Sul “potere sub-imperiale” (di Arnaud Bertrand)

Sul “potere sub-imperiale” (di Arnaud Bertrand)

di Arnaud Bertrand
(riprodotto con il permesso dell’autore)

Ho appena finito di leggere “Potere sub-imperiale” di Clinton Fernandes, ex ufficiale dei servizi segreti australiani e ora professore di studi internazionali e politici all’Università del Nuovo Galles del Sud.

Per completezza di informazione, Clinton mi ha inviato il libro e ha scritto una bella dedica su di esso, definendomi un “educatore pubblico”, che è un modo carino per dire che twitto troppo 😄

Ma non scriverei questo se non mi piacesse davvero il libro, che ritengo sia una lettura essenziale se si vuole capire la geopolitica australiana o se si è interessati alla geopolitica in generale.

Il libro fa una delle migliori descrizioni dell'”ordine internazionale basato sulle regole” che abbia mai letto, descrivendo nei dettagli come l’Australia non sia un vassallo o uno Stato cliente degli Stati Uniti, come molti credono, ma piuttosto una “potenza sub-imperiale”. Ciò significa che l’Australia, così come altre “potenze sub-imperiali” come Israele o il Regno Unito, sono essenzialmente gli scagnozzi dell’attuale dominio “imperiale” degli Stati Uniti, con il compito di preservarlo nelle rispettive regioni. Ciò significa che, in quanto scagnozzi, non sono tanto vittime di un dominio egemonico statunitense, quanto piuttosto ritengono di trarne benefici così sproporzionati da essere disposti a fare di tutto per aiutare gli Stati Uniti a preservare questo dominio contro le vere vittime, coloro che perdono in modo sproporzionato dall’ordine.

Uno degli aspetti più interessanti del libro è il modo in cui si discosta dalle teorie del realismo, sostenute da personaggi come John Mearsheimer o Stephen Walt, che affermano che tutti gli Stati – a prescindere dalla cultura, dalla religione, dalla gerarchia sociale o dal sistema politico – agiranno allo stesso modo perché tutti danno priorità alla sopravvivenza e alla sicurezza sopra ogni altra cosa. Essi affermano che, dato che la massimizzazione del potere è il modo migliore per sopravvivere nel sistema internazionale, se ne avessero l’opportunità tutti gli Stati cercherebbero di diventare egemoni come lo sono oggi gli Stati Uniti o ieri la Gran Bretagna imperiale.

Fernandes presenta una tesi molto diversa, che a mio avviso spiega molto meglio il funzionamento del mondo e il comportamento storico dei vari Stati. Il suo punto di vista è che c’è qualcosa di unico nella geopolitica degli Stati Uniti, e in quella degli Stati coloniali occidentali che li hanno preceduti, in quanto hanno queste caratteristiche estremamente aggressive – l’impulso a soggiogare e saccheggiare gli altri – che in realtà spesso danneggiano la loro sicurezza piuttosto che salvaguardarla. E lo spiega con l’indebito potere che la classe ricca ha sullo Stato in quei sistemi di governo.

Il che è difficile da negare se si guarda alle cose storicamente: per esempio, è stata la Compagnia delle Indie Orientali a iniziare la colonizzazione e il saccheggio dell’India, non lo Stato britannico che è arrivato solo in seguito per pacificare essenzialmente la crescente ribellione in India in modo da perpetuare il saccheggio in corso. Oppure prendiamo un esempio più recente: la guerra in Iraq. Ha pochissimo senso dal punto di vista della sicurezza o della sopravvivenza degli Stati Uniti, ma ha un ottimo senso dal punto di vista dell’egemonia economica o delle compagnie petrolifere statunitensi. O ancora l’attuale conflitto a Gaza, che è estremamente negativo per la sicurezza americana, in quanto genera in tutto il mondo musulmano una marea di odio contro l’America e distoglie l’attenzione americana da sfide geopolitiche più importanti. Ma ha senso se lo si guarda dal punto di vista della perpetrazione di un sistema egemonico.

In altre parole, il punto di Fernandes è che la caratteristica chiave dell'”ordine internazionale basato sulle regole” riguarda l’effettiva struttura del sistema sociale ed economico americano (o britannico, francese, australiano, ecc.), che cerca di imporre un ordine in cui il mondo intero è aperto alla penetrazione e al controllo delle rispettive classi economiche nazionali. Ecco perché l’ordine riguarda l’egemonia e non la sicurezza, e perché la prima viene spesso a scapito della seconda.

È interessante notare che John Mearsheimer si lamenta spesso, se lo si ascolta: “Perché gli Stati Uniti dovrebbero agire in modi così sciocchi che vanno contro le mie teorie realiste?”. Si è opposto fermamente alla guerra in Iraq, ha messo in guardia per molti anni dal rischio di uno scontro con la Russia in Ucraina se avessimo ampliato la NATO, e continua a parlare contro l’inequivocabile sostegno degli Stati Uniti a Israele. E così facendo Mearsheimer ammette che il realismo non spiega del tutto il comportamento degli Stati e che quindi le sue teorie non sono del tutto corrette. Fernandes offre qui una spiegazione che predice meglio il comportamento effettivo degli Stati Uniti e delle loro “potenze sub-imperiali”: non si può capire il comportamento degli Stati se ci si limita a una visione stato-centrica, ma bisogna guardare anche alle caratteristiche uniche del loro sistema politico, sociale ed economico.

Un ultimo punto interessante è che, dato che sostiene che i sistemi politici ed economici degli Stati giocano un ruolo chiave nel definire la loro geopolitica, il libro di Fernandes implica la previsione che, con l’aumento del potere della Cina, essa si comporterà in modi molto diversi rispetto agli Stati Uniti e ai suoi scagnozzi imperiali.

Dato il sistema cinese, cercherà indubbiamente di massimizzare il proprio potere, ma questa volta lo farà per la propria sicurezza e sopravvivenza, e non per servire gli interessi della propria classe ricca, e come tale si comporterà in modo molto meno aggressivo degli Stati Uniti. Ancora una volta, è interessante notare che anche Mearsheimer lo ammette, perché dice ripetutamente “quando sono in Cina, sono tra la mia gente”: come dire che seguono le sue teorie realiste molto più fedelmente degli Stati Uniti. Possiamo già vederne i contorni: è assolutamente ovvio che lo Stato cinese non è alla mercé della sua classe ricca, anzi, la Cina non è esattamente un Paese dove i miliardari hanno vita facile 😂 Stessa cosa per quanto riguarda l’egemonia: La Cina non si occupa di alleanze militari (non ne ha), interferenze straniere o colpi di stato. Infatti non ha mai sparato un solo proiettile all’estero in oltre 4 decenni. Al contrario, cerca di creare un ordine con sicurezza indivisibile e rispetto reciproco incorporato nel sistema, dove idealmente sarebbe lo Stato più potente – certo – ma non per saccheggiare o sottomettere gli altri, ma perché questo garantisce la sua sicurezza e stabilità.

Ed è esattamente il modo in cui si è comportata per 1.800 anni, quando era lo Stato più potente del pianeta prima della rivoluzione industriale: non ha mai cercato di colonizzare e saccheggiare il mondo, perché riteneva che ciò sarebbe andato a scapito della propria sicurezza, proprio come avviene oggi a scapito della sicurezza e degli interessi americani. Ha invece cercato relazioni commerciali e di rispetto reciproco che massimizzassero la sicurezza e la stabilità a lungo termine.

In ogni caso, dovreste leggere il libro: è fin troppo raro che un libro del genere venga scritto da accademici occidentali. In genere si leggono le solite stronzate sulla superiorità intrinseca dei valori occidentali e varie teorie mal fondate sul perché dovremmo governare il mondo. Questo libro offre una panoramica al di fuori della matrice.

fine del testo di Arnaud Bertrand

b qui.

Potreste liquidare il “potere sub-imperiale” discusso sopra come una “frase zoppa per evitare che [gli australiani] debbano dire vassallo”. C’è del vero in questo.

Ma distinguere l’egemonia monetaria dall’imperialismo basato sulla sicurezza come causa principale del disordine globale è, per me, una nuova intuizione. Detto in altro modo: L’aspetto della sopravvivenza e della sicurezza è rilevante solo nella misura in cui riguarda la classe dei ricchi. La visione realista di Mearsheimer non tiene conto di questo aspetto.

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IL SIGNORAGGIO DEL SISTEMA FINANZIARIO. UNA RIFLESSIONE, di Luigi Longo

IL SIGNORAGGIO DEL SISTEMA FINANZIARIO. UNA RIFLESSIONE

di Luigi Longo

La finanza è un’arma, la politica è sapere

quando tirare il grilletto.

don Vito Lucchesi*

Ho trovato utile lo scritto Signoraggio e green transition di Marco Della Luna, apparso sul suo sito www.marcodellaluna.info il 26/2/2023, perché stimola una riflessione sul ruolo del denaro a partire da un campo delicato ma non fondamentale come il sistema finanziario che viene utilizzato dagli agenti strategici dominanti e sub-dominanti per le loro strategie di potere e di dominio (qui il denaro è inteso come rapporto sociale la cui accumulazione e appropriazione seguono diverse strade nelle ineguali sfere costituenti la società economica, politica, culturale, sociale).

Lo scritto fa riflettere, inoltre, sulla egemonia del sistema finanziario basato sulla valuta del dollaro (USA) che viene messa in discussione dall’avanzare di altri sistemi finanziari basati sulle valute dello yuan, del rublo, della rupia (che esprimono altri modelli di sviluppo ancora da capire bene) del costruendo polo asiatico che ha dato una svolta decisiva, a seguito dell’aggressione Usa alla Russia via Nato-EU-Ucraina, alla fase multicentrica mondiale. Pepe Escobar, riportando una sintesi dell’intervista a Sergey Glazyev (ministro incaricato per l’Integrazione e la Macroeconomia dell’Unione Economica dell’Eurasia nonché noto politico ed economista russo), così scrive << In sostanza, secondo Glazyev, la Russia, pesantemente sanzionata, non assumerà un ruolo di leadership nella creazione di un nuovo sistema finanziario globale. Questo ruolo potrebbe spettare all’iniziativa di sicurezza globale della Cina. La divisione in due blocchi sembra inevitabile: la zona dollarizzata – con l’eurozona incorporata – in contrasto con la maggioranza del Sud globale che utilizzerà un nuovo sistema finanziario e una nuova valuta commerciale per gli scambi internazionali. A livello interno, le singole nazioni continueranno a fare affari nelle loro valute nazionali. >> (1). Sulla efficacia relativa delle sanzioni, nei confronti della Russia da parte degli USA-NATO, e sul non sense del considerare un indicatore economico come il PIL (Prodotto Interno Lordo) per misurare la forza di una nazione riporto una interessante osservazione di Giorgio Ardeni e Francesco Sylos Labini:<< Il Pil totale della Federazione Russa, valutato in termini reali a prezzi 2017 a parità di potere d’acquisto […] tra il 1990 e il 2021 è cresciuto di pochissimo, passando dai 3.180.000 ai 4.080.000 miliardi di dollari. Il Pil pro capite, dopo il crollo degli anni Novanta, è invece passato dai 12.358 dollari del 1998 ai 27.960 del 2021, a metà circa tra quello cinese e quello europeo, quindi. Il Pil totale di Russia e Bielorussia, però, rappresenta appena il 3,3% del Pil occidentale o dei Pca (Paesi capitalistici avanzati, mia precisazione) (Stati Uniti, Anglosfera, Europa, Giappone, Corea del Sud). Inoltre, una delle maggiori entrate per la Russia era rappresentata dall’esportazione di gas e petrolio verso l’Europa. Per questo motivo, allo scoppiare della guerra, si era convinti che la Russia, con l’imposizione delle sanzioni, sarebbe stata schiacciata economicamente. Tuttavia, il rublo ha guadagnato l’8% rispetto al dollaro e il 18% rispetto all’euro dalla vigilia dell’ingresso in guerra. L’economia russa non solo ha retto bene il peso delle sanzioni, ma è stata capace di rivolgersi verso altri Paesi per l’esportazione di materie prima e l’importazione di tecnologia (quello che era un tempo l’accordo con la Germania, energia a basso costo in cambio di tecnologia) mentre l’industria bellica, fino ad ora, è riuscita a rifornire l’esercito. Come spiegare questa dinamicità economica se il Pil è così modesto? (corsivo mio, LL).

La guerra diventa un test dell’economia politica, è il grande rivelatore: ci si chiede come questo Pil insignificante possa affrontare la guerra e continuare a produrre missili. Todd fa notare che il motivo è che il Pil è una misura fittizia della produzione (corsivo mio, LL), soprattutto per un Paese con grandi risorse di materie prime come la Russia: «Se si sottrae dal Pil americano metà delle sue spese sanitarie sovrafatturate, poi la “ricchezza prodotta” dall’attività dei suoi avvocati, dalle carceri più affollate del mondo, poi da un’intera economia di servizi scarsamente definiti tra cui la “produzione” dei suoi 15-20.000 economisti con uno stipendio medio annuo di 120 mila dollari, ci rendiamo conto che una parte importante di questo Pil è solo vapore acqueo. La guerra ci riporta all’economia reale, rende possibile capire quale sia la vera ricchezza delle nazioni, la capacità produttiva e quindi la capacità di guerra. Se torniamo alle variabili materiali, vediamo l’economia russa. Nel 2014, abbiamo messo in atto le prime importanti sanzioni contro la Russia, ma essa ha da allora aumentato la sua produzione di grano, che va da 40 a 90 milioni di tonnellate nel 2020. Mentre, grazie al neoliberismo, la produzione americana di grano, tra il 1980 e 2020, è passata da 80 a 40 milioni di tonnellate. La Russia è anche diventata il primo esportatore di centrali nucleari. Nel 2007, gli americani hanno spiegato che il loro avversario strategico era in un tale stato di decadimento nucleare che presto gli Stati Uniti avrebbero avuto una capacità di primo colpo atomico su una Russia che non avrebbe potuto rispondere. Oggi i russi sono in superiorità nucleare con i loro missili ipersonici. La Russia ha quindi un’autentica capacità di adattamento. Quando vuoi prendere in giro le economie centralizzate, sottolinei la loro rigidità, mentre quando fai l’apologia del capitalismo, ne vanti la flessibilità. Giusto. Affinché un’economia sia flessibile, prendi ovviamente il mercato dei meccanismi finanziari e monetari. Ma prima di tutto, hai bisogno di una popolazione attiva che sappia fare delle cose. Gli Stati Uniti hanno ora più del doppio della popolazione della Russia (2,2 volte nelle fasce di età degli studenti). Resta il fatto che con proporzioni da parte di coorti comparabili di giovani che fanno istruzione superiore, negli Stati Uniti, il 7% sta studiando ingegneria, mentre in Russia è il 25%. Ciò significa che con 2,2 volte meno persone che studiano, i russi formano il 30% di più ingegneri. Gli Stati Uniti colmano il buco con studenti stranieri, ma che sono principalmente indiani e ancora più cinesi. Questa risorsa di sostituzione non è sicura e già diminuisce. È il dilemma fondamentale dell’economia americana: può affrontare la concorrenza cinese solo importando forza lavoro qualificata cinese. Propongo qui il concetto di bilanciamento economico. L’economia russa, da parte sua, ha accettato le regole operative del mercato (è persino un’ossessione per Putin quella di preservarle), ma con un ruolo grandissimo dello Stato (corsivo mio, LL). E si tiene anche la sua flessibilità della formazione di ingegneri che consentono gli adattamenti, sia industriali che militari». Sulla produzione di armi Todd aggiunge:<< Una delle cose sorprendenti in questo conflitto, e questo lo rende così incerto, è che pone (come qualsiasi guerra moderna) la questione dell’equilibrio tra tecnologie avanzate e produzione di massa. Non vi è dubbio che gli Stati Uniti abbiano alcune delle tecnologie militari più avanzate, che a volte sono state decisive per i successi militari ucraini. Ma quando si entra nella durata, in una guerra di logoramento, non solo dalla parte delle risorse umane, ma anche di quelle materiali, la capacità di continuare dipende dal settore della produzione di armi più basso. E troviamo, vedendolo ritornare dalla finestra, la questione della globalizzazione e il problema fondamentale degli occidentali: abbiamo trasferito una proporzione tale delle nostre attività industriali che non sappiamo se la nostra produzione di guerra può proseguire. Il problema viene ammesso. La Cnn, il New York Times e il Pentagono si chiedono se l’America riuscirà a rilanciare le catene di produzione di questo o quel tipo di missile. Ma non sappiamo se i russi saranno in grado di seguire il ritmo di un tale conflitto. Il risultato e la soluzione della guerra dipenderanno dalla capacità dei due sistemi di produrre armamenti» >>. (2).

Dopo questa lunga e interessante considerazione, riprendo la mia riflessione. Leggere il denaro come rapporto sociale permette di capire come si configurano gli agenti strategici egemonici (sia nelle diverse sfere sociali sia nell’insieme della società) che decidono le sorti delle rispettive potenze mondiali di appartenenza, delle loro aree di influenza e dell’equilibrio/squilibrio nelle diverse fasi del sistema mondiale (monocentrica, multicentrica e policentrica).

Nelle società occidentali e orientali (non interessa in questo scritto evidenziare le loro differenze storiche), basate sul modo di produzione capitalistico, il lavoro, la natura, le risorse, le materie prime sono merci e vengono utilizzate tenendo conto di un solo parametro che è quello della razionalità strumentale (minimo costo e massimo risultato) senza curarsi delle conseguenze sociali (nelle diverse articolazioni che compongono i popoli) e naturali (nelle diverse declinazioni ambientali, paesaggistiche, ecologiche e territoriali). << Il disvelamento, ormai indispensabile, dell’ideologia che predica la predominanza della razionalità del minimo mezzo (o massimo risultato) implica la comprensione che quest’ultima è invece puramente strumentale […] ed è dunque subordinata all’azione strategica, alle sue finalità di conflitto per conseguire una supremazia. Questo conflitto è politico in qualsiasi sfera sociale (economica, politica, ideologico-culturale) si esprima (corsivo mio, LL), pur se viene svolto con modalità particolari (e con diverse “ampiezze d’orizzonte”) nelle differenti sfere >> (3).

Pertanto la transizione ecologica (la green transition), che presuppone una rivoluzione dentro il capitale in termini di produzione e riproduzione della vita e delle sue forme territoriali (dalle città alle campagne), così come viene avanzata, a prescindere dal suo reale utilizzo e coordinamento mondiale, ha come obiettivo non un modello sociale basato sul benessere individuale e sociale dentro gli equilibri della natura ma un modello che produce la distruzione economica, politica e sociale di Paesi che, non avendo la forza per uno sviluppo autodeterminato (a partire dagli interessi della maggioranza della popolazione), sono sottoposti alle scelte strategiche delle potenze mondiali che impongono (con il consenso e con la coercizione) il loro modello di sviluppo egemone, basato su tecnologie e risorse rinnovabili, non mature, credendo di affrontare così gli squilibri sociali e naturali prodotti da uno sviluppo ineguale!: è solo pura ideologia nell’accezione marxiana del termine. Si pensi, per esempio, al processo di americanizzazione del territorio europeo, campo ancora poco esplorato e studiato.

Così Marco della Luna: << E’ controverso quanto delle alterazioni climatiche in atto sia naturale e quanto di origine antropica; ma è evidente che, senza profondi e rapidi mutamenti, una catastrofe per via climatica o di esaurimento delle risorse o di inquinamento è inevitabile e imminente – salvo forse ricorrere a complottistiche azioni di depopolamento rapido.

L’Occidente e l’Unione Europea in particolare stanno imponendo misure molto costose di green transition, dalla fine dei motori termici e delle caldaie di riscaldamento ai cappotti per le case. Centinaia di miliardi solo per l’Italia. Tali misure sono ancora allo stadio della speculazione politico-ideologica, perché non ha senso che ci imponiamo onerose restrizioni mentre il resto del mondo continua come prima, facendoci concorrenza; e anche perché esse materialmente non sono realizzabili, dato che, per alimentare tutte le automobili elettriche e le pompe di calore la produzione di elettricità dovrebbe essere ventuplicata in 12 anni (80 centrali termonucleari nella sola Italia). Ma presto, se non sopravverrà prima la catastrofe, e se Cina, India etc. si lasceranno coinvolgere, sarà giocoforza fare una conversione seria e molto costosa preparata da una adeguata ricerca tecnologica, che questo mondo, indebitato per un multiplo della somma dei PIL, non può sostenere. Se la catastrofe invece sopravverrà, bisognerà poi finanziare la ripartenza, e anche questo richiederà molto denaro. >> (4).

Il denaro (5), sia inteso come processo di accumulazione del capitale (la marxiana formula di D-M…P…M’-D’) (6), sia inteso come creazione dal nulla (7) da parte dello Stato (considerato come strumento nei rapporti sociali della società storicamente e territorialmente data), viene gestito come mezzo del conflitto tra gli agenti strategici delle diverse sfere sociali (economica, finanziaria, politica, culturale, eccetera), in particolare da quelli della sfera finanziaria che va vista come parte di un blocco politico egemone teso alle strategie, alla gestione e alla esecuzione del potere e del dominio. L’espansione finanziaria (8) rappresenta sia le crisi profonde e sistemiche delle società cosiddette capitalistiche dei singoli Paesi, sia le fasi di transizione (crisi d’epoca) caratterizzate dal conflitto tra potenze per il dominio mondiale come questa che stiamo vivendo. Secondo Fernand Braudel:<< [Ogni] sviluppo capitalistico di tale portata sembra annunciare, entrando nello stadio dell’espansione finanziaria, una sorta di maturità: [è] il segnale dell’autunno >> (oggi decadenza del ciclo egemonico statunitense) (9).

Pertanto, per dirla con Domenico de Simone, << In questo sistema i valori monetari nascondono ricchezza reale che viene sottratta a chi la produce per essere distribuita in maniera ineguale nel mercato finanziario sulla base dei rapporti di forza e non di capacità produttive. Le emissioni monetarie ed i titoli del debito pubblico sono gli strumenti a mezzo dei quali viene operata questa indebita appropriazione di ricchezza.>> (10). La destrezza nell’uso degli strumenti finanziari serve alla lotta tra gli agenti strategici per la conquista della loro egemonia sia nella sfera di appartenenza (economica, finanziaria, politica, culturale, eccetera) sia nell’insieme della società (11). Vedere la sfera della finanza in maniera autonoma ed egemonica, invece di considerarla come parte del conflitto nelle strategie politiche, è fuorviante perché non fa capire il conflitto strategico tra gruppi dominanti per il potere (nelle diverse sfere sociali) e per il dominio (nell’insieme della società) sia a livello nazionale sia a livello mondiale. In questa logica il processo di de-dollarizzazione (12) in atto è la messa in discussione di un ordine mondiale coordinato dagli USA (la fine della fase monocentrica) basato sul sistema finanziario del dollaro che è l’espressione di un modello di sviluppo economico, sociale e politico, di un modo di intendere la produzione e riproduzione della vita. La ricerca di un nuovo ordine (il nuovo nomos schmittiano) (13) avanzato dalle potenze che stanno configurando il polo asiatico, presuppone la nascita di un sistema finanziario basato sulle diverse monete (negli scambi Paese-Paese e mondiali) che sarà espressione di un nuovo modello, di una nuova idea di società (tutta da capire) in un mondo multicentrico dove l’equilibrio dinamico tra le potenze sarà garantito da una condivisione basata sul rispetto, sull’autodeterminazione, sulla democrazia, sulla sovranità e sul vantaggio reciproco nelle relazioni tra i Paesi.

Sullo sfondo si giocano due diversi modi di intendere le relazioni mondiali: da una parte, gli USA, come espressione di una egemonia assoluta dell’Occidente (modello monocentrico) e dall’altra, Cina e Russia (in particolare), come espressione di una egemonia relativa dell’Oriente in cui la diversità storica, territoriale e sociale sia mezzo di confronto, di crescita e di stimolo (modello multicentrico) (14). Spero che si affermi il modello multicentrico!

Marco Della Luna però non aiuta a capire come si configurano gli agenti strategici egemoni che sono dati dal conflitto in tutte le diverse sfere della società, che possono avere pesi specifici diversi (il marxiano fascio di luce che illumina) nelle differenti fasi della storia nazionale e mondiale, quando sostiene che :<< […] tutto il denaro, tranne quello metallico, viene creato (dalle banche centrali e da quelle ordinarie) senza una copertura aurea (o di altro genere), ossia dal nulla e a costo pressoché nullo, e prestato (agli stati e ai soggetti privati) contro interesse. Il denaro legale è costituito dalle banconote delle banche centrali. Il restante denaro è denaro contabile o scritturale, generato in piccola parte dalle banche centrali, e per il 90% circa dalle altre dalle banche, mediante semplice scritturazione contabile (ripeto: senza copertura in oro o altro valore). La Banca d’Italia, nei suoi bollettini, attesta che le banche italiane creano così ogni anno mediamente 1.000 miliardi di euro – che vanno a debito dei prestatari. La moneta contabile o scritturale non preesiste al prestarla, non viene prelevata da una riserva o altra voce di bilancio, bensì (per quanto suoni lontano dal pensiero comune) viene creata con l’atto di prestarla, digited into existence and lent into circulation. Orbene, mentre le leggi prevedono e regolano la creazione e immissione della moneta legale (banconote), niente dicono della moneta contabile o scritturale, la quale, giuridicamente, sia che si concreti come saldo attivo di conto corrente, che come importo di un assegno circolare o altro, costituisce una promessa di pagamento/ricognizione di debito di moneta legale (banconote) da parte della banca emittente verso il titolare del conto corrente o il legittimo portatore dell’assegno. Solo che l’aggregato di tale moneta è circa il decuplo dell’aggregato della moneta legale esistente, la quale per giunta è quasi interamente detenuta dai cittadini – sicché i depositi bancari e gli assegni circolari sono scoperti al 998 per mille circa – ma non è questo il problema, almeno finché non parte un bank rush, ossia una corsa al ritiro dei depositi! Il problema centrale è che la potestà di creazione ed emissione della moneta contabile-scritturale, che è il sangue dell’economia, non è prevista né disciplinata dalle leggi, anche se le leggi bancarie (ad es. TUB art. 10) non autorizzano le banche a creare moneta, ma solo a intermediarla – quindi, in realtà, questa potestà è negata, esclusa dalla legge (con la conseguenza giuridica che tutta l’attività di creazione monetaria in questione è illecita, quindi sono illeciti i contratti di mutuo, etc. etc.). Essa è però detenuta ed esercitata di fatto (e non di diritto), sotto le mentite spoglie di “esercizio del credito”, in regime di cartello, dai titolari di licenza bancaria, ossia dalla comunità bancaria, creando ed emettendo questa moneta contabile, che non può essere la moneta legale “Euro”, col nome abusivo di “Euro”. E’ esercitata privatamente, senza rendere conto all’interesse generale delle sperequazioni, dei danni, degli abusi, stante che le banche centrali, che dovrebbero sorvegliare sull’esercizio del credito, sono controllate dagli stessi titolari delle licenze bancarie, i quali hanno un potere condizionante sulla politica, data anche la loro capacità di dare il rating al debito pubblico.>>.

La domanda che si pone, a questo punto, è: chi detiene il potere della creazione del denaro dal nulla e quale ruolo assume questo capitale finanziario sia nella messa a valore dei differenti sistemi di sviluppo territoriali nazionali sia nell’allargamento delle aree di influenza delle nazioni-potenze? (15).

La ricchezza come mezzo di potere degli agenti strategici per il dominio nella società è illimitata (già Aristotele parlava della crematistica come produzione della ricchezza senza limiti) (16) e non è condizionata, se interpreto correttamente Marco Della Luna, dal fatto che:<< il sistema monetario moderno è compatibile solo con un’economia in continua espansione, perché si basa sulla moneta indebitante: il money supply è generato mediante prestiti (allo stato, ai privati) gravati di interessi composti, che, matematicamente, nel tempo, aumentando il capitale dovuto, ossia la base per gli interessi che via via maturano, richiedono che il sistema crei nuova moneta, sempre a debito, per pagare gli interessi e rimborsare eventualmente il capitale. La moneta emessa a debito crea dunque, macroeconomicamente, una necessità di continua crescita del fatturato come condizione per evitare il default >>, perché il limite infinito del processo di accumulazione del capitale è una conditio sine qua non della sua esistenza come modello di produzione e riproduzione della società storicamente e territorialmente data (17). David Harvey sostiene che << Il capitale […] crea un paesaggio fisico e relazioni spaziali adeguati ai suoi bisogni e ai suoi scopi (sia nella produzione che nel consumo) in un certo punto del tempo, solo per scoprire che ciò che ha creato diventa antagonista ai suoi bisogni in un punto futuro nel tempo. Fa parte della dinamica dell’accumulazione capitalistica la necessità di “costruire interi paesaggi e relazioni spaziali solo per farli a pezzi e ricostruire di nuovo in futuro” […] I regimi di valore regionali possono essere annidati a scale diverse. Sono identificabili negli Stati. […] I regimi di valore regionali sono configurazioni instabili e fluttuanti di influenza e di potere che esistono e hanno manifestazioni potenti anche se non hanno una definizione materiale chiara. Abbiamo iniziato questa esplorazione dello spazio e del tempo entro cui le leggi del moto del valore si impongono, con l’affermazione, più che plausibile, che è nella natura del capitale stesso conquistare e costruire il mercato mondiale. Ora, dopo aver percorso il terreno contraddittorio su cui queste leggi devono operare, vediamo che è nella natura del capitale anche frantumare l’uniformità, l’omogeneità e la razionalità sovrasensibile del mercato mondiale, in così tanti frammenti potenzialmente pericolosi e incompatibili di eterogeneità, differenza e sviluppo geografico disuguale, indipendentemente da tutti gli errori irrazionali umani che macchiano di sangue e fango la storia collettiva dell’umanità. Che tutto questo si trasformi in lotte geopolitiche fra blocchi di potenze sulla scena mondiale è questione di grande rilievo. La storia geopolitica del capitalismo è stata una faccenda piuttosto sgradevole (e continua a esserlo minacciosamente). Considerazioni che derivano dalla creazione di regimi di valore distinti nello spazio e nel tempo hanno un ruolo delicato in quella geografia storica.>> (18).

Il problema che si pone, in conclusione di questa riflessione, a partire dal sistema di signoraggio finanziario, è quello di capire qual è il ruolo che gli agenti strategici svolgono, sia attraverso il processo di accumulazione del capitale sia attraverso la creazione dal nulla della moneta, nel determinare il sistema di sviluppo territoriale sia a livello delle nazioni sia a livello mondiale (con relative aggregazioni territoriali: grandi aree, macroregioni, altro). La sovranità e l’autodeterminazione dei sistemi territoriali non va inquadrata nella logica economicistica ma nella logica dell’insieme delle sfere che compongono la società cosiddetta capitalistica. La comprensione di quanto fin qui sostenuto se fosse agito dai nuovi soggetti sessuati (19) che hanno consapevolezza dell’interezza della vita vissuta (che dà un senso alla esistenza) porterebbe alla trasformazione della realtà sociale storicamente e territorialmente data con la costruzione di un nuovo ordine sociale (20).

Intanto la fase multicentrica è decisamente avviata e le potenze mondiali in ascesa (il costituendo polo asiatico allargato) (21) sono decisamente determinate a mettere in discussione quello che Marco Della Luna definisce << […] il signoraggio monetario, come strumento di dominio globale, sia in via di affiancamento col signoraggio biologico, iniziato con le sementi ogm terminator, con le quali multinazionali come Monsanto mettono gli agricoltori in condizione di dipendenza rigida da esse per la fornitura sia dei semi che della chimica, senza di cui non possono produrre. Iniziato così anni or sono, oggi continua con farmaci modificanti il DNA e l’RNA dell’uomo, e con cose come la carne sintetica. Credo che stiamo passando da un sistema finanziario basato sulla moneta indebitante e che si regge sull’espansione consumistica di beni e servizi ad alto impatto ambientale (come l’automobile), quindi insostenibile, a uno sempre basato sulla moneta indebitante e sull’espansione consumistica, ma di beni e servizi medico-farmaceutici, a basso impatto ambientale, quindi eco-sostenibile. La popolazione, sempre più immuno-depressa e malata (o che si percepisce malata), spenderà il reddito disponibile per curarsi (con farmaci più o meno efficaci e tossici). Questo sistema agevolerà anche la soluzione del problema ecologico per via demografica, incidendo sulla fertilità e sulla durata media della vita, che già si sono ridotte. […] esiste anche, ed è importantissimo per gli equilibri geopolitici, il signoraggio monetario internazionale, attuato dagli USA dal ’44 in poi, e soprattutto dal 1971, ossia da quando Nixon liberò il Dollaro dalla convertibilità aurea, così da permettere a Washington di comperare da tutto il mondo a costo zero, semplicemente stampando carta (o digitando numeri) e imponendo la sua accettazione e il suo uso come moneta obbligatoria di riserva e per i pagamenti internazionali, soprattutto delle materie prime. Imposizione attuata mandando ora la CIA, ora le forze armate, in giro per il mondo a eliminare i governi (Indonesia, Cile, Iraq, Libia…) che, tentando di usare altre valute, minacciavano questo dominio del Dollaro, dal quale dipende anche la capacità degli USA di operare globalmente come estrattore (predatore) ‘imperiale’ di ricchezze prodotte da altri e di mantenere il loro enorme apparato militare e alti livelli di consumismo interno anche dopo il trasferimento all’estero di gran parte della loro capacità produttiva.

Da tempo si parla di crisi di questo signoraggio internazionale del Dollaro, di un processo in corso di de-dollarizzazione globale – processo che è il fulcro della proxy war in Ucraina >>.

*L’epigrafe è tratta dal film di Francis Ford Coppola, Il Padrino. Trilogia dei Corleone, parte terza, 1990.

NOTE

1. Pepe Escobar, Sergey Glazyev: “la strada verso il multipolarismo finanziario sarà lunga e irta di ostacoli”, www.comedonchisciotte.com, del 15/3/2023. Per un approfondimento su questi temi si rimanda a Pepe Escobar, Lo zar russo della geoeconomia Sergey Glazyev introduce il nuovo sistema finanziario globale, www.comedonchisciotte.com, del 22/4/2022 e a Sergev Glazvev, L’ultima guerra mondiale, Knizhny Mir, Mosca, 2016, (traduzione russo-inglese).

2. Pier Giorgio Ardeni-Francesco Sylos Labini, Mondo senza pace la responsabilità delle grandi potenze e la necessita di un nuovo equilibrio-economico, www.left.it, 30/3/2023, pp.7-9; si veda anche Patricia Adams e Lawrence Solomon, L’ascesa della Russia, www.maurizioblondet.it, 17/4/2023.

3. Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008, pag.19; per una maggiore comprensione della differenza tra razionalità strumentale e razionalità strategica si legga tutta la parte Per una nuova indipendenza, pp.25-102.

4. Su questi temi intrecciati con la guerra scatenata dagli Usa (via Nato-Europa-Ucraina) contro la Russia si veda anche F.William Engdahl, L’agenda verde a zero emissioni di carbonio è impossibile sotto tutti i punti di vista, www.comedonchisciotte.org, 13/4/2023; Stefano Fantacone-Demostenes Floros, Crisi o transizione energetica? Come il conflitto in Ucraina cambia la strategia europea per la sostenibilità, Diarkos, Santarcangelo di Romagna (RN), 2022; Valeria Poletti, Il costo sociale della guerra, www.ariannaeditrice.it, 9/5/2023.

5. Sul termine denaro per distinguerlo da quello di moneta si rinvia a Carlo Boffito, Teoria della moneta, Einaudi, Torino, Parte terza, 1973; Suzanne De Brunhoff, La moneta in Marx, Editori Riuniti, Roma, 1973; Andrea Fumagalli, Suzanne De Brunhoff, Karl Marx e il dibattito sulla moneta, www.sinistrainrete.info, 19/4/2023. Così Alfred Sohn-Rethel:<< E’ il denaro e proprio il denaro nella sua forma monetaria, prodotta per la prima volta nel 680 a.C. nella Ionia, il termine di mediazione che stabilisce il nesso tra la realtà sociale e l’identità concettuale delle stesse astrazioni formali. Infatti l’astrattezza dello scambio delle merci si manifesta solo nel denaro coniato. Finché il denaro si presenta ancora nella sua rozza forma metallica come oro, o argento o rame ecc. e deve essere diviso, pesato, esaminato nel suo titolo in ogni traffico, viene trattato ancora nella sua forma naturale in modo non diverso dagli altri oggetti d’uso. Solo quando un’autorità monetaria assume in suo potere questi atti fisici garantendoli in maniera credibile, è possibile stampare sui pezzi di metallo che essi servono solo per lo scambio, ponendoli in contrasto esplicito con gli oggetti d’uso […] >>, in Alfred Sohn-Rethel, Il denaro, l’apriori in contanti, Editori Riuniti, Roma, 1991, pag. 9 e oltre pp. XI-55.

6. Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975 [si rimanda alle parti che riguardano a) la teoria del valore del denaro (Libro primo); b) il finanziamento della produzione capitalistica (Libro secondo); c) le strutture del credito (Libro terzo).

7. Sulla creazione della moneta dal nulla in regime di monopolio si vedano gli scritti di Fabio Bonciani pubblicati sul sito www.comwdonchisciotte.org, a mò di esempio segnalo Fabio Bonciani, Cenerentola, Biancaneve e i bilanci in rosso delle banche centrali! www.comedonchisciotte.org, 4/4/2023.

8. Sulle fasi storiche dell’espansione finanziaria si rimanda a Giovanni Arrighi, Beverly J. Silver, Caos e governo del mondo. Come cambiano le egemonie e gli equilibri planetari, Bruno Mondadori, Milano, 2003.

9. Citato in Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, a cura di Giorgio Cesarale e Mario Pianta, Manifestolibri, Roma, 2010, pag.146.

10. Domenico de Simone, Un milione al mese a tutti: subito! Edizioni Malatempora, Roma, 1999, pag. 30; Domenico de Simone Per un’economia dal volto umano, Edizioni Malatempora, Roma, 2002; Domenico de Simone, Un’altra moneta, Edizioni Malatempora, Roma, 2003.

11. Si vedano: le tre storie emblematiche sulla finanza e sulle frodi mercantili raccontate da Carlo Maria Cipolla, Tre storie extra vaganti, il Mulino, Bologna, 1994; il gioco sui titoli di Stato da parte della potente famiglia dei Rothschild per le loro strategie di arricchimento e di potere in Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, Italia oscura, Sperling&Kupfer, 2016, pp.233-258; il conflitto degli agenti strategici tramite le banche raccontato da Lodovico Festa, Guerra per banche. L’Italia contesa tra economia, politica, giornali e magistratura, Boroli Editore, Milano, 2006.

12. Sul processo di de-dollarizzazione si veda Manlio Dinucci, Si allarga la ribellione all’impero del dollaro, www.voltairenet.org, 24/4/2023; Domenico Moro, Le conseguenze di breve e lungo periodo della guerra, www.comedonchisciotte.org, 27/4/2023; Pepe Escobar, La de-dollarizzazione ingrana la quarta, www.maurizioblondet.it, 29/4/2023. Sugli aspetti finanziari all’interno della ciclicità della storia si legga Federico Dezzani, Geopolitica, credito, mercati e cicli, www.federicodezzani.altervista.org, 4/4/2023; Qiao Liang, L’arco dell’impero. Con la Cina e gli Stati Uniti alle estremità, a cura del Generale Fabio Mini, Leg edizioni, 2021, soprattutto pp. 116-173.

13.Carl Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi Edizioni, Milano, 2003; Carl Schmitt, Terra e mare, Adelphi Edizioni, Milano, 2006; Luigi Garofalo, Intrecci schmittiani, il Mulino, Bologna, 2020.

14. Radhika Desai e Michael Hudson, La Russia abbandona l’occidente neoliberale per unirsi alla maggioranza mondiale, www.italiaeilmondo.com, 19/4/2023.

15.Su questi temi si rimanda per approfondimenti a Qiao Liang, L’arco dell’impero, op. cit., pp.175-200; Giovanni Arrighi Caos e governo, op.cit., pp. 43-112; Pietro Ratto, I Rothschild e gli altri. Dal governo del mondo all’indebitamento delle nazioni: i segreti delle famiglie più potenti, Arianna Editrice, Bologna, 2015.

16.Sulla crematistica si legga Aristotele, La politica, Editori Laterza, Bari, 1966; sul concetto del limite interpretato come l’insieme della società nelle diverse fasi della storia umana si veda Remo Bodei, Limite, il Mulino, Bologna, 2016. Su questi temi si rimanda, inoltre, a Costanzo Preve-Luca Grecchi, Marx e gli antichi Greci, Petite Plaisance editrice, Pistoia, 2005.

17. Si veda Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975, Libro terzo, terza sezione, pp.299-373.

18.David Harvey, Marx e la follia del capitale, Feltrinelli, Milano, 2018, pp. 135-136 e pag. 172.

19.Ricordo, con Costanzo Preve, che le grandi masse popolari non possono vivere a lungo senza più nessuna chiave interpretativa della riproduzione sociale (produzione e riproduzione dell’intera vita individuale e sociale), pena la caduta in sindromi di demenza generalizzata in Costanzo Preve, La demenza generalizzata del popolo italiano. Un enigma storico da decifrare, www.ariannaeditrice.it, 27/12/2011; si veda anche Costanzo Preve, Elogio del comunitarismo, Controcorrente edizioni, Napoli, 2006.

20.Maria Zambrano, La confessione come genere letterario, Bruno Mondadori, Milano, 1997; John Berger, Paesaggi, il Saggiatore, Milano, 2019.

21.Sul ruolo che potrebbe avere l’India (altra potenza in ascesa) nel polo asiatico si veda Andrew Korybko, Foreign affairs ha pubblicato un’analisi straordinariamente perspicace sulle relazioni tra India e Stati Uniti, www.italiaeilmondo.com, 9/5/2023.

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Politica estera basata sui valori o sull’autodeterminazione. Note sulla svolta di Biden._di Alessandro Visalli

Un anno fa la nuova amministrazione democratica americana ha convocato un ambizioso evento, invitando ben 110 nazioni del mondo[1], dal nome “Summit for democracy[2]. Lo slogan era “la democrazia non accade per caso. Dobbiamo difenderla, lottare per essa, rafforzarla, rinnovarla”. A questo evento, cui ne seguiranno altri e che rappresenta il nucleo di una nuova dottrina internazionale più interventista, come scrivono in modo esemplare ‘adatta al movimento’ in corso, l’amministrazione ha invitato paesi asiatici come il Giappone, la Corea del Sud e Taiwan, ma anche l’India e le Filippine, e non Singapore. In cambio era invitato il cosiddetto “Presidente ad interim” del Venezuela Juan Guaidó, ma anche i leader, o attivisti eminenti, dell’opposizione di Hong Kong, Birmania, Egitto, Bielorussia. Un notevole e sovradimensionato spazio è stato affidato, infine, ai paesi europei nordici che si affacciano sulla Russia: la Lituania, Lettonia, Estonia, Finlandia, Danimarca.

La crisi Ucraina ha prodotto qualche smagliatura su questo schema “noi/loro”. In questi giorni, ad esempio, il governo di Singapore si è mosso verso la coalizione occidentale[3], se pure con qualche dichiarazione rispettosa verso la Cina, mentre l’India si sta chiaramente avvicinando alla Russia[4] e persino alla Cina. D’altra parte, storici alleati Usa come la Thailandia e le Filippine da tempo si stanno avvicinando alla Cina, e, recentemente le Isole Salomone (fronteggianti l’Australia) hanno dichiarato di voler stipulare un accordo di cooperazione militare con il gigante asiatico (ricavandone le minacce del vicino anglosassone). Inoltre, il Pakistan, che fino ad anni recenti era stato alleato degli Stati Uniti, si sta muovendo con decisione verso la Russia e partnership più pronunciate con la Cina (ma è stato fermato, al momento da una severa crisi di governo con probabili nuove elezioni).

 

Insomma, il mondo è in movimento.

 

Il tentativo americano è quello di codificare questo movimento secondo una chiave unica che massimizzi quelle che ritiene essere le proprie caratteristiche più profonde: la distinzione tra un “ordine basato sulle regole” ed un semplice ‘stato di fatto basato sul potere’. Dietro questo slogan si cela la convinzione che sia possibile definire un canone universale, fondato su un ordine naturale, e, ovviamente, la certezza di avere uno speciale accesso ad esso. Quindi si cela la pretesa che lo scostamento relativo da questo canone definisca univocamente la legittimazione di ogni azione ed esistenza nazionale. Secondo questa impostazione, ad esempio, la guerra preventiva di Bush in Iraq è più legittima della guerra preventiva della Russia in Ucraina, in quanto la prima mirava all’affermazione della democrazia in Medio Oriente, mentre la seconda mira solo a difendere il potere russo (o a diffonderlo).

Durante il Summit prima citato il Vicepresidente Kamala Harris ha affermato quindi che la democrazia, ovviamente secondo il codice anglosassone, è “la migliore speranza del mondo”; e lo è essenzialmente perché “i sistemi democratici sono in grado di promuovere i diritti umani, la dignità umana e sostenere lo stato di diritto”. La frase, considerando il significato strettamente attinente la dottrina liberale, suona involontariamente tautologica: la democrazia è la speranza del mondo perché promuove la propria visione dell’uomo. Ovvero quella di un uomo slegato; un uomo nel quale, parole conclusive del Presidente Biden, “arde la brace della libertà”.

 

Vale la pena di sottolineare gli elementi di novità di questa agenda. Lo Statuto dell’Onu, all’art 1, riconosce contemporaneamente ed indissolubilmente il rispetto dei diritti umani (su cui è necessaria una glossa[5]) e dei “diritti all’autodeterminazione dei popoli”. Altre fonti primarie sono i Patti internazionali del 1966 (sui diritti civili e politici e sui diritti economici) e l’Atto finale di Helsinki del 1975, principio VII e VIII. In base ai Patti del 1966, tutti i popoli sono liberi “di determinare, senza intervento dall’esterno, il proprio status politico e seguire il proprio sviluppo economico, sociale e culturale”. In base alla dichiarazione dell’Assemblea generale del 24 ottobre 1970, inoltre, l’attuazione del principio dell’autodeterminazione si esplica nella fondazione di uno Stato sovrano ed indipendente, nella sua libera unione con altri e nella sua libertà di cambiare status politico. Entrambe le dichiarazioni, del 1966 e del 1970, avvengono non per caso in una fase di liberazione dei paesi del Sud dai legami che si erano istituiti nella fase coloniale con le ‘potenze bianche’ del Nord. Il principio di autodeterminazione, così definito, si classifica nella tassonomia Onu come ius cogens, diritto inderogabile a tutela di valori fondamentali. Si tratta di un diritto di libertà dal dominio concreto di un popolo su un altro.

 

La novità è quindi, precisamente, che la crociata lanciata dall’amministrazione americana, facendo leva su una interpretazione oltranzista e etnograficamente connotata[6] dei “diritti umani”, introduce una deroga al principio di autodeterminazione, nel momento in cui lo sottordina gerarchicamente al principio dell’affermazione della ‘democrazia liberale’ che, attenzione, non è l’unica forma e non è tutta la democrazia. Quest’ultima collassata sulla libertà dell’individuo (sia fatta attenzione, dell’individuo possessore, di quello che dispone dei mezzi di proprietà per esserlo effettivamente).

 

Ovviamente qui è all’opera un ben prosaico obiettivo: la conservazione con qualsiasi mezzo dell’ordine americano. Ovvero la prosecuzione del “secolo americano” anche quando le condizioni di potenza che lo hanno creato stanno venendo meno.

Questo dispositivo di mobilitazione totale, in altre parole, serve lo scopo della guerra.

 

È, in questo senso, un occultamento di una più elementare logica di potenza. Potenza e missione, che, in linea con una delle vocazioni dell’occidente, si nutre di universalismo astratto, messianesimo e razzismo. Si, razzismo, in quanto nel sentirsi legittimato a proiettare la propria forma, in quanto universale, sul riottoso mondo, e, soprattutto, nel fondarla su un’antropologia naturalista (ovvero sul riconoscimento che il ‘vero uomo’ è solo l’uomo occidentale o chi ad esso si conforma) non può che implicare il carattere sotto-umano dell’Altro. Razzismo e colonialismo sono, in altre parole, iscritte nel codice genetico della nozione di libertà e democrazia dell’occidente.

 

Per approfondire occorre soffermarsi. Il termine chiave di questo potentissimo dispositivo è, ovviamente, quello di libertà. Parola vuota, se mai ne è esistita una. Nel senso di parola che acquisisce interamente il suo significato dal contesto nel quale è agita e dal conflitto (la parola libertà implica un movimento e una resistenza) verso il quale è agita. Essa si determina sempre nella situazione concreta e storicamente data e che si può giudicare, prendendo posizione, solo osservando il funzionamento complessivo dei rapporti tra i diversi attori e gli effetti provocati su di essi. Può succedere, ad esempio, che una lotta per la liberazione nazionale sia allo stesso momento, o per i suoi effetti, anche lotta per lo schiacciamento e l’oppressione di altri; oppure può accadere il contrario (come nell’imperialismo politicamente orientato di Disraeli nell’Inghilterra dell’Ottocento, per stare ad un esempio lontano). Quello nel quale si può definire la lotta per la libertà è sempre un “conflitto” policentrico, dunque, e non binario, nel quale occorre sforzarsi sistematicamente di applicare uno sguardo alle determinazioni strutturali e oggettive della situazione. È noto l’esempio ottocentesco della lotta di liberazione, nazionale e quindi interclassista, polacca. Nella situazione data (che non va estrapolata all’oggi), per Marx ed Engels, quando il proletariato polacco si mette alla testa della lotta di indipendenza nazionale, portando con sé anche le altre classi, allora svolge con questo solo fatto un “ruolo internazionalista”. Il ruolo internazionalista ha dunque, per i nostri, basi oggettive, e non soggettive, perché getta le fondamenta necessarie per una cooperazione diversamente impossibile. Il giudizio non viene da una sostanza naturale, quando dalla totalità[7].

 

Con altre parole, se non si collega, concretamente, la parola “libertà” al conflitto e questo alla dinamica del tutto dal quale solo può essere rischiosamente giudicato, si ricade (come in effetti il dispositivo imperiale americano fa), nella medesima accusa avanzata da questo verso il ‘comunismo’: di essere una ‘utopia capovolta’. Ovvero, di terminare nella catastrofe, rovescio dell’ambizione, di partire per raddrizzare ‘il ramo storto’ dell’umanità ma di risolversi in arbitrio[8]. Chiaramente, se però si accetta una definizione contestuale del termine e un suo intrinseco inserimento nella pluralità dei conflitti, allora si resta presi in un’insopprimibile ambiguità, dunque, si perde l’idoneità del concetto ad essere arma.

 

Per concludere, l’agenda che si vuole imporre al conflitto egemonico in corso, fondata sulla negazione del principio di autodeterminazione (“westfaliano”) in favore di una separazione tra ‘democratici’ (liberali) e ‘autocratici’ (ma andrebbe bene anche ‘populisti’), serve ad una mobilitazione totale dell’Occidente, inteso come Vera Umanità, contro l’oscurantismo, il sub-umano, il regresso.

Ma, a ben vedere dietro la retorica e l’ipocrisia che l’accompagna, quelle che si scontrano non sono le forme astratte universali di ‘libertà’ e ‘dispotismo’ (in sé vuote, libertà da cosa, dispotismo verso chi), quanto diverse forme concrete di libertà, connesse a diversi conflitti. Ad esempio, tutte le forme di organizzazione sindacale, in modo più o meno diretto, coartano la libertà individuali a breve termine, in favore di una libertà più importante da raggiungere nel futuro: quella dal bisogno e dalla dipendenza dai rapporti ineguali tra lavoratori e capitale. Analogamente, nei rapporti tra le ‘metropoli’ e le ‘colonie’[9], e, più in generale, nelle relazioni internazionali la libertà di taluni può essere in contrasto con regimi oppressivi, più o meno mascherati. È possibile, in sintesi, che la libertà di alcune élite debba essere compressa per garantire quella dei più, o del paese. Che alcuni paesi si debbano fermare davanti a certi confini e/o relazioni. In questo senso si oppongono sempre piuttosto ‘libertà’ a ‘libertà’; il punto è che nel ‘groviglio’ che fattualmente si dà nella realtà sociale si è spesso costretti a scegliere tra queste diverse libertà.

 

Dunque, si può sinteticamente dire che nel “conflitto delle libertà” bisogna sapere con chi stare, e per saperlo occorre guardare sempre al quadro generale. Quello che dice che la polarizzazione proposta dall’Amministrazione Usa serve i suoi scopi di dominio.

[1] – L’elenco dei paesi e i relativi interventi è disponibile a questo link.

[2] – Questo il sito.

[3] – Anche se fa parte dell’unione eurasiatica di libero scambio (EAEU) nella quale è presente la Russia, l’Armenia, la Bielorussia, il Kazakistan, il Kirghiristan.

[4] – Stipulando addirittura un accordo per replicare il modello che ha fatto grande il dollaro a partire dalla crisi energetica degli anni settanta, per il quale il petrolio russo sarà acquistato in moneta indiana, la quale dai russi sarà depositata in titoli indiani (creando riserve in rupie). Inoltre ha invitato Lavrov a discutere accordi strategici su larga scala, che prevedono anche l’acquisto degli avanzati sistemi missilistici S400.

[5] – La Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948 è, ovviamente, una pietra miliare del processo di formalizzazione del concetto. I suoi antecedenti sono la Dichiarazione di indipendenza americana del 1776, dall’altra alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del cittadino francese del 1789. C’è, però, una importante differenza tra i due antecedenti. La Dichiarazione americana non è una carta dei diritti e il testo è dedicato prevalentemente a motivare le ragioni dell’indipendenza dalla corona britannica, e gli argomenti sui diritti dell’uomo sono inseriti solo come cappello retorico introduttivo e chiave di una legittimazione che si pretende estranea alla fedeltà al re. Si può dire che il famoso preambolo per il quale tutti gli uomini sono creati uguali, cioè dotati di inalienabili diritti, tra cui la vita, la libertà e il perseguimento della felicità, serve, in tutte le Dichiarazioni di questo periodo ad affermare che i governi sono istituiti per garantire questi diritti, e quindi sia diretta ad affermare che il fondamento della vita sociale non deriva dal re, non deriva dalla tradizione, ma deriva da Dio per come viene interpretato nel testo. Compiendo questo rovesciamento del canone fondativo si esprime con la massima chiarezza, e si pone al centro della scena, una mossa emancipativa di primario valore. Ma i contenuti e fondamenti dei diritti inalienabili, su cui si basa quella mossa, sono ridotti al contempo ai minimi termini; non è il caso di ricordare che in tutti gli uomini non erano incluse né le donne né, tantomeno, gli schiavi. Del resto, quando dieci anni dopo viene approvata la Costituzione americana non ci sono in essa Dichiarazioni dei diritti. Queste vengono aggiunte ancora dopo nel 1789 e nel ‘91, anche sulla scorta della Rivoluzione francese, in forma di emendamenti alla Costituzione, e in esse si parla di diritti civili interni alla nazione americana. Invece la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 francese ha una caratterizzazione dei diritti dell’uomo molto particolare. Ci si appella qui a diritti naturali inalienabili e sacri dell’uomo, cioè ad una dimensione universalistica astorica; però, già dal terzo articolo, la Dichiarazione prende una piega storicamente determinata, eminentemente politica, e la libertà individuale viene limitata dalle leggi “espressione della volontà generale”, quindi giustificate dal bene della società verso le quali la resistenza del cittadino è giudicata inammissibile. Dunque, il protagonista della Dichiarazione del 1789 è la legge civile, definita dalla Nazione, all’interno della quale il cittadino trova il suo spazio di libertà. L’intera Dichiarazione si rivolge al cittadino.

Centocinquanta anni dopo, la Dichiarazione del 1948 è diversa. Per la prima volta l’idea di un “Diritto naturale” che appartiene individualmente a ciascun membro della specie umana è effettivamente articolato. Ci si trova di fronte a un tentativo di creare un corpus di diritti nel senso comune del diritto legale che però, diversamente dai codici delle leggi finora conosciute, non dipende da alcun organismo politico. È chiaro che una delle spinte decisive per scrivere questo documento consisteva nel desiderio di trovare un modo per condannare i criminali nazisti che non facesse riferimento alla legge tedesca. Peraltro, atrocità come l’olocausto non sarebbero risultate legali neppure secondo la legislazione razzista del Terzo Reich, ma di fronte a ciò che si presentava come male assoluto e avendo vinto la guerra emergeva con potenza, da entrambe le parti vincitrici, la necessità di trovare un punto di vista superiore astorico che non concedesse alcun terreno di legittimità la legislazione nazista. In questa ottica, storicamente data, l’idea di diritto umano con i suoi antecedenti storici si sposava perfettamente a questa funzione. Naturalmente a questa esigenza storica si univa la tendenza e la cultura individualista e antitradizionalista americana. Ma nelle fasi preparatorie emersero subito notevoli difficoltà. Nell’inquadrare dal punto di vista etico e filosofico il testo, ad esempio, l’Associazione Antropologica Americana mosse critiche molto severe alla possibilità stessa di concepire qualcosa come una ‘dottrina universale dei diritti umani’. Gli antropologi osservarono come fosse impensabile considerare come base di partenza dell’analisi un individuo desocializzato. Ciascun individuo si determina sempre ed inevitabilmente come parte di un gruppo sociale, con una forma di vita sanzionata nei modelli il comportamento. In questa prospettiva una Dichiarazione che pretendesse di applicarsi a tutti i singoli esseri umani, prescindendo dalle appartenenze culturali (e quindi in effetti prescindendo dalle particolarità dello sviluppo della cultura nazista in Germania) rischiava di essere implicitamente imperialista. Come sostenne l’Associazione “e rischia di diventare un’affermazione di diritti concepiti solo nei termini dei valori prevalenti nei paesi dell’Europa occidentale e dell’America”. In sostanza si rischiava di ripetere la mossa del “fardello dell’uomo bianco” che aveva alimentato il colonialismo. Queste ragionevoli considerazioni vennero semplicemente ignorate.

In effetti il progetto non era affatto descrittivo, nessuno pensava che i “diritti umani” fossero una sostanza data, ma espressamente normativo, tutti la ritenevano un’opportuna norma da porre. Secondo le parole di René Casin “poggiava su un atto di fede in un domani migliore”. È ovvio che sul piano logico l’idea che potesse esistere qualcosa come un “diritto di natura” è un esempio sfacciato di fallacia naturalistica che trasforma una presunta naturalità in norma. In natura noi possiamo trovare fatti, ma i valori implicano delle norme. Non le implicano ‘naturalmente’ e senza il passaggio della scelta politica e, quindi, della contingenza storica.

Nell’articolo tre della Dichiarazione troviamo scritto che “ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona”. Tutti possiamo leggerla come una considerazione condivisibile: chi potrebbe mai desiderare che gli sia tolta la vita o la libertà. Chi potrebbe mai desiderare di vivere nell’insicurezza. Ma da questi valori ragionevoli non scaturisce alcuna norma. Il fatto che un individuo abbia diritto alla libertà significherebbe che la sua libertà non può mai essere vincolata. Ma evidentemente esistono leggi, carceri, punizioni per i casi nei quali la libertà distrugge il vivere comune e civile. La questione è, piuttosto, sempre quanta libertà e sotto quali condizioni. La questione è quella posta dalla Costituzione francese. Ma se ammettiamo che la libertà di cui si tratta è quella consentita dal diritto positivo dei vari Stati, allora la Dichiarazione è totalmente vuota. Se, viceversa, non facciamo riferimento a nessuna registrazione reale non si sa di che cosa si sta parlando. Peraltro, nella stessa frase è dichiarato, oltre al diritto alla libertà, anche quello alla sicurezza. Dunque, si pone il problema di quanta sicurezza e del conflitto tra la sicurezza di uno e la libertà dell’altro (ad esempio, di costringerlo a lavorare, di rendere insicura la sua vita, per es. aumentando la “flessibilità” e “precarietà”, per ridurne la forza negoziale).

Il tema è sempre, in altre parole, come limitare la libertà o quanta libertà può limitare la sicurezza. Norberto Bobbio osservava che i “diritti naturali” non sono “diritti”, ma al massimo “esigenze” che poi devono essere fatte valere negli ordinamenti normativi positivi. La cosa è particolarmente evidente appena ci si accosta al gruppo dei “Diritti umani” di contenuto sociale (articoli da 22 a 27), qui la situazione è davvero paradossale. Si tratta infatti di “diritti” inseriti inizialmente sotto la pressione dell’Unione Sovietica (la quale comunque si astenne dalla votazione finale). Di norma quando si levano gli scudi per denunciare le violazioni dei “Diritti umani” questi sono sistematicamente ignorati, perché sono ininterrottamente violati ovunque dal ‘48 a oggi. Il fatto è che per essi ogni individuo ha il “diritto umano” al lavoro, o alla “protezione contro la disoccupazione”, o, ancora, ad “una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia un’esistenza conforme alla dignità umana” (art. 23). Oppure ha diritto a “ferie periodiche retribuite” (art. 24). Si tratta evidentemente di un libro dei sogni che conta violazioni innumerevoli anche nei paesi più benestanti. Anzi che è sistematicamente violato, disapplicato e distrutto tanto più quanto più il liberalismo e la sua forma pura neoliberale si afferma.

[6] – Ovvero disegnata secondo il modello storicamente situato (nella forma di vita occidentale e nella versione illuminista di questa) che è abbastanza obiettivamente una potentissima arma ideologica. Una cosa che inizia a prendere forma durante la guerra fredda come arma contro un altro consenso (tramite la sistematica denuncia della violazione dei “diritti umani” da parte degli Stati Uniti a sostegno etico e legittimazione delle proprie iniziative sia contro l’Unione Sovietica e contro la Repubblica Popolare Cinese ed i loro alleati) e da allora viene usata, senza soluzione di continuità, contro chiunque si elevi ad ostacolare il dominio imperiale statunitense. In effetti, già l’idea in sé dei “diritti umani” può essere accusata di individualismo metodologico il quale è, esso stesso, alla base della microfondazione della teoria economica. I diritti sono immaginati come inerenti all’individuo naturale, cioè a un individuo astratto astorico, aculturale e dunque sono utilizzabili come marcatore e punto di riferimento del giudizio sulle azioni e sulle dinamiche collettive. Il dispositivo dei “diritti umani” crea, cioè, un decisivo passaggio teorico in cui richieste individuali che non fanno per sé stesse riferimento a nessun organismo sociale dato (o contesto culturale noto) e che finora nessuno ha riconosciuto possono essere poste come eticamente fondanti ed esistenti in natura e restare lì, in attesa che qualcuno ad un certo punto se ne faccia carico. Magari in appoggio alle sue istanze politico-strategiche.

[7] – Fino a che i paesi sono connessi con una catena di sfruttamento e disprezzo le classi dominanti hanno buon gioco, negli uni e negli altri, di cooptare quelle subalterne distribuendo una parte del ‘dividendo’ del dominio. Ovvero una quota di risorse estratte, sotto forma di migliori salari estratti dalle ragioni di scambio istituite con le colonie (minor prezzo delle materie prime, o del lavoro importato, e maggior prezzo dei prodotti esportati nei mercati ‘captivi’) e, probabilmente principalmente, una parte del senso di superiorità implicato nel rapporto di dominio. Questa strategia di controllo, che al tempo di Marx è messa a punto dai politici della seconda generazione, Disraeli e Napoleone III, ma anche Bismarck, impedisce la rivoluzione nei paesi avanzati e perpetua le condizioni di schiavitù negli uni e negli altri. È, quindi, il vero nodo della situazione, qualunque lotta internazionalista passa di qui.

[8] – Argomento avanzato tra i primi da Edmund Burke, il quale, nel libello “A vindication of natural Society”, che scrisse ancora giovane contro gli scritti postumi del grande politico libertino Henry St. John Visconte di Bolingbroke, pubblicati nel 1754, viene attaccato il tono di astratta teorizzazione fondata sulla mera ragione, che, come un acido corrosivo, scioglie tradizioni e dispone al fuoco della critica le istituzioni e la religione. Per il nostro ciò porta necessariamente, passando per il deismo, all’anarchia e alla critica della società civile ed ogni governo. Come successivamente scriverà la natura umana, piuttosto, è ricca di sentimenti passionali e sentimenti, complessi, di cui la ragione è solo parte e non primaria. La politica ed il governo degli uomini deve quindi essere improntata, più che alla critica astratta e artificiale, alla prudenza e saggezza aristotelica che tenga conto dei valori condivisi, della tradizione e dei costumi e quindi di tutte quelle componenti non razionali che inducono ad agire.

[9] – Per un inquadramento del tema si veda Alessandro Visalli, “Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare”, Meltemi 2020.

https://tempofertile.blogspot.com/2022/04/politica-estera-basata-sui-valori-o.html?fbclid=IwAR3W9rog2dmkwpNvT2lunKivI7wASco_0Ou75kMVAmJDZS99XYYR5jZroBA