EUTANASIA DI UNA RIVOLUZIONE?_di Teodoro Klitsche de la Grange

EUTANASIA DI UNA RIVOLUZIONE?

Sono fioccati abbondantemente i commenti all’elezione di Elly Schlein a segretaria del PD. Molti lieti, altri perplessi, altri ancora (meno) per lo più profetizzanti un compito in salita per l’esordiente leader.

Qualche mese fa scrivevo, sull’insuccesso di Letta, che questo, più che alle proposte (ed alla “immagine”) del medesimo, era causato dal “ciclo” storico-politico. Per cui tra Repubblica “nata dalla resistenza” (ma con l’utero in affitto a Yalta) e comunismo (imploso nel 1989-1991) cioè padre e madre del PCI e, in genere, parenti stretti della sinistra italiana il PD si trovava con il secondo morto, ma anche la prima stava tutt’altro che bene.

Per cui, nuotando controcorrente, era molto difficile trovare un capo con le qualità personali volte a invertire un andamento (generale) consolidato.

E il tutto va confermato per la Schlein; anzi, l’ “immagine” della stessa può accelerare il destino del PD. Vediamo perché.

Ne Il suicidio della Rivoluzione, Del Noce scriveva che “l’esito dell’eurocomunismo non può essere che quello di trasformare il comunismo in una componente della società borghese ormai completamente sconsacrata”. Profezia avverata perché oggi il postmarxismo è quel “partito radicale di massa” che riceve il sostegno della grande finanza internazionale; la conseguenza è che il vecchio PCI sarebbe finito “nel suo contrario: voleva affossare la borghesia e ne è divenuto una delle componenti più salde ed essenziali”.

A distanza di quasi cinquant’anni occorre riconoscere che la profezia di Del Noce si è realizzata, e la scelta della segretaria ne è l’ennesima conferma. Anzi l’incarnazione perché riassume in sé  tutti i connotati dell’ “ideologia” del PD: si dice sia LGBT, è sicuramente di buona famiglia borghese, ha tre passaporti, ha compiuto parte degli studi all’estero. Partecipa quale primo atto alla manifestazione antifascista. È inutile ricordare quanto scriveva Del Noce sull’antifascismo, citando Bordiga: che Gramsci “sostituendo” all’opposizione capitale/proletariato quella fascismo/antifascismo  aveva dato “vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici”. E questa borghesia che Gramsci credeva di arruolare (e invece ha arruolato il PD) non è quella di Marx e neppure di altri pensatori, ma è quella in cui lo spirito borghese si manifesta finalmente allo stato puro; “in cui realizza pienamente quel che già aveva fatto per la natura, abolendo il mistero e la qualità, e sostituendoli con dati misurabili, quantitativi. L’ideologia spontanea della borghesia è il materialismo puro, il positivismo attento unicamente ai nudi fatti”; e il cui dominio  si esercita in una forma totalitaria che agisce più col condizionamento/indottrinamento culturale (l’egemonia) che con la coazione (anche se dissimulata, ma non del tutto assente).

In secondo luogo la Schlein, come ogni segretaria che il PD avesse scelto, dovrebbe far dimenticare il fallimento di tanti anni di potere (e di governo) della Seconda Repubblica, così deludenti in particolare per i ceti medi e popolari. Ma nulla dell’immagine della Schlein induce a suggerire un’identificazione dei suddetti ceti con la leader. È così difficile perché – e questo è il terzo aspetto – negli ultimi 8 anni si è concretizzato in Italia un blocco sociale tra ceti medi e popolari che è largamente maggioritario e anche coeso. La coesione dipende prevalentemente dal fatto di percepire come avversari coloro che costituiscono il blocco “globalista”.

L’unica speranza è, come normale in politica, dissolvere il blocco avverso, applicare il divide et impera (cioè la riduzione del numero e della potenza dell’avversario).

Ma questa è la manovra più difficile, perché la sostituzione dell’opposizione amico/nemico è cosa che attiene più al zeitgeist che alle manovre di palazzo. In queste il PD e il sui personale politico era (ed è) maestro: in quella non c’è un Principe che la possa fare.

Teodoro Klitsche de la Grange

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SULLA DITTATURA, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTA

L’articolo è stato pubblicato su Palomar 4/2004. Dato che ha ancora
qualche attinenza con le vicende degli ultimi anni, lo si ripropone ai
lettori. TKdlG

SULLA DITTATURA

1. Il regime politico del (fu) comunismo reale aveva (tra i molti difetti) dei pregi, uno dei quali – piccolo perché fruibile essenzialmente dagli studiosi del diritto pubblico –, era di costituire un esempio di come la “costituzione materiale” (cioè quella reale) possa differire da quella “formale” (ovvero – anche – ideale); e come quella concreta ed effettiva, cioè realmente “regolatrice”, sia la prima e non la seconda. A renderlo evidente – in misura raramente raggiunta nella storia – erano le omissioni più che le disposizioni, anche se entrambe rivestivano un ruolo convergente. E che di ciò fossero consapevoli i bolscevichi lo prova – tra l’altro – un opuscolo di Stutcka, scritto per spiegare la costituzione sovietica del 1918, che si apre proprio con la distinzione tra costituzione come “reale rapporto delle forze sociali” e “foglio di carta” (cioè la costituzione scritta) riprendendo così la nota espressione di Lassalle1

Il primo connotato dei regimi del socialismo reale era d’essere delle dittature “proletarie”, concetto strettamente collegato da Stutcka a quelli di “guerra civile”, la quale “nel secolo del capitalismo… è l’unica guerra giusta”. La dittatura proletaria è così “la conquista di tutto il potere dello Stato ed uno spietato consolidamento di questo potere”2. Tutto il resto del “costituzionalismo” sono “formalità borghesi”. Anche Lenin, nello sciogliere la Costituente russa la descriveva come “un insieme di cadaveri e di mummie disseccate”, ed affermava che, oltre che “superata” dalla situazione politica, lo scioglimento dell’assemblea era una tappa della guerra civile in corso. Pertanto Stutcka individuava quale carattere fondamentale della Costituzione “lo stabilimento della dittatura proletaria e dei contadini poveri con la guerra civile”3.

La dittatura era individuata quindi come lo strumento ideale per raggiungere due scopi: condurre la guerra civile e, nel frattempo, e in prospettiva, guidare la trasformazione verso la società comunista, la “società senza classi”, meta finale del comunismo. Mentre il primo è uno scopo per così dire normale della dittatura (per lo più utilizzata in caso di guerra, esterna o civile), il cui modello storico e istituzionale è quello romano, ed è un mezzo normale per la conservazione dell’unità e dell’ordine politico e sociale (come già notava Machiavelli nel “Discorsi sulla prima deca”) il secondo fine è moderno, e, per certi tratti, peculiare al comunismo “reale”. Infatti la dittatura “classica” è uno strumento per conservare l’ordine esistente, e cioè rivolto al presente: la dittatura comunista è indirizzata alla costituzione dell’ordine futuro. È nella prospettiva della società senza classi che la dittatura modella la società futura.

In tale differenza essenziale v’era in nuce il germe della successiva decadenza ed implosione finale del “socialismo reale”. Infatti il dittatore “classico” si giustificava per la conservazione dell’ordine e il suo ufficio (di durata limitata) cessa con il ripristino di quello; mentre alla dittatura comunista compete un compito assai più impegnativo, suscitatore di aspettative enormemente più difficili a soddisfare. Che, infatti non soddisfatte per oltre settant’anni, hanno costituito la causa, probabilmente principale, dell’implosione del regime sovietico.

2. La dittatura era strettamente collegata al ruolo dirigente del Partito comunista. Da ultimo, la Costituzione sovietica del 1977 così ne descriveva il ruolo: “Il Partito comunista dell’Unione Sovietica è la forza che dirige e indirizza la società sovietica, il nucleo del suo sistema politico, delle organizzazioni statali e sociali. Il PCUS esiste per il popolo ed è al servizio del popolo.

Il Partito comunista, armato della dottrina marxista-leninista, determina la prospettiva generale di sviluppo della società e la linea della politica interna ed estera dell’URSS, dirige la grande attività creativa del popolo sovietico, conferisce un carattere pianificato e scientificamente fondato alla sua lotta per la vittoria del comunismo” (art. 6). Tale disposizione andava letta insieme all’art. 3 (sul centralismo democratico). Il tutto spiega perché, ad esempio, nessuna delle Repubbliche federate abbia esercitato il diritto di secessione previsto dall’art. 72 (e dai corrispondenti delle precedenti costituzioni).

Tale diritto è (logicamente) esercitabile se la repubblica aspirante alla secessione ha la possibilità di darsi un indirizzo politico in contrasto con quello della federazione; ma se “il nucleo” del sistema politico “la forza che dirige ed indirizza la società” (e così via) è un’organizzazione unica e totalitaria per cui “il centralismo democratico combina la direzione unica con l’iniziativa e l’attività creativa locale, con la responsabilità di ogni organo statale e di ogni funzionario per l’incarico affidato”, la diversità d’indirizzo politico non poteva manifestarsi: l’autonomia dello Stato-membro in una federazione retta da un partito unico e totalitario, in quanto tale detentore del monopolio del potere politico, ha campi di azione assai più limitati di quelli che può trovare in uno Stato anche unitario, ma pluralista. Il problema della natura federale dello Stato e della salvaguardia dell’unità politica, nel sistema comunista era risolto con l’uovo di colombo rappresentato dal controbilanciare la pluralità degli Stati con l’unità del partito (e quindi della direzione politica).

In realtà che la vera costituzione dell’URSS (e degli altri regimi di “socialismo reale”, fosse la dittatura del Partito comunista, è provato a posteriori dal fatto che lo scioglimento del PCUS ha coinciso con quello dell’Unione sovietica, dissoltasi nelle repubbliche della C.S.I. L’architrave del sistema era quello e non le centinaia di disposizioni della Costituzione formale, alla quale in quella occasione fu dimostrato come si adattasse bene il giudizio di Stutcka: d’essere un “foglio di carta”.

3. La distinzione tra dittatura commissaria (quella “classica”) e dittatura sovrana (cioè quella bolscevica e, prima, giacobina) è stata formulata da Schmitt4; tale distinzione tuttavia è già in nuce in Bodin, nella dicotomia tra sovranità ed altri poteri pubblici. L’argomentazione di Bodin si fonda sul fatto che “così come il gran Dio sovrano non può fare un altro Dio simile a lui, poiché egli è infinito e non vi possono essere due infiniti, come si dimostra secondo ragioni naturali e necessarie, così possiamo dire che quel principe che abbiamo detto essere l’immagine di Dio non può rendere un suddito uguale a se stesso senza con ciò annullare il suo stesso potere”; per cui “le prerogative sovrane devono essere tali da non poter convenire altro che al principe sovrano; se anche i sudditi possono esserne partecipi, esse cessano di essere tali”5.

E il concetto che discrimina la sovranità da tutti gli altri poteri pubblici è quello di limite: non è tanto il potere di dare leggi, fare pace o guerra, conferire potestà pubbliche ad altri soggetti, rendere giustizia a connotare il potere sovrano, (giacché l’uno o l’altro di questi poteri sono conferiti anche ad altri organi e soggetti pubblici), ma quello di farlo senza limiti (giuridici), di oggetto, di procedimento, di tempo. E’ questa la concezione che formula Bodin e che sarà, per così dire, raffinata dai pensatori successivi, per culminare nella definizione di Kant. Infatti anche per i magistrati straordinari, in primis il dittatore romano, sussistevano limiti all’esercizio del potere e questo era conferito per delega del sovrano: “né il dittatore dei Romani, né l’armosta a Sparta, né l’esimneta a Salonicco, né quel magistrato di Malta che veniva chiamato archus, né l’antica balìa di Firenze, magistrature tutte che avevano press’a poco le stesse funzioni, né il reggente di un regno, né alcun altro magistrato che abbia avuto per un limitato periodo di tempo potere assoluto di disporre dello Stato, ha veramente avuto la sovranità. E non significa niente che i primi dittatori avessero pieno potere”6 e ciò perché “il dittatore romano non era né principe né magistrato sovrano, come molti hanno scritto, e non disponeva che di una commissione con un fine preciso, o condurre una guerra, o reprimere una rivolta, o riformare lo Stato, o istituire nuovi magistrati; mentre la sovranità non è limitata né quanto a potere né quanto a compiti né quanto a termini di tempo”7.

Se andiamo a leggere qualcuna delle commissio conferite all’epoca dell’assolutismo, la distinzione tra sovrano e “commissario” (cioè organo straordinario) appare evidente, per quanto ampi siano i poteri conferiti dal primo al secondo. Nel diploma, ad esempio, rilasciato da Ferdinando IV di Napoli al Cardinale Ruffo (Palermo 25/1/1799) per la difesa del Regno, a questi sono conferiti vastissimi poteri: principio (e delega generale) è che “Ogni mezzo che dall’attaccamento alla Religione, dal desiderio di salvare le proprietà, la vita e l’onore delle famiglie, o dalle ricompense per chi si distinguesse, crederà di poter impiegare, va adoprato senza limite, ugualmente che i castighi i più severi. Qualunque molla finalmente che giudicherà poter suscitare in quest’istante, e crederà capace di animare quegli abitanti ad una giusta difesa, dovrà eccitarla”.

I poteri conferiti al Cardinale erano: fare proclami; rimuovere, sospendere, arrestare e nominare ogni funzionario pubblico; adoperare ogni risorsa finanziaria delle “casse regie” (con rendiconto); amministrare la giustizia; comandare le forze militari regolari e levarne di irregolari; organizzare servizi d’informazione.

Il Re ripete “Per ottenere ciò non le prescrivo mezzi, che tutti lascio al suo zelo, tanto in modi di organizzazione, che per la distribuzione delle ricompense di ogni genere: se queste saranno in danaro, potrà accordarle subito; se saranno in onori ed impieghi che prometterà potrà istallare interinalmente quelli che giudicherà, e me ne renderà inteso per la conferma ed approvazione, come pei distintivi promessi”; e ribadisce “Non, mi estendo in dettagli maggiori per le misure di difesa, che nel massimo grado da lei aspetto; molto meno per quelle contro le mozioni interne, attruppamenti, seduzioni, emissari e mala volontà di alcuni. Lascio al discernimento di V. Eminenza il prendere le più pronte determinazioni e per la giustizia subitanea contro tali delinquenti” (i corsivi sono nostri). Per quanto ampi fossero i poteri del Cardinale, erano limitati (oltre che da qualche obbligo, soprattutto d’informazione, rendicontazione e approvazione) dalla stessa commissio finalizzata alla riconquista e pacificazione del Regno. Proprio la distinzione tra sovrano e commissario (del sovrano), la presenza e la preminenza del primo sul secondo consentiva di ricondurre quest’ultimo nell’ambito dell’istituzione, quale organo straordinario (ed eccezionale) di questa, subordinarlo all’insieme e di limitarne i poteri.

4. Caratteri della dittatura commissaria erano da un lato d’essere strumento utilizzato solo nelle situazioni eccezionali: la straordinarietà dell’organo e dei suoi poteri era il riflesso dell’eccezionalità della situazione; secondariamente di avere un mandato limitato dello scopo (condurre una guerra, reprimere una rivolta); in terzo luogo di avere dei limiti di tempo; infine di essere comunque soggetta a controlli ed approvazioni di un altro organo, cioè quello sovrano, cui doveva rispondere.

La dittatura sovrana, di converso, non conosce (altrimenti non sarebbe tale) questi limiti: non – o solo in parte – quello dell’eccezionalità della situazione. Come scriveva Jhering, nell’antica Roma, “se ci si trovava in una situazione d’emergenza, si nominava un dittatore” e questa era un’azione “di salvataggio compiuta dal potere statale”8; mentre la dittatura sovrana non è limitata e funzionalizzata dall’emergenza: piuttosto lo è dalla transizione (da un ordine ad un altro); non è un’azione del potere statale, ma nasce da un potere di fatto opposto allo Stato.

Soprattutto, non ha limiti giuridici, proprio perché sovrana. Intendendo poi “limitato” in relazione ai presupposti (elementari) di un pensiero giuridico istituzionalista9, per cui il limite è, in primo luogo, quello istituzionale, più specificamente organico.

Ovvero il limite che incontra la dittatura “classica” è di essere inserita in una forma istituzionale, in cui c’è un organo (ordinario) che ha funzioni di controllo, autorizzazione, sorveglianza, approvazione riguardo all’organo straordinario (e ai di esso atti). Il primo è comunque un organo costituito, oltre che, talvolta, costituente. L’essere organo di un’istituzione, composta di una pluralità di organi, uffici e relative subordinazioni, coordinazioni, sfere di attribuzioni limita doppiamente l’istituto della dittatura: per l’inserimento in una forma istituzionale e per la presenza, conseguente, di tali organi, almeno uno dei quali detiene una posizione di preminenza (superiorità) rispetto all’organo commissario.

Nella dittatura sovrana tale – principale – limite viene meno: il dittatore risponde non a un organo costituito, ma semmai ad un potere costituente, che ha il connotato precipuo di non essere neppure costituibile. In se non vi è una possibilità giuridica (cioè, in primis, istituzionale) di controllo, ma solo politica, almeno finchè viene ammesso un pouvoir constituant.

Più che nell’eccezione la dittatura sovrana trova, come cennato, il proprio presupposto e la propria “giustificazione” nel diverso (concetto di) transizione: dal vecchio al nuovo ordine, da quello ingiusto al giusto. Ordinamento futuro che richiede una nuova costituzione, e/o addirittura la (previa) trasformazione di tutto l’ordine sociale.

Nella dottrina comunista questo è già previsto da Marx ed Engels; resta il fatto, comunque, che anche senza una costituzione (in senso formale) una costituzione sussiste comunque (e non potrebbe non esserlo almeno finchè esiste l’unità politica). Costituzione che può coincidere con l’autorizzazione (presunta o meno) all’esercizio del potere in capo ad un soggetto (collettivo o individuale): e questa non può mancare almeno finchè si ha un’esistenza politica. Vale per la dittatura sovrana quello che Santi Romano scriveva in relazione allo Stato assoluto “Il diritto costituzionale del c.d. Stato assoluto o dispotico sarà poco sviluppato; si concreterà in una sola istituzione fondamentale, quella del suo sovrano; sarà regolato da poche norme che, esagerandone e stilizzandone la figura tipica, si potranno ridurre magari soltanto a quella che dichiarerà l’appartenenza al sovrano di tutti i poteri; ma almeno questa norma non potrà mancare e non essere giuridica”10. Così del pari, anche se non delineato in “dottrina” come nel marxismo, la transizione (da una vecchia alla nuova costituzione, dal vecchio al nuovo ordinamento) appare anche nella prassi della Convenzione francese del 1792-1795: in particolare con la redazione della nuova Costituzione (direttoriale), la cui entrata in vigore coincise con lo scioglimento dell’assemblea e la formazione degli organi (pouvoirs) ordinari.

Altri caratteri della dittatura sovrana non differiscono da quelli della dittatura commissaria: così l’idea (più che l’atto) della commissio (inserita nel concetto di trasformazione dell’ordinamento) così il presupposto del “nemico”. Anche se l’attivazione di organi (e/o misure) straordinari non è limitata ai casi di guerra esterna o interna, giacchè spesso sono impiegati per fronteggiare situazioni d’emergenza provocate da calamità naturali, di solito si ricorre alla dittatura in questi casi.

Nella dittatura sovrana della Convenzione la necessità di combattere il nemico esterno (la prima coalizione) ed interno (classi privilegiate, clero refrattario, insorti realisti) giustificava la dittatura (e anche la sospensione della prima costituzione approvata) in forza del nemico (e la guerra) esterna ed interna. Anzi, in entrambi i casi, proprio il compito assegnato alla dittatura moltiplicava il numero dei nemici: se infatti questo consiste nell’instaurazione di un nuovo ordine, chiunque si opponga a ciò diventa un nemico, anzi nell’immediato, il nemico. Man mano che procede l’edificazione dell’ordine nuovo i nemici si susseguono.

Così nella Rivoluzione francese alle classi già privilegiate seguirono gli insorti realisti, con l’intermezzo dei girondini e degli arrabbiati, e l’accompagnamento di Danton; in quella sovietica ai bianchi ed ai socialrivoluzionari seguirono i trozkisti, poi i kulaki, infine la vecchia guardia bolscevica. All’esterno polacchi, forze dell’Intesa; a metà tra interno ed esterno ucraini ed altre nazionalità. Le dittature sovrane sono, sotto tale aspetto, i moltiplicatori più efficaci del numero dei nemici.

5. La seconda metà del XX secolo ha visto cadere molti regimi dittatoriali, anche se, da un certo momento, il termine dittatura è stato adoperato di preferenza per quelle di “destra”, mentre i regimi comunisti venivano qualificati, per lo più, in modo diverso a seconda delle preferenze politiche del qualificatore (da “Stato totalitario” a “regimi del socialismo reale” e così via). Sta di fatto che, in Europa, (e spesso anche altrove) queste dittature (di destra o di sinistra), a partire dalla seconda metà del secolo, sono cadute senza spargimento di sangue, o, quanto meno, senza guerre civili. Non ha fatto eccezione neppure quella sovietica. In fondo a questa si può estendere quanto fu detto riguardo al franchismo: d’essere morto di vecchiaia (per la Spagna, fisica, essendo un regime “personale” di Franco; per l’Unione Sovietica, ideale, come si conviene da un’ideocrazia utopistica).

A chiedersi perché, al contrario di quelle cadute nella prima metà del secolo, queste siano finite in maniera incruenta (o quasi) la risposta più probabile è dato proprio dal nemico (reale). Una dittatura, infatti, come ad esempio quella dei colonnelli greci o quella franchista spagnola, erano prive di reali nemici interni (perché debellati o posti in condizione di non nuocere) ed anche esterni. Infatti, almeno nell’ambito del mondo occidentale gli USA e gli altri Stati democratici non percepivano quelle dittature come nemici reali, sia perché tale era il comunismo, sia perché queste rappresentavano un’eccezione, forte ma relativa, rispetto all’ordine democratico-liberale (e perciò assai meno pericolosa); d’altra parte la stessa rappresentazione, all’inverso valeva per i regimi greco e spagnolo. Quindi né gli Stati democratici erano nemici reali per tali dittature, né queste per quelli.

Per l’Unione Sovietica (e i paesi satelliti) la situazione creatasi, anche se differente, si fondava sempre sull’inimicizia. Infatti, a differenza che nel comunismo statu nascenti, per cui il nemico contro cui condurre la guerra giusta era il capitalista, in quello senescente la percezione del capitalismo come nemico si era sbiadita tra i governanti e, probabilmente, svanita del tutto o quasi tra le masse dei governati.

La dittatura del partito comunista era così erosa in ambedue i pilastri fondamentali: la percezione-convinzione che il capitalismo fosse il nemico assoluto, e la dittatura necessaria per lottarvi contro. Parimenti si era ridotta la fede che il comunismo fosse la “fine della storia” e la dittatura il mezzo necessario per attingerlo. Venivano così meno entrambe le condizioni che giustificavano la dittatura. Da ciò la sua caduta tra tanti sbadigli e nessuna convulsione.

T.K.

1 Über verfassungswesen (conferenza del 16 aprile 1862), trad. it. in Behemoth n. 20

2 P. Stutcka La costituzione della R.S.F.S.R. in domande e risposte, Milano 1920, p. 12-13

3 Op. cit., p. 13

4 v. Die Diktatur trad it. Bari 1975

5 Six livres de la République, lib. I, cap. X, trad. it., Torino 1964

6 Op. cit., lib. I, cap. VIII.

7 Op. loc. cit.

8 R. von Jhering Der Zweck im recht, trad. it., Torino 1972, p. 185

9 v. Santi Romano L’ordinamento giuridico, p. 15, quando definisce l’ordinamento giuridico “in tal senso, si parla, per esempio, del diritto italiano o del diritto francese, non è vero che si pensi soltanto ad una serie di regole o che si presenti l’immagine di quelle fila di volumi che sono le raccolte ufficiali delle leggi e decreti. Ciò a cui si pensa, dai giuristi e, ancor più, dai non giuristi, che ignorano quelle definizioni del diritto di cui parliamo, è invece qualche cosa di più vivo e di più animato: è, in primo luogo, la complessa e varia organizzazione dello Stato italiano o francese; i numerosi meccanismi o ingranaggi, i collegamenti di autorità e di forza, che producono, modificano, applicano, garantiscono le norme giuridiche, ma non si identificano con esse. In altri termini, l’ordinamento giuridico, così comprensivamente espresso, è un’entità che si muove in parte secondo le norme, ma, soprattutto, muove, quasi come pedine in uno scacchiere, le norme medesime, che così rappresentano piuttosto l’oggetto e anche il mezzo della sua attività, che non un elemento della sua struttura. Sotto certi punti di vista, si può anzi ben dire che ai tratti essenziali di un ordinamento giuridico le norme conferiscono quasi per riflesso”.

10 V. Principi di diritto costituzionale generale, Milano 1947 p. 3.

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Piero Visani, Contro il leviatano. Ripensare la politica, la storia, lo spettacolo_a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

L’occasione anche per ricordare Piero Visani e la sua preziosa collaborazione con Italia e il mondo a tre anni dalla sua scomparsa. Giuseppe Germinario

Piero Visani, Contro il leviatano. Ripensare la politica, la storia, lo spettacolo, Oaks editrice, pp. 166, euro 20,00.

È veramente spiacevole recensire un libro come questo, postumo, sapendo che non se ne leggeranno altri. Perché Piero Visani, da me recensito negli ultimi anni, nei suoi lavori aveva testimoniato di un pensiero libero ed anticonformista, e al contempo, nel solco della migliore tradizione del pensiero politico (e giuridico) moderno.

Nell’introduzione il figlio Umberto riporta uno scritto indirizzatogli dal padre, che gli aveva “sempre cantato le lodi di una concezione antimercantilistica, antieconomicistica, antiutilitaristica, antispeculativa dell’esistenza”, e che è la migliore sintesi dei diversi scritti raccolti

E in effetti il libro consta di cinque parti: la prima sulla visione del mondo; la seconda sulla politica; la terza sulla guerra; la quarta sullo spettacolo; la conclusione, sugli scenari futuri.

Data la vastità dei temi, la sintesi sopra riportata, dovuta all’autore è quanto mai utile; tuttavia qualche altro passo può dare il senso di questo denso volume. Ad esempio sulla propaganda delle élites dirigenti che ci ha abituati a dissociare potere politico e militare da quello economico; e ancor più a dimenticare la “realtà effettuale” di guerra, nemico ed uso della forza (e così le condizioni di esistenza e azione politica). Ma a parte altro, la stessa propaganda criminalizza e indica al pubblico ludibrio chi non paga le imposte (di cui la classe dirigente vive), onde la considera l’autore così «si può essere  contrari al sogno di una grande Italia, in piena legittimità, ma essere favorevoli alla pratica di una “grande Equitalia” è davvero incredibile, è un obiettivo da minorati mentali. A meno che i “morti di fisco”, come i morti fatti dagli americani e dagli occidentali in genere, siano “meno morti”…». Visani peraltro, in tanti passi fa notare come le classi dirigenti  inette e in decadenza, predicano il bene, ma praticano alacremente lo sfruttamento della maggioranza governata. È inutile ricordare come, in Italia soprattutto, il servilismo e le prediche edificanti, hanno raggiunto il proprio apice proprio in coincidenza con il massimo prelievo fiscale, condizione per la (comodissima) vita delle stesse élite. Le quali vendono parole per rapinare beni.

Il buonismo imperante, il politicamente corretto si coniugano ad una incapacità di comprensione (e comunicazione) della realtà, ad una continua affabulazione, onde a seguire certi capi (?), il mondo di Bengodi della globalizzazione sarebbe già in atto e in via di completamento.

Tutt’al più, basta eliminare qualche disturbatore (già criminalizzato) per terminare l’opera (dell’uscita dalla storia). IN un quadro del genere un discorso come quello di Churchill che  prometteva agli inglesi sangue, sudore e lacrime prima di arrivare alla vittoria costituisce un esempio di cosa non dire. Ma a chi scrive l’illusione del mondo globalizzato (attenti alle votazioni all’Assemblea ONU – di segno opposto) ricorda quanto proclamato nella costituzione sovietica brezneviana, che il socialismo si era realizzato. Così bene che crollò una dozzina d’anni dopo; e di certe nuove illusioni non si può che augurarsi lo stesso.

Visani tratta di molte cose (film compresi): di idee, di autori, di mentalità, e sempre con un taglio originale e politicamente scorretto (ça va sans dire). È difficile trarre da una tale massa di giudizi un unicum prevalente. Tra i diversi possibili (e data l’abbondanza) ne ricordiamo tre:

Il primo è il disprezzo per le classi dirigenti attuali, in particolare per quella italiana (tuttavia il disprezzo è indirizzato anche a quella che l’aveva preceduta). Il secondo, correlato al precedente, è che le attuali élites (che secondo Max Weber vivono sia di politica che per la politica), vivono esclusivamente di, avendo cancellato dalla propria prospettiva di vivere per; così come di realizzare risultati invece di propagandare (buone) intenzioni.

Il terzo che la Weltanschaung globalista  appare come una scissione del rapporto – necessario in politica, come attività umana – tra ragione e passione.

Quello di cui è un esempio insuperato l’ultimo capitolo del Principe, dove l’unità politica d’Italia – in un mondo di Stati nazionali nascenti – era la condizione insostituibile per un’esistenza indipendente ed autonoma- Onde repubbliche e signorie, le quali avevano senso e funzione in un medioevo feudale, lo avevano perso con l’incipiente formarsi del mondo moderno.

La consapevolezza della diversità del contesto storico e politico era il presupposto di poter vivere liberi nella mutata situazione. Ragione (di Stato) e passione politica che la classe dirigente non riesce a coniugare. E che questo libro così interessante, che non dimentica mai tale rapporto, ci aiuta e sprona a fare.

Teodoro Klitsche de la Grange

RAGION DI STATO E RAZIONALISMO GIURIDICO, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTA

Questo breve saggio era stato pubblicato sul n. 3/2001 di “Palomar”. Lo
si propone perché presenta spunti d’attualità.

Teodoro Katte Klitsche de la Grange

RAGION DI STATO E RAZIONALISMO GIURIDICO

  1. Malgrado le vicende del secolo scorso, in particolare le guerre mondiali e i regimi totalitari poterebbero contraddirlo, è un fatto che l’idea di Stato e la realizzazione della stessa è un’opera, a un tempo, in larga misura della ragione e del razionalismo (politico e giuridico) dell’età moderna.

Non a caso, appena nato lo Stato, per definire a un tempo il criterio di azione di questo e del Principe, si usò l’espressione “Ragion di Stato”; ma non è men vero che se essa individua il dovere e la “bussola” del governante (e in larga misura l’ambito, anche giuridico, dei poteri del medesimo) quello moderno è, insieme, mutuando il titolo di un’opera di Fiche, uno Stato secondo ragione. Anche se sull’esatta definizione di questa espressione e su cosa s’intenda per essa, è bene capirsi, per non confondere la ragione “storica” e “concreta” con le costruzioni intellettualistiche, (e nelle intenzioni, spesso utopiche), di cui la modernità ci ha fornito una pletora di esempi (al punto che De Maistre, affermava di non conoscere, nell’epoca pre-rivoluzionaria, un giovane letterato che non avesse scritto almeno un trattato di pedagogia e una costituzione); mentre il carattere peculiare della ragion di Stato, è sì d’essere “razionale”, ma di esserlo in una situazione data e su presupposti concreti, ovvero di costituire la regola di scelta in un contesto reale; è cioè l’applicazione – conseguenza del realismo politico, e non dell’intellettualismo utopico (e ucronico).

Se la ragion di Stato è nient’altro che la “tecnica” di difesa dell’unità politica e della sicurezza collettiva ed individuale (salus rei publicae suprema lex esto), lo strumento principale con cui si è attuato e garantito quelle è, per l’appunto, lo “Stato secondo ragione”, attraverso la progressiva e costante “razionalizzazione” delle strutture pubbliche. Funzionalizzazione, de-patrimonializzazione, centralismo, legalità, burocratizzazione sono state le principali vie percorse per innestare sul vecchio ceppo delle monarchie feudali la razionalità funzionalistica di un apparato che è, in larga parte, il prodotto di un processo cosciente (ed autocosciente) di costruzione della “gran macchina”, dell’ “uomo artificiale” concepito per la sicurezza (e il benessere) collettivo. Questo è nel contempo il risultato della secolarizzazione o meglio, in relazione al tema qui trattato, del weberiano “disincanto del mondo”, della cesura del legame tra cielo e terra; chiaro nella sfera politica, lo è meno, ma di poco, nell’ambito giuridico, probabilmente perché la razionalizzazione del diritto e del processo, nella cristianità occidentale, ha preso l’avvio diversi secoli prima della “scoperta” dello stesso termine di Stato (e della, di poco successiva, “Ragion di Stato”), ed è la risultante della recezione del diritto romano (del Corpus juris) e dello sviluppo di quello canonico. Ambedue costruzioni razionali, ancorché l’una “Deo auctore”, secondo l’espressione di Giustiniano, l’altro ordinamento di una  ierocrazia; ma al riguardo occorre notare che, ancora, la concezione del monarca (e del magistrato) come rappresentante di Dio, tipica della Riforma e, in parte anche, della Controriforma, fornisce la base legittima e “sacra” per la prima fase della razionalizzazione politica (e la seconda di quella giuridica)[1].

Per cui la stessa razionalizzazione “politica” ha un fondamento “aperto alla trascendenza”. Ciò non toglie che l’una (e l’altra) si fondino, come detto, sul “disincanto del mondo”, sulla costruzione di decisioni razionali, su presupposti realistici e razionalmente argomentati, su responsabilità umane, con l’esclusione sia di interventi “magici” o “divini”, che di norme non aventi una “promulgazione”, o un consenso all’applicazione, da parte dell’autorità sovrana.

  1. In questi termini, il razionalismo giuridico si coniuga con la razionalizzazione prodotta dallo Stato, che è, in primo luogo e, a un tempo, sia separazione-delimitazione (tra interno ed esterno, tra potere temporale e spirituale) che centralizzazione.

Il primo aspetto è stato ampiamente considerato, nei suoi aspetti (politici e quel che più interessa, giuridici) da Thomas Hobbes. Questi rifiutava sistematicamente di considerare vincolante qualsiasi norma che non fosse legge di natura o comando del Sovrano, negava di conseguenza che fosse norma applicabile quella non proveniente (anche se tacitamente assentita) dall’unica autorità sovrana e che altre autorità avessero il potere di emanarle (nell’ambito dell’unità politica). Con ciò impediva la possibilità di conflitto tra centri diversi di (potere e) produzione normativa. A un sovrano corrisponde un solo diritto applicabile dallo stesso e dai giudici da questi istituiti. Daltro canto fa parte dello spirito dell’epoca, e in larga misura della modernità, ritenere che “non vi è mai tanta perfezione nelle opere composte di pezzi fatti da artefici diversi quanto in quelle costruite da uno solo”, come scriveva Cartesio[2]. Così la semplificazione andava di pari passo con la razionalizzazione. E con la centralizzazione: la quale non è identificabile solo con la struttura dello Stato francese, ovvero di quello che più coerentemente l’aveva e l’ha perseguita e realizzata, ma è connaturale alla stessa idea di Stato; anche se le forme per la sua realizzazione sono le più diverse, e spesso fanno ampio spazio a poteri decentrati ed autonomie regionali e locali. Tuttavia il “monopolio della violenza legittima” (il che significa anche dell’esecuzione delle pretese)  ed alcuni istituti ed uffici particolarmente significativi come, per esemplificare, le Corti supreme uniche (Cassazione, Consiglio di Stato) e il potere generale di annullamento amministrativo sovente riconosciuto all’organo statale apicale, ne sono la conferma per gli aspetti non solo politici, ma anche giuridici. Ed ancor più le “codificazioni” con le quali, dal ‘700 in poi, si sostituiva al diritto di formazione dottrinale-giurisprudenziale e consuetudinaria, una legislazione unitaria, emanata dall’autorità sovrana, di guisa che dal XIX secolo in poi non poteva generalmente più affermarsi quanto scriveva, sul finire del secolo precedente, il giovane Hegel della Germania pre-napoleonica, che si cambiava il diritto con la frequenza con cui si sostituivano i cavalli della diligenza.

D’altra parte Thomas Hobbes  non è stato solo il più conseguente teorico della sovranità, ma anche quello di un diritto razionale, sia perché chiaro ed applicabile, sia perché giusto (in quanto razionale o almeno ragionevole). In particolare nei capitoli XXVI-XXVIII del “Leviathan” ne elabora alcuni principi, quali la comprensibilità (“perché altrimenti un uomo non saprebbe come obbedire”) la conoscibilità (la legge positiva deve essere pubblicata, secondo la nota tesi di S. Tommaso) la non obbligatorietà delle “leggi positive divine” (cioè quelle oggetto di “rivelazione”) non “recepite” e “comandate” dal sovrano; il principio nulla poena sine lege; tutti caposaldi del diritto dello Stato moderno; meno attenzione Hobbes dava agli aspetti organizzativi e, per così dire, “professionali”, dato che l’esempio della organizzazione giudiziaria inglese non lo induce a preferire il magistrato “giurista” (cioè esperto di diritto) rispetto al giudice non professionale. La coniugazione tra sovranità e razionalismo giuridico è evidente anche in Rousseau: all’onnipotente legislateur corrispondono i caratteri intriseci della loi: conoscibile, durevole, chiaramente applicabile. Così anche nei giacobini la dittatura sovrana della convenzione si associa all’aspirazione alla semplificazione ed alla chiarezza legislativa. Anche se tra la concezione della sovranità e il razionalismo giuridico non c’è un rapporto di implicazione necessaria (ben può esistere un Sovrano che governi in base ai principi del “sultanismo” e della volontà arbitraria come nelle monarchie dispotiche orientali) tuttavia il rapporto, nell’età moderna, è stato costante, sia sotto l’aspetto delle realizzazioni pratiche, che sotto quello teorico. Allo sviluppo dello Stato sovrano moderno corrisponde quello del razionalismo giuridico; i teorici del primo , di solito, sono gli stessi che auspicano il secondo. Questo nesso è verosimilmente rafforzato dall’identità dei poteri che sovranità e razionalizzazione limitano e riducono: i poteri “intermedi”, “indiretti” e “spirituali” progressivamente privati dallo Stato sia della possibilità di regolare e giudicare, sia di eseguire coattivamente le loro pretese. Alla soluzione del problema politico, risolto dall’unità del comando, è corrisposta così quella, giuridica, della razionalità – sia del comando che dell’obbedienza: quest’ultima garantita in primo luogo, dall’unità di quello.

  1. Max Weber ha delineato i postulati del razionalismo giuridico, con particolare, ma non esclusivo, riferimento alla pandettistica[3]; sempre allo stesso Weber notoriamente dobbiamo le analisi del “tipo” di potere dello Stato moderno, ovvero quello razionale-legale con amministrazione (prevalentemente) burocratica, che è l’altro volto della razionalizzazione politica e giuridica; e l’individuazione del carattere distintivo del diritto borghese (e della funzione giudiziaria), costituito sia dalla “misurabilità” delle norme che dalla previsione di una puntuale applicazione delle stesse da parte del giudice “professionale ed esperto”, bouche de la loi. Tali principi, valevoli sia per un diritto codificato (continentale), sia per un sistema basato sull’autorità del precedente (come quello anglosassone), trovano comunque le proprie condizioni irrinunciabili da un lato in norme giuridiche, come scriveva Thibaut, chiare, inequivocabili e, complessivamente esaurienti, dall’altra nella razionale applicazione di esse da parte di giudici (competenti ed) indipendenti da tutti fuorché dalla legge medesima: ambedue caratteristiche dello Stato (borghese) di diritto, con la sua concezione della legge (che è tale perché ha precise “qualità”); e del giudice “bouche de la loi”. Il razionalismo giuridico trova pertanto le condizioni più favorevoli al proprio sviluppo nella fase “liberaldemocratica” dello Stato, cioè quella che inizia con la rivoluzione francese (anticipata, per certi aspetti che qui interessano, dall’Illuminismo); e trova il proprio “punto d’Archimede” nell’ethos e nelle istituzioni politiche della borghesia, al di fuori delle quali non è (compiutamente) realizzabile: il legame con lo Stato (e la politica) moderna ne è confermato.

Proprio al periodo immediatamente precedente la rivoluzione risalgono le prime codificazioni dell’età moderna, frutto, come cennato, del secolo dei Lumi, e diffusesi nei decenni successivi. Coerentemente con l’esigenza di “stabilità” della legislazione borghese (necessaria al capitalismo) alcuni di quei codici pre e post-rivoluzionari sono tuttora in gran parte vigenti. Le necessità di “sistematizzazione” e di “sicurezza” che stanno alla base delle codificazioni in genere, e di quelle in particolare sono state descritte da Max Weber; ed a questi, come a Tarello, dobbiamo l’osservazione, d’esser spesso state osteggiate dal ceto dei pratici del diritto, dei “causidici” che sovente trovano occasioni di lucro nelle situazioni d’incertezza ed oscurità del medesimo[4].

4 Così come aveva trovato l’ “ambiente” più favorevole nelle istituzioni dello Stato borghese, così il razionalismo giuridico l’ha perso in quello del XX secolo: in modo evidente negli Stati totalitari, in forma meno netta e decisa (“correttiva”) altrove. Quanto alle ideologie totalitarie queste negano proprio quei due caposaldi della legge “qualificata” e della neutralità/indipendenza del Giudice; e più in generale negano (riducono) l’essenza dello Stato (come “idea direttiva”, non come apparato di coazione, chè, anzi, è esasperato). Così che la legge debba essere interpretata in conformità ai principi della rivoluzione o del regime, significa renderne assai incerta l’applicazione; che questa poi possa essere modificata con disposizioni varie (dall’ “ordnung” al “befehl”, alle norme “interpretative” del Praesidium del Soviet supremo) e se ne teorizzi anzi la mutevolezza a seconda dello stadio raggiunto dalla rivoluzione (o della situazione) è l’esatto contrario del roussoviano “imiter les immuables décrets de la divinité”; peraltro una certa, marcata, inclinazione alla weberiana “razionalità materiale” (che spesso si trasforma nel contrario) serve anch’essa a vanificare quella “formale” legando la decisione del giudice a principi di carattere etico, politico o utilitaristico. In quei regimi, poi, parlare di neutralità/indipendenza del giudice era umoristico più che assurdo: basta leggere una delle costituzioni (qualsiasi) degli Stati del “socialismo reale” – veri reperti di archeologia giuridica – per rendersi conto che il sistema giudiziario era di nomina – e sotto controllo – politico.

Ancor di più, è connaturale a comunismo e nazismo – le forme più coerenti di totalitarismo – negare (o limitare) l’idea direttiva dello Stato[5]. Il primo perché è un’ideologia dell’estinzione dello Stato: nella società comunista vagheggiata, lo stato di perfezione impedirà l’insorgere di conflitti (dovuti, notoriamente, al meum e tuum individuale), o se insorti ne consentirà la conciliazione ad un arbitro non “professionale”, dotato di bontà  e rettitudine naturale. In questa utopia, giudici ed avvocati “tecnici” sono altrettanto superflui di polizie e eserciti professionali. Nel nazismo, lo Stato più che forma dell’unità politica, è la macchina asservita al Führer ed al Bewegung, vere componenti attive (cioè politicamente decisive) dell’unità politica a tre “membra” come ricostruita da Carl Schmitt[6]. Il che conferma che, sviluppato (ancorché non esclusivamente) nello Stato moderno, il razionalismo giuridico deperisce con quello.

Sotto un diverso profilo il nesso tra Stato moderno (in particolare liberal-democratico) e razionalismo giuridico è dato dall’identica sottesa concezione della natura umana (e del potere pubblico). Nell’ideologia dello Stato moderno alla concezione “problematica” dell’uomo, come esposta da Machiavelli (che non cade né nel paradosso dell’uomo buono per natura, ma neppure nel pessimismo antropologico protestante), corrisponde, da un canto che un solo potere, quello sovrano, non ha bisogno di avere ragione per far eseguire le proprie decisioni, dall’altro che tutti gli altri, devono “giustificare” le proprie decisioni, sulla base delle norme emanate, o consentite dal primo. E tranne il sovrano, vige per lo Stato liberal-democratico la regola, esposta nel 51° saggio del “Federalista” laddove si legge “se gli uomini fossero angeli non occorrerebbe alcun governo. Se fossero gli angeli a governare gli uomini, ogni controllo esterno o interno sul governo sarebbe superfluo. Ma nell’organizzare un governo di uomini che dovranno reggere  altri uomini, qui sorge la grande difficoltà: prima si dovrà mettere il governo in grado di controllare i propri governanti, e quindi obbligarlo ad autocontrollarsi”.

Dato che per l’appunto i funzionari pubblici non sono degli angeli, ovvero non sono dotati di moralità ed intelligenza superiore a quella degli amministrati, si pone il problema delle giustificazioni e dei controlli, in modo non esclusivo, ma sicuramente assai più acuto che in altre forme  politiche. La motivazione, il richiamo alla norma “superiore” in minor misura lo stesso contraddittorio, l’uso di regole logiche e così via sono le garanzie che oltre a norme “misurabili” le stesse decisioni prese siano “controllabili” e “verificabili” (in particolare rispetto alle norme – alle leggi – applicabili, che impone la rispondenza della decisione al parametro “astratto”). In una forma di potere carismatico o tradizionale, tale esigenza non sussiste o lo è in misura ridotta. Il “profeta” può giustificare la propria decisione sulla rivelazione divina, o su un sogno; il cadì su un detto del Profeta più o meno applicabile al caso; Sancho Panza col buonsenso e la furbizia del contadino; ma il funzionario – amministrativo o giudiziario – dello Stato moderno ha il dovere di farlo in base alle norme, sia attributive di competenza, che di “merito”, razionalmente interpretate e sa fatti comprovati. Gli uni e gli altri molto più controllabili di profezie, sogni, esempi o detti, sia dal destinatario della decisione che dall’autorità di verifica (superiore “gerarchico”).

  1. Il razionalismo giuridico ha pertanto trovato nel secolo passato avversari meno diretti, aperti e determinati delle ideologie totalitarie, ma, a dispetto della minore incidenza, più persistenti e duraturi.

Si può identificarli, in generale, con alcuni presupposti – e conseguenze – delle ideologie del c.d. “Stato sociale” (altrimenti connotato come “Stato totale quantitativo” da Carl Schmitt); in particolare, per l’Italia, quelle ideologie hanno fortemente condizionato la prassi legislativa e l’evoluzione istituzionale della Repubblica. Connotato comune è l’aumento d’importanza della razionalità materiale rispetto a quella “formale” verso la quale quella viene fatta giocare in contrapposizione; e in effetti lo è oggettivamente, come  rilevato acutamente da Max Weber. Secondo il quale legislazione e giurisdizione “sono materialmente irrazionali quando per la decisione assumono rilevanza valutazioni concrete del caso singolo – siano esse di natura etica, affettiva o politica – e non invece norme generali”. Ma anche il diritto razionale può essere tale o formalmente, ossia perché individua le caratteristiche giuridicamente rilevanti “attraverso un’interpretazione logica, dando luogo alla formazione e all’applicazione di concetti giuridici definiti sotto forma di regole rigorosamente astratte” o in senso materiale. Ma questo non fa che accrescere “l’antitesi rispetto alla razionalità materiale. Quest’ultima implica infatti precisamente che la decisione delle questioni giuridiche deve essere influenzata da norme di dignità qualitativa diversa dalle generalizzazioni logiche di interpretazioni astratte – cioè da norme come imperativi etici o regole di opportunità utilitaristica e di altra specie, o massime politiche – che infrangano sia il formalismo della caratteristica esteriore, sia quello dell’astrazione logica”. In realtà nella legislazione italiana contemporanea troviamo sia elementi di irrazionalità materiale (in misura minore ma non trascurabile), sia, come cennato, il tentativo (l’espediente) di contrapporre la razionalità materiale a quella formale.

In un ordinamento giuridico coerente sia questa che quella (come, in certa misura, anche la valutazione concreta del caso singolo, ovvero il “materialmente irrazionale”) trovano una collocazione “armonica”. Così la discrezionalità (soprattutto amministrativa) viene esercitata in base ai presupposti “circoscritti” ed alle finalità determinate formalmente (cioè essenzialmente in base al principio di legalità), nell’ambito consentito dalla legge.

Quando invece si giustifica l’inosservanza o la disapplicazione di una norma legislativa, per le nobili finalità esternate dall’interprete (lottare contro la mafia, la criminalità, la plutocrazia, o più semplicemente provvedere per il bene di tutti, determinato dall’esegeta) si ha l’esempio di come l’una possa contrapporsi all’altra.

Quel certo eudemonismo, quell’aspirazione più intensa a realizzare la giustizia anche sociale sono elementi suscettibili d’introdurre e che spesso introducono dei discordi parametri valutativi nelle decisioni pubbliche. Ma è più interessante notare come, nella Repubblica dei partiti, è stata usata la razionalità materiale contro la formale, e come si è ridotto l’ordito del parametro principale di riferimento – la legge – nelle decisioni pubbliche.

Entrambi in modo spesso surrettizio, indiretto, e comunque non del tutto preponderante, sia per l’appartenenza al mondo occidentale (e all’economia di mercato) che per i vincoli costituzionali.

Quanto alla legge, cioè al principale parametro normativo delle decisioni, sono stati largamente disapplicati quei principi della legge “qualificata” tipici del Rechtstaat. Due ne sono i fenomeni più evidenti: la tendenza alla de-codificazione (ovvero alla sostituzione – talvolta totale, ma assai di più, parziale, di testi organici, come codici e testi unici con una miriade di leggi particolari e/o speciali), per cui gli stessi codici “tradizionali” costituiscono soltanto le stelle di prima grandezza di una nebulosa normativa d’incerta visibilità; e quella alla “amministrativizzazione” della legge.

Tra le distinzioni “classiche” dello Stato borghese c’è quella tra legge e provvedimento, la prima ratio, il secondo actio; la prima destinata a regolare situazioni e rapporti in modo durevole, il secondo a soddisfare necessità e bisogni mutevoli e concreti, spesso contingenti. Coerentemente al carattere “materiale” di Stato amministrativo della Repubblica, e non potendosi incidere sui principi costituzionali di legalità e riserva di legge, si è piegata, in larga misura, la legge a divenire essa stessa, nella funzione e nella sostanza un atto amministrativo preso con deliberazione parlamentare.

Basta leggere, tra le tante similari, una delle ricorrenti “finanziarie” per rendersene conto: l’esigenza che “unifica” una congerie di disposizioni disparate, spesso raggruppate nello stesso articolo, è lo scopo “gestionale” di soluzione di uno o più problemi contingenti che certe misure si propongono. A ciò si aggiunge la pletora legislativa, in larga parte determinata sia dalla de-codificazione che dall’amministrativizzazione, ma anche dalla settorializzazione e corporativizzazione (norme fatte per esigenze di piccoli gruppi, pubblici e/o privati); e la vieppiù scadente tecnica legislativa. Di guisa che a trovare nella Gazzetta ufficiale una “legge” che abbia le caratteristiche dei teorici dello Stato borghese (generale, astratta, destinata a durare, chiara, non ridondante ecc. ecc.) vi sono le stesse probabilità che incontrare una vergine in un bordello. In una situazione del genere, il problema più urgente ed essenziale che si pone a chi la deve applicare, non è tanto l’interpretazione, ma la ricerca e la “scoperta” della norma applicabile al caso: con l’inevitabile potenziamento sia della “discrezionalità interpretativa”, cioè della possibilità di scelta, per l’interprete, di due o più soluzioni plausibili, che dell’incremento degli errori.

Quanto alla “razionalità materiale”, nei testi normativi non risulta un deciso incremento di quelle norme, volutamente – e, in parte, anche necessariamente – indeterminate, che consentono all’interprete d’introdurre parametri etici o di opportunità nella decisione (il “comune senso del pudore”, la “diligenza del buon padre di famiglia” e così via); e questo potrebbe consolare, se il diritto fosse un insieme di norme. Ma questo è, in primo luogo, come riteneva Santi Romano, istituzione, cioè la varia e complessa organizzazione dello Stato, con i suoi rapporti di sovra – e sotto-ordinazione, i collegamenti di potere e autorità, la ripartizione di competenze. Se da un lato il clima politico e sociale incentiva o sollecita l’introduzione di regole etiche o di opportunità, anche attraverso il “pluralismo dei valori”; e dall’altro l’istituzione non reprime o, addirittura, facilita certi comportamenti, è naturale che, queste si diffondano nell’applicazione del diritto. Se l’oscurità e la proliferazione delle norme aumentano le incertezze interpretative, queste vengono applicate secondo il filtro dei giudizi di “valore” fatti propri dall’interprete. Il vincolo del funzionario alla legge viene così doppiamente attenuato. Anche perché il “pluralismo dei valori” con cui si delinea un aspetto – importante – del liberalismo, viene qui, trasposto, in modo nient’affatto liberale, dal privato al pubblico.

Se nel “privato” – nella società civile – è del tutto ammissibile la coesistenza di realtà, credenze e “sistemi di valori” diversi, come per esempio, le confessioni religiose – nel “pubblico” si richiede l’osservanza di un “sistema di valori” unitario, che consente solo modesti e parziali aggiustamenti, autorizzati legalmente. Se un cittadino italiano può legittimamente essere musulmano o buddista, un funzionario dello stato civile, pur musulmano o buddista, non può celebrare matrimoni poligamici o “a termine”.

Pluralità di credenze ed opinioni “private” non si trasforma nella pluralità di diritti, doveri e “garanzie istituzionali” tutelati (o imposti) dallo Stato. In realtà un simile “pluralismo” o “politeismo” di valori, oltre ad essere dissolutorio dell’unità e dell’omogeneità, connotati peculiari del pubblico, appare come la giustificazione di un assetto policratico di poteri, organi ed uffici non (o poco) coordinati e autoreferenziali.

Il tutto sfocia poi nel soggettivismo interpretativo, che è proprio ciò che il razionalismo giuridico è vocato ad evitare. Sulle forme in cui il soggettivismo si esercita ed articola, è importante leggere le acute pagine dedicate da Hegel alla fenomenologia della soggettività elevante se stessa ad assoluto “der sich als das Absolute behauptenden Subjektität”, con riferimento alla morale, ma utili anche nel diritto[7]: specie alle “figure” del “probabilismo”, della “buona intenzione”, dell’ “etica della convinzione” e dell’ “ironia romantica”, si possono ricondurre le giustificazioni esternate di una prassi interpretativa che finisce col negare oggettività al diritto e controllabilità alle decisioni, per cui costituisce un catalogo del soggettivismo burocratico: ma, purtroppo, al contrario di quello, più celebre, di Laparello, che si riferisce a un’attività forse non morale, ma piacevole, questo inquadra comportamenti immorali e  – per lo più – dannosi per tutti, fuorché, s’intende, per chi li pone in essere.

Che poi il tutto abbia effetti dissolutori verso lo Stato (di diritto e non) e incrementativi del potere – un potere non, o poco, funzionale all’ordine, in particolare a quello di una società moderna – è altrettanto evidente: lo notava già Hegel, contrapponendo la soggettività “particolare” alla soggettività del potere sovrano “identisch mit dem substantiellen Willen”, proprio perciò garante e conservatrice dell’unità politica, al contrario dell’altra, che la decompone[8]. Quanto al potere, quando chi lo esercita viene dispensato dal’onere di aver ragione – o quantomeno di doverla argomentare logicamente – e dalle correlative responsabilità, è moltiplicato per il numero di coloro che lo esercitano, anche se attenentisi alle loro (più o meno) limitate competenze[9]: invece di avere un Grande Fratello, ne abbiamo qualche centinaia di migliaia, spesso dannosi od inutili, e talvolta avidi: e nel cambio tra l’uno e i molti non c’è da guadagnare.

P.S.. Qualche mese fa suscitò commenti ironici, da parte degli (allora) futuri        oppositori, l’affermazione dell’on. Berlusconi che il suo futuro governo avrebbe operato come “Napoleone e Giustiniano” togliendo dalle leggi “il troppo e il vano”, e ci sia permesso di aggiungere, l’oscuro e l’equivoco. L’immagine più usata dagli oppositori (attuali) fu quella del Cavaliere con lo scolapasta in testa. In effetti per esponenti di partiti che hanno nel DNA l’estraneità ai principi dello Stato democratico-liberale e la diffidenza (a dir poco) verso il razionalismo giuridico, la pretesa di voler fare l’inverso di quanto da loro praticato può apparire incomprensibile e folle, anche perché vi sono tanti interessi (di partiti e di corporazioni) alla conservazione dello statu quo, e quindi l’impresa non sarà facile. Per gente abituata a pesare il potere col bilancino e ad adeguarsi di conseguenza è un argomento decisivo. Ma, a voler infondere coraggio al centro-destra a proseguire in quella (difficile quanto ragionevole) via occorre ricordare il giudizio di Max Weber “che tutte le innovazioni politiche favoriscono le codificazioni”.

Nella misura in cui il governo è innovatore, non può sottrarsi a confermare questa tendenza, a sostegno della quale sta che  la mera enunciazione di essa ha intimorito le forze della conservazione. C’è da sperare, pertanto, che le future azioni confermino la constatazione di Weber.

T.K.

[1] A tale proposito basti ricordare Calvino, il quale definisce così i magistrati – cioè i governanti – “En somme,  s’ils se souvienent qu’ils sont vicaires de Dieu, ils ont à s’emploiyer de toute leur étude, et mettre tout leur soin de répresenter aux hommes en tous leurs faits, comme une image de la providence, sauvegarde, bonté, douceur ed justice de Dieu ”; e Bossuet, che a sua volta, considera il monarca “ rappresentante” di Dio (v. ne “Politique tireé de l’écriture sante” e nel “Sermon sur les devoirs des rois”).

È inutile aggiungere che mentre il primo negava al Papa di rappresentare alcunché, il secondo negava allo stesso di poter intervenire nelle questioni temporali (v. la “Cleri gallicani de ecclesiastica potestate declaratio” secondo l’opinione più seguita, redatta da Bossuet).

 

 

[2] E poco dopo “se Sparta è stata un tempo così fiorente, ciò si deve, non alla bontà delle sue leggi particolari… ma al fatto che dettate da uno solo, tendevano tutte a uno stesso fine”. Discours de la méthode, p. II.

[3] V. Max Weber Wirtshaft und gesellshaft, trad. it., vol. III, Milano 1980, p. 17.

[4] v. G. Tarello Le ideologie della codificazione nel secolo XVIII, III edizione p. 25-26, Genova.

[5] Su questo concetto v. M. Hauriou, La théorie de l’institution et de la fondation (essai de vitalisme social) trad. it., Milano 1967, pp. 14-15.

[6] v. Carl Schmitt, Staat, Bewegung, Volk, trad. it. nei Principi politici del naziolsocialismo, Firenze 1936, pp. 186-190.

[7] Lineamenti di filosofia del diritto, prgf. 140.

[8] Op. cit., prgf. 320.

[9] Evitiamo, per motivi di spazio, di approfondire, nel contesto contemporaneo, l’opinione di Weber sul contributo a ciò delle “ideologie interne di ceto dei pratici del diritto” e degli interessi intellettualistici, che incidono, ovviamente sulla distribuzione del potere e sull’ “onore sociale” (v. M. Weber, op. cit. p. 192 ss.)

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COSTITUZIONE E CANZONETTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

COSTITUZIONE E CANZONETTE

A vedere l’omelia di Benigni a Sanremo sulla “Costituzione più bella del mondo” (di cui è l’interprete certificato), mi è venuto in mente quello che scriveva della sovranità del popolo Massimo Severo Giannini – e può essere adattato alla Costituzione nel frangente – che il popolo sovrano esiste solo nelle canzonette. Non posso dire con certezza quale dei molti significati possibili tale espressione volesse privilegiare.

Se quello dei realisti politici, che a governare è sempre la classe dirigente e non le norme né le “masse”; ovvero che il giurista pensasse alla tesi di Lelio Basso (e non solo) che la sovranità (del popolo) italiano fosse andata persa con la sconfitta in guerra e la subordinazione al vincitore più potente; ovvero all’incapacità del popolo di dirigere una macchina così complessa (e altro).

Tuttavia resta il fatto che il pistolotto sul palco dell’Ariston ha collocato la Costituzione nel posto  dall’ironia di Giannini assegnato alla sovranità: nelle (o almeno tra) le canzonette. E anche il ritornello che la Costituzione è la più bella del mondo esprime una (profonda) verità, da collegare per l’appunto (anche) alle canzonette.

Attribuire il predicato della bellezza è un giudizio estetico: si può legittimamente dire che è bella la Vittoria di Samotracia, ma è più bella un’auto di Formula 1 (come sosteneva Marinetti), che lo è la Carmen o la Nona Sinfonia; può piacere il Giudizio Universale di Michelangelo e l’Entierro del Senor de Orgas di El Greco. Tuttavia nessuno attribuirebbe, al contrario, quale (primo) giudizio positivo a un sant’uomo che è bello; o che S. Francesco e S. Martino donando beni ai poveri avessero fatto una bella azione anziché buona. Ovvero che era bello il Piano Marshall e brutte le riparazioni del Trattato di Versailles. Per il diritto che è bello il corpus juris e brutto l’Editto di Rotari. A seconda delle attività umane vi sono delle qualificazioni – positive o negative – appropriate alla natura delle stesse. Per le costituzioni da Polibio in poi, passando per de Bonald il giudizio positivo è dato (prevalentemente) dalla durata e dall’aver contribuito all’indipendenza e potenza dell’unità politica. Ci sono anche costituzioni belle; ma così belle che non furono mai applicate come la costituzione giacobina francese o quella polacca del 1791 (tra l’altro la prima costituzione europea scritta – che durò pochi mesi). Onde dare un attributo positivo (e improprio) di bellezza non le distingue (e non le santifica).

Tuttavia nel chiamare bella la costituzione vigente c’è qualcosa di vero e di necessitato. Vero perché se non la più bella del mondo, quella italiana è un compromesso, tuttora appetibile, almeno sul piano dei principi tra diritti umani, sociali ed economici, cui hanno contribuito le più influenti culture politiche del XX secolo; dell’altro, dati i risultati degli ultimi trent’anni, non resta che riferirsi al testo piuttosto che alla sua “applicazione”, in particolare a quella più recente. E ai partiti che si sono più “intestati” la difesa della Costituzione, come il PD, riportando un consenso deludente che dimostra, semmai, come l’entusiasmo verso la stessa è variegato, ma ormai minoritario.

C’è un’altra ragione perché il giudizio sulla bellezza della Costituzione abbia comunque un significato. Le opere d’arte definite belle sono un frutto dell’immaginazione umana, del poeta, del musicista o del pittore. La Divina Commedia è una straordinaria costruzione dell’immaginazione e non un atlante del pianeta e dell’universo. Come gli orologi di Dalì non sono un prodotto della tecnica o la Venere di Botticelli un disegno di anatomia. O che Astolfo sia stato sulla Luna a cercare il cervello di Orlando. Tutti tali artisti hanno immaginato mondi, uomini, cose (ed imprese). La fantasia poetica e la bellezza hanno compensato l’irrealtà di queste.

Ma in politica vale come principio generale quello di Machiavelli, da me spesso citato, che è “più conveniente andare dietro alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di epsa”. Ma proprio la “verità effettuale”, così modesta costringe ad illudersi, scambiando l’immaginario (bello) per il reale “brutto”. Come d’altra parte, abitudine consolidata negli ultimi decenni.

Teodoro Klitsche de la Grange

IMMUNITÁ E GIURISDIZIONE ORDINARIA, di Teodoro Katte Klitsche de la Grange

Nota introduttiva

Questo saggio era stato pubblicato sul n. 1/2003 della rivista
“Palomar”. I problemi che tratta non sono per nulla cambiati. Anzi sono
stati aggravati dalla c.d. “legge Severino” onde è ancora un lavoro per
il ministro Nordio.

 

IMMUNITÁ E GIURISDIZIONE ORDINARIA

  1. È merito – non dei minori – di Berlusconi aver posto, dopo la decisione della Cassazione sul legittimo sospetto, il problema dell’immunità degli organi apicali dello Stato in termini politici concreti e reali – ovvero di potere – ciò che a finire tra Commissioni (parlamentari), leggine, codicilli, causidici, girotondi e “mozioni degli affetti” ha tutto da perdere in chiarezza e importanza. In sostanza le questioni poste dal presidente del Consiglio sono semplici: se le persone preposte o componenti gli organi supremi dello Stato possano essere giudicate, con la conseguenza, possibile, della condanna e detenzione mentre sono in carica. E, correlativamente, se la loro permanenza o rimozione nella carica non sia di competenza esclusiva del corpo elettorale, cioè dell’ “organo” in cui si esercita, primariamente, quella sovranità del popolo, fondamento della Costituzione repubblicana (art. 1).

A sentire il coro che si leva dai girotondi e dalla nomenklatura del centrosinistra, la risposta è semplice: i ladri devono stare in galera. Il che, in concreto, significa che in tale (scomoda) posizione deve stare chi le Procure – e spesso qualche Tribunale – giudicano tale. Il fatto che, forse per caso, ma forse no, i suddetti “ladri” siano coloro che occupano le poltrone da cui hanno da poco allontanato molti dei coristi, non li turba. Evidentemente la maestà della Giustizia è, in questi casi, considerata, la migliore delle derivazioni (nel senso di Pareto) perché copre, col suo ingombro, il più evidente e umano tra i residui: quello di potere, in termini filosofici elevato da Nietzsche a Wille zur macht, e che con saggezza pari all’efficacia dell’espressione il buon senso siciliano ha riassunto nel detto: cumannari è megghiu cà….

A confutare quanto ripetuto dall’opposizione basterebbe, forse, tale constatazione. Ma dato che, indipendentemente da chi occupa certe posizioni di potere, il pensiero politico e costituzionale moderno, praticamente unanime, sostiene proprio il contrario di ciò ch’è urlato “in tondo”, e, in particolare, che quanto è auspicato (per Berlusconi e i suoi sodali, s’intende), è escluso in uno Stato ben ordinato, ci sembra utile ricordarne le ragioni.

  1. A ricercare i motivi per cui un organo sovrano, e chi vi è preposto, sia “protetto” (cioè sia, in misura e modi variabili, sottratto alla giurisdizione) si ha l’imbarazzo della scelta. Si può partire dall’immunità degli organi sovrani, o dal principio politico della democrazia; dalla distinzione dei poteri o dal carattere rappresentativo degli organi (in maggiore o minore misura) immuni.

Prendendo le mosse dal principio (liberale) della distinzione dei poteri, recepito da tutte le Costituzioni borghesi (in caso contrario, non sarebbero liberali), come il potere legislativo non può cassare o riformare sentenze o provvedimenti di Giudici, così quello giudiziario non può intervenire né sulle Camere, né sui loro atti e procedimenti, né sulle persone dei deputati (senza autorizzazione della Camera stessa). La prima costituzione europea moderna, cioè quella francese del 1791, già lo disponeva (titolo III, cap. I, art. 3) prescrivendo che i tribunali non potessero interferire nell’esercizio del potere legislativo né sospendere l’attuazione delle leggi: prescrizioni similari, e quelle sull’immunità dei parlamentari da arresti e processi erano riportate praticamente in tutte le costituzioni europee successive, degli Stati liberali prima e (poi) democratico-liberali. La ragione era semplice e chiara: la libertà politica non sopporta sovrapposizioni e concentrazioni di poteri (o di atti) riconducibili a due funzioni distinte. È per quella altrettanto pericoloso un Parlamento il quale riformi una sentenza o ordini un arresto che un Giudice il quale disapplichi una legge e mandi in carcere un deputato, perché ambedue queste “invasioni” concentrano in un solo potere atti pertinenti a diverse e distinte funzioni. Per cui al principio (liberale) della distinzione dei poteri è connaturale impedire che questi interferiscano tra loro, se non in casi tassativi e limitati (basati sulla distinzione di Montesquieu tra pouvoir de statuer e pouvoir d’empêcher).

Anche se il senso è diverso, dal principio politico democratico si desume la stessa “interdizione”. Qui non viene tanto in rilievo – anche se comunque ha un peso – la circostanza che i giudici, in un ordinamento come il nostro, o, in generale, degli Stati continentali europei, costituiscono un corpo burocratico di funzionari reclutati per concorso, e quindi, per tale carattere, disomogeneo al principio della democrazia, come scrive Carl Schmitt[1], e ripetuto da Berlusconi. Perché una giurisdizione esercitata da magistrati elettivi (come in molti stati U.S.A.) è legittimata dal “popolo” quanto il deputato[2].

Piuttosto in tal caso viene in considerazione, per l’appunto, la contrapposizione tra giudizio di uno o più funzionari, e quello del “popolo” stesso. In fondo l’aveva acutamente notato Machiavelli[3]quando scriveva che “lo accusare uno potente a otto giudici in una repubblica non basta; bisogna che i giudici siano assai, perché i pochi sempre fanno a modo de’ pochi. Tanto che se tali modi vi fussono stati, o i cittadini lo arebbono accusato, vivendo lui male, e per tale mezzo, senza far venire l’esercito spagnolo, arebbono sfogato l’animo loro; o, non vivendo male, non arebbono avuto ardire operargli contro”. Il Segretario fiorentino aveva capito che, in una Repubblica (da intendersi nel caso come una forma costituzionale se non democratica, con elementi di democrazia) un tribunale “ordinario” che giudichi un politico configura un potenziale (ma assai probabile) caso di conflitto costituzionale e, ancor più facilmente, origina un conflitto politico. Perché delle due l’una: o il giudizio del Tribunale è conforme a quello della maggioranza e allora i partigiani dell’eventuale accusato potranno sempre additare come esempio di giustizia estranea all’ordinamento democratico il verdetto di alcuni funzionari su un uomo comunque popolare; o non lo è, e si apre un contrasto, assai più grave, tra la volontà di tutti (o quasi) e il giudizio di pochissimi. Perciò occorre trovare “alcuno modo di accuse contro all’ambizione de’ potenti cittadini”, ovvero una strada che possa evitare i conflitti che la giustizia ordinaria genera quando oggetto del giudizio è un affare (e/o un uomo) politico.

L’impossibilità, in grandi democrazie come quelle moderne, di giudizi nell’areopago, ha determinato che la giustizia “politica” sia normalmente esercitata, con procedure (e da organi speciali) o comunque presenti vistose deroghe od eccezioni agli “ordini” comuni. In genere le Carte costituzionali delle democrazie borghesi prevedono la competenza a giudicare di una seconda Camera (il modello ne è stato la Camera dei Lords inglese) come il Senato U.S.A., o il nostro nello Statuto albertino o quello della Terza Repubblica Francese; ovvero di un giudice speciale (come talvolta le Corti costituzionali); l’esercizio dell’azione penale è riservato ad organi politici (la Camera dei rappresentanti negli U.S.A., o quella dei deputati in Italia; ambedue le camere in Francia nella Costituzione vigente).

Immunità dalla giustizia ordinaria, variamente configurate, accompagnano di solito tali “status” e “ordini” eccezionali[4]; anche le norme definenti i crimini “politici” di solito sono formulate in guisa che l’interprete abbia una certa “discrezionalità” nel determinarne l’ambito[5]. Per cui si può agevolmente constatare come, nelle democrazie moderne, è normale che la giustizia “politica” esercitata su ministri, Capi di Stato, parlamentari e talvolta funzionari, lo sia in forme e procedure extra-ordinem: l’unico connotato comune ai vari ordinamenti, invero, è quello, negativo, di escludere (in tutto o in parte) la competenza dei Tribunali ordinari. Nessuno prevede che ministri, deputati o Capi di Stato possano essere giudicati da una Corte ordinaria con il comune procedimento. In questo può affermarsi che l’intuizione di Machiavelli ha avuto successo. La natura “politica” del processo, delle parti e del suo oggetto (e il suo collegamento con decisioni popolari) prevale sul principio democratico dell’isonomia; il rapporto con la volontà e le scelte popolari è tuttavia, per lo più confermato dal ruolo giudiziario che vengono ad assumere organi politici, spesso legittimati anch’essi democraticamente, perché elettivi.

Alle stesse conclusioni ai può giungere partendo dal principio – e dal concetto – di rappresentanza politica. Questa comporta la distinzione, già chiaramente formulata nella Costituzione francese del 1791 (tit. III, cap. IV, sez. 2, art. 2) in base alla quale non tutti i poteri dello Stato sono rappresentativi, e non tutti i funzionari dello Stato sono dei rappresentanti. L’uno e l’altro sono riservati a uno o pochissimi organi (e loro titolari): il Capo dello Stato, le Camere, il Governo.

Ad esser rappresentata è l’unità politica, intesa come totalità; funzione della rappresentanza è far esistere ed agire la comunità. Senza rappresentanza – o senza l’opposto principio di forma, cioè l’identità – una società politica non può agire. Senza i poteri rappresentativi, che la Costituzione italiana vigente identifica esplicitamente nel Capo dello Stato e nelle Camere, la Repubblica non esisterebbe neppure: ancor meno ciò che non esiste (e viene ad esistenza solo quando c’è una rappresentanza) potrebbe agire. Da una parte, ma con ciò entriamo nel profilo successivo, ciò comporta che coloro che rappresentano (anche se a giudizio di taluni indegnamente) l’unità e la totalità, non possono essere giudicati da chi non è rappresentante, ma esercita soltanto un pouvoir commis; dall’altra che un G.I.P. che ordinasse l’arresto o un Tribunale che condannasse un solo deputato, e più ancora il Capo dello Stato o un congruo numero di parlamentari, decapiterebbe lo Stato, togliendogli – nei casi più gravi – la capacità di agire, e negli altri, influendo sulle decisioni degli organi rappresentativi[6].

L’argomento decisivo per spiegare l’ “immunità” di determinati organi (e dei loro titolari e componenti) è comunque di essere “sovrani”. Senza voler entrare nella tematica della sovranità moderna (cioè della sovranità tout-court) fin dal medioevo è stato individuato un organo (o un soggetto) il quale decideva in ultima istanza; anche prima che il concetto moderno di sovranità fosse elaborato, l’identificazione di tale organo (o soggetto) era assai importante, perché legittimante o meno lo justum bellum[7]. Tale criterio d’identificazione dell’organo “sovrano” era ripetuto spesso nella filosofia e nel diritto pubblico moderno. Era sviluppato da Hobbes e da de Maistre, ma in effetti presente in altri pensatori, tra cui Kant e Locke, in quest’ultimo nella forma negativa dell’impossibilità che vi sia un sovrano laddove una controversia non è decidibile da un’autorità. Corollario della stessa era che non può esistere, in un’unità politica, la compresenza di più poteri “sovrani”. Tra tutti coloro che hanno sostenuto l’impossibilità di concepire più sovrani in un’unità politica, è importante ricordare, per l’estrema chiarezza, il pensiero del giovane Marx, secondo il quale “è proprio del concetto di sovranità che questa non possa avere doppia e addirittura opposta esistenza”, per cui la questione che si pone in concreto è “sovranità del popolo o del monarca”: infatti “se la sovranità esiste nel monarca, è una sciocchezza parlare di una sovranità contraria esistente nel popolo”[8]. Nucleo di tale teoria è che vi è nello Stato un organo (un soggetto) che giudica ma non può essere giudicato da alcuno; che ha “tutti i diritti e nessun dovere (coattivo)”[9].

Marx sintetizzava così in poche parole il profilo più importante del pensiero politico  sulla sovranità: che di (organi o soggetti) sovrani, in una unità politica, ve ne può essere uno solo. Questa è la ragione decisiva per ritenere che se a un altro potere (o soggetto) fosse consentito esercitare una coazione sul sovrano, questo non sarebbe più tale, ma lo sarebbe l’altro. Onde evitare questa “traslatio imperii” (la quale peraltro potrebbe assumere anche moto …pendolare), gli organi sovrani sono sottratti (in tutto o in parte) alla giurisdizione ordinaria. E’ quanto sosteneva (tra gli altri) un Presidente del Consiglio italiano, e fine giurista, come Vittorio Emanuele Orlando, in un saggio di settant’anni orsono. Scriveva infatti: “Che fra gli organi onde lo Stato manifesta la sua volontà e la attua, uno ve ne sia che su tutti gli altri sovrasta, superiorem non recognoscens, e che non potendo appunto ammettere un superiore (chè allora la potestà suprema si trasporterebbe in quest’altro) deve essere sottratto ad ogni giurisdizione e diventa, per ciò stesso, inviolabile ed irresponsabile, è noto[10] (il corsivo è nostro). Analoga spiegazione era stata data da Thomas Hobbes “ Infine, dal fatto che ciascuno dei cittadini sottomette la sua volontà alla volontà di colui che ha il potere supremo sullo Stato, così da non potere usare delle proprie forze contro di lui, segue evidentemente che qualunque cosa costui faccia, non può essere punito[11] (il corsivo è nostro). E alla stessa conclusione si arriva a leggere Bodin: secondo il quale “Le prerogative sovrane devono essere tali da non poter convenire altro che al principe sovrano; se anche i sudditi possono essere partecipi, esse cessano di essere tali” perché “ciò significa che questo, da suo servitore che era, diverrà suo compagno, e così facendo egli rinuncerà alla sovranità; perché la qualifica di sovrano, ossia posto al di sopra di tutti i sudditi, non può convenire a chi di un suo suddito faccia un compagno”[12].

D’altra parte una delle “marques de souvraineté” secondo Bodin non è rendere giustizia, ma giudicare in ultima istanza. Chi giudica in ultima istanza non può – in tutta evidenza – essere utilmente giudicato perché un eventuale giudizio sarebbe comunque sottoposto alla revisione sovrana. Ammettere poi che si possa giudicare in ultima istanza in modo difforme dal sovrano, significa dividere la sovranità. Anche se Bodin viveva agli albori dello Stato moderno, così diverso dall’attuale, si rinviene anche nel suo pensiero la soluzione (negativa) del problema: che cioè, ad essere decisivo, è sempre il giudizio del (popolo) sovrano. E che questo non può essere oggetto di riesame da altri perché, in tal caso non sarebbe più sovrano; o, se altri giudica, il relativo giudizio è ininfluente rispetto a quello del sovrano.

L’immunità, indipendentemente dalla dibattuta questione se ad essere sovrano sia un potere costituito, o il potere costituente, l’organo o il popolo – che, relativamente alla questione qui esaminata, è ininfluente – compete, come sosteneva Orlando, a quell’organo (o organi) apicali, superiorem non recognoscens nell’ordinamento dello Stato. E, come riteneva Santi Romano, relativamente alle immunità parlamentari, “Il fondamento di tutte queste immunità dei senatori e dei deputati è da ricercarsi non soltanto nel bisogno di tutelare il potere legislativo da ogni attentato del potere esecutivo e nella convenienza di non distrarre senza gravi motivi i membri del Parlamento dall’esercizio delle loro funzioni, ma nel principio più generale dell’indipendenza e dell’autonomia delle Camere verso tutti gli altri organi e poteri dello Stato: di tale principio esse costituiscono una delle varie applicazioni o, meglio, una particolare guarentigia”[13]; per cui non costituiscono eccezioni, ma applicazione di un “principio più generale”.

Il pregio di questa concezione, nelle sue varie formulazioni e articolazioni, è di spiegare la ragione dell’immunità per qualsiasi tipo e forma di Stato, indipendentemente dai principi, valori e forme di governo di ciascuno: non è possibile che in uno Stato (ben) ordinato un giudice, anche “supremo”, possa giudicare e condannare un componente dell’organo “sovrano”, sia che si tratti del parlamentare o del Capo dello Stato in una democrazia borghese, del componente del Soviet Supremo in una delle (defunte) democrazie popolari, ovvero del Fürher, Caudillo o Duce in uno Stato fascista o nazista. Se lo fa, ciò significa soltanto che ad essere “sovrano” è il Tribunale e non il Soviet Supremo, il Parlamento, o il Conducator.

Cosa d’altra parte non ignota al diritto pubblico: in talune costituzioni non moderne, l’autorità “suprema” competeva a un organo le cui funzioni originarie (e prevalenti) erano giudiziarie; sviluppando le quali aveva assunto un primato politico. E’ il caso, ad esempio, del Consiglio dei Dieci a Venezia.

  1. A cercare le ragioni (politiche) per cui la regola generale è quella esposta da Orlando e non l’eccezione criticata si ha l’imbarazzo della scelta. Ma il motivo principale è la situazione d’indipendenza in cui deve trovarsi l’organo sovrano, per garantire quella della comunità rappresentata. Senza l’indipendenza da altri poteri, dall’esterno ma anche all’interno, di quello, non è possibile garantirla di questa: e lo stesso vale per la libertà di agire che ne è la prima, necessaria, conseguenza. Un organo dipendente e perciò non libero di agire non è in grado di tutelare l’esistenza della comunità.

In una democrazia politica l’unica dipendenza che quell’organo può avere è verso il popolo, organizzato nel corpo elettorale. Se dipende – in tutto o, verosimilmente, anche solo in parte – da altri (a parte le inidoneità oggettive degli uffici e dei procedimenti giudiziari, aggravate dal non essere legittimati dal suffragio popolare), ciò costituisce una grave vulnus al principio democratico, perché la volontà e la scelta del sovrano sarebbero soggette al consenso di chi da quello non dipende.

In termini politici la soluzione è semplice: vuol dire rispondere alle domande conseguenti all’alternativa di Marx: chi comanda? Il popolo o i Tribunali? La risposta suggerita (anche se talvolta timidamente, e soprattutto indirettamente) è quella che si può ascoltare da (alcuni) esponenti del centrosinistra: se condannato si deve dimettere. Il che significa, in senso proprio ed esplicito, che a decidere chi deve governare non è il corpo elettorale, ma i Tribunali. I quali così vedono riconoscersi un potere di veto  sulle scelte popolari. La seconda alternativa – meno frequentata, e il perché lo si capisce bene – è sostenere che i processi facciano il loro corso, e il condannato, legittimato dai suffragi, rimanga al suo posto. Era la soluzione formulata che un noto giurista come Léon Duguit e sulla quale il nostro Orlando ironizzava: perché la conseguenza sarebbe che il Presidente del Consiglio dovrebbe ricevere gli ambasciatori e i premiers stranieri invece che a Palazzo Chigi, a Rebibbia. Dove presiederebbe anche il Consiglio dei Ministri. La comicità delle conseguenze evidenzia quella della tesi che le presuppone.

La quale, malgrado il protestar contrario, e proprio nella sua formulazione “il condannato dovrebbe dimettersi” manifesta il suo carattere politico, nel senso specifico di “politica di partito” o “politicante”. Perché risponde da un lato alla questione nel senso più comodo per chi si trova in sintonia con certi (e non pochi) uffici  giudiziari; dall’altro, e più importante, ne costituisce la risposta inversa, che a decidere non debba essere il popolo, ma il potere giudiziario. Stravolgendo così sia il principio democratico in modo radicale, sia la governabilità, per il conflitto che genera tra poteri, uno dei quali legittimato dal suffragio e l’altro no.

  1. Insistendo nel considerare la tesi criticata come non strumentale, essa può essere ricondotta al tentativo, tante volte ripetuto, di giuridificare la politica (quindi la sovranità). Anzi di questa tesi, ne costituisce una parte, un paragrafo piccolo perché profondamente incoerente: quello consistente nel giudiziarizzare la politica, diametralmente opposto al carattere peculiare della sovranità: di essere al di là del diritto. Ovvero, in altri termini, di potervi rientrare ma come assoluto. Già tale connotato era stato individuato da Bodin: la sovranità è “il potere assoluto e perpetuo di uno Stato”, rafforzato dal ricordato paragone tra Dio e Sovrano. Kant ne da poi la definizione (giuridicamente) più corretta: colui che “Nello Stato ha verso i sudditi soltanto diritti e nessun dovere (coattivo)” (anche questa analoga alla definizione che da di Dio)[14] e specifica che “non può essere contenuto nella costituzione nessun articolo che renda possibile… a un potere di opporsi a colui che possiede il comando supremo … che renda possibile limitarne il potere” perché “allora non è quello, ma questo il supremo detentore del comando: il che è contraddittorio”[15]. Ora il diritto ha una dimensione relativa: ai soggetti, anche se diversi in diritti, facoltà, obblighi, competono sia situazioni giuridiche attive che passive. A ogni potere corrisponde un obbligo, un dovere o una responsabilità. Il sovrano, in questo senso è l’eccezione che tuttavia rende possibile (anche) la vigenza di un sistema di norme e rapporti formali, attraverso (l’instaurazione e) il mantenimento dell’ordine. L’assolutezza del comando sovrano (e del concetto) ha indotto il costituzionalismo (liberale) a ricercare i sistemi per bilanciarlo con il diritto: tentativo in gran parte riuscito, ma non totalmente, perché è impossibile giuridificare tutto[16]. In fondo proprio a Locke, uno dei “padri” del costituzionalismo moderno, dobbiamo l’affermazione che in certi casi non v’è giudice sulla terra, ma si ha il diritto di appellarsi al cielo: cioè di ribellarsi e risolvere la controversia con la forza. La contraria tesi si fonda sull’illusione che il diritto sia co-estensivo alla politica: che possa regolare tutto, inquadrandola in un sistema di norme applicabili e “calcolabili”. Ma come per la sovranità (e i suoi atti) così non è in tutti i casi più importanti e politicamente decisivi: per esempio la guerra e la pace. Si può prevedere nella Costituzione chi ha il diritto di dichiarare la guerra, e il procedimento relativo, ma non ciò che più conta: l’identificazione del nemico e l’obiettivo politico. Del pari per la pace: la decisione se concluderla – e a quali condizioni – è necessariamente rimessa all’arbitrio del competente potere costituito (che in democrazia risponde verso il corpo elettorale); ma non è certo concepibile prevedere per legge come, quando e con chi concluderla.

Di questa utopia, la giudiziarizzazione è il capitolo più incoerente: perché se non può esistere una legge per i “casi alti” della politica, tantomeno può esistere un Tribunale che giudichi in base a norme  “misurabili” (cioè come ci si aspetta che giudichi). Se, d’altra parte, il Tribunale decidesse (rettamente) applicando norme di diritto comune non è detto che gli effetti del giudizio siano politicamente opportuni; se invece tenendo d’occhio la convenienza politica e non i “sillogismi” giudiziari, tale attività costituirebbe giustizia politica (e non un giudizio “ordinario”), in cui l’aggettivo, com’è noto, prevale sempre sul sostantivo. E non sarebbe così il rimedio auspicato ma – al contrario – inutile e quasi sicuramente dannoso[17]. Che il tutto sia comunque sostenuto ed auspicato non deve meravigliare, perché rientra in quella tendenza prevalente nella sinistra (ma non soltanto di questa) d’immaginare dei modelli di società e/o di Stato ideali e di misurare la realtà in base ai medesimi. Già un simile modo d’agire era stigmatizzato da Machiavelli “E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti e conosciuti essere in vero; perché elli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara piu tosto la ruina che la preservazione sua”.

Perché così si prende a misura della realtà il proprio arbitrio soggettivo e non la ragione oggettiva.

Molto meglio seguire Hegel, il quale, com’è noto oltre a ritenere quello (l’arbitrio) capace solo di gonfiare le teste[18], scriveva che la scienza dello Stato non sia altro “se non il tentativo d’intendere e presentare lo Stato come cosa razionale in se…..deve restar molto lontano dal dover costruire uno Stato come dev’essere” perché “intendere ciò che è, è il compito della filosofia, perché ciò che è, è la ragione”[19]. A prescindere da come (e in che misura) si voglia considerare la “coincidenza” di razionale e reale, è un fatto che nessun ordinamento democratico-liberale prevede che un Tribunale ordinario condanni un Capo dello Stato o di Governo, o anche un parlamentare, come se si trattasse di un caso ordinario, secondo il diritto comune. E compito dell’interprete è di comprenderne le ragioni. Piuttosto che erigere il proprio arbitrio (e i propri interessi) a massima dell’agire universale, è più (umile e)  utile  chiedersi perché l’agire universale è del tutto opposto alle proprie valutazioni soggettive .

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Verfassungslehre, trad. it., Milano 1984, p. 357 ss. 360 ss.

[2] Anche se in tal caso c’è da chiedersi se sia da considerare “popolo” nel senso della democrazia politica, il collegio elettorale che sceglie il giudice o il deputato. Ma il problema ci porterebbe lontano ed               esula dei limiti del presente scritto.

[3] Discorsi I, 7.

[4] Ricordiamo alcune disposizioni costituzionali europee sull’immunità dei parlamentari: art. 26 Cost. francese; art. 46 Cost. tedesca; art. 71 Cost. spagnola; art. 45 Cost. belga.

[5] V. Benjamin Constant, ora in Principi di Politica, Roma 1970, p. 121, secondo il quale la “discrezionalità” e l’istituzione di Tribunali speciali avevano (anche) la funzione di preservarli da tutte le pressioni popolari.

[6] Machiavelli (op. cit.) sostiene che senza quei rimedi straordinari, la conclusione dei conflitti  può essere la chiamata di “forze estranee” cioè degli stranieri. Machiavelli non conosceva il concetto di rappresentanza politica (in nuce nella Riforma, sviluppato poi nei secoli XVII e XVIII), ma quanto prefigura potrebbe ripetersi in un conflitto che veda poteri “commis” contrapposti a quelli rappresentativi, impossibilitati dai primi a funzionare, con un terzo “esterno” che se ne giova.

[7] Già è cennato in S. Tommaso Summa Th., II, II, p. 40, art. 1; è sviluppato nella Tarda Scolastica v. tra gli altri F. Suarez De charitate disp. 13 De bello Sectio II, S. Roberto Bellarmino ora in Scritti politici, Bologna 1950, p. 260.

[8] V. Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, Roma 1983, p. 40.

[9] V. Kant, Die Methaphysik der Sitten, trad. it., Bari 1973, p. 149.

[10] V. E. Orlando Immunità parlamentari ed organi sovrani, Rivista di diritto pubblico,  XXV Roma 1933, ora in Diritto pubblico generale, Milano 1954, p. 487. E prosegue: “circa gli attributi ed i caratteri dell’organo sovrano come furono definiti di sopra, non vi sono gravi difficoltà, quando l’ordinamento ne riconosce ed ammette uno solo: e non importa se questo unico organo sovrano sia, in relazione alle varie forme di governo, una persona fisica (monarchia), o un collegio, e questo sia costituito da componenti di una classe privilegiata o dalla universalità dei cittadini (aristocrazie o democrazie assolute)” e specifica: “Si giustifica pertanto la nostra teoria la quale può riassumersi così: non si può dare organo sovrano senza che esso sia coperto della garanzia della inviolabilità, la quale importa: essere sottratto ad ogni giurisdizione capace di esercitare una coazione fisica sulla persona. Naturalmente, come avviene sempre nel mondo del diritto, questo principio generale deve, nell’applicazione, adattarsi alle manifestazioni concrete della realtà costituzionale, assumendo forme diverse senza però venir mai meno in se stesso”.

Se si tratta di organo collegiale “come sono le assemblee parlamentari, l’inviolabilità fisica non può normalmente porsi se non in via indiretta, attraverso l’inviolabilità dei membri; ma, d’altra parte, non è necessario e sarebbe anzi sconveniente, che questa forma di inviolabilità del collegio nelle persone dei suoi membri fosse così assoluta e così rigida come deve essere in rapporto a una persona fisica”. Per cui “Attraverso tutte queste differenze, per quanto importanti possano essere, è però sempre lo stesso principio che si applica, riaffermando l’inviolabilità  come qualità inseparabile dell’organo sovrano: diritto comune e non diritto di eccezione, poiché deriva per virtù di semplice logica giuridica dalla stessa maniera di essere dell’ordinamento” perché ad essere “rigorosamente esatti” non è tanto che il Parlamento (e gli altri organi sovrani) si sottraggono ad ogni giurisdizione “ ma bensì, che compete ad esso (comprendendo il Re) la giurisdizione suprema e che tale sua qualità sia sufficiente perché possa risolvere senza concorso di un’altra autorità, le questioni della sua prerogativa”, op. cit. p. 495 ss..

[11] De Cive, trad it., Roma 1981, p. 135.

[12] Six livres de la Republique, I, X, trad. it., Torino 1988, pp. 482 e 483 e prosegue “come il gran Dio sovrano non può fare un altro Dio simile a lui, poiché egli è infinito e non vi possono essere due infiniti, come si dimostra secondo ragioni naturali e necessarie, così possiamo dire che quel principe che abbiamo detto essere l’immagine di Dio non può rendere un suddito uguale a se stesso senza con ciò annullare il suo stesso potere”.

[13] Corso di diritto costituzionale, Padova 1928, p. 222.

[14] Op. cit. p. 49.

[15] Op. cit. p. 149-150.

[16] Come scrive De Maistre sul diritto di resistenza “quando si è deciso … che si ha diritto di resistere al potere sovrano … non si è concluso ancora nulla, perché resta da sapere quando può esercitarsi tale diritto, e chi ha il diritto di esercitarlo…” e prosegue “Quale potere nello Stato ha diritto di decidere che è giunto il momento di resistere? Se tale Tribunale preesiste è già parte della sovranità, e contestandone l’altra parte l’annienta. Se non esiste prima, da quale Tribunale questo Tribunale sarà costituito?” Du Pape, lib. II, cap. 2.

[17] Ciò era stato visto distintamente da De Maistre, quando scriveva che in una Costituzione “ Que ce qu’il y a de plus essentiel, de plus intrinsèquement constitutionnel et de véritablement fondamental, n’est j’amais écrit, et même ne saurait l’être” v. Des constitutions politiques Paris 1814 p. 26.

[18] V. Die Phänomenologie des Geistes V, B, C.

[19] Prefazione a Grundlienien der Philosophie des Rechts.

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PINOCCHIO VA ALLA GUERRA, di Teodoro Klitsche de la Grange

PINOCCHIO VA ALLA GUERRA

Dopo l’invasione russa dell’Ucraina abbiamo letto notizie ed opinioni talvolta inverosimili in partenza, ma per lo più smentite dai fatti successivi; e il tutto accompagnato dall’omissione di circostanze contrarie, regolarmente taciute o minimizzate.

Quale esempio delle prime: Putin è matto, molto malato, ecc. ecc. Ma Putin non ha fatto nulla di diverso da quanto operato da secoli dai governanti russi: cercare uno “sbocco” a sud verso i mari caldi, con decine di guerre soprattutto contro gli ottomani. Per cui se farlo significa essere matti, vuol dire che la Russia è diretta, almeno da tre secoli, da dementi; ma ciò non le ha impedito di divenire una grande potenza. Ovvero che Putin sarebbe stato detronizzato dai “suoi”. Può darsi, ma finora, a quasi un anno dall’inizio delle ostilità, sembra saldo al potere. O anche che le sanzioni alla Russia l’avrebbero messa in ginocchio: ad oggi pare solo che ha perso qualche 2-3% del PIL (ossia un terzo di quello perso dall’Italia col governo Monti) e sarebbe in via di recupero. Quel che è taciuto è che il rublo si sia rivalutato nei confronti del dollaro e ancor più dell’euro: segno che i “mercati” – la pizia della stampa mainstream – ritengono la moneta (e l’economia) russa tutt’altro che inaffidabili, né in via di collasso.

O che i russi avrebbero presto finito le munizioni: da un anno continuano a sparare, il che testimonia che ce l’hanno. E potremmo continuare per pagine. Anche dall’altra parte se ne raccontano, ma la tempesta mediatica da occidente è di gran lunga superiore sia per varietà (e contraddittorietà) degli argomenti, sia soprattutto per quantità dei ripetitori. Nelle prime fasi del conflitto mi è capitato di scrivere che la “nebbia della guerra” di Clausewitz, applicata nel caso alla comunicazione, era imponente; oggi è ancora tale. L’ultimo caso è quello dei carri armati: è stata da poco diffusa la notizia che stavano per arrivare agli ucraini (nei prossimi tre mesi) circa 100 carri armati occidentali, destinati a far polpette di quelli russi. Nessuno spiegava né nei tre mesi suddetti, cosa avrebbero fatto i russi per evitarlo (magari accelerare le operazioni militari per vanificare tanto aiuto agli ucraini) ma soprattutto che la asserita qualità dei corazzati occidentali non avrebbe compensato la superiorità quantitativa di quelli di Putin. Un po’ come, per tenersi da quelle parti, successe nel ’43 a Kursk, dove qualche centinaio di eccellenti Tiger e Panther tedeschi fu sconfitto, malgrado le perdite inflitte ai sovietici alle assai più numerose formazioni di T-34 e KV russi. E ciò malgrado i nazisti fossero comandati dal miglior generale della II guerra mondiale: Erich von Manstein. Il quale infatti, e a dispetto dell’inferiorità numerica (da 1 a 3 a 1 a 5), riuscì a tenere l’Ucraina per circa un anno. Ma era von Manstein e non Zelensky a comandarle.

Agli albori dello Stato moderno, un noto giurista, Alberico Gentili, si poneva il problema se fosse lecito, in guerra, “ingannare” il nemico con menzogne di vario genere. E ne tratta per molte pagine del suo capolavoro il “De jure belli, libri 3”. Il problema sussisteva perché, per un giurista, è normale qualificare un comportamento come lecito o illecito.

E nel mentre riteneva illecito – in taluni casi – l’uso della menzogna per ingannare i nemici, tuttavia concludeva “Se infatti si ammette che a fin di bene anche gli amici possono essere ingannati con la menzogna, si può ammettere che i nemici possano essere indotti in errori per la loro rovina. Naturalmente, come agli amici è fatto per il loro bene, così ai nemici è reso il fatto loro e giustamente è recato loro danno”.

Ma in tutta la sua esposizione non si pone mai il problema del capo che mente (sistematicamente) al seguito; cioè il problema riconducibile alla propaganda di guerra – che tanta parte ha nei conflitti, soprattutto moderni.

Certo è che tutte – o quasi – le menzogne propagate non sembrano poter avere alcun effetto nell’ingannare Putin, o, al più, un’efficacia minima.

Quindi il loro unico – o assolutamente prevalente – risultato, è di suscitare un qualche consenso nell’opinione pubblica a sopportare il costo delle sanzioni e degli aiuti all’Ucraina. Ossia sono false o errate rappresentazioni ad usum delphini. Le quali hanno l’inconveniente, in politica e ancor più  nel di essa mezzo, la guerra, di indirizzare (e far regolare) le proprie azioni su presupposti e fini immaginari e immaginati, con ciò rischiando, a parafrasare Machiavelli “d’imparare più presto la ruina che la preservazione sua”. Nella specie quella della comunità nazionale, che i governanti hanno il dovere di proteggere e dei cui risultati devono rispondere.

Teodoro Klitsche de la Grange

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BREVE STORIA DELLA GUERRA GIUSTA, di Teodoro Klitsche de la Grange

Nota

All’epoca – vent’anni fa, all’incirca – del fiorire di guerre per la
pace, i diritti, la giustizia, era pubblicato su Palomar questo breve
saggio, con una sintesi della concezione della guerra giusta.

Si ripropone il contributo, tenuto conto della persistenza, anzi
dell’incremento di simili “sfide” giustificate, come prima, con la
giustizia.

BREVE STORIA DELLA GUERRA GIUSTA

  1. Ad analizzare il concetto di guerra giusta ci si deve guardare dal cadere nell’ovvietà, perché, prima facie, appare contraddittorio un aggettivo che attribuisce la giustizia ad un’attività la quale di per sé, mancando di un terzo superiore – e decisore – è priva del presupposto prioritario perché possa aversi una decisione, cioè una giustizia concreta ed imparziale. Per cui in sommaria analisi, e contrariamente a quanto possa scriversi sui rotocalchi, la guerra non può essere “giusta”[1]. Tuttavia dato che tale concetto si ripresenta nel pensiero occidentale, e nell’ultimo decennio è stato utilizzato ripetutamente dalla propaganda dei belligeranti, è necessario capire se possa esserci – al di là delle apparenze contrarie – una guerra se non “giusta”, quanto meno “legittima”.

La concezione criticata si fonda sul giudicare la guerra, di per sé fenomeno essenzialmente e squisitamente politico, in base a parametri non-politici, morali, religiosi o ideologici: dalle Crociate fino agli interventi nei Balcani degli anni ’90, la giustificazione delle guerre giuste è sempre stata la difesa di determinate idee o “valori”, fatti propri dai “giusti” combattenti e negati (o che si pretendevano negati) dai loro nemici. E’ evidente che valutare fenomeni e istituzioni politiche con criteri non pertinenti, e soprattutto con quei parametri ideologici e morali, è, a dir poco, destabilizzante e contrario a gran parte del pensiero politico moderno. Da Machiavelli a Croce è stato ripetutamente stigmatizzato come decidere tali questioni in base a canoni morali è non solo ipocrita e polemogenetico – perché serve, nel caso specifico, alla giustificazione della guerra diventando, con ciò, uno strumento di guerra psicologica – ma soprattutto è foriero di inconvenienti superiori ai benefici. Non solo sul piano internazionale, perché legittima e fa salire l’intensità della guerra, ma anche in politica “interna”, ove serva a consolidare dei mediocri governanti che hanno l’unico pregio di apparire “buoni” (per lo più solo quello di predicare bene), con scarse – o punte – capacità e risultati politici; d’altra parte, a seguire l’ironia di Croce, se qualcuno sceglie il chirurgo confidando nelle sue qualità morali – e non in quelle professionali, come si fa di solito – e poi muore sotto i ferri, in definitiva il proprio destino se l’è cercato.

Sotto un diverso profilo il concetto di guerra giusta – intesa secondo tali criteri – implica una contraddizione e una conseguenza. La contraddizione, già ricordata, è che, in teoria, ambo le parti belligeranti  credono di avere giuste ragioni, ed in tal caso non c’è un terzo che possa giudicare: alla giustizia manca, cioè, il giudice.

La seconda è di tendere a criminalizzare il nemico, come sottolineato ripetutamente da Carl Schmitt: al nemico “ingiusto” diventa naturale – anzi “giusto” – riservare un trattamento da criminale. Il fatto che sia uno justus hostis, cioè in termini moderni uno Stato sovrano, non serve: lo “justum bellum” finisce per annichilire così lo “justus hostis” cioè il (primo) requisito con cui i tardoscolastici (che tanto hanno contribuito al diritto internazionale moderno), avevano elaborato la concezione dello jus belli (la quale, nel loro pensiero è, in primo luogo, una guerra limitata, nei soggetti, nei motivi, nei modi e nell’intenzione)[2].

  1. D’altra parte, come noto, è proprio lo justus hostis il binario (principale) di legittimazione della guerra su cui hanno proceduto il diritto (e le relazioni) internazionali moderne.

Questo è, come sopra scritto, un concetto limitativo, strettamente (ancorché non esclusivamente) connesso alla nascita (e allo sviluppo) dello Stato moderno, col conseguimento progressivo – e rapido – da parte di questo del monopolio della violenza legittima, di cui la guerra è l’aspetto “esterno”. Il che significava negare legittimità alle guerre non statali, alle guerre “feudali” tra Comuni, vassalli, signorotti e vescovi-conti, tutti subordinati all’autorità del Sovrano (nascente) e quindi privati dello jus bellandi. Tale concezione rappresentava un indubbio progresso, perché limitava il numero dei soggetti giustamente belligeranti e così delle guerre “lecite”. I conflitti nati all’interno dell’unità politica erano riservati e risolti dalla giustizia dello (Stato) sovrano.

E’ noto a tale proposito, che il primo – e quasi esclusivo carattere che connota il concetto di justus hostis – è quello, negativo, di non avere un superiore. È justus hostis – scrive Francisco Suarez – quel principe, che, non avendo un superiore, non ha i mezzi, né la possibilità di avere giustizia da questi: e quindi può conseguirla solo facendosela da solo. Si noti come nella concezione della Tarda Scolastica, conseguente a quella di S. Tommaso, la guerra è strettamente correlata alla giustizia, sia come aspetti di una medesima funzione, di tutela e/o protezione (contro i malviventi all’interno; contro i nemici all’esterno), sia come mezzo per ripristinare il diritto leso. Di converso, non è justus hostis, scrive Suarez (anche qui, derivandolo dalla distinzione tomista tra persona “privata” e principe) colui il quale, vassallo, ha il “diritto” che sia il sovrano a fare giustizia o decidendo – se superiore a entrambi i contendenti – la controversia; ovvero dichiarando guerra per la tutela delle giuste pretese della comunità e dei sudditi. Per il sovrano, fare la guerra nel caso di violazione dei diritti della comunità o dei sudditi, è un dovere. Con la conseguenza, apparentemente sorprendente, ma logica in un gesuita spagnolo del “Siglo de Oro” che nel caso il principe non difenda i sudditi, sia cioè trascurato “in vindicanda et defendenda republica” allora può “tota respublica se vindicare, et privare ea auctoritate principem,…si princeps officio suo desit”[3]: che è l’eccezione alla regola. Il concetto di justus hostis è dunque correlato e presuppone l’assenza del terzo “superiore” e quindi la parità tra i contendenti. Senza questa non c’è né justus hostisjustum bellum.

La guerra del suddito contro il sovrano è rivoluzione o ribellione; quella del superiore verso il suddito è un’operazione di polizia. In ogni caso non è “guerra” nel senso del diritto interstatale. Col tramonto del feudalesimo viene meno anche il “diritto di resistenza”.

  1. La parità comporta – e presuppone – il riconoscimento del nemico e l’assenza di un’autorità temporale universale, o quanto meno, sovrastatale. Non a caso la Relectio de Indis di de Vitoria inizia la trattazione dei “titoli” con la negazione dei poteri “universali” del Papa e dell’Imperatore. Con ciò era riconosciuto quel carattere del mondo politico per cui questo costituisce un pluriverso e non un universo. E, parità, riconoscimento e assenza di terzo superiore, comportano altresì che il giusto nemico non possa essere confuso col criminale.

D’altra parte, tutti tali caratteri si rovesciano specularmente nei rapporti interni all’unità politica: lo Stato sovrano non è “pari” ai sudditi, non “riconosce” nemici interni (ma solo criminali o, tutt’al più, ribelli, cioè criminali politici); è il “terzo superiore”. Il che contribuisce a determinare la prima delle caratteristiche dello Stato moderno, che lo differenziano da altre forme politiche, in particolare quelle feudali-medievali: la distinzione rigida, e per così dire, l’impermeabilità, tra interno ed esterno, e quella, contigua, tra potere pubblico  (che è, in linea di principio, unico e monopolizzato) ed altri poteri, generalmente, non riconosciuti come pubblici. Tra questi, un particolare riguardo, nella forzata “privatizzazione” del medesimo, era rivolto al “potere spirituale”, specificamente a quello ecclesiastico. Dalla plenitudo potestatis medievale si passava alla negazione di qualsiasi intromissione di quello nel potere temporale: la stessa dottrina dei cattolici più intransigenti  diventava quella della potestas indirecta, che, avversata da Hobbes, è comunque la negazione – quasi totale – delle teorie sul potere papale, correnti nel Medioevo. L’ impermeabilità dello Stato moderno, rivolta doppiamente sia verso lo justus hostis, cioè il nemico possibile ma pari come soggetto politico, sia verso coloro cui non è riconosciuto lo status di “pari”, è uno dei caratteri che più lo differenziano dalle concezioni medievali: secondo le quali i poteri erano diffusi, spesso confusi e permeabili. Rigida delimitazione riflessa anche sulla guerra. Non solo nel senso della monopolizzazione dello jus belli, ma anche nella non interferenza nell’ordinamento interno degli Stati, ancorché belligeranti (o sconfitti). Nelle guerre “in merletti” dell’Ancièn règime, istituzioni, diritto, classi dirigenti dei paesi in guerra, e perfino, in larga misura, di quelli conquistati, erano completamente e reciprocamente indifferenti ai belligeranti. Situazione che cambiò, notoriamente, con la Rivoluzione francese. Già Brissot affermava “non potremo essere al sicuro se non quando l’Europa, e tutta l’Europa, sarà in fiamme” (le fiamme della rivoluzione che si voleva esportare); per cui un giacobino come Chaumette auspicava “Il territorio che separa Parigi da Pietroburgo e da Mosca sarà presto francesizzato, municipalizzato, giacobinizzato”. Con l’approvazione nel dicembre 1792 da parte della Convenzione della mozione di Cambon, all’indifferenza si sostituiva l’opposto principio dell’ingerenza sulle istituzioni e (le classi dirigenti) delle popolazioni “liberate”. Come corollario della “giusta guerra”, trasformatasi in guerra rivoluzionaria, si aveva che la justa causa belli era costituita (almeno in linea teorica) dalla diversità dell’ordinamento del nemico dai principi rivoluzionari. Con ciò tale concetto, richiamato pure nelle recenti vicende, era rivitalizzato (mutando i caratteri) da nuova linfa. Quella che dalla dichiarazione  dei diritti dell’uomo arriva ai “diritti umani” nostri contemporanei: e, per la quale, di conseguenza, nemico è chi viola i “diritti” proclamati in qualche dichiarazione, e contro il quale, pertanto, la guerra è giusta.

  1. Carl Schmitt ritiene che nel ritorno dalla discriminante degli justi hostes a quella della justa causa vi sia il riemergere di una dottrina pre-statale.

Occorre aggiungere a ciò che, comunque, ancorchè precursori-fondatori del diritto internazionale moderno (cioè interstatale) come de Vitoria, non si svincolassero dalla “justa causa”, avevano ragioni in qualche misura da considerarsi ancora valide. Teologi-giuristi come de Vitoria o Suarez, partivano da una visione tomista, da un concetto di diritto come ordinamento concreto, come “istituzione”. Il diritto che deve essere ripristinato nel caso di guerra giusta offensiva non è quello astratto contenuto in dichiarazioni solenni, ma quello prodotto dall’esistenza politica (e giuridica) di entità statali e dai loro rapporti.  Suarez scrive che occorre una “gravis iniuria” come motivo di guerra; e nel classificarne le specie, ricorda: l’appropriazione di “cose” d’altri; la lesione dei “communa jura gentium” (come il diritto di transito o di libero commercio), e infine la grave lesione nella reputazione o nell’onore. Cioè diritti in larga misura verificabili, consuetudinari e consolidati nel tempo e dai fatti, tutti caratteri di cui è privo, per lo più, un “diritto” come quello delle solenni dichiarazioni. Il che ridimensiona, senza eliminarlo, il problema reale – e principale – che consiste nel quis judicabit? ovvero del chi decide sulla giustizia della guerra. In uno schema come quello sotteso alla teoria criticata della “guerra giusta” sarebbe, di converso, sufficiente redigere una dichiarazione colma di principi edificanti, accusare il proprio confinante di violarla, giudicarlo di conseguenza, ed eseguire la “sentenza” con aerei e carri armati: con ciò divenendo il legislatore, il giudice e l’esecutore del “teoricamente” pari. Il quale è pari, per l’appunto, proprio perché leggi, sentenze e atti esecutivi del vicino non costituiscono obblighi per il medesimo.

  1. Non è quindi possibile derivare il concetto di guerra giusta da norme morali e giuridiche (secondo una concezione normativista del diritto, neppure supportata dalla “positività” di un ordinamento statale), né derivarne allo stesso modo i concetti – e le applicazioni – che ne conseguono, come colpevolezza, pena e condanna: è la mancanza di uno justus judex a costituire l’ostacolo principale: moltiplicato, nel caso, dal far appello a un diritto normativisticamente fondato.

Tuttavia, a cambiare prospettiva, partendo cioè dalla concretezza storico-politica degli ordinamenti, invece che dalle astrattezze “morali” di certe norme, è possibile costruire un concetto di guerra giusta che sia meno estraneo al diritto internazionale “tradizionale”.

Il diritto si caratterizza, anzi è tale, perché è (richiede di essere) effettivamente applicato. E’ la possibilità concreta d’applicazione e coazione, ovvero in termini weberiani (di definizione della potenza) quella di far valere con successo i propri comandi in un gruppo sociale, a costituire il criterio, di gran lunga più importante, della legittimità di un ordinamento (o, in diversi termini, del potere). Santi Romano, con la sua concezione desunta dal diritto sia interno che internazionale, ne ha data una formulazione, a un tempo, decisiva e coerente ai tempi. Secondo il giurista siciliano “esistente e per conseguenza legittimo è solo quell’ordinamento cui non fa difetto non solo la vita attuale ma altresì la vitalità. La trasformazione del fatto in uno stato giuridico si fonda sulla sua necessità, sulla sua corrispondenza ai bisogni ed alle esigenze sociali. Il segno sicuro che questa corrispondenza esista, che non sia un’illusione o qualcosa di artificialmente provocato, si rinviene nella suscettibilità del nuovo regime ad acquistare la stabilità, a perpetuarsi per un tempo indefinito”. In altre parole, secondo Santi Romano, legittimo è l’ordinamento vitale. La vitalità deriva dalla corrispondenza dello stesso ai bisogni, alle aspettative, ai “valori” condivisi; prova ne è la durata.

Di fronte a ciò ha importanza secondaria la corrispondenza del regime politico ad una formula “ideale” (o ad un insieme di norme) astratte. D’altra parte nel diritto internazionale è riconosciuto uno Stato, non perché conforme a norme (neanche alle proprie, altrimenti non sarebbero riconosciuti gli Stati sorti da una rivoluzione), ma perché dimostra di spiegare un potere efficace sul territorio. Tale concezione si può dire, in qualche misura, tributaria del pensiero di Hobbes. Secondo il filosofo di Malmesbury la ragion d’essere dello Stato è giustificata (e già quindi legittimata) attraverso la capacità del sovrano e dell’organizzazione statale a mantenere la pace all’interno e difendere la comunità dai nemici esterni. L’autorità politica si legittima, nel pensiero di Hobbes, per la capacità di assolvere tale funzione. L’unico dovere del Sovrano è di osservare la regola “salus populi suprema lex esto[4]. Il dovere di obbedienza dei sudditi viene meno non quando il sovrano non è quello “legittimo” (absque titulo) e tanto meno  se prende delle decisioni difformi dalle leges fundamentales (dato che è fonte della legge); cessa solo quando l’autorità non è più in grado di offrire protezione. Il protego ergo obligo è così la sostanza del rapporto politico, il primo fondamento del diritto di comandare e quindi di una legittimità svincolata da valori e tradizioni, e ricondotta ad un nesso funzionalistico.

Solo l’incapacità del sovrano a difendere i sudditi – l’inadempienza al dovere di protezione – fa venir meno quello d’obbedienza.  Legittimo così in buona sostanza è l’ordinamento vitale ed efficace; lo Stato moderno è tale, in primo luogo, in quanto esplica il proprio potere (esclusivo) su una determinata popolazione (e territorio); corrispettivo di ciò è il dovere di protezione; potere, protezione, (consenso) creano e mantengono la situazione di pace all’interno dell’unità politica. Come scriveva Hauriou , l’obbligo di protezione è il fondamento della “idea direttiva” dell’istituzione – Stato, che così definiva “attività protettiva di una società nazionale svolta da un potere pubblico a base territoriale”. Quando uno Stato non riesce più ad assolvere tale funzione, come nel caso di guerra civile, non protegge più la comunità, e anzi diviene anch’esso “parte” di una guerra contro i propri cittadini, possono riprendere vigore le norme internazionali. Come scriveva Santi Romano, sulla prassi di riferire tali diritti agli insorti, la ragione ne era “l’impotenza dello Stato nel quale scoppia l’insurrezione a dominare col suo ordinamento gli autori di essa, per cui lo stesso Stato sente il bisogno, per mitigare la lotta, di condurla secondo le norme internazionali, purché anche gli insorti adottino uguale comportamento”[5]. Per cui le norme internazionali divengono, spesso, vigenti all’interno del territorio statale, quando il rapporto protezione/obbedienza e il potere di comandare vengono meno di fatto. È il caso di notare che nessuno dei concetti impiegati in situazioni simili ha carattere normativo. Non serve la “legalità” del potere (come procedimento/i di deduzione/applicazione di norme), perché porterebbe inevitabilmente alla negazione di tali diritti a una delle parti in causa. Di converso, concetti come ordinamento, unità politica, effettività del potere e del comando e “normalità” servono a discriminare in modo opportuno la sussistenza delle condizioni per considerare finiti (o “sospesi”) potere statale ed unità politica. A seguire il pensiero di Kant, sopra ricordato, erano “legittimi” sia l’intervento sovietico che, in particolare, quello nazi-fascista nella Spagna del 1936, subito dopo l’alzamiento, perché dato il controllo di buona parte del territorio spagnolo dei generali golpisti, erano venuti meno sia l’unità politica che il potere statale repubblicano (quest’ultimo nelle zone dominate dalla junta)[6]. Resta il fatto che concetti come effettività del potere statale o unità politica non possono essere deducibili o rapportabili a norme, statali o internazionali che siano, perché attengono alle concrete condizioni di esistenza, politica e sociale, di gruppi umani (al sein) e non alla validità di comandi legalmente statuiti e correttamente applicati (al sollen).

Lo Stato è il “defensor pacis” – di una pace concreta. Forza e consenso sono gli strumenti (e i presupposti) per mantenerlo. Non un qualsiasi potere statale è quindi legittimo; ma solo quello che, in qualche misura accettato dai sudditi, fa valere la propria volontà spiegando la forza sufficiente.

Per verificare la misura di tale consenso – e quindi dell’effettività del potere – non basta che vi sia un esercito, dei Tribunali, una polizia. Occorre anche che l’impiego della “violenza legittima” sia limitato, proporzionato ed “episodico”; quando questo diviene eccessivo, costituisce la più evidente (e decisiva) prova che il potere non è accettato; e che tale “Stato” non corrisponde alla propria “idea direttiva”. Lo Stato, prodotto del razionalismo occidentale, non è Ubu né Attila, e neppure l’Imperatore Teodosio a Tessalonica : si serve della forza, ma con misura. Se lo fa, all’inverso, a dismisura, significa che non è accettato e comunque non  assolve al compito di proteggere l’esistenza e i diritti della comunità e degli individui. In tal caso può essere definito “Stato” nel senso indicato da Hobbes, e dal pensiero politico moderno? O non piuttosto, e richiamandoci a S. Agostino, mancando la “justitia” (nel significato, per così dire, “hobbesiano”) apparati di potere siffatti non sono che “magna latrocinia”? In questi termini, e non ricorrendo a giudizi morali o a normativismi vari, ma basandosi sull’effettività, la vitalità ed il consenso di un ordinamento e su una situazione concreta – si può rivisitare il concetto di “justa causa belli”. Non nel senso della violazione di norme astratte – anche se condivisibili – ma perché la comunità non accetta la violazione di certi diritti, e l’apparato statale, che li viola, diventa così uno strumento di coazione violenta, privo di consenso. Oltretutto legittimare la guerra in base al mero illecito, alla meccanica violazione di norme, significa moltiplicare – e non ridurre – i possibili casus belli, per tutte le disposizioni contenute nei trattati internazionali (o sancite da consuetudini, ma queste sono molto meno numerose). Significherebbe fare guerre “giuste” per la secchia rapita.

  1. Nel caso specifico, l’ultimo che ci si è posto, cioè la guerra del Kosovo – la quale da un altro angolo visuale, non è altro che una guerra aggressiva contro uno Stato sovrano -, secondo i criteri esposti, ispirati al realismo politico (e giuridico), è assai dubbio che il regime di Milosevic possedesse quei caratteri, almeno nel territorio Kosovaro.

Non solo c’era una situazione di aperta volontà secessionista della stragrande maggioranza albanese della popolazione, non solo una repressione massiccia, con massacri e stupri di massa, ma anche l’esodo di buona parte della popolazione di etnia albanese. In tale situazione il despota di Belgrado appariva ed appare non come il “difensore della pace” (e del diritto) ma l’attizzatore della guerra (contro i sudditi). Cioè di quel mezzo, di per se – e in diverso contesto – legittimo, che comunque un ordinamento internazionale deve cercare di contenere.

E in questo senso, la guerra della Nato alla Serbia può anche considerarsi giusta.

Teodoro Klitsche de la Grange

Teodoro Klitsche de la Grange, giurista, politologo, direttore del trimestrale di cultura politica Behemoth e collaboratore di riviste di politica e di diritto (tra le quali Nuovi studi politici, Il Consiglio di Stato, Il Foro Amministrativo, Cattolica, Ciudad de los Césares, La Gironda).

Ha pubblicato di recente con altri autori Lo specchio infranto (Roma 1998); Il salto di Rodi (Roma 1999); Il doppio Stato (Soneria Mannelli 2001).

[1] Com’è noto, la guerra è stata spesso considerata uno strumento di giustizia, di realizzazione di diritti e riparazione dei torti (v. S. Tommaso, Summa Theol. II, II, q. 40 art. 1, anche citando S. Agostino; F. Suarez De charitate, disp. 13: De Bello; S. Roberto Bellarmino, v. nota seguente; Lutero Sull’autorità Temporale in Oeuvres Tomo IV, p. 23 ss, Ginevra 1975 e I soldati possono essere in stato di grazia? ivi pp. 231-233; Calvino L’institution chrétienne, lib. IV, cap XX, 11); ma oltre alla funzione di realizzazione e tutela del diritto, la guerra può avere, con questo, un’altra analogia. Quella che risulta dalla prima definizione della guerra di Clausewitz secondo il quale “La guerra è un atto di forza che ha per scopo di costringere il nemico a fare la nostra volontà”. Tale definizione non è inutile a chi vada  alla ricerca dei fondamenti del diritto, pubblico in particolare. Ad un giurista è naturale ricordare che diritto e Stato sono necessari “ne cives ad arma ruant”; onde chi voglia connotarli secondo la funzione difficilmente può prescindere dallo scopo di regolazione e pacificazione dell’uno e dell’altro (sul che ci permettiamo rinviare alla più diffusa trattazione di chi scrive nel saggio “Guerra e diritto” ora ne “Il salto di Rodi”, Roma 1999 p. 57 ss.).

[2] v. S. Roberto Bellarmino, ora in Scritti politici, Bologna 1950, p. 259; rispetto a S. Tommaso, ciò che abbonda è il modus, dato che l’Aquinate poneva solo tre condizioni allo justum bellumSumma Theol. II, II,q. 40, art. 1.

[3] F. Suarez “De charitate” disp. 13: De Bello; Josè Lois Estevez ricorda come la tesi che ricorrere alle armi nelle lotte intestine non è mai ammesso trova non pochi sostenitori; ma è contrastata dal pensiero teologico e giuridico classico da Sant’Agostino e San Tommaso fino a Molina e Soto, per non ricordare i monarcomachi sia cattolici che riformisti, “cuyo peso especifico està incomparablemente por encima de los que hoy se les oponen”  (v. Josè Lois Estevez in Razon española n. 101 mayo – junio 2000 p. 267).

[4] v. Th. Hobbes, De Cive trad. it., Roma 1981, p. 193

[5] v. Corso di diritto internazionale, Padova 1935, p. 73; è da notare che Kant, in “Per la pace perpetua”, ha una posizione a questa coerente, perché mentre ritiene che “Nessuno Stato deve intromettersi con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato”; giudica che è ben diverso il caso di guerre intestine; nel qual caso l’aiuto prestato a uno degli “Stati” “non potrebbe considerarsi come ingerenza nella costituzione di un altro Stato, perché non di Stati si tratta, ma di anarchia” v. Antologia degli scritti politici a cura di G. Sasso, Bologna 1961, p. 110.

[6] Carl Schmitt in Theorie des Partisanen (trad. It. Milano 1981) sostiene che  il carattere politico del partigiano e la presenza, a fianco e/o alle spalle di un terzo interessato (uno Stato, cioè una potenza “regolare”), che aiuta il movimento partigiano, sono connotati peculiari dei movimenti di resistenza e li distingono dai tipi “criminali”, cioè non politici, di combattenti come i pirati (v. op. cit. p. 16 ss. e 57 ss.). Sotto un altro profilo, tale connotato è speculare alle considerazioni di Kant (v. sopra): come la perdita dell’unità politica e la guerra civile legittimano l’intervento di una terza potenza, così conferiscono lo status di soggetto politico all’organizzazione di resistenza

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Carlo Nordio, Giustizia, Liberilibri_a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Carlo Nordio, Giustizia, Liberilibri 2022, pp. 62, € 13,00.

Questo breve ma efficace saggio di Nordio si conclude con un giudizio sulla giustizia penale attuale “Abbiamo disposizioni severe e attitudini perdoniste, una voce grossa e un braccio inerte, una giustizia lunga e il fiato corto: vogliamo intimidire senza reprimere e redimere senza convincere”; questo ricorda molto da vicino l’opinione di Alexis de Tocqueville sull’ordinamento giuridico dell’ancien régime, caratterizzato secondo il pensatore francese da norme severe ed una pratica fiacca. A mio avviso la ragione della somiglianza di tali giudizi consegue dal fatto d’essere l’effetto della fase di decadenza di un ordinamento. Per cui, dato che Nordio propone per la giustizia italiana di riformarla radicalmente in senso  liberale, non si può che concordare nell’auspicio.

Dopo aver iniziato questa recensione dalla fine del saggio, mi riposiziono al principio. Il libro è diviso in due parti: nella prima si tratta del concetto di giustizia nella civiltà occidentale, il quale “poggia su quattro pilastri diversi ma massicci: la cultura giudaico-cristiana e quella greco-romana”.

Nella seconda si analizza “quanta parte di questa cultura sia confluita nella giustizia (penale) italiana. E proporremmo una loro conciliazione, nella prospettiva di una riforma liberale”.

Nella prima parte quindi si considerano le radici (giudaico-cristiane, nonché greco-romane) dell’idea di giustizia. Nella seconda si riscontra quanto ve ne sia nell’ordinamento concreto attuale e cosa ne occorra riformare.

In altre parole l’autore confronta l’attuale ordinamento con le radici storico-filosofiche della nostra civiltà. Cioè parte da una prospettiva di alto profilo, al contrario di molte delle soluzioni concrete attuali la cui causa efficiente spesso non è il garantismo o il giustizialismo (o altre siderali esigenze) ma espedienti e callidità di potere, compreso il condizionamento di processi in corso, per i quali si paventano le influenze sulle elezioni o sulle carriere di politici (e burocrati).

Quanto alla giustizia penale e all’influenza religiosa “i principi della cultura giudaico-cristiana sono stati formalmente ossequiati ma sostanzialmente negletti. La composizione tra rigore retributivo e misericordia benevola si è stemperata in un caotico sincretismo di magistero arcigno e di sgomenta rassegnazione”. Relativamente all’influsso greco-romano l’equilibrio razionale tra la presunzione di innocenza e la certezza della pena “dovrebbe essere il precipitato logico, e il risultato pratico proprio della tradizione greco-romana filtrata da John Stuart Mill, da Tocqueville e Montesquieu, come da Verri e Beccaria”, come espresso dal novellato (1999) art. 111 della Costituzione. Tuttavia tale recepimento “è stato così inavveduto da esser minato da alcune contraddizioni insanabili”, anche e soprattutto perché il processo che ne risulta ha “poco a che vedere con quello accusatorio anglosassone, che si regge su alcuni solidi principi, come la divisone delle carriere, la distinzione tra giudice del fatto e del diritto, la nomina e i poteri del pubblico ministero, l’estensione dei patteggiamenti e, più importante di tutti, la discrezionalità dell’azione penale”. La conclusioni è che “accanto alla dissoluzione dell’eredità giudaico-cristiana della concezione retributivo-indulgenziale della pena, assistiamo al ripudio del legato greco-romano del razionalismo pragmatico, perché alla lunghezza esasperante dei nostri processi si associa la confusionaria applicazione di norme incerte e scoordinate. E il Paese che è stato la culla del diritto ne è diventato la bara”.

Nordio, volando alto, fa discendere l’attuale situazione dalla mancata applicazione di principi storico filosofici, espressi da pensatori nel corso di millenni. Se da questo confronto storico-filosofico, passiamo a quello logico-comparatista, nel senso di vedere quanto delle soluzioni che le concezioni politicamente corrette vogliono imporre come capisaldi dello “Stato di diritto” lo siano in altri ordinamenti, il discorso non cambia.

Per esempio l’obbligatorietà dell’azione penale: è vero che è sancita dall’art. 112 della Costituzione, ma si configura in modo assai differente negli Stati di diritto contemporanei, a partire dalla Gran Bretagna.

Così per l’azione penale, spesso accordata anche alle vittime del reato (e talvolta a associazioni o a tutti). O la separazione delle carriere che in alcuni ordinamenti non si pone data la “separazione” naturale tra titolari (anche pubblici) dell’azione penale e organi giudicanti.

In sintesi quello che il “politicamente corretto”, la stampa mainstream, e (molti) poteri forti vorrebbero far passare come quintessenza del liberalismo “compiuto” e della modernità, non lo è, o non s’impone con la conclamata evidenza la perentorietà e unitarietà che ci viene quotidianamente rappresentata.

Nordio fa leva, per demolirla, sulla storia e sul pensiero di millenni; ma questo risulta anche dalle (odierne) soluzioni adottate appena fuori dai confini. E non si vede come molte non possano essere recepite nell’ordinamento italiano, solo perché contrarie agli anatemi mediatico-culturali.

Teodoro Klitsche de la Grange

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IL COMPITO PRINCIPALE, di Teodoro Klitsche de la Grange

Nota

Qualche mese dopo l’insediamento del governo Berlusconi, la rivista
“Palomar” pubblicava un numero tematico su “La destra oggi”, con le
risposte di molti collaboratori, abituali e non.

Si ripropone il contributo, tenuto conto della persistenza delle simili
“sfide” al governo Meloni

IL COMPITO PRINCIPALE

  1. Tra le molte cose che il centrodestra deve realizzare la principale – e ovviamente più difficile – è ricostruire lo Stato, intendendo per tale non solo gli apparati pubblici, ridotti per lo più, ad un insieme di burocrazie quasi sempre inefficienti e spesso rissose, ma l’ “idea” (e il concetto) di quello, che va smarrendosi anche e soprattutto per l’identificazione che, nella coscienza collettiva, se ne fa con il rovinoso spettacolo offerto dalle amministrazioni pubbliche. Dato il quale, il problema che si pone è, nello specifico, individuare quale ne sia – tra i molti – l’aspetto più importante, anche al limitato fine di non fare di questo intervento un trattato, di volume proporzionale all’entità dei disastri ereditati. Questo è, senza dubbio, la separazione che il tramonto della Repubblica ha in parte subito, ma in altra, prevalente, incentivato, tra governati e governanti e di cui fanno fede la crescente disaffezione elettorale e i referendum disertati, per citare solo gli indicatori più verificabili, e forse più importanti. Ed è evidente che tale disaffezione è stata coltivata alacremente, non solo per interesse, ma anche per mentalità, dalla sinistra. Ciò per più ragioni: il leninismo, è stato, nel XX secolo, la più compiuta e coerente espressione di una mentalità oligarchica, con un partito d’illuminati destinato a guidare le masse, inconsapevoli o poco consapevoli, alla costruzione della società senza classi; peraltro a una certa tecnocrazia di sinistra è naturale credere che la soluzione dei problemi politici, sociali ed economici sia attingibile con strumenti tecnici (mentre talvolta, spesso, è così, e talaltra no: in genere più sono realmente decisivi, meno si prestano a soluzioni “tecniche”); altro errore ricorrente è ragionare in termini di potere e poteri, facendo di tutto o questioni di amministrazione (più in basso), o di governo (più in alto), quando l’importanza di questi è relativa rispetto alle categorie “essenziali” della politica, come l’autorità, la legittimità, l’integrazione: ossia quelle che fondano un potere legittimo, consentito, e proprio per questo, più facilmente obbedito. Quest’ultimo errore è stato mutuato da un liberalismo decadente, e spesso inconsapevole dei propri presupposti: in effetti ragionare di poteri, prescindendo da ciò che li fonda, equivale a vagheggiare un potere autoreferenziale, che si sostiene da sé, senza l’ausilio di principi di legittimità, teocratico o democratico che siano; e così, non sollevato dall’alto, né sostenuto dal basso, si regge come il barone di Münchausen che si afferrava il codino per non sprofondare nella palude. Ma è certo che, se quel sistema è idoneo nelle favole, nel mondo reale il tonfo è assicurato. Ed è già avvenuto il 13 maggio: l’immensa concentrazione di potere che negli anni ’96-’98 ha denotato il regime dell’Ulivo è stata prima erosa a livello locale, poi ribaltata a livello nazionale. A conferma che un potere non sostenuto dal consenso “profondo”, è “una tigre di carta” di maoista memoria: rotocalchi, RAI, quotidiani, Parlamento, Procure, enti locali e sindacati, par condicio e soprattutto la federazione di burocrazie che si riconoscono nell’Ulivo non è riuscita ad evitare il rigetto dello stesso da parte della comunità nazionale.

Il primo servizio che il centrodestra può rendere alla nazione (ed a se medesimo, avendo un consenso molto superiore alla parte avversa), è di rimettere le cose a posto, garantendo che, d’ora in poi, chi governa abbia autorità e legittimità; che la legalità non sia uno slogan e un’arma selettivamente puntata contro gli oppositori, ma concretamente, e generalmente, applicata; che i funzionari dello Stato siano dei civil servants, e non un misto tra efori spartani  e monarcomachi (ugonotti o gesuiti). Ricostruire il tessuto di uno Stato-comunità, in cui alla separazione tra governanti e governati, si sostituisca la distinzione tra chi comanda e chi obbedisce; ricondurre così ad unità (e riconciliare) i termini essenziali dell’unità politica, che come scriveva Proudhon, non possono “mai né essere assorbiti l’uno dall’altro, né escludersi”[1], è il compito principale.

  1. Agli albori del costituzionalismo moderno, dello Stato liberal-democratico borghese, era sottolineato il carattere di stabilità della legge, ed ancor di più della Costituzione; ciò rispondeva non solo all’esigenza di un diritto stabile, di applicazione prevedibile e “misurabile”, ma anche all’aspirazione ad un assetto istituzionale “ideale” e perfetto, razionale nello scopo di offrire un mezzo di soluzione ad ogni contingenza storica e ad ogni conflitto. Tale elemento, necessario, tendeva a porre in ombra l’altro aspetto – e funzione – della costituzione: di essere il “principio dinamico dell’unità politica” ovvero di dover coniugare stabilità e divenire, movimento e durata, consenso e potere, esistenza ed azione politica. Questo secondo profilo è stato evidenziato e posto in luce da pensatori politici, giuristi e filosofi, in particolare dallo scorcio del XIX secolo in poi. Renan, Hauriou, Schmitt, Smend, Gentile vi hanno contribuito: dalla definizione di Renan della Nazione come “un plebiscito di tutti i giorni”, alla concezione dell’istituzione di Hauriou[2]; dalla costituzione quale “principio del divenire dinamico dell’unità politica” di Schmitt [3], al giudizio di Gentile: “lo Stato – malgrado il suo nome – non è nulla di statico. E’ un processo. La sua volontà è una sintesi risolutrice di ogni immediatezza” [4]; fino alla tesi di Smend [5]. Ed è a Smend che dobbiamo la più approfondita e concreta teoria dell’integrazione come momento centrale dell’unità politica e della coesione comunitaria. Scriveva Smend che: “Se la realtà della vita dello Stato si presenta come la produzione continua della sua realtà in quanto unione sovrana di volontà, la sua realtà consisterà nel suo sistema di integrazione. E questo, cioè la realtà dello Stato in generale, è compreso correttamente solo se concepito come l’effetto unitario di tutti i fattori di integrazione che, conformemente alla legislatività dello spirito rispetto al valore, si congiungono sempre di nuovo e automaticamente in un effetto d’insieme unitario” [6], e in un altro passo sostiene che: “La comunità, il gruppo, lo Stato non devono essere intesi come un Io collettivo riposante su se stesso, ma come la struttura unitaria della vita individuale, come dialettica che realizza e trasforma dinamicamente l’essenza del singolo e dell’intero” [7], e quindi “Esso, cioè, non è un intero immobile emanante singole espressioni di vita, leggi, atti diplomatici, sentenze, atti amministrativi, ma piuttosto esiste come tale solo in queste singole espressioni di vita, in quanto attivazioni di una connessione spirituale complessiva, e nelle ancora più importanti innovazioni e trasformazioni che hanno come oggetto esclusivo questa stessa connessione. Lo Stato vive ed esiste solo in questo processo di rinnovamento costante, di rigenerazione continua del vissuto” [8]
  2. Nel tramonto della “prima Repubblica”, e soprattutto nella sua fase terminale, cioè il regime dell’Ulivo, è stato fatto proprio l’inverso: si è prodotto e ricercato non “l’unione spirituale di volontà” ma la distribuzione del potere tra le oligarchie organizzate.

Basta dare i poteri necessari alle persone morali e competenti ri-sintetizzano gli idola del centro-sinistra, e le cose andranno a posto. Ma tale ragionamento non sta in piedi: non solo perché – e ciò è la ragione minore – il problema diviene in tal caso quali sono i poteri necessari e chi sceglie le persone morali e competenti. E con ciò ci si avvicina al nodo essenziale: ovvero del chi decide su necessità, moralità e competenza. Se è il “popolo”, il “potere maggioritario” di Hauriou, consenso ed integrazione si accrescono: se invece è un qualche sinedrio partitocratico-istituzionale, la cui maggiore sollecitudine è di escludere e rovesciare le scelte popolari, con i vari mezzi noti, dai ribaltoni in giù, l’uno e l’altro si riducono. Ma, più ancora, un tale ragionamento è concettualmente errato: a costituite una comunità, un’unità politica, necessari sono il governo e i governati, e il rapporto che s’instaura tra l’uno e gli altri. Lo Stato, questo ente dalle tante definizioni, prima di essere Stato-apparato, è Stato-comunità, e prima ancora un’idea, che vive nel (e del) rapporto tra i cittadini e tra questi e i governanti. Il problema dei poteri è importante, ma secondario rispetto a quelli: se assetto e distribuzione di questi fossero decisivi, sarebbero sufficienti a garantire l’unità ed effettività del comando. La storia mostra che non è così: sono legittimità ed autorità a garantire che l’assetto dei poteri vigente sarà accettato dai “sudditi”, e non l’inverso, che sia un “buon” assetto di poteri  ad assicurare e sostenere un’autorità legittima.

Per il consenso popolare, così sottovalutato, si è pensato invece che bastassero articolesse, interviste al Tg, o nei casi più importanti, i dibattiti nei vari Sciuscià e simili. I governati, in tale visione, avevano la funzione dello spettatore distaccato, dell’osservatore che plaude o dissente, ma, per carità, senza agire; l’essenziale non era la partecipazione ma che non disturbassero i manovratori (e la manovra). Una rappresentazione del popolo molto politically correct. Un esempio chiaro e sintetico ce l’ha dato l’on. Rutelli, in occasione del referendum del 7 ottobre 2001 (sulla riforma federale della Costituzione, fatta dall’Ulivo sul piede di partenza del governo) disertato da circa due terzi del corpo elettorale a conferma della solenne indifferenza verso le “realizzazioni” del centro-sinistra. Diceva, tutto contento, il (soi-disant? ) capo dell’opposizione “Ottimo il risultato del referendum, una prova di maturità e serietà” (Libero 9 ottobre 2001)” (il corsivo è nostro).

In altre parole il coinvolgimento dei governati è un plus, un “optional”, irrilevante; l’essenziale è osservare le forme di procedimenti legalmente validi: con ciò si pensa all’impossibile, quanto perseguita surrogazione della legalità alla legittimità. Che il problema reale  – e decisivo –   non sia quello dell’osservanza delle forme, ma del far osservare i comandi, e che questo è tanto più facile quanto più i destinatari dei medesimi lo fanno spontaneamente e generalmente; che, come scriveva Hauriou vi sia una “sovranità di sudditanza” che si esercita non solo all’intervenire ogni tanto con rivoluzioni, sommosse e così via, ma, assai più frequentemente, col non obbedire, è cosa che non rientra nella Weltanschauung – per così dire – ulivista.

La quale, di converso, dev’essere la (prima) preoccupazione del centro destra. Non che ne manchino delle altre, d’indubbia importanza: ma questa è decisiva, ed osservarla costituisce, in se, un fatto positivo e determinante, perché realmente costitutivo dell’unità politica . Certo, avere un governo stabile e in condizione di governare; un’amministrazione efficiente, fornitrice di servizi e non consumatrice di risorse; una giustizia che non sia come la rana di Galvani, generalmente nell’immobilità della morte ma, ogni tanto agitantesi per la “scossa” del “caso sociale” (o del nemico politico), è determinante per il futuro dell’Italia: ma ricostituire l’integrazione della comunità lo è di più. Senza la quale i due “estremi” necessari e indefettibili dell’unità politica, stanno o in opposizione espressa  – con pericolo grave e pressante per la comunità – o in una evidente indifferenza, foriera di decadenza, spesso lunga, ma ancor più, priva di sbocchi.

In mezzo, tra governanti e governati, si trova l’ampia gamma dei poteri “forti”, comprese le “cupole” delle varie corporazioni, la cui reazione – aperta ed espressa, o più spesso occulta e indiretta – è, ed ancor più sarà, dura, proporzionale al ridimensionamento (se non alla “detronizzazione”) di questi che una maggiore integrazione tra governanti e governati comporta. Ma è un rischio che bisogna correre. Non foss’altro perché una delle lezioni più evidenti dell’ultimo quinquennio è che, ormai, non vale più la regola dell’on. Andreotti che “il potere logora chi non ce l’ha”: all’Ulivo l’overdose di potere – pari, se non superiore a quella della DC (e alleati) negli anni cinquanta nel ’96- 2001 non ha portato (o mantenuto) un voto in più. Voto che forse avrebbero potuto ottenere, ove avessero governato meglio, il che avrebbe significato scontentare (almeno) alcune corporazioni forti: avendo preferito il consenso delle quali, non hanno guadagnato quello del corpo elettorale. E questo dev’essere di conforto – e monito – al centro destra, ad onorare il patto col popolo, anche a scapito della tregua con le corporazioni.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] P.J. Proudhon Contradictions politiques. Théorie du mouvement constitutionnel au XX siècle. Paris 1952, p. 215.

[2] V. M. Hauriou Précis de droit constitutionnel, laddove scrive “dell’organizzazione formale dell’ordine sociale concepito come un sistema animato d’un movimento lento ed uniforme”, op. cit., p. 71 ss.

[3] Verfassungslehre, trad. it., p. 18, Milano 1983, cui si rimanda

[4] Genesi e Struttura della società, ed. Firenze 1987, p. 103

[5] “Elezioni, dibattiti parlamentari, formazioni di gabinetto, referendum popolari: sono tutte funzioni integrative. In altre parole, non trovano la loro giustificazione, come insegna – per la sua origine giuridica – la teoria dominante degli organi e delle funzioni dello Stato, soltanto nel fatto che i rappresentanti dello Stato e del popolo in quanto intero vengono insediati” ma piuttosto “esse integrano, cioè creano di volta in volta, per parte loro, l’individualità politica del popolo nel suo insieme e perciò producono il presupposto del suo attivarsi in modo comprensibile sotto l’aspetto giuridico e materialmente positivo o negativo sotto quello materiale”; e prosegue “il diritto elettorale deve condurre in primo luogo alla formazione di partiti e quindi alla produzione di maggioranze, e non semplicemente di singoli deputati. Nello Stato parlamentare il popolo non è già in sé politicamente presente e viene poi ulteriormente qualificato, di elezione in elezione, in una particolare direzione politica: e da una formazione di gabinetto all’altra, esso ha invece una sua esistenza come popolo politico, come unione sovrana di volontà, principalmente in virtù di una sintesi politica specifica in cui soltanto giunge sempre di nuovo ad esistere in generale come realtà statale”, v. Rudolf Smend, Verfassung und Verfassungsrecht, trad. it., Milano 1988, p. 93-95.

[6] Op. cit. p. 111

[7] Op. cit. p. 272

[8] Op. cit. p. 272

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