potere dominante, impediscono ogni cambiamento nel breve periodo. La sensazione sconfortante è che questo sistema debba subire altri shock, ed attraversare crisi ancora più gravi, prima di essere scardinato, consentendo l’ingresso di energie nuove.

4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

Premesso che, malgrado la “fase comunista”, entrambi i paesi hanno mantenuto un certo livello di continuità culturale, più che di risposta “reazionaria” parlerei forse di risposta “identitaria”. Non bisogna dimenticare che, oltre alla “fase comunista”, entrambi i paesi hanno vissuto fasi di asservimento semicoloniale. La Cina ne ha vissute addirittura due: il cosiddetto “secolo di umiliazione” (fra il XIX ed il XX secolo) per mano delle potenze occidentali e del Giappone a seguito delle guerre dell’oppio, e l’apertura alla globalizzazione americana a partire dagli anni ’70 del secolo scorso. Questa seconda fase ha visto una “colonizzazione” più morbida, di fatto controllata dal governo cinese. Ciononostante, anch’essa ha comportato l’adozione di modelli produttivi ed anche culturali occidentali. La Russia ha vissuto una fase semicoloniale più breve, ma più recente ed ancora viva nella memoria dei russi, allorché, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, essa fu sottoposta all’arrivo dei capitali occidentali ed alle ricette neoliberiste della cosiddetta “shock economy”. In entrambi i paesi, a mio avviso, la risposta “identitaria” non è che un tentativo di ancorare la modernità così traumaticamente assorbita alle proprie radici culturali. Non si tratta dunque di un – peraltro impossibile – ritorno al passato, ma di una rilettura della modernità secondo le rispettive categorie culturali dei due paesi. Sia Cina che Russia, del resto, si considerano non soltanto delle nazioni, ma delle “civiltà”, ed era inevitabile che si cimentassero nello sforzo di concepire una propria formulazione di modernità. E’ un’altra delle conseguenze del nascente multipolarismo. L’Occidente ha perso il monopolio sulla modernità. Non esiste più solo la versione occidentale di modernità, ma tante versioni quante sono le “civiltà” che l’hanno fatta propria.

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La performance è finita, di AURELIEN

La performance è finita
Anche se gli artisti non se ne rendono conto.

AURELIEN

Nota: i commenti della scorsa settimana sono sfociati in scambi di battute sul cambiamento climatico, che non erano l’argomento del saggio. Ho ricevuto diverse richieste di cancellare i commenti che alcuni hanno trovato offensivi. In quell’occasione li ho lasciati passare, ma da oggi inizierò a cancellare i commenti offensivi. La discussione qui è sempre stata molto civile. Continuiamo così.

Vi ricordo che le versioni spagnole dei miei saggi sono ora disponibili qui. e alcune versioni italiane dei miei saggi sono disponibili  qui. Grazie ai traduttori. Passiamo ora all’argomento principale.

La settimana scorsa ho sostenuto che il tipo di crisi che possiamo aspettarci nei prossimi anni sarà al di là della capacità dei nostri governi indeboliti di affrontarla e che, in ogni caso, il loro margine di manovra per affrontarla sarà molto limitato. (Se pensate che il cambiamento climatico non sia un problema, bene, potete sostituirlo con qualsiasi altro di una lunga lista di eventi potenzialmente rovinosi). Questa settimana voglio fare il passo logico successivo, cercando di iniziare a immaginare come sarebbe una società in cui il governo non potrebbe più affrontare i problemi principali e quali sarebbero le implicazioni.

Voglio discuterne attraverso una considerazione sulla natura del potere. In inglese, “power” ha una connotazione generalmente negativa, non aiutata dal suo uso incessante da parte degli opinionisti di IdiotPol, che ne sono ossessionati e lo vedono ovunque. Ma “potere” deriva dall’anglo-francese medievale pouair, con radici nel latino volgare potere, che significa “essere in grado di fare qualcosa”. Questo è essenzialmente il significato principale di pouvoir nel francese moderno: una buona traduzione sarebbe “capacità””. (Foucault, che ha scritto molto sul pouvoir, era essenzialmente interessato a come le cose vengono fatte). D’altra parte, quando si parla di Grandi Potenze, di potenza elettrica o di un governante potente, la parola francese è puissance.

Perciò qui userò la parola “potere” nel senso di come vengono prese le decisioni e di chi le prende, e di quali sarebbero le implicazioni di ciò nel tipo di mondo che potremmo presto sperimentare. Ma prima dobbiamo considerare la natura stessa del potere e liberarci di alcune idee che sono particolarmente, ehm, potenti nei circoli anglosassoni.

Nella nostra cultura, tendiamo a percepire il potere come qualcosa di intrinsecamente esistente. Diciamo che “tale e quale” è “potente”, descriviamo un Paese o un regime come “potente”, e c’è un’industria artigianale che classifica le nazioni l’una contro l’altra in base alle dimensioni e alla forza delle loro economie o delle loro forze militari. Così si può leggere che gli Stati Uniti sono “più potenti” della Cina sulla terraferma, perché hanno più carri armati. Allo stesso modo, la Nigeria viene spesso descritta come una “superpotenza regionale” nell’Africa occidentale.

In realtà, il potere non ha un’esistenza oggettiva: tutto dipende dal contesto. Voglio provare a spiegare brevemente il perché di questa situazione, sotto tre diverse voci. Il primo è che il potere è sempre relativo, mai assoluto. Ci sono nazioni che hanno certi tipi di potere, nel senso che hanno una grande quantità di una certa cosa. Ma se hanno quella che io definisco la capacità di fare una certa cosa, è una questione completamente diversa e dipende in gran parte dal contesto. Per fare un esempio assurdo, gli Stati Uniti potrebbero radunare un esercito di due milioni di uomini, armati di moschetti antichi, spade e cavalli. Questo equivarrebbe a una sorta di “potere” e probabilmente potrebbe essere convertito, in qualche modo, in un’effettiva capacità di raggiungere obiettivi definiti, ma non ci conterei. Piuttosto, il potere deve essere appropriato all’obiettivo che si intende raggiungere, altrimenti è irrilevante. Il PIL, o comunque il possesso di materie prime o di una popolazione numerosa, di per sé non rende potenti. Queste risorse devono essere convertite in qualcosa di utile e utilizzate per perseguire qualcosa di specifico, prima di essere tradotte in potere. Il motivo per cui l’Arabia Saudita è “potente” e la Repubblica Democratica del Congo no, non ha nulla a che vedere con la quantità di materie prime che ciascuno possiede.

In secondo luogo, il potere non è semplicemente quantitativo, cosa che gli anglosassoni fanno molta fatica ad accettare. Nell’esempio precedente, il fatto che gli Stati Uniti abbiano più carri armati della Cina è rilevante solo se un giorno dovesse esserci una guerra terrestre a cui partecipano le intere forze armate di ciascun Paese, il che sembra, per usare un eufemismo, improbabile. Ma lo stesso problema si applica a livelli più banali: nella politica interna, ad esempio. Nel Parlamento francese, il gruppo politico più grande e più “potente” si chiama (attualmente) Renaissance ed è fedele al Presidente Macron. Ma controlla meno della metà dei 577 seggi dell’Assemblea nazionale e dipende dai voti degli altri partiti per approvare le leggi. Poiché solo un partito, i Repubblicani, è disposto a votare con loro, questo rende i Repubblicani il gruppo più “potente” dell’Assemblea. Inoltre, poiché i Repubblicani sono divisi tra loro e non tutti i deputati vogliono comunque votare per Macron, un piccolo numero di deputati può avere un “potere” sproporzionato. Sebbene questa situazione sia insolita in Francia, è molto comune nei Paesi in cui la rappresentanza proporzionale implica che molti partiti siano rappresentati nel Parlamento nazionale. E non è nemmeno sconosciuta negli Stati Uniti: Ho sentito spesso funzionari statunitensi lamentarsi amaramente delle buffonate di un piccolo numero di senatori, che bloccano l’approvazione di importanti leggi o trattati internazionali.

Un corollario di ciò è che il “potere” non è un semplice gioco a somma zero tra grandi e piccoli attori, cioè possiamo perdere o vincere entrambi, anche perché i nostri obiettivi saranno spesso diversi, ma comunque compatibili. Così, i piccoli Paesi dell’Europa occidentale cedono un po’ del loro teorico “potere” nazionale alla NATO, un’alleanza dominata dagli Stati Uniti, ma a loro volta guadagnano un po’ di “potere” sulla Germania, un Paese più grande verso il quale nutrono una storica diffidenza. (In effetti, manipolare gli Stati Uniti per aumentare il “potere” nazionale o addirittura personale è una forma d’arte e un passatempo popolare per i piccoli Paesi di tutto il mondo). Allo stesso modo, è sbagliato immaginare che le nazioni abbiano necessariamente obiettivi incompatibili nelle crisi, ad esempio: alcuni attori possono essere convinti ad andare d’accordo con altri, alcuni attori possono non avere opinioni forti sulla questione e altri possono essere comunque d’accordo. Ciò che conta è se gli attori hanno la capacità di raggiungere i loro obiettivi, piuttosto che il fatto che mostrino “potere” in qualche forma grezzamente quantitativa.

Infine, il potere non è una caratteristica intrinseca né delle persone né delle istituzioni. È comune riferirsi all’attuale Presidente degli Stati Uniti come “l’uomo più potente del mondo”. Eppure, se Biden si affacciasse alla finestra del suo ufficio e vedesse un gruppo di persone che cerca di fare irruzione nella Casa Bianca, non sarebbe in grado di fermarli. Allo stesso modo, il governo degli Stati Uniti si è dimostrato impotente ad annullare i risultati del colpo di Stato militare in Niger, così come non è stato in grado di lasciare un governo filo-occidentale duraturo in Afghanistan. Se consideriamo il “potere” come la capacità di ottenere risultati (per cui gli Stati Uniti non sono stati in grado di influenzare gli eventi in Niger), diventa ovvio che per ottenere risultati è necessaria la cooperazione e persone pronte a fare ciò che vogliamo. Questo non deve necessariamente significare dominio e sfruttamento: può essere semplicemente, ad esempio, che assumiamo persone e le paghiamo per portare avanti le nostre idee, o anche che siamo eletti o nominati in una posizione che convenzionalmente comanda l’obbedienza. Ma “convenzionale” è la parola chiave: se parti del governo decidono semplicemente di non seguire la legge e di disobbedire ai loro leader eletti (come sembra essere stato il caso di Donald Trump), allora non c’è molto che il leader possa fare al riguardo.

Ecco perché, per tutti gli studi sulla leadership, la cosa più importante è la capacità di seguire i leader. La vera domanda non è perché la gente si ribella, ma piuttosto perché la gente obbedisce. La risposta semplice è che la società non funzionerebbe altrimenti. Il sogno liberale di un coordinamento prudente per scopi economici definiti, l’idea anarchica di “nessuna regola”, per non parlare delle fantasie libertarie, sono tutti preda della complessità della vita e delle relazioni sociali. Ancora una volta, è importante togliere la polvere del post-sessantotto da parole come “obbedire”. Tutti noi obbediamo continuamente alle leggi e alle convenzioni sociali e ci aspettiamo che anche gli altri lo facciano. Altrimenti la vita si fermerebbe. La società occidentale può tollerare, e ha sempre tollerato, un certo grado di anticonformismo (non tutte le società sono state così indulgenti), ma fondamentalmente non possiamo vivere perennemente nell’incertezza su cosa fare, su come gli altri si comporteranno o reagiranno al nostro comportamento, o su come ottenere la loro collaborazione.

A volte, questa cooperazione viene formalizzata in schemi, ma questi schemi raramente si conformano a un semplice calcolo di potere grezzo. Il meccanismo più comune per stabilire un’autentica posizione relativa è il confronto di esperienze e conoscenze. A livello macro, ad esempio, una discussione dell’UE sulla crisi del Niger tenderà ad essere dominata dai Paesi che hanno ambasciate in loco, dai Paesi che hanno familiarità con le questioni africane in generale e dai Paesi che hanno le risorse necessarie per studiare il problema. È quindi improbabile che Islanda, Cipro e Polonia cerchino di dominare la discussione, mentre il Belgio, che conserva un interesse considerevole per l’Africa, avrà più cose da dire rispetto, forse, alla Spagna, sebbene sia un Paese molto più piccolo. Chiaramente, se il tema fosse l’Ucraina, la schiera dei Paesi sarebbe leggermente diversa.

Nella vita di tutti i giorni si verifica effettivamente la stessa cosa. Le gerarchie sono il tipo di principio organizzativo più naturale ed efficiente, motivo per cui sono state utilizzate nel corso della storia e per cui le persone tendono a classificarsi istintivamente in gerarchie basate sulla conoscenza e sull’esperienza, proprio come fanno le nazioni. Le gerarchie in un’organizzazione consentono al lavoro di trovare il proprio livello ed evitano che gli individui ai vertici delle organizzazioni vengano sopraffatti (come è successo a tutti gli alti dirigenti di un sistema di “flat management” che ho conosciuto). E soprattutto, le gerarchie che nascono dall’esperienza e dalla conoscenza permettono di prendere buone decisioni: in assenza di gerarchie formali, si tende ad avere gerarchie informali, dominate da chi grida più forte. In pratica, tutti riconosciamo quando è il momento di seguire le indicazioni di qualcun altro: quando ci perdiamo su un sentiero escursionistico e non abbiamo rete telefonica, seguiamo i suggerimenti di chi sa ancora leggere una mappa e usare una bussola.

Quindi il “potere” si rivela, a ben vedere, una cosa piuttosto complessa e sofisticata, ben lontana dai modelli meccanici e quantitativi cari ai politologi, o dal vocabolario del dominio e dell’oppressione, tanto caro ai teorici di IdiotPol. (Se siete interessati alla teoria potete leggere questo libro di Stephen Lukes, che a quanto pare ha stupito gli scienziati politici quando è apparso per la prima volta: Non riesco a immaginare cosa pensassero prima). Una volta compreso che il vero problema è come vengono prese le decisioni, come vengono fatte le cose e chi le fa, siamo meglio attrezzati per guardare al futuro, quando questi modelli sicuramente cambieranno. Ad esempio, a livello internazionale, una forma grezza di misurazione realista del potere è normale nella scrittura anglosassone. In questa visione gli Stati Uniti sono “egemoni” e l’attuale dibattito verte sulla possibilità che la Cina sostituisca gli USA in tale ruolo. Tuttavia, se accettiamo che la capacità degli Stati di ottenere ciò che desiderano nelle relazioni internazionali è il risultato di processi molto sofisticati e complessi, piuttosto che di colpi a torso nudo e versi di animali, vediamo che il modello egemonico non è, in realtà, molto utile, e discutere se ci sarà un cambio di egemone non ha molto senso. Sebbene le carte del gioco delle relazioni internazionali siano chiaramente rimescolate, in futuro non saranno tutte nelle mani di un solo Stato, così come non lo sono ora.

Lo stesso vale essenzialmente a livello nazionale, di cui voglio ora parlare nel resto di questo saggio. La settimana scorsa ho suggerito che, per una serie di motivi sia singoli che combinati, le sfide del futuro probabilmente supereranno la capacità di gestione dei nostri Stati indeboliti, e per di più la capacità di comprensione della nostra classe dirigente, sempre più giovane e performativa. Quindi, sulla base dell’argomentazione precedente, la prima cosa che ci si aspetterebbe di vedere è la perdita di “potere” da parte degli Stati occidentali, nel senso di perdita della reale capacità di incidere sulle cose e di ottenere le cose che volevano. Ed è proprio questo che vediamo. Rispetto a Stati più capaci come la Cina, la Russia, il Giappone e altri, gli Stati occidentali in generale non sembrano in grado di portare a termine le cose, come hanno dimostrato i fallimenti seriali come quello di Covid. In effetti, come ho suggerito la settimana scorsa, portare a termine le cose non è più una priorità, e non è più qualcosa che gli artisti della performance delle nostre classi politiche occidentali ritengono così importante, purché controllino la narrazione. Alla fine ho deciso che la risposta incoerente e mendace a Covid, che ha caratterizzato gli Stati occidentali, non era tanto il prodotto di cattiveria, o addirittura di incompetenza, quanto di un’incapacità di distinguere tra realtà e apparenza. Ciò che importava ai leader occidentali non era ciò che doveva essere fatto, ma ciò che doveva essere detto ed eseguito. E ciò che doveva essere detto doveva essere ideologicamente corretto e imposto alla popolazione non come regole di comportamento pratico, ma piuttosto come regole su cosa pensare. E a un certo punto, se Covid è stata dichiarata finita, è finita, in un mondo in cui alla fine tutto è discorso.

Ma il risultato è che gli Stati occidentali, definiti in senso lato come ogni probabile governo e i loro “esperti”, stanno perdendo rapidamente il “potere” di influenzare l’opinione pubblica su questioni controverse. Una nuova epidemia, o anche un ritorno dei giorni peggiori di Covid, sarà probabilmente impossibile da gestire con successo per i governi, e lo stesso potrebbe facilmente valere per altre emergenze future. Poiché è ormai chiaro che la maggior parte dei governi occidentali ha difficoltà a distinguere i fatti dalla fantasia, non c’è alcun motivo particolare per cui dovremmo credere loro. Solo il cielo sa quale sarà la reazione dell’opinione pubblica quando si scoprirà la portata del disastro ucraino. E questo è un problema reale per i governi, non solo un problema di presentazione, perché alla fine loro sono pochi e noi siamo molti. Tutti gli Stati, nel corso della storia, hanno fatto essenzialmente affidamento sull’acquiescenza dell’opinione pubblica per la loro sopravvivenza. Ironia della sorte, lo Stato moderno post-modernista, ironico, dominato dal discorso e i suoi servitori della casta professionale e manageriale hanno distrutto tutte le tradizioni di deferenza nei confronti dell’esperienza e della conoscenza, sostituendole con la deferenza nei confronti del solo messaggio. (“Segui la scienza” è uno slogan, non una politica, allo stesso livello di “bevi responsabilmente”). Quando la popolazione smette di credere al messaggio, allo Stato non resta più nulla. Il suo apparato repressivo è troppo piccolo per essere efficace e, in ogni caso, nella maggior parte dei Paesi la PMC è stata impegnata ad alienare la Polizia, trattandola solo come un aiuto a pagamento.

In tali circostanze, la gente volterà le spalle allo Stato e quest’ultimo perderà il suo “potere” di determinare come vivere. Possiamo già vedere come questo potrebbe avvenire nelle zone libere dalla legge che sono sorte in varie città d’Europa, di solito in aree ad alta immigrazione. La situazione è simile in diversi Paesi, ma citerò la Francia perché è l’esempio che conosco di persona. Ci sono zone della periferia delle città francesi in cui lo Stato potrebbe anche non esistere. Il potere che c’è è detenuto da bande che lottano tra loro per controllare il traffico di droga. La polizia non ci va, perché è concepita, come ogni altra parte dell’apparato statale, comprese le scuole, i medici e persino i postini, come “il nemico”: solo un’altra banda rivale da combattere se entra nel tuo territorio e ancor più se contesta il tuo “potere”. E queste bande hanno “potere” in senso pratico: possono controllare l’ingresso e l’uscita da un’area chiedendo, ad esempio, di vedere i documenti d’identità.

Ovviamente non vorremmo che la stessa situazione si verificasse nei nostri quartieri, vero? Ma come possiamo evitarlo, in un mondo in cui lo Stato non ha più la capacità di fare, ma solo di eseguire? Un modo per affrontare la questione è chiedersi cosa spinge le persone a unirsi per qualsiasi scopo, a sviluppare obiettivi comuni e a trovare e seguire dei leader. Dopotutto, nonostante quello che i teorici della politica liberale amano far credere, nel mondo ci sono pochi se non nessuno “spazio non governato”. È solo che non vediamo i meccanismi di governo: non sono “leggibili” per noi. La Somalia, ad esempio, può non avere un governo come lo intendiamo noi, ma ha un sistema di governo molto sofisticato organizzato secondo linee politiche tribali. Molti Stati africani hanno meccanismi di controllo sociale molto sofisticati che si affiancano a meccanismi formali di tipo occidentale poco funzionanti, e in qualche misura li sostituiscono.

Quindi, quale sarebbe l’equivalente nello Stato occidentale medio? È una domanda interessante con una risposta potenzialmente molto deprimente. Potrebbe non essercene una, o almeno non una che vorremmo. L’azione collettiva deve basarsi su un senso di identità e interesse condiviso, ma l’unica identità condivisa che il liberalismo riconosce è l’interesse economico condiviso (e spesso transitorio). Purtroppo, questo mette i criminali, o coloro che sono pronti a essere più spietati, in posizioni di “potere”, come sempre accade nei periodi di crisi. Inoltre, i criminali non hanno un’agenda politica e collaborano con nemici anche mortali se c’è di mezzo il denaro. (Un collega con una lunga esperienza nei Balcani una volta ha scioccato una riunione alla quale ho partecipato suggerendo ironicamente che avremmo dovuto affidare il governo della regione alla criminalità organizzata, perché era l’unica cosa che funzionava davvero). Non aveva tutti i torti).

E in ogni caso, quali sono le alternative? Come ci organizzeremmo in assenza di uno Stato, se non con l’interesse economico e il dominio dei forti sui deboli? In Occidente sembriamo proprio incapaci di un’organizzazione spontanea come quella che si trova ovunque in Asia. Consideriamo, ad esempio, il caso molto più semplice della formazione di partiti politici, anche a livello locale. La teoria liberale classica presuppone una politica di classe, con i partiti come espressione politica degli interessi di classe. In alcuni Paesi, questo era almeno in parte vero. Ma in realtà quasi tutti i partiti politici hanno un qualche tipo di pregiudizio locale o regionale, attraggono in modo sproporzionato diversi gruppi etnici, culturali e religiosi e sono più forti in città che in campagna o viceversa. Questo è il motivo per cui la democratizzazione dopo la fine della Guerra Fredda ha prodotto così tanti conflitti: come si potrebbe organizzare concretamente un partito politico in Bosnia o in Costa d’Avorio se non su base etnica?

Lo stesso accadrà probabilmente con il declino del governo e dello Stato. Ma c’è un altro paio di problemi. In primo luogo, viviamo in una società altamente complicata, in cui poco avviene a livello locale. A livello quotidiano, la polizia e gli altri servizi di emergenza spesso vivono a una certa distanza dal luogo in cui lavorano: i tempi in cui il poliziotto municipale viveva nella comunità sono ormai lontani. Un ospedale può attirare il suo personale, soprattutto quello meno pagato, da distanze considerevoli, e può funzionare comunque solo come parte di una rete ampiamente distribuita di laboratori, farmacie, fornitori di cibo e carburante e medici di famiglia. Anche un razionamento della benzina piuttosto limitato, interruzioni dell’energia elettrica, interruzioni dei trasporti e problemi simili potrebbero portare al blocco di molti servizi locali. Un ospedale potrebbe avere medicinali ma non cibo o lenzuola pulite da dare ai pazienti, e i risultati dei test solitamente inviati via Internet non verrebbero ricevuti. Gli addetti alle pulizie degli ospedali potrebbero non essere in grado di lavorare. In effetti, oggi viviamo in una società così complessa e interconnessa che anche problemi piuttosto piccoli e banali possono avere enormi effetti a catena. Cinquant’anni fa, all’epoca della crisi petrolifera e di uno sciopero dei minatori, gran parte della Gran Bretagna fu sottoposta a una settimana lavorativa di tre giorni. Una simile opzione non potrebbe essere tentata oggi, anche se esistesse ancora la capacità tecnica di prendere e applicare le decisioni.

Se teniamo presente la definizione più ampia di “potere” come “capacità”, ci rendiamo conto che mantenere le strade sicure è solo uno dei problemi che ci si può aspettare in tali circostanze. Consideriamo: un supermercato funziona secondo un razionamento dei prezzi, nel senso che le persone comprano ciò di cui hanno bisogno e che possono permettersi. Cosa succede quando manca la corrente per due giorni e i servizi di emergenza arrivano e forzano le porte del supermercato? Le casse non funzionano, le etichette elettroniche dei prezzi sono vuote e poche persone hanno molto contante. Come si fa a distribuire i prodotti del supermercato, alcuni dei quali cominciano ad andare a male, e chi decide e come? Si lascia semplicemente che la gente saccheggi? Si cerca di razionare i prodotti e, in tal caso, chi fa rispettare il razionamento? È per persona o per famiglia? Le persone hanno diritto a tutto ciò che vogliono? Quante bottiglie di whisky single malt sono consentite a persona? È limitato solo ai clienti abituali e lascerete che gli altri muoiano di fame? Le persone devono venire dalla città per usufruirne e, in tal caso, come trattate la famiglia con bambini piccoli che è appena arrivata dopo aver camminato per tre ore perché il supermercato locale è ancora chiuso? Come ci si comporta con le persone che tornano più volte, e come si fa a saperlo?

Il punto non è il “potere” in senso grossolano, ma la capacità di gestire una situazione complessa e delicata e di stabilire e far rispettare regole semplici. È probabile che la maggior parte dei centri urbani del mondo occidentale non abbia nemmeno la capacità di fare queste cose per un problema semplice come quello descritto. Chi dovrebbe essere autorizzato ad avere la benzina in regime di razionamento e come dovrebbe essere assegnata? E le scorte di farmaci da prescrizione nelle farmacie? E che dire della distribuzione dell’acqua potabile, in determinate circostanze?

Si potrebbe suggerire che questo è il ruolo di un governo locale o regionale, ma è solo per porre la stessa serie di domande a un livello inferiore. È dimostrato che i sindaci e i consiglieri eletti possono essere meno incompetenti dei politici nazionali, semplicemente perché sono molto più vicini alle loro comunità e hanno a che fare con problemi reali ogni giorno. (Ho vissuto per un po’ di tempo in una piccola comunità in cui si vedeva il sindaco nel supermercato locale). Purtroppo, però, anche le città più grandi, dove si presenteranno i problemi maggiori, tendono a essere gestite da artisti dello spettacolo ossessionati dai media: l’attuale amministrazione di Parigi ha difficoltà a compilare un tweet grammaticalmente corretto, per non parlare di qualcosa di difficile come la gestione dei lavori pubblici.

E naturalmente, a qualsiasi livello si discuta, la leadership richiede un seguito. Le persone devono essere pronte e disposte a fare ciò che un’autorità chiede loro di fare. Normalmente è una questione di abitudine, ma più la situazione è difficile, più le persone si fermeranno a riflettere prima di obbedire di riflesso. In ultima analisi, il “potere” dell’autorità politica si basa principalmente sull’accettazione, non sulla repressione. A meno che le vostre forze di sicurezza non siano di dimensioni enormi, come nella Romania della Guerra Fredda o nella Corea del Nord di oggi, non c’è molto che possiate fare se un gran numero di persone decide di non fare più quello che volete. La società contemporanea è molto più fragile di quanto spesso si pensi, in parte perché la sua stessa sopravvivenza oggi dipende in parte proprio da questa acquiescenza. E anche in questi due esempi nazionali, tutto ciò che veniva realmente represso era la dissidenza politica palese.

Ma la più grande debolezza a tutti i livelli della cultura politica moderna è quella che ho toccato più volte in questi saggi: la moderna preferenza per gli atti performativi e i discorsi al posto dell’attività pratica vera e propria, e la tendenza a confondere gli uni con gli altri. Naturalmente, questo approccio ha successo solo finché non si presentano problemi veramente critici: Covid è forse un’anticipazione del modo performativo in cui le nostre élite politiche si illudono di gestire i problemi, mentre in realtà stanno solo cercando di usare le parole per farli sparire. Il problema è che nella società ci sono altri attori interessati ad azioni reali, piuttosto che performative, e non tutti hanno buone intenzioni. Le azioni performative, al contrario, implicano un pubblico a cui esibirsi, e in situazioni di crisi non tutti staranno a guardare il vostro ultimo tweet ironico: anzi, i loro cellulari potrebbero anche non funzionare.

I due attori che probabilmente diventeranno più potenti in caso di crisi e di effettiva scomparsa dello Stato sono la criminalità organizzata e, almeno in Europa, i gruppi islamici estremi, e nessuno dei due è interessato alle azioni performative. (Abbiamo già avuto un assaggio della differenza tra approcci reali e approcci performativi nella risposta zoppicante delle autorità agli attacchi al sistema educativo francese (che, essendo non religioso, è un sistema intrinsecamente peccaminoso e deve essere distrutto), così come nell’applicazione di norme sempre più fondamentaliste alle popolazioni musulmane, molte delle quali sono in conflitto, ad esempio, con le leggi sui diritti umani. Supponiamo quindi che un sindaco o un prefetto vessato si rivolga al Ministero degli Interni: guardate, bande di giovani minacciano i negozianti della città se continuano a vendere alcolici, e diversi negozi sono stati vandalizzati o incendiati di conseguenza. Cosa vuole che facciamo?

Beh, ovviamente dobbiamo assicurarci che le popolazioni vulnerabili non vengano stigmatizzate.

Senza dubbio, ma cosa volete che facciamo?

Beh, dobbiamo affrontare le cause di fondo del blah blah razzismo strutturale blah blah violenza della polizia blah blah.

Sì, ma cosa volete che facciamo?

Il silenzio.

Perché ovviamente i nostri politici performativi odiano prendere decisioni reali e fare le cose, e in generale sono pessimi in questo. Quando una costosa enoteca di Parigi viene assaltata con armi automatiche e bombe a mano e gli avventori uccisi, quando un professore di biologia di una prestigiosa università viene assassinato per aver insegnato la teoria dell’evoluzione, o le studentesse bianche della classe media vengono attaccate con l’acido per aver avuto la presunzione di andare all’università e di vestirsi in modo inappropriato, allora a quel punto gli artisti performativi che si mascherano da nostri leader politici reagiranno con panico e isteria. Perché è stato permesso che ciò accadesse? Perché nessuno ce l’ha detto? E naturalmente la risposta sarà: ve l’abbiamo detto per vent’anni e voi non avete voluto **** ascoltare. Ma per gli artisti della performance è sempre troppo tardi, perché non riescono a immaginare che qualcun altro possa davvero fare cose reali per motivi che gli stanno veramente a cuore.

Ci sono problemi da cui non si può uscire con un tweet. Il tipo di disgregazione della società che ho ipotizzato nelle ultime settimane metterà il “potere”, nel senso di processo decisionale, nelle mani di coloro che hanno organizzazione e impegno, e nella società occidentale contemporanea questo significa coloro che si impegnano per il denaro e coloro che si impegnano per le religioni fondamentaliste. Si potrebbe obiettare che questi gruppi non sono presenti ovunque e non sono necessariamente molto grandi e “potenti”. È vero, ma in politica non è necessario essere oggettivamente potenti (concetto comunque dubbio, come ho suggerito), basta essere meno deboli e meno disorganizzati della potenziale concorrenza. Il “potere” è effettivamente un gradiente, o almeno risponde come se lo fosse, e in generale si stabilisce con l’individuo o il gruppo meno incompetente. Allo stesso modo, questi gruppi non devono essere molto grandi: devono solo essere meno piccoli dell’opposizione. La differenza di “potere” tra un gruppo grande e amorfo e un gruppo piccolo, disciplinato e addestrato, è fondamentale per tutti gli sforzi di ordine pubblico e di pacificazione.

Quindi, anche nel tipo di situazione relativamente banale descritta poco fa, ci saranno altri gruppi organizzati, coerenti e motivati in grado di organizzare la vita quotidiana meglio della criminalità organizzata o dei fanatici religiosi? Mi piacerebbe certamente pensare di sì. Fino a cinquant’anni fa, la maggior parte delle nazioni occidentali aveva Stati capaci, con servizi organizzati a diversi livelli, forze armate e riserve relativamente grandi e, in genere, qualche tipo di sistema di mobilitazione d’emergenza. Avevano comunità ragionevolmente insediate con legami storici, famiglie allargate nella stessa area, associazioni locali, sindacati, organizzazioni ecclesiastiche e molte altre strutture intermedie. Non è solo che tutto questo non c’è più, è che la situazione è diventata totalmente confusa. In questo momento mi trovo in Inghilterra e ho appena visto raccogliere la spazzatura per strada. Cinquant’anni fa sarebbe stata l’autorità locale a farlo, ora lo fanno lavoratori occasionali assunti da una filiale di una multinazionale. Perché dovrebbero aiutare in caso di crisi? Perché dovremmo pensare che siano in debito con la comunità?

Di tanto in tanto si intravedono spiragli di ciò che potrebbe accadere in futuro. Dopo le recenti rivolte in Francia, gruppi di militari in pensione hanno iniziato a riunirsi per effettuare pattugliamenti dissuasivi. In futuro potrebbero esserci altre iniziative di questo tipo, anche se nella maggior parte dei Paesi europei semplicemente non c’è il numero di persone da cui attingere, e inoltre tendono a concentrarsi in determinate aree. L’idea di una società gestita a livello locale da ex-militari ed ex-poliziotti non è molto allettante, ma l’alternativa è: che cosa, esattamente, a parte più spettacoli? Arriverà un momento, dopo tutto, in cui gli artisti dello spettacolo verranno fischiati e la richiesta pubblica di fare davvero qualcosa diventerà irresistibile. I partiti della cosiddetta “estrema destra” probabilmente interverranno per colmare la lacuna, e l’ultimo atto degli artisti dello spettacolo sarà quello di svenire per l’orrore. Ma a quel punto nessuno presterà loro attenzione.

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La realtà vorrebbe dire la sua, di Aurelien

La realtà vorrebbe dire la sua.
Chiamata per Tom e Daisy Buchanan

AURELIEN
2 AGO 2023

In precedenti saggi ho parlato delle carenze della Casta Professionale e Manageriale (PMC) internazionale. Questa non è un’altra diatriba contro di loro (cerco di evitare le diatribe, se possibile), ma piuttosto una riflessione su alcune delle ragioni per cui hanno fatto un tale pasticcio del mondo, e su ciò che potrebbe accadere ad esso, e a loro, come risultato. Se la vostra definizione di “speranza” include la progressiva scomparsa della PMC, o almeno una massiccia riduzione della sua influenza, allora questo saggio ha una certa lievitazione di speranza qualificata, poiché credo che la PMC abbia effettivamente esaurito la sua strada in un’ampia varietà di settori.

In un precedente saggio, ho parlato dell’infantilizzazione di gran parte della cultura politica occidentale oggi, anche nel caso di argomenti seri come l’Ucraina. Credo che questo sia in gran parte colpa della PMC, una casta per la quale nulla è mai completamente reale, gran parte della vita è un gioco o un modello matematico, o una serie di numeri in un rapporto, e dove è sempre possibile abbandonare le cose quando vanno male, e ricominciare da capo. Come casta, sono fondamentalmente frivoli, per quanto si prendano sul serio, e, come i bambini, non vogliono mai assumersi la responsabilità o la colpa di nulla. La loro casta è protetta non solo dal denaro (comprende, ad esempio, docenti universitari mal pagati), ma anche da una forte disciplina ideologica, da legami di istruzione, esperienza, collaborazione professionale e persino familiari. Chiude i ranghi istintivamente contro persone come voi e me.

Soprattutto, è una casta che è stata educata a pensare allo stesso modo (o se pensate che “pensare” sia troppo generoso, a dire e credere le stesse cose). Questo avviene in parte all’università, naturalmente, ma anche nelle scuole di business e negli MBA più avanti negli anni, nelle “conferenze” e nei “seminari” e nei corsi per “giovani leader”. Anche in questo caso, “educazione” è forse la parola sbagliata, perché tradizionalmente implica la trasmissione della conoscenza, che non è una priorità per le sedicenti istituzioni di apprendimento di questi tempi. Mi è venuta piuttosto in mente la Teoria dell’adolescenza permanente del romanziere e critico Cyril Connolly, basata sulle sue riflessioni sul periodo trascorso a Eton. Egli sosteneva che le esperienze vissute dai ragazzi nei loro anni formativi nella scuola pubblica inglese erano così intense da dominare le loro vite e arrestare il loro sviluppo, e che questo fatto spiegava molto della società britannica del suo tempo. Ammettendo che gli studenti universitari di oggi si trovino più o meno allo stesso livello di sviluppo intellettuale e personale dei coetanei di Connolly a Eton, credo che l’analogia sia utile: la PMC internazionale è talmente segnata dall’eterna adolescenza dei sistemi educativi moderni che il suo sviluppo è essenzialmente arrestato lì. Allo stesso modo, ciò che lega i suoi membri non è l'”istruzione” che ricevono, che spesso è sommaria, ma gli atteggiamenti sociali, i contatti personali e l’ideologia di cui si nutrono, dato che tutte le università occidentali si assomigliano sempre più.

Allo stesso modo, ai tempi di Connolly, si accettava che le scuole pubbliche non servissero principalmente a impartire conoscenze, ma a “formare il carattere”, attraverso la disciplina, i giochi di squadra e l’inculcazione di un’etica cristiana del servizio. Non è un’educazione che vorrei aver ricevuto, ma bisogna ammettere che i suoi alunni hanno continuato a combattere e morire in guerra, a scalare montagne, a esplorare parti lontane del mondo, a contribuire alla gestione del Paese e, in alcuni casi, a intraprendere carriere intellettuali di rilievo, come Connolly e il suo esatto contemporaneo George Orwell. Le università e le business school d’élite della PMC svolgono oggi più o meno la stessa funzione sociale: oggi si può decorare il proprio discorso non con riferimenti classici ma con cliché da IdiotPol, ma lo scopo della propria formazione è ancora quello di garantire che si parli la lingua del potere e che si venga riconosciuti. Ma d’altra parte, essere un ministro junior, un mediatico o un funzionario di una ONG non è proprio come scalare una montagna, comandare una nave da guerra o lavorare con i partigiani nell’Europa occupata.

Naturalmente, le università non sono sempre state come sono ora. Si pensi che anche quaranta o cinquant’anni fa erano destinate alla minoranza di studenti con un’inclinazione intellettuale che volevano approfondire gli studi. Molte lauree erano di tipo professionale (medici, avvocati, ingegneri, persino teologi) e altre servivano a formare i futuri insegnanti in quella che già allora stava diventando una professione da laureati nella maggior parte dei Paesi. Altre costituivano una formazione intellettuale generale per coloro che sarebbero andati a ricoprire incarichi governativi e amministrativi, e altre ancora mantenevano l’arredo intellettuale generale della nazione: dall’archeologia alla zoologia. Molti altri giovani si accontentavano di entrare subito nel mondo del lavoro, mentre altri seguivano apprendistati tecnici. La maggior parte delle lauree aveva un’applicazione pratica: anche gli economisti studiavano in gran parte il funzionamento dell’economia. Ma molte persone non laureate potevano e hanno fatto ottime carriere.

La frequenza di massa all’università è un’idea recente e le sue origini sembrano essere diverse nei vari Paesi. Nei Paesi anglosassoni viene generalmente liquidata come un racket finanziario, e in parte lo è, ma dovrebbe anche essere vista come una tipica misura neoliberale: una laurea è qualcosa che si dovrebbe avere il diritto di possedere se si può pagare o prendere in prestito il denaro per conseguirla. (Si basa anche sulla (falsa) premessa che l’istruzione di per sé sia sufficiente per la crescita economica e la prosperità). Ma in altri Paesi, dove l’istruzione universitaria è ancora effettivamente gratuita, l’obiettivo è molto più quello di nascondere gli altissimi livelli endemici di disoccupazione giovanile. In Francia, ad esempio, dove il superamento del Baccalaureato dà diritto a un posto all’università, il “Bac” stesso è stato talmente svalutato, al fine di aumentare il livello di superamento e quindi il numero di studenti all’università, che gli studenti di oggi a diciotto anni sono indietro di due o tre anni rispetto ai loro omologhi di cinquant’anni fa (poiché i libri di testo sono prescritti a livello nazionale, è possibile misurare questo declino in modo oggettivo su un periodo di tempo).

La frequentazione massiccia delle università, spesso senza un corrispondente aumento del personale docente, e il passaggio al lavoro occasionale degli insegnanti universitari in molti Paesi, significa che in termini di qualità le lauree non possono più essere quelle di una volta. Ma significa anche che i diplomi devono essere cuciti insieme in modo che gli studenti meno intellettuali possano superarli, e tali diplomi, ovviamente, diventano più popolari tra gli studenti in generale perché sono meno difficili. Negli ultimi decenni si è assistito a un’esplosione di lauree in materie come le Relazioni Internazionali, gli Studi Culturali e gli Studi Commerciali (il prototipo di laurea PMC), il cui contenuto intellettuale effettivo è spesso trascurabile e che non fornisce ai suoi studenti PMC gli strumenti per fare qualcosa. Naturalmente, i laureati in PMC di questi corsi, con magari un anno post-laurea in una Business School o un Master in Diritto dei Diritti Umani, scivolano senza sforzo verso lavori di gestione, ONG, politica e amministrazione, dove non è richiesta la conoscenza della materia, ma dove le abilità sociali, il networking e il senso di superiorità che deriva da un’educazione costosa garantiscono il successo. La maggior parte delle persone che hanno lavorato in grandi organizzazioni possono raccontare storie dell’orrore di questi idioti con credenziali che hanno rovinato team e organizzazioni per stupidità e ignoranza. Ma questo è il PMC per voi.

Queste persone si riconoscono dal loro vocabolario dichiarativo e dai loro atti performativi, che sono in gran parte conseguenza di un’educazione che privilegia il conformismo e penalizza il pensiero originale. In questo senso, le università sono in gran parte una continuazione dell’infanzia. In passato, a partire dal Medioevo, l’università era l’ambiente in cui i giovani più intellettuali crescevano, sia intellettualmente che personalmente, sapendo che non tutte le loro esperienze sarebbero state felici. L’idea moderna che la vita non sia una sfida da affrontare, ma una minaccia da cui i bambini devono essere protetti, trova la sua naturale conclusione nel prolungamento dell’infanzia fino all’università, dove gli studenti si aspettano di essere protetti da qualsiasi cosa negativa possa accadere loro e di veder assecondate le loro debolezze intellettuali.

Il risultato, come confermerà chiunque abbia a che fare con le università di oggi, è la crescita esplosiva dei “servizi agli studenti”, destinati a perpetuare il ruolo dei genitori assenti nella vita di uno studente. Come nel caso dei genitori, i risultati sono spesso contrastanti e incoerenti, e a volte le diverse ingiunzioni sono difficili da conciliare tra loro. Nella maggior parte delle università di cui ho avuto esperienza, i requisiti accademici sono trattati con una certa flessibilità, mentre i codici sociali (spesso non scritti, o almeno interpretati in modo molto libero) sono applicati in modo molto più rigido. Il plagio o la copia possono comportare un avvertimento, se si ha una buona scusa, mentre una parola fuori posto dopo un bicchiere di troppo può essere la fine della carriera universitaria. Non si tratta di uno sproloquio sui giovani d’oggi (non faccio sproloqui): In realtà mi dispiace per alcuni studenti che ho incontrato, che hanno scelto di rimanere nel sistema universitario a un livello superiore alle loro reali capacità o necessità, perché non si sentono pronti ad affrontare il mondo esterno, ma hanno paura di commettere un errore che potrebbe portare alla loro espulsione da esso. E ho incontrato amministratori che non sapevano più cosa fare con loro. Nessun insegnante vuole che i suoi studenti falliscano, e molti studenti oggi vogliono avere successo, ma l’università riconfigurata dalla PMC rende la vita di entrambi più difficile del necessario. E il PMC è contento di questo: accetta che, per ottenere la propria perpetuazione, le istituzioni debbano essere rovinate e che la maggior parte di coloro che vi sono coinvolti debbano soffrire. A sua volta, questo atteggiamento riflette un approccio essenzialmente adolescenziale e frivolo alla vita, con la garanzia di impunità per le proprie azioni come un bambino assecondato.

La PMC non ha alcun interesse nella trasmissione della conoscenza a qualsiasi livello: anzi, la conoscenza può essere una minaccia, perché crea centri di potere separati con una propria legittimità. Così abbiamo visto la PMC abbracciare e soffocare settori come quello dell’assistenza medica, essenzialmente sminuendo ciò che non può capire (le complicate questioni mediche) ed enfatizzando ciò che può capire (le presentazioni in Powerpoint dei risultati finanziari). Dopo tutto, è abbastanza facile far venire medici e infermieri dall’estero, no? Finché non lo è. Allo stesso modo, il governo può essere ridotto a obiettivi, politiche dichiarative, azioni performative e tweet, perché il governo non è fondamentalmente serio, vero? Finché non lo è. Soprattutto, anche se il PMC accetta che le persone che sanno davvero le cose e possono farle sono effettivamente necessarie, cerca di mantenere le distanze da loro. Un professore di diritto dei diritti umani è accettabile, un procuratore di reati finanziari no.

Con il passare del tempo, i più ambiziosi e aggressivi tra i laureati della PMC sono andati a ricoprire ruoli importanti nelle istituzioni, spesso in lavori che in passato non esistevano, perché non erano considerati necessari. (È stato ampiamente notato che nella stessa settimana in cui è iniziata la guerra in Ucraina, la NATO ha nominato un responsabile della diversità a tempo pieno. Le priorità vanno rispettate, dopotutto, e la NATO, come tutte le organizzazioni, in realtà non fa nulla, è solo una scatola di giocattoli con cui giocare). E usano queste posizioni di potere per diffondere la loro ideologia, attraverso “workshop” e “corsi di formazione” obbligatori, spesso dedicati a temi che non hanno alcuna esistenza oggettiva.

Questa insensibilità deriva in parte dal rafforzamento ideologico collettivo (consumare gli stessi media, rispecchiare le opinioni altrui, tenere a distanza di sicurezza i punti di vista alternativi), in parte dal senso di impunità (c’è sempre un altro lavoro da qualche parte se sbagli) e in parte dal potere che il PMC internazionale ha di imporre la propria ideologia e coprire i propri errori. È, in effetti, l’impunità di ogni classe dirigente corrotta della storia. Per esempio, anche se non avete mai letto Il grande Gatsby, probabilmente vi sarete imbattuti in questa citazione:

“Erano persone sbadate, Tom e Daisy: distruggevano cose e creature e poi si ritiravano nei loro soldi o nella loro grande sbadataggine, o in qualunque cosa li tenesse insieme, e lasciavano che altri rimediassero al disordine che avevano combinato”.

Che è più o meno la storia delle élite, storicamente. Tom e Daisy erano protetti da qualcosa di più del denaro: avevano posizione sociale, reti, “educazione” e soprattutto la “grande noncuranza” di Fitzgerald: erano così sicuri della propria superiorità che non si curavano molto della gente comune. Questa è la PMC di oggi: il pericolo principale che rappresentano per persone come voi e me è la fatale fiducia collettiva e radicata che loro e le loro idee non possano mai sbagliare, e che alla fine nulla sia mai veramente serio. Se rompono qualcosa, non importa.

Ho già fatto l’esempio delle università, ma in realtà l’atteggiamento del PMC nei confronti di tutte le istituzioni è che sono (a) luoghi in cui possiamo creare posti di lavoro per persone come noi e (b) oggetti interessanti su cui fare esperimenti socio-politici. Le scuole sono un caso simile, purché siano scuole di altri. Quindi il PMC è ancora ipnotizzato dal tremolio delle braci morenti dell’ideologia della de-scolarizzazione degli anni Sessanta. L’educazione come repressione, la libertà di apprendimento dei bambini, l’abbattimento della gerarchia insegnante-alunno in un’esperienza di co-apprendimento in cui non ci sono risposte sbagliate. (Quando negli anni ’70 le persone cercavano di convincermi che l’educazione fosse una forma di violenza, chiedevo loro cosa pensassero dell’ignoranza).

Non sarebbe interessante e divertente, pensavano alcuni decenni fa, applicare alcune di queste idee e vedere cosa succede? Ok, le persone noiose che sanno davvero le cose ci dicono che questo ha portato a un calo catastrofico delle capacità di lettura e scrittura della gente comune, e che i datori di lavoro non riescono a trovare personale che sappia leggere abbastanza bene da impilare gli scaffali dei supermercati. Ma bisogna ammettere che si tratta di un’idea interessante e che comunque non siamo responsabili delle conseguenze. Un tempo la sinistra, che considerava l’istruzione una causa sacra, sarebbe intervenuta per opporsi a questi esperimenti, ma la moderna sinistra nozionistica non ha più una base di classe di massa e quindi non ha bisogno né vuole un elettorato istruito, perché si è defilata per unirsi al PMC diversi decenni fa. Così l’educazione dei bambini comuni diventa un teatro di sperimentazione performativa per assicurarsi tweet di approvazione. Le autorità francesi, di fronte al continuo declino degli standard educativi, qualche anno fa hanno deciso che il vero problema era… “l’omofobia” nelle scuole, e che quindi ci doveva essere “tolleranza zero” per essa, tranne quando proveniva da genitori di stretta fede musulmana, perché razzismo. Credo che stiano ancora cercando di risolverlo, ma è una questione che riguarda gli insegnanti mal pagati delle aree più difficili, che devono affrontare le conseguenze pratiche. Progettiamo subito una nuova campagna contro la “transfobia” nelle scuole, con seminari obbligatori per gli insegnanti. Inutile dire che questa grande disattenzione non si estende ai loro figli, che vengono educati in istituti tradizionali con una disciplina rigida e metodi di insegnamento antiquati. E così il divario tra l’educazione ricevuta dai figli della PMC e quella dei figli della gente comune cresce ogni anno.

Naturalmente non c’è niente di più divertente e interessante che rifare le società degli altri. Questo gioco ha l’ulteriore vantaggio che tutto ciò che si distrugge dovrà essere ripulito da altre persone di altri Paesi. Esiste infatti un’intera classe itinerante di “esperti” di PMC che si spostano da un Paese in crisi all’altro, lasciando dietro di sé una scia di rottami, a volte caos politico, a volte veri e propri rottami. Molti anni fa, mezzo addormentato all’aeroporto di Vienna una mattina presto, in attesa di una coincidenza per Sarajevo, ho visto seduto di fronte a me un giovane serio con un’elegante valigetta con il logo della Missione delle Nazioni Unite in Cambogia, senza dubbio diretto a creare scompiglio in una delle innumerevoli organizzazioni internazionali che cercano di rifare la Bosnia secondo i loro desideri. E da allora il numero di queste persone si è moltiplicato, girando per il mondo e lasciando una scia di distruzione normativa che Tom e Daisy non avrebbero mai potuto immaginare. Poiché la PMC non sa davvero nulla di nulla, i suoi rappresentanti trattano le altre nazioni, soprattutto quelle deboli in conflitto, come una scatola di mattoncini Lego da sistemare in una configurazione normativa piacevole, senza conseguenze. Quando Kabul è caduta in mano ai talebani, un paio di anni fa, non ho potuto fare a meno di pensare alla delegazione del Ministero degli Affari Femminili (creato dall’Occidente e finanziato dall’Occidente) e delle ONG associate finanziate dall’Occidente che avevo ospitato una volta: tutte donne della classe media con istruzione occidentale, che generalmente parlavano inglese. Spero che siano riuscite a correre abbastanza velocemente.

“Normativo” è la parola giusta. Poiché l’educazione della PMC non implica effettivamente l’apprendimento di qualcosa di utile, i suoi rappresentanti mostrano un’enorme disattenzione nei confronti di ciò che accade realmente sul campo: tutto ciò che chiedono è che ciò che è accaduto possa essere presentato come un successo, o almeno come un’interessante esperienza di apprendimento, dimostrando che “le misure del successo” devono essere più “granulari”, o che “è necessario un migliore coordinamento tra le parti interessate” o infine che “il nostro messaggio deve essere più mirato”. Ma non c’è, e non può esserci, alcuna accettazione del fatto che le loro idee possano essere sbagliate, perché sono per definizione normativamente corrette.

Questo non vuol dire che il PMC abbia un’ideologia organizzata: tutt’altro. Quello che ha è una serie di slogan normativi vagamente liberali, ognuno dei quali appartiene a una particolare lobby, che a volte si scontrano l’uno con l’altro. In passato, ad esempio, il PMC era banalmente antimilitarista, senza sapere nulla di questioni militari. Oggi è banalmente (e aggressivamente) militarista, senza aver imparato nulla sulle questioni militari nel frattempo. Quindi, poiché c’è una necessità normativa identificata dal PMC di “salvare” una popolazione da qualche parte che i media dicono essere a rischio, allora bisogna inviare forze anche se non esistono. In questo modo di pensare, i conflitti e persino la guerra non sono fondamentalmente seri. Minacciare la guerra contro la Russia e la Cina è solo una posizione retorica, come un tweet: non implica che qualcosa di serio accadrà davvero. Se succede, beh, è laggiù e non ci riguarda. Allo stesso modo, la PMC sembra credere contemporaneamente che le donne siano una forza di pace e che quindi debbano essere rappresentate in modo sproporzionato nei negoziati sui conflitti, ma anche che le donne siano in grado di combattere e uccidere tanto quanto gli uomini, e che debbano essere promosse alle più alte posizioni di comando in combattimento. Ma gli eserciti, come tutte le organizzazioni, sono essenzialmente decorativi e poco seri: non importa come funzionano, l’importante è il loro aspetto.

In Francia, di recente, le organizzazioni femministe hanno esercitato un’intensa attività di lobbying per ottenere maggiori risorse da destinare alla violenza contro le donne da parte della polizia (che altre parti del PMC francese nel frattempo liquidano come irrimediabilmente razzista e vogliono abolire). Ma hanno taciuto sulla terribile aggressione e mutilazione di una ragazza adolescente in una zona povera di Tolosa, avvenuta di recente per aver indossato abiti troppo succinti, perché gli aggressori erano… beh, potete immaginare da quale comunità provenissero. Nel frattempo, alcune femministe della comunità degli immigrati hanno esortato le vittime di violenza domestica a non denunciare la violenza alla polizia perché ciò potrebbe “stigmatizzare” gli immigrati nel loro complesso. E così via, ma le contraddizioni dell’ideologia del PMC non derivano dall’ipocrisia in quanto tale (anche se questa è sempre un problema in politica), ma piuttosto da un’incoerenza di pensiero e da un’ampia disattenzione sul fatto che i diversi slogan siano o meno in conflitto tra loro. Le conseguenze pratiche di queste confusioni, dopo tutto, devono essere risolte da altri.

Prima che tutto ciò inizi a sembrare troppo deprimente, ricordiamo che la PMC non è così potente come sembra, perché alla fine non sa nulla e non può fare nulla. Se vogliamo, è uno Stato che ha il monopolio formale della forza, ma la cui polizia è in gran parte non addestrata e non è in grado di affrontare i criminali gravi. In effetti, per la sua sopravvivenza la PMC dipende dalla polizia vera e propria, che nella maggior parte dei Paesi è impegnata ad alienare e che in ogni caso non morirà per proteggere i suoi lussuosi appartamenti.

Inoltre, se non si può fare appello ai loro sentimenti più sottili (poiché gli ideologi sono generalmente irraggiungibili in questo modo), si può sperare di vederli scomodati o addirittura spaventati, e in alcuni casi questo sembra accadere, poiché argomenti che prima erano chiusi contro le polemiche hanno iniziato ad aprirsi. Un esempio è quello dell’immigrazione.

Diciamo che venticinque anni fa, quando studiavamo diritto dei diritti umani, abbiamo scritto una relazione di fine corso molto apprezzata sul diritto intrinseco dei cittadini di qualsiasi Paese di vivere in qualsiasi altro Paese, ed è sempre stato ovvio che questo deve essere normativamente corretto. L’immigrazione di massa deve anche essere una buona cosa dal punto di vista pragmatico: più ristoranti etnici, prezzi più bassi con una forza lavoro meno costosa, facile accesso alle pulizie e a persone disposte a lavorare in orari non sociali. È vero che, già all’epoca, gli esperti sottolineavano i pericoli dell’importazione massiccia di società con costumi e valori molto diversi, scaricate in aree povere già prive di risorse, che spesso non parlavano la lingua madre e portavano con sé reti religiose e criminali, nonché l’assoluta necessità di fornire risorse massicce per assimilare ed educare queste persone. Ma ricordiamo di aver sostenuto nel nostro articolo che l’Occidente aveva un imperativo categorico kantiano ad accettare queste persone, e c’era qualcosa in Kant sul fatto che tali imperativi fossero automaticamente possibili, o qualcosa del genere, non è vero? Ad ogni modo, nei commenti settimanali antirazzisti che scriviamo per un mezzo di comunicazione adiacente al PMC, di solito sosteniamo qualcosa del genere. I dettagli devono essere risolti da altri: il nostro compito è solo quello di individuare gli obblighi morali da imporre loro.

Ma le cose potrebbero cambiare un po’. Cara, l’Agenzia ha telefonato per dire che la nostra donna delle pulizie non può più venire. A quanto pare il marito ha subito molte pressioni da parte dei nuovi vicini per non permettere alla moglie di andare a lavorare fuori, e non so dove troveremo qualcuno che venga fino in centro a pulire il nostro appartamento di 150 metri quadrati. Sì, caro, e il ristorante che ci piace in piazza non apre più il sabato sera: ci sono stati troppi disordini e violenze a causa delle lotte tra bande di spacciatori. Che fine ha fatto il mondo? E il direttore del supermercato locale ha detto che ora dovranno chiudere alle 20, perché gli autisti degli autobus si rifiutano di andare in periferia di notte per paura di essere attaccati, e quindi il personale non può tornare a casa. È una vera sofferenza.

Nulla di tutto ciò è inventato, tra l’altro. Anche se per il momento il PMC è stato in grado di imporre una rigida disciplina ideologica alle discussioni sui recenti disordini in Francia, la sua presa sul discorso si sta chiaramente indebolendo, e altrettanto chiaramente sta iniziando ad avere paura di se stesso. Una buona guida è la sezione dei commenti dei lettori di Le Monde agli articoli che dicono che è tutta colpa della violenza della polizia blah blah blah del razzismo strutturale blah blah, e che in generale sono stati assolutamente sprezzanti. E Le Monde ha la reputazione di censurare i commenti più critici, quindi il cielo sa come erano. Quando hai perso i lettori di Le Monde …. Nel frattempo, gli intrepidi esploratori dei media adiacenti al PMC, che si avventurano nelle aree ad alta densità di immigrati, riferiscono con toni scioccati, scioccati, che molti degli abitanti del luogo, provenienti da famiglie di immigrati, stanno pensando di votare per la Le Pen come l’unica in grado di trovare una via d’uscita dall’attuale situazione.

Poi c’è tutta quella roba degli studi critici, che ha creato tanti dipartimenti universitari e tanti buoni posti di lavoro per il PMC nell’amministrazione universitaria, dove non è necessario sapere nulla, ma che fungono da trampolino di lancio per acquisire potere anche su altre istituzioni. Ma all’improvviso, sembra che i nostri figli prendano sul serio tutta questa roba del Gender: non vogliono più avere relazioni, perché alle ragazze è stato insegnato che gli uomini sono intrinsecamente aggressivi e violenti, e ai ragazzi è stata imposta la paura di essere accusati di queste cose. A entrambi è stato insegnato che tutte le relazioni umane sono solo lotte di potere e che si tratta di chi ha il controllo. Non è mai stato questo il piano, e la nostra vasta compiacenza sugli effetti di questo insegnamento sta venendo meno. Qualcuno dovrebbe risolvere la questione. E questa faccenda del cambio di sesso, che era così bella quando la leggevamo nei romanzi sulla cultura di Iain Banks, si rivela un po’ più complicata nella vita reale: suicidi e altro. E poi, naturalmente, c’è Covid, dove il PMC, che ha bisogno che Covid finisca per poter fare il brunch, si è improvvisamente reso conto che Covid ha un proprio punto di vista sull’argomento, e che dichiarare che qualcosa è finito non significa effettivamente che lo sia. Chi l’avrebbe mai detto?

All’estremo opposto, c’è la questione della guerra, del conflitto, della pace e dell’uso della violenza. Come ho detto sopra, il PMC contiene idee irrimediabilmente contrastanti su questi argomenti, a volte sostenute dalla stessa persona a giorni alterni, ma ciò che distingue il PMC nel suo complesso è, in primo luogo, la totale ignoranza delle questioni militari e, in secondo luogo, la forte convinzione che la loro ignoranza non abbia importanza. Nient’altro può spiegare la spaventosa alienazione dalla realtà delle élite politiche e mediatiche di oggi: evidentemente hanno imparato alla Business School che la domanda crea la propria offerta (ora non ricordo i dettagli) e sembrano sinceramente credere che basti annunciare una nuova divisione corazzata per far sì che gli imprenditori si attivino per aprire fabbriche che consegnino carri armati entro la fine dell’anno, e che un esercito possa essere creato da un giorno all’altro se si paga abbastanza.

Le sanzioni, che sono normativamente giuste a prescindere dalle conseguenze, sono qualcosa che abbiamo imparato al corso di diritto internazionale e sono un’idea davvero interessante. Sì, potrebbero esserci delle conseguenze per le nostre popolazioni, le nostre economie e le nostre industrie, sì, le cose potrebbero andare in frantumi, ma poi ci ritiriamo nella nostra grande negligenza e lasciamo che siano gli altri a occuparsi delle conseguenze. Finché, naturalmente, le conseguenze non iniziano a colpirci personalmente, in modo inequivocabile, come penso accadrà.

Il PMC può pensare solo in modo normativo e in termini astratti, da cervello sinistro. L’Ucraina sta vincendo perché ci sono delle ragioni. Se l’Ucraina non sta vincendo, ciò implicherebbe che le idee normative che guidano il PMC devono essere sbagliate, e questo è impossibile. Quindi l’Ucraina sta vincendo. Ancora più importante, la Russia deve perdere, e qualsiasi forza che lo renda possibile, compresi i macho con tatuaggi nazisti, deve essere sostenuta. Poiché questa casta vive in un mondo in cui il discorso è l’unica realtà, come hanno imparato da qualche parte all’università, non ricordo bene i dettagli, sono cresciuti con l’idea che il controllo del discorso significa controllo della realtà. Ripetete dopo di me: questi non sono tatuaggi nazisti. Quando la verità è troppo dolorosa da gestire, si cerca di cancellarla e se non funziona si trova uno spazio sicuro da qualche parte. Il problema è che, mentre questo approccio può funzionare in un sistema, come quello universitario, in cui si ha un controllo pratico totale, non può funzionare quando il mondo reale bussa alla tua porta e devi fare qualcosa.

Cosa che accade sempre più spesso. Siamo arrivati al punto in cui negare l’esistenza dei problemi e imporre il silenzio a chi si controlla non basta più a contenere il problema. È ora che la PMC cresca, ma non credo che sia in grado di farlo. A livello individuale, la maggior parte di queste persone non è molto temibile: sono troppo inconsistenti per essere malvagi, troppo infantili per essere sinistri. Come classe, sono uniti contro gli estranei, ma al di là di questo, non c’è letteralmente nulla che li unisca se non un vasto compiacimento nei confronti di tutti e di tutto il resto. Ma non è certo che gli affari del mondo occidentale siano mai stati gestiti da una casta di persone più superficiali, più insicure e più immature.

Il che mi ha fatto pensare, come si fa, a un altro romanzo ambientato in una società altrettanto rarefatta e pubblicato più di un secolo prima di quello di Fitzgerald. Mi riferisco a Les Liaisons dangéreuses di Pierre Choderlos de Laclos (negli anni Ottanta ne è stata fatta una versione cinematografica in lingua inglese con Glenn Close). La storia riguarda due aristocratici malvagi, il visconte di Valmont e il marchese di Merteuil. Il Marchese convince il Visconte a sedurre Cécile, un’adolescente di un convento che sta per sposarsi con il Conte di Gercourt, perché Gercourt è un ex amante con cui lei ha litigato. (La rappresentazione glaciale e virtuosa di un mondo di manipolazione rituale degli altri e di vuoto edonismo seriale ricorda stranamente quella del romanzo di Fitzgerald, soprattutto per il senso di assoluta impunità di cui godono tutti i personaggi principali. Seducono le persone e distruggono le loro vite, lasciando che siano gli altri a rimediare al disastro. (Cécile alla fine fugge in convento). Formano una casta, come i personaggi di Fitzgerald, che si difende dagli estranei, ma dove tutti sembrano impegnati a sfruttare gli altri (il marchese si diverte a torturare le ex amanti nella speranza che lei le riprenda, per esempio).

Si è tentati di vedere la PMC di oggi come una sorta di versione adolescenziale da bar dell’aristocrazia europea della fine del XVIII secolo, che parla una lingua comune, isolata dal contatto con la gente reale, che si sposta da un paese all’altro, educata ora in università d’élite piuttosto che da precettori privati e in Grand Tour. E naturalmente l’aristocrazia del romanzo di Laclos ha fatto una brutta fine, una manciata di anni dopo la sua pubblicazione nel 1782.

Tuttavia, Laclos stesso non sembra aver anticipato la Rivoluzione e, sebbene i suoi personaggi principali facciano entrambi una brutta fine, non è per ragioni politiche, così come l’inutile omicidio di Gatsby alla fine del romanzo non è in realtà il prodotto di nulla se non della gelosia e dell’incomprensione. Quindi, se da un lato si è tentati di fantasticare su una rivoluzione che spazzerà via dal potere questa casta, dall’altro la loro fine effettiva (che credo si stia avvicinando) sarà probabilmente più banale e meno brusca.

Come ho già sottolineato in precedenza, non esiste un’ideologia o un movimento in attesa in grado di prendere il posto del PMC, né esistono strutture intermedie che possano organizzare la sua caduta e la sua sostituzione. È un peccato, perché in effetti il PMC è vulnerabile e sarebbe un bersaglio facile da spazzare via. Penso piuttosto che un po’ alla volta, persona per persona e istituzione per istituzione, la PMC comincerà a crollare sotto lo stress di situazioni che non possono essere ridotte a tweet e slide di Powerpoint. Dove troverete i politici in grado di guardare negli occhi una Russia forte e potente e di rispondere con concessioni realistiche e promesse di buona condotta piuttosto che con facce sciocche e insulti? Dove troverete gli opinionisti dei media che spiegheranno che il riscaldamento globale non è quello che vorremmo, ma quello che è e che dovremo fare? Quanto dureranno ancora i gruppi per i “diritti umani” che ci dicono che i governi non devono costringere le persone a fare qualcosa per evitare la diffusione di Covid?

In passato abbiamo assistito alla sostituzione totale delle classi dirigenti. Qui non credo sia possibile. Ma non vedo nemmeno conversioni damascene. Se sei un esperto di diritti umani normativi che ha passato vent’anni a dare lezioni ai governi di tutto il mondo su come dovrebbero comportarsi, cosa farai quando queste idee saranno brutalmente messe da parte mentre la civiltà occidentale lotta per sopravvivere? Beh, suppongo che si possa andare a lavorare in un supermercato, ma è discutibile che molte persone di questo tipo abbiano le qualifiche pratiche per farlo.

Ci saranno lacrime prima di andare a dormire.

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La catastrofe delle élite, la rovina delle nazioni_ a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Qui sotto un’altra pregevole recensione pubblicata in contemporanea su https://civiumlibertas.blogspot.com/2019/02/la-catastrofe-delle-elite-ne-parla-t.html?utm_source=feedburner&utm_medium=email&utm_campaign=Feed%3A+blogspot%2FvDDIG+%28Civium+Libertas%29 e su http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/

 

Antonio Pilati, La catastrofe delle élite, Edizione Guerini e Associati, Milano 2018, pp. 143, € 17,50.

Dopo un silenzio durevole quanto innaturale, seguito da svalutazioni stizzose (tutt’altro che esaurite) da parte dalle élite in via di detronizzazione dopo il 4 marzo (le “idi di marzo” – anticipate rispetto al calendario romano – della seconda repubblica), la letteratura sul populismo e sul sovranismo ha avuto un’impennata spettacolare, proporzionale alla pluriennale compressione del dibattito su tale svolta storica. Di libri che ne parlano, e spesso, come questo, nel senso non di giudicarli rispetto a idee e valori, ma Wertfrei in ossequio al “fattuale”, ne escono non meno di uno a settimana. Al punto che, a leggerli tutti, sarebbe necessario di fare di un interesse una professione: quella di populologo o sovranologo (variante sovranosofo). Dato che non ho tempo di diventarlo, cerco di recensirne qualcuno. A questo attento saggio di Pilati mi è venuto in mente che potrebbe essergli assegnato il premio “eterogenesi dei fini” per l’importanza – tutt’altro che esagerata – data a tale costante delle vicende umane rispetto agli altri saggi in circolazione.

Una parentesi per il lettore: con eterogenesi dei fini si definisce quell’azione/i umana/e il cui risultato è tutt’altro che quello voluto dall’agente. Omne agens agit proter finem, sosteneva S. Tommaso, ma non è detto che le azioni portino alle conseguenze sperate, progettate, volute.

Ed è proprio quello che è capitato nella storia di questi anni, e che Pilati evidenzia sin dalle prime pagine del libro.

Le élite inconsapevoli (così – giustamente – definite) non hanno né capito quanto stava succedendo – dopo il collasso del comunismo – né elaborato una strategia che tenesse conto dei dati reali e delle regolarità del politico (e non solo). In fondo la rappresentazione più sintetica (o tranquillizzante) di tale visione l’aveva data Francis            Fukuyama col notissimo saggio sulla fine della storia. Sul quale mi capitò di scrivere che il filosofo nippo-americano aveva affermato due cose: a) che le democrazie occidentali avevano vinto il confronto con il comunismo, ossia la guerra fredda (vero); b) che, venuto meno il conflitto borghesia/proletariato sarebbe venuto meno – o sarebbe stato eliminato, o almeno, minimizzato – ogni conflitto (falso). Cioè superata la regolarità amico/nemico. Invece già l’11 settembre 2001 (al più tardi) si aveva uno choc planetario, che provava quanto fosse frutto di (condivisibili quanto errate) aspirazioni la tesi di Fukuyama. E già da prima maturavano le condizioni politiche, economiche e sociali di un nuovo contenuto/scriminante dell’amico/nemico: quello tra globalizzazione e comunità (e identità). Ma di ciò si è letto poco fino a tre/quattro anni fa. Per cui chiamare inconsapevoli le élite che hanno gestito la globalizzazione nel ventennio a cavallo dei due secoli è tutto da condividere.

Scrive l’autore che i punti-chiave della globalizzazione non compresi dai governanti di allora, erano quattro: la crescita economica auspicata creava nuovi squilibri; indeboliva il primato economico americano; genera divisioni tra Stati e all’interno degli Stati tra i vincitori (pochi) e i perdenti (tanti) della globalizzazione; infine le classi dirigenti erano cieche e insensibili alla “caduta sociale (e al dolore esistenziale) di chi soffre con la nuova globalizzazione ipertecnologica”. Ma ciò generava una nuova offerta politica, corrispondente alla domanda degli insoddisfatti. “La spaccatura diventa insanabile e il conto arriva alle elezioni del 2016” (e non è finita). Anche il tentativo di correre ai ripari, trovando (e costruendo) una versione pop del Katechon paolino (che era l’Impero romano, istituzione di tutt’altra consistenza e serietà) si risolve in un’eterogenesi dei fini: “l’invenzione in provetta dello sprezzante elitista Macron”, peraltro lì per lì riuscita, pare stia risolvendosi in un’abnorme crescita dell’opposizione anti-elitaria ed extraparlamentare dei “gilet gialli”. In altre parole le  ostetriche dei populisti sono state le élite inconsapevoli (e mediocri). Scrive Pilati, a tale proposito sull’Italia e sui governi Monti (e successivi) che la loro azione “accumula stasi dell’economia, che si traduce in una cronica perdita di attività produttive e di reddito per molta parte della popolazione, disordine amministrativo, che sfocia nel proliferare dei poteri  di veto, fragilità nei rapporti internazionali che stringono i vincoli gravanti sull’Italia e impongono più volte soluzioni onerose (sicurezza, banche, energia)”.

Da cui la prevedibile vittoria dei partiti anti-sistema; la quale conseguiva però anche da un’incapacità di sintesi sistemica. Mancando questa, il concretizzarsi di un’opposizione anti-sistema, è una logica conseguenza; e anche d’altro, già evidenziato da Lasch oltre vent’anni fa.

Tuttavia la conclusione di questa fase è ancora da venire. “Il voto del 4 marzo 2018, con il suo dirompente risultato che dà oltre metà dei voti a due movimenti o neonati (M5S è alla sua seconda elezione nazionale) o appena rifondati (Lega) e mette ai margini le forze che da un quarto di secolo dominano la scena parlamentare e fanno i governi, è soprattutto un sintomo di malessere: chiude una fase storica, ma non mostra la forza e la visione di aprirne una nuova. Inaugura una transizione incerta, ancora da definire nei suoi tratti operativi, esposta a molti contrasti e a contrattacchi violenti: più che un momento di decollo segna una frattura – un’altra – nella storia della politica recente” ma rispetto alle alte due crisi recenti (Tangentopoli nel ’91-’94 e governo dell’establishment del 2011-2012) c’è qualche chances in più: “Nei casi trascorsi i cambiamenti non hanno provocato esiti felici e la crisi italiana nel tempo non ha fatto che aggravarsi: l’esasperazione testimoniata dai risultati elettorali lo dimostra. Oggi però è il contesto internazionale, che in passato non ha giocato per noi, è molto fragile… In Italia la presa dell’establishment, che ha sempre penalizzato gli impulsi innovatori, appare confusa e contestata, l’innovazione della tecnologia offre chance favorevoli”. Speriamo bene.

C’è tanto altro in questo interessante saggio, ma la natura succinta della recensione non consente di scriverne: ai lettori scoprirlo.

Teodoro Klitsche de la Grange