Loris Zanatta, Popolo_recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

 

Loris Zanatta, Popolo, Liberilibri, Macerata 2023, pp. 76, € 14,00.

Questo è il secondo titolo della nuova collana  “Voltairiana”, di cui vale la pena trascrivere parte della nota dell’editore sulla ragione della stessa: “Nel convincimento che ormai anche il nostro Paese ha assunto connotati marcatamente illiberali in tutti gli ambiti… perdipiù consentendo nel suo seno l’esistenza e il prosperare di caste intoccabili come magistratura e sindacato, abbiamo concepito questa nuova collana “Voltairiana” per “offrire agli italiani, di parole chiave che affollano il discorso pubblico, una lettura diversa rispetto a quella imposta dal canone semantico  ufficiale e unico… Un’operazione di ortopedia lessicale? Sicuramente. Ma soprattutto di disintossicazione concettuale”. Con ciò la casa editrice, ed il compianto editore da poco scomparso Aldo Canovari, proseguono l’opera meritoria di  disintossicazione da banalità ed idola del pensiero unico.

Anche questo pamphlet evita demonizzazioni a priori; piuttosto avvalendosi (anche) delle  concezioni di Tönnies e Max Weber, sostiene che di popoli ce ne sono  essenzialmente due: il popolo sacro, caldo e  naturale, e il popolo profano, freddo e innaturale. Essendo dei tipi ideali, nel concreto convivono, ma sono “separati in casa”. Ogni popolo concreto è così, un po’ sacro e un po’ profano, anche se l’uno e l’altro aspetto possono, nel corso della storia, prevalere. I connotati distintivi dell’uno e dell’altro idealtipo sono diversi: il primo è monista, organicista, bellicista e mistico, vive la politica come religione e la religione come politica. Al contrario “il popolo profano esprime una vocazione al disincanto, alla razionalità, alla stoica moderazione degli impulsi… Non crede in salvezze, Regni di Dio, terre promesse. E diffida di chi invoca il popolo in loro nome… Questo popolo , insomma, non è un organismo naturale  ma un artefatto più o meno razionale, non è monista ma pluralista, non garantisce identità ma molteplicità, non ha coesione , ma un certo grado di frammentazione… soprattutto, non presuppone un fine morale comune, per nobile che suoni: la grandezza della patria o il riscatto dei lavoratori, la volontà di Dio o il primato della razza”.

Scrive l’autore che nel secolo passato l’intermezzo tra le due guerre mondiali, e le guerre stese costituiscono l’apogeo del “popolo sacro”, diffusosi in quasi tutta Europa. Il secondo dopoguerra, quello del popolo profano. Di solito il popolo sacro “finisce imbrigliato nelle maglie del popolo profano, con cui la sua pulsione totalitaria viene addomesticata da leggi e regole, logorata da polemiche e sfottò, sfiancata da negoziati e compromessi”. Il popolo sacro ne esce spesso “profanato, normalizzato, sgonfiato, finché si accasa a malincuore nei freddi regimi costituzionali”. Il che ricorda assai le considerazioni di Max Weber sulla conversione dei regimi politici carismatici in pratica quotidiana.

D’altra parte scrive l’autore “Se nella storia percorsa finora v’è una pallida regolarità, sta nel fatto che non v’è ondata globalista che non generi una reazione localista, pulsione cosmopolita che non causi un rinculo nativista, spinta secolare che non subisca un rigurgito religioso”. Quanto alla situazione odierna pare che ci sia ripresa del “popolo sacro”.

D’altra parte “popolo sacro e popolo profano ci sono dagli albori ed è probabile che in forme sempre mutevoli e sempre nuove miscele ci saranno sempre, in ogni civiltà, in ogni società e, in fondo, nel cuore e nella mente di ogni individuo”. S’alimentano a vicenda. Tuttavia nell’epoca moderna è il popolo profano che “vanta più progressi che tonfi, che  s’è allargato più che ristretto”. E il motivo è che ha desacralizzato il popolo. “Penso che la desacralizzazione del popolo sia un correlato chiave del processo di secolarizzazione… Secolarizzazione e desacralizzazione, secolarizzazione e popolo profano, secolarizzazione e democrazia camminano  in parallelo nella storia occidentale. Non è una legge, ma una tendenza sì”.

Una nota: è vero che gli idealtipi del popolo ricorrono sempre, e quindi sono compresenti nello stesso popolo concreto e nella stessa epoca. Tuttavia desacralizzare – anche per questo – non basta. Anche il popolo profano deve (nel senso che è necessitato) sacralizzare qualcosa. Se è ad esempio il relativismo, sarà questo il nucleo “sacro” e non modificabile della Costituzione. Le “tavole dei valori” costituzionali, scrivono le Corti e i giuristi, sono l’espressione  di ciò che è immodificabile pena il passaggio da una ad un’“altra” costituzione. Questo in estrema sintesi ciò che risulta da tante decisioni e opinioni. Perfino il PD, la cui concezione pare così vicina all’idealtipo del popolo profano, in occasione del conflitto russo-ucraino (specialmente) è partito alla carica  contro la Russia, chiamando alla lotta delle democrazie (sedicenti) liberali contro le autocrazie. Ma ciò conferma che nelle istituzioni politiche (e nelle comunità umane, come scriveva Maurice Hauriou, c’è sempre un fond (anche) teologico e un involucro (couche) giuridico. Non è possibile sfuggire al fond come non si può prescindere dalla couche, è una regolarità. Comune ai popoli sacri e a quelli profani, e alle loro istituzioni.

Teodoro Klitsche de la Grange

Machiavelli, di Teodoro Klitsche de la Grange

Questo articolo è stato pubblicato nel Behemoth n. 53 del 2015, nel 500°
anniversario della scrittura del “PRINCIPE”.

Teodoro Klitsche de la Grange

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SENTIMENTO E INDIFFERENZA POLITICA, di Teodoro Klitsche de la Grange

SENTIMENTO E INDIFFERENZA POLITICA

Malgrado il bombardamento anti-russo della comunicazione mainstream, non sembra, dai sondaggi ripetuti, che sia stata scalfita la maggioranza neutralista nell’opinione pubblica soprattutto, si legge, in Italia e in Romania; altrove, in Europa, tranne in quella orientale (e si capisce il perché) favorevoli e contrari si distribuiscono in blocchi pressoché uguali sull’aiuto all’Ucraina.

Dopo un simile spiegamento di mezzi, i risultati paiono modesti. Soprattutto in relazione all’argomento forte e più ripetuto, che si adagia sulle comprensibili aspirazioni degli europei, i quali dopo i due macelli collettivi del XX secolo, di aggressioni, guerre, ed aggressori non vogliono sentir neanche parlare.

Per cui appare facile demonizzare l’aggressore come turbatore della pace, e la resistenza allo stesso come justa causa.

Quale può essere il perché della tepidezza di buona parte dell’opinione pubblica? Le cause possono essere tante, ma ritengo che le principali siano:

  1. a) il timore di un’estensione (fino al coinvolgimento diretto) nella guerra;
  2. b) il non comprendere (perché non spiegato) quale possa essere l’interesse nazionale ad un esteso aiuto ad uno dei belligeranti;
  3. c) che la Russia, anche se aggressore, non ha tutti i torti (scontri nel Donbass, accordi di Minsk).

Quanto al timore dell’escalation, è bene tenerne conto, perché come sosteneva Clausewitz, è nella natura della guerra l’ascensione agli estremi. Tuttavia a rendere tale ipotesi poco verosimile è proprio il secondo elemento: la mancanza di un interesse nazionale, sia della Russia che dei popoli europei ad aggredirsi. Anzi tutto l’interesse è quello di convivere e commerciare pacificamente, per la complementarietà economica delle due aree. Relativamente al terzo aspetto è chiaro che la dissoluzione dell’Unione sovietica in Stati nazionali, le cui frontiere non coincidevano con l’omogeneità etnica, di guerre ne ha generate tante, sia nella superpotenza che nella Jugoslavia.

Basti ricordare per la prima: Georgia, Ossezia, Cecenia, Abkhazia, Nagorni_Karabach (salvo altri). Per cui la sussistenza, anche da parte dell’aggressore russo di una justa causa belli non è esclusa. Con la conseguenza che, contrariamente all’evoluzione del diritto internazionale nel XX secolo, la guerra, nel sistema westfaliano, è “giusta” da entrambe le parti.

Per cui che il sentimento ostile nei confronti dell’aggressore sia così tiepido a dispetto di tutti gli sforzi per suscitarlo e ravvivarlo non meraviglia.

Si aggiunge per l’Italia la storia degli ultimi secoli; di guerre l’Italia (prima il Regno di Sardegna) alla Russia ne ha mosse tre. La guerra di Crimea, l’intervento nella guerra civile del 1918-1921, il fiancheggiamento della Germania nell’operazione Barbarossa. Di converso l’unica volta che un esercito russo si è visto in Italia è nel 1799. Ma i russi, peraltro alleati di Stati italiani occupati dalla Francia, se ne andarono senza pretendere di tornare.

Gli è che né i russi hanno alcun interesse ad occupare l’Italia, né gli italiani la Russia. Si è cercato di compensare questa evidenza storica e politica col dipingere Putin come il diavolo guerrafondaio, affetto da aggressività compulsiva, emulo nel XXI secolo di Hitler. Ipotesi ancora più inverosimile dell’altra: vediamo perché.

É costante della Russia estendere la propria influenza a sud, in particolare intorno al Mar Nero.

Malgrado tutti gli sforzi dei professionisti dell’informazione per additare Putin come pazzo e/o malato, il Presidente russo non ha fatto altro che ripetere la politica dei suoi predecessori, da Ivan il Terribile a Pietro il Grande, da Caterina la Grande a Nicola I.

Il che rendeva assai prevedibili sia le intenzioni che il comportamento dello stesso. Ciò nonostante non è stato previsto il probabile, e neppure adottati comportamenti  idonei ad evitare che una situazione, da anni esplosiva, degenerasse in guerra.

Quando poi questa è scoppiata, non c’è stato altro da fare che cercare di coprire il tutto con la demonizzazione dell’aggressore, come mezzo per incrementare il sentimento popolare, improntato ad una paurosa indifferenza.

Scrive Clausewitz nel Von Kriege a proposito del sentimento politico, cioè l’odio e l’inimicizia verso il nemico che questo è “da considerarsi come un cieco istinto” e corrisponde al popolo; e che “Le passioni che nella guerra saranno messe in gioco debbono già esistere nelle nazioni”. Sicuramente in Polonia e in Ungheria, tenuto conto della storia le suddette passioni non mancano. Ma in Europa occidentale? Solo la Germania ha condotto nella storia e per geopolitica diverse guerre con la Russia, alternate a periodi di amicizia (spesso a scapito dei popoli che stavano “in mezzo”).

Ma Francia, Spagna, Italia (e non solo) non hanno né ragioni politiche e geo-politiche né una storia che identificasse nei russi il nemico principale e reale.

Per cui non restava che affidarsi alla propaganda, confermando, con lo scarso risultato, l’affermazione di Clausewitz.

Teodoro Klitsche de la Grange

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VIVA LA MORIA 2.0, di Teodoro Klitsche de la Grange

VIVA LA MORIA 2.0

Quando, quasi tre anni orsono, si iniziò a parlare del PNRR scrissi un articolo, dal titolo uguale, nel quale ricordavo quanto scriveva Manzoni «che nella Milano appestata i monatti – addetti al trasporto dei malati al lazzaretto e dei cadaveri al cimitero – brindavano allegramente ripetendo “Viva la moria!”, dato che l’epidemia garantiva agli stessi un lavoro continuo e remunerativo, e la connessa possibilità di rubare e di estorcere denaro a malati e parenti». E che quel gran parlare di novità, di ricostruzione, di generosità europea poteva diventare l’ouverture di una prossima grande abbuffata. Già Conte, allora Presidente del Consiglio diceva che le spese relative dovevano essere decise e distribuite. Che un tale programma fosse il miele per attrarre un nugolo di tax-consommers era chiaro; come lo era che gli stessi si sarebbero fatti in quattro per «come dicono in Spagna buscar un lugar en el presupuesto, ossia a trovare una nicchia nel bilancio ed essendo questo all’uopo abbondantemente fornito, hanno una ricerca facile». Cattiva prospettiva per il contribuente italiano, cui sarebbe comunque toccata la parte di Brighella “che fa le spese”.

Ad alleviare i dubbi del suddetto Brighella fu anche detto che l’inquinamento (la riduzione del quale era il principale obiettivo del PNRR) aveva aiutato la diffusione del virus. Tesi poco ripetuta, forse perché spericolata.

Da notizie di stampa emerge che tra le spese finanziate dal PNRR ci sarebbero piste ciclabili, campi di padel, strutture per l’assistenza anche ai migranti, ecc. ecc. Tutte cose magari (si spera), non tanto incidenti sulla spesa complessiva, ma le quali più che ad una (necessaria, anzi indispensabile) ripresa economica, sembrano rivolte a finanziare opere ed interventi del tutto marginali, e poco o nulla suscettibili di aumentare reddito, produttività, competitività degli italiani e dell’Italia. Cioè di tutte le belle parole con cui hanno condito anche le finalità del PNRR.

Per cui non appare errato procedere alla revisione enunciata dal governo. Sperando che, essendo fatta da un governo diverso, non ripeta le “gesta” dei precedenti.

Teodoro Klitsche de la Grange

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PD E LEGITTIMITÁ IN SALITA, di Teodoro Klitsche de la Grange

PD E LEGITTIMITÁ IN SALITA

C’è un “nocciolo duro” che collega il processo di decadenza della classe dirigente della “Seconda repubblica” e in particolare il PD, confermato dalle ultimi elezioni regionali, tutte perse dall’opposizione e l’ultima rovinosamente  (Fedriga ha riportato più del doppio dei voti del candidato PD-M5S ed altri): è la perdita di legittimità delle élite in disfacimento.

L’ironia della Storia ha fatto sì che, con le ultime elezioni politiche il primo partito e la Presidente del Consiglio della “Repubblica nata dalla resistenza” siano gli eredi di coloro che la resistenza l’avevano combattuta e dall’ “arco costituzionale” erano esclusi. Così che attualmente, contrariamente alle litanie ripetute da decenni, la volontà popolare ha rifiutato l’armamentario propagandato – fino a qualche anno fa confortato dal consenso – dal 1945. In un certo senso ha disconosciuto la paternità.

Questo, indipendentemente dal fatto che la “tavola dei valori” che  ispira la nostra costituzione, da non identificare con quella propagandata per decenni dalla sinistra (e non solo) che ne costituisce una versione parziale e ad “usum delphini”, non abbia ancora una sua legittimità, nel senso di una diffusa condivisione.

Gli è che, come scriveva Thomas Hobbes, l’essenza del rapporto politico e quindi del comando-obbedienza, è che chi pretende il comando deve dare protezione (effettiva). Con la conseguenza che se quella protezione non viene data cessa anche l’obbligo di obbedire. Questo è asserito dal filosofo di Malmesbury proprio nell’ultima pagina del Leviathan: di aver scritto il trattato “senza altro scopo che di porre davanti agli occhi degli uomini la mutua relazione tra protezione ed obbedienza; alle quali la condizione della natura umana e le leggi divine – tanto naturali che positive – richiedono un’osservanza inviolabile”.

E nelle pagine precedenti del Leviathan ci dà un saggio di ciò che non da protezione e quindi non serve a pretendere obbedienza. “Casistica” che ha più che qualche carattere di somiglianza con quanto praticato (anche) dalle élite decadenti, e ancor più con i cattivi risultati della loro azione di governo. Ad esempio quando Hobbes paragona la Chiesa cattolica al regno delle fate (e gli ecclesiastici alle fate) anche perché “Quale specie di moneta abbia corso nel regno delle fate non è detto nella storia; ma gli ecclesiastici  invece accettano nelle loro riscossioni la moneta, che noi coniamo, benché, quando debbano fare qualche pagamento, li facciano consistere in canonizzazioni, indulgenze e messe” e così i chierici non lavorano, ma come le fate, vivono approfittando del lavoro degli altri, banchettando con la crema del latte munto dai fedeli (o – per il potere temporale – dai sudditi).

C’è più di un’analogia con i trasferimenti di ricchezza, da tax-payers a tax-consommers operati dai governi delle élite, o ancor più con la predazione diretta (e indiretta) connessa; senza trascurare che ad ogni salasso si accompagna una enunciazione di buone intenzioni, e ancor più lo “scambio” di beni con chiacchiere.

Oppure quando Hobbes mette in guardia dall’insistere nel giustificare l’esercizio del potere col richiamo al titolo giuridico (successione, conquista, consuetudine), invece che all’effettività e risultati ottenuti. O, in senso contrario, col giustificare il proprio potere condannando le malefatte del regime precedente (invece dei risultati propri).

Il potere pubblico, assai più che ai tempi di Hobbes, ha giustificato dallo scorcio del XIX secolo il proprio intervento e così la pubblicizzazione di attività private (soprattutto nell’economia) con gli effetti in termini di sicurezza del futuro. Ma i risultati italiani nell’ultimo trentennio, quando l’influenza del PD (e predecessori) è stata determinante, sono i peggiori dell’area UE (ed euro). Onde i risultati di un’azione di governo esteso all’economia sono pessimi, e pertanto non c’è legittimità “di scambio” (protezione/obbedienza) che possa confortarla. Non resta che rivolgersi ad una legittimità fondata sulle intenzioni conformi a certi valori. Ciò ha un doppio limite: che quei valori debbano essere condivisi dalla maggioranza e, di conseguenza – e a lato – debbano essere ragionevoli.

Tuttavia condivisione ce n’è poca (v. risultati elettorali) e ragionevolezza (nel senso di obiettivi effettivamente alla portata di un’azione di governo) non di più.

Non si capisce infatti come insistere nel primario obiettivo di tutela dei c.d. “diritti umani” di esigue minoranze posponendo loro i “diritti sociali” conseguiti nel XX secolo sia produttivo di consenso, soprattutto maggioritario. Significa scambiare (con gioia?) parte dello stipendio e della pensione per promuovere le unioni tra omosessuali, l’utero in affitto, ecc. ecc. Che ci guadagna la stragrande maggioranza?

Quanto alla ragionevolezza va tenuto conto che il marxismo ha provato il carattere totalmente immaginario del proprio  esito ultimo: la società comunista, cioè il paese dei balocchi. Ma il vizio non è stato perso.

Alla natura umana e all’ordine politico sono connaturali due caratteri: la paura della morte e la preoccupazione per il futuro.

Ambedue strumenti di governo (e di accettazione – consenso) del potere politico. Quanto al primo c’è stato il tentativo di sfruttare come instrumentum regni il Covid, e poi la guerra russo-ucraina. Quest’ultima, contraddittoriamente (per la sinistra) quale lesione alla libertà e sovranità di popolo.

Ma quale beneficio ne abbia tratto il PD (e soci) non si vede.

Quanto all’ansia per il futuro: ossia (anche) della sicurezza economica (propria e di tutti): ma non si capisce quanta tranquillità agli italiani impoveriti possa venire (sia dai risultati che) dalle intenzioni dichiarate di un partito preoccupato di tutt’altro (LGTB et similia).

Hobbes scriveva che concepire il futuro presuppone l’esperienza del passato “Un concetto del futuro è solo una supposizione circa il medesimo derivante dal ricordo di ciò che è passato; e noi, in tanto concepiamo che qualcosa avverrà di qui in avanti, in quanto sappiamo che c’è qualcosa al presente che ha il potere di produrla. E che qualche cosa abbia al presente il potere di produrre in avvenire un’altra cosa, non possiamo concepirlo, se non grazie al ricordo che esso abbia prodotto la stessa cosa già altra volta”. Ricordo che non è dei migliori.

Teodoro Klitsche de la Grange

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L’OSSESSIONE DELL’ASSOLUTO, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTA

Questo articolo era pubblicato sul BEHEMOTH” N. 48 del 2010. Dato che è
ripetuto spesso l’insieme delle illusioni di cui la tesi lì criticata fa
parte, pare opportuno ripubblicarlo per i lettori de “L’Italia e il mondo”

Teodoro Klitsche de la Grange

L’OSSESSIONE DELL’ASSOLUTO (*)

  1. Alcuni contributi, apparsi sulla stampa[1] sostengono una tesi tanto spesso ripetuta – ed altrettanto contraddetta – ovvero che credere in Dio fa si che l’assoluto esista in politica, che questa sia la condizione perché si configuri come necessario il rapporto (presupposto del politico) di comando-obbedienza e che anche il presupposto dell’amico-nemico derivi o almeno sia rinfocolato dalla credenza in Dio.

Nel fascicolo-supplemento di MicroMega Flores D’Arcais pone il problema, così sintetizzato: “Che Dio esista o non esista, tutto è permesso. All’incombere del nichilismo non possiamo sottrarci: questa è la condizione umana, perché l’uomo è il Dio della norma. Ma l’ateismo (metodologico, ovviamente) è la condizione di possibilità della morale e della politica, perché solo escludendo Dio dalla argomentazione e dalla decisione pubblica (etsi Deus non daretur), la creazione della norma comune può avvenire in forma democratica” Sostiene il direttore di “Micromega” che, contrariamente alla nota espressione di Dostoevskij “ Se Dio esiste… tutto è permesso perché il mondo è un’ordalia senza fine, dove giostrano e si scontrano (spesso a morte) profeti e sovrani del «Dio lo vuole» pretese inconciliabili di essere ciascuno l’ermeneuta esclusivo del Sacro… Se Dio esiste,  il destino della terra è il nichilismo di una eterna ordalia, dove tutto è permesso, e l’unica legge effettiva è il «vae victis». Se Hitler avesse vinto, il suo successo sarebbe suonato divina conferma della sua pretesa di avere «Gott mit uns»… Se Dio esiste, non vi può essere potere se non di Dio e da Dio. Se Dio esiste, tutto il dovere degli uomini si risolve nell’obbedirlo. Non può esistere un potere autonomo, poiché l’autos-nomos,  il  darsi da sé la propria legge, sarebbe solo ribellione contro Dio”; tuttavia  “anche se Dio non esiste, tutto è permesso, Senza Dio non c’è autorità trascendente alla cui legge obbedire: Ogni morale è possibile: Se Dio non esiste è inevitabile l’autos-nomos, ciascuno è legge a se stesso… Chi deciderà, allora, l’autos del nomos? La guerra la forza, il successo. Se Dio non esiste non vi è infatti alcun nomos che sia sovrumano. Se non viene da Dio e non fa tutt’uno con lui, la Grundnorm che regge l’intero edificio delle norme, per dirla con Kelsen e positivamente, è un fatto, una decisione”; per cui “ Che Dio esista o non esista, dunque, non si sfugge: tutto è permesso: Questa è la condizione umana ineludibile: L’uomo è l’animale a rischio di nichilismo. Questo rischio è la sua natura. E per affrontare questo rischio, o semplicemente per convincerci, l’esistenza di Dio è irrilevante. Ci sia un Dio o sia solo la nostra illusione, all’incombere del nichilismo non possiamo sottrarci, tutto è permesso, sempre e comunque: In altri termini: l’uomo è il creatore e signore della norma”.

In altre parole il richiamo alla divinità, contrariamente a quanto pensato da tanti, sarebbe fonte non di ordine, ma, semmai, di disordine: guerra, tirannide, oppressione. “Solo aver messo Dio tra parentesi, averlo estromesso dalla sfera pubblica, ha salvato l’Occidente dall’annientamento delle guerre civili”. E prosegue “La creazione della norma è creazione in senso proprio: ex nihilo. Che Dio esista o non esista, l’uomo è il Dio della norma. Non esiste una norma già data in natura. In natura esistono solo fatti, eventi. Essere, non dover essere. Essere il creatore della norma è invece il solo imperativo che la natura impone all’uomo”. Ma quale norma? “Una norma qualsiasi, purché funzioni. Tutte quelle che hanno funzionato e che funzioneranno nel garantire a homo sapiens sapiens periodi di sorpravvivenza sono perciò stesso leggi naturali, norme che obbediscono alla natura umana e la rispettano”. Ma tra queste leggi naturali, vi sono anche, e prima delle norme, quelle che regolano esistenza e funzionamento delle società umane. In particolare quelle che Miglio chiamava le “costanti del politico” e Freund, in un altro contesto, e con un significato parzialmente diverso, i presupposti del politico. Che sono insopprimibili: malgrado da oltre venticinque secoli gli uomini stiano immaginando società senza distinzione di amico/nemico, senza comando/obbedienza e senza pubblico/privato, non si ha notizia di alcuna società umana – se non (forse) quella di Robinson Crusoe con Venerdì – in cui non ci sia stato chi comanda e chi obbedisce, cosa è pubblico e cosa è privato, chi è amico e chi nemico. L’ultimo grandioso tentativo di realizzare un quissimile di tali ricorrenti illusioni è stato il marxismo-leninismo, con l’edificazione del socialismo reale nella prospettiva (futura)\ della “società senza classi”; collassato dopo qualche decennio per implosione, senza neppure una guerra (diretta e combattuta con mezzi militari) che ne provocasse la caduta. E’ caduto da se per rigetto spontaneo (come nei trapianti d’organo mal riusciti) da parte di quelle società umane dominate dalla classe dei “rivoluzionari di professione”.

La stessa sorte di Dio, scrive Flores, subiscono le altre, per così dire, ipostatizzazioni (la Natura, la Ragione, la Storia): tutte occultanti chi, sotto le stesse, cerca di presentare come “oggettive e cogenti le proprie convinzioni. Che, invece, se presentate in nome proprio, di individuo pensante e fallibile, sarebbero sottoposte” alla critica e perfino al compromesso. Verità assoluta quindi nel primo caso, opinione relativa nel secondo “Qui la convinzione più ferma e intransigente apre comunque i propri valori al dubbio, nel primo caso ogni tolleranza è sempre e al massimo concessione provvisoria… attribuire a Dio la propria opinione è delirio di onnipotenza, che maldestramente occulta il timore di non avere argomenti umani sufficienti”. Per cui  l’ateismo metodologico è la “condizione di possibilità della morale e della politica… Perché argomentare la norma sotto responsabilità propria, anziché in nome di Dio, non elimina il rischio del nichilismo morale (sempre incombente…) che accompagna ogni Logos che si pretenda assoluto”.

Quindi “Escludere Dio dalla argomentazione e dalla decisione pubblica è condizione essenziale perché la creazione della norma comune possa avvenire in forma democratica. Non a caso, demos-cratia implica che la legge può avere quale unico «fondamento» gli uomini stessi, la loro sovranità. E il disincanto del mondo che la precede”.

Tuttavia tale presupposto, cioè di rimettere alla decisione delle comunità umane la modellazione  delle istituzioni (e quindi, anche delle norme) era già nella dottrina del diritto divino provvidenziale, comune a buona parte della teologia cristiana.

Per la quale il potere costituente (come l’avrebbe denominato, secoli dopo, l’abbè Sieyès) è stato dato da Dio alle comunità umane e perciò queste hanno facoltà di darsi le istituzioni, i governanti e le leggi che vogliono. Non possono tuttavia violare la legge naturale. Ma su questa espressione bisogna intendersi: legge naturale non significa solo quella (positiva) data da Dio – come il Decalogo – ma anche quella dell’ordine delle cose. Ad esempio le comunità umane possono decidere di governarsi come aristocrazie piuttosto che democrazie, o come monarchie invece che “stati misti”, ma non di non darsi un[2] ordinamento politico, perché contrario alla natura dell’uomo (zoon politikon). Per cui non darsi un ordine politico non comporta di “uscire” dalla politica o dalla storia, ma soltanto che sarà un altro popolo (un’altra comunità o gruppo umano) a imporre quell’ordine, comandando e, all’occorrenza, identificando il nemico.

Continua Flores “La laicità, cioè la metanorma «etsi Deus non daretur», è dunque la precondizione, e la democrazia (il potere simmetrico di tutti e di ciascuno) è la chance effettiva per addomesticare lo spettro sempre incombente del nichilismo”.

E ateismo “significa semplicemente privarsi di Dio. Rinunciare all’Assoluto nello spazio pubblico, privarsi in esso sia di Dio che degli Idola che lo surrogano (Storia, Natura, Destino), significa esattamente assumere e praticare l’a-teismo metodologico quale virtù civica. Il comune orizzonte di valore cui siamo arrivati è dunque l’argomentazione razionale – e non un qualsiasi dogmatismo – come strumento della con-vivenza tra individui uguali. L’argomentazione, cioè i fatti accertabili più la logica. Solo su questa pietra di a-teismo metodologico e civico è possibile sottrarsi al baratro del relativismo nichilista”.

  1. Invero il ragionamento di Flores è contrario sia a ciò che hanno sostenuto i credenti (la fede in Dio è un elemento necessario dell’ordine) sia molti non credenti: i quali non hanno fede in Dio, ma considerano la religione utile instrumentum regni. Oltre a coloro che ritengono che, anche senza la fede in Dio, (ricorrendo cioè ai surrogati) l’assoluto è sempre presente nella politica (e nella storia).

Ed è questo l’aspetto che più interessa: In effetti Flores fa un ragionamento che presuppone (e crede) alla possibilità di costruire una politica senza Assoluto: ma questa credenza, tante volte ripetuta è, sul piano fenomenologico infondata e, peraltro, contraddittoria.

Fu avanzata durante (e dopo) la Rivoluzione Francese (ovviamente                                       non da tutti i rivoluzionari e pensatori borghesi) nella forma della “limitazione” alla sovranità, attribuita alla costituzione inglese; cui risposero, tra i primi, negli anni successivi sia de Maistre che de Bonald.

Il primo sostenendo “Ma quando i tre poteri che in Inghilterra costituiscono la sovranità sono d’accordo, che cosa possono fare? Bisogna rispondere con Blackstone: TUTTO. E che cosa si può fare legalmente contro di loro? NIENTE”; il secondo “ In uno Stato occorre sempre qualcosa d’assoluto, in difetto del quale non si può governare. Quando l’assoluto è nella costituzione, l’amministrazione può esser senza rischio moderata ed anche debole: ma quando la costituzione è debole, occorre che l’amministrazione sia assai forte”. Dimostrando così che il potere sovrano, cioè quello assoluto per definizione, non solo non può essere limitato ma non può esserlo perché verrebbe meno la condizione prima dell’unità (e dell’esistenza) politica. Né è da credere che anche “nell’altro campo” si pensasse, da molti, qualcosa di diverso: Sieyès faceva del potere costituente, assoluto, il modellatore della forma politica, di fronte al quale non c’è limite positivo: “La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto: La sua volontà è sempre conforme alla legge, essa è la legge stessa: Prima di esso e al di sopra di essa non c’è che il diritto naturale”. Lo stesso Kant formula il principio che “il sovrano nello Stato ha verso i sudditi soltanto diritti e nessun dovere (coattivo )”, in perfetta analogia col rapporto “dell’uomo con un ente che ha soltanto diritti e nessun dovere (Dio)”.

Essere “assoluto” in termini politici (e giuridici) significa proprio questo: avere solo diritti e nessun dovere. Per cui tutte le teorie che credevano di poter “limitare” la sovranità, cioè l’ “assoluto” politico finiscono per rivelarsi delle mere illusioni, magari seducenti, e persino, in una certa misura, da difendere e coltivare. Senza mai però prenderle troppo alla lettera e seguirle in ogni possibile  sviluppo perché in definitiva non portano da nessuna parte; e soprattutto non conducono a quella cui vorrebbero approdare.

In realtà rinunciare all’assoluto significa rinunciare al politico (e alla politica): questa richiede sempre la possibilità di conservare (e innovare) l’ordine comunitario; di fronteggiare le situazioni eccezionali, in primis (ma non solo) le guerre. Il detto romano Salus rei publicae suprema lex esprime precisamente il rapporto tra potere e legge (e norma), come tra potere ed ordine.

Proprio la storia del secolo passato ha dato infatti la più netta conferma che anche regimi  improntati all’ateismo ideologico (come il comunismo e il nazismo) non hanno potuto fare a  meno dell’assoluto politico (il partito, il politburò in un caso; il führer nell’altro): anzi hanno portato l’assolutismo alla sua forma più estrema e “potenziata”: il totalitarismo. Il che significa che anche credendo di eliminare l’Assoluto dalla metafisica (o negando la metafisica), non lo si elimina dalla politica. L’unica differenza è di aver sostituito la teologia con l’ideologia; e i teologi con gli ideologi. Anzi le stesse democrazie liberali, quando si trovavano in situazioni eccezionali prescrivono (e concedono) ai loro governi poteri eccezionali, come notava, tra molti, Sorokin: per cui nello stato d’eccezione tutti i governi diventano assoluti. Come sosteneva Hauriou, il potere di fatto non fa che rare apparizioni nei periodi di crisi o di “vacanza di legalità”; e non potendo avere un fondamento giuridico, si regge sul fondo (fond) metafisico o teologico. Perché l’uomo, come scriveva De Maistre, si trova tra due abissi: quello del dispotismo e quello, opposto, dell’anarchia. E realisticamente è questa la condizione (politica) umana, dalla quale è illusorio pensare di affrancarsi. Così le democrazie liberali, accanto ai principi dello Stato borghese, non solo si fondano su un principio politico “puro” (democratico, aristocratico e monarchico), ma si sono servite di un’ampia gamma di strumenti (organi straordinari; sospensioni, deroghe e rotture della Costituzione; misure d’emergenza, stati d’assedio) volti a contemperare l’aspirazione  alla libertà politica e  civile con la necessità , almeno in certi frangenti, di un potere assoluto (o comunque legibus solutus).

Vero è che Flores scrive di “ateismo metodologico” che appare essenzialmente come la rimozione di Dio dalla sfera pubblica, e, in tal senso, comportamenti pubblici etsi Deus non daretur: il che significa che nel privato uno può credere, purché non porti tale fede nei rapporti pubblici. Ciò vuol dire ritenere, quale punto fermo, quei valori di tolleranza e dialogo; tuttavia questi non assicurano che non vi sia necessità del comando, né possibilità del nemico. Anzi questi è, sicuramente, colui che non crede nella tolleranza e nel dialogo. Roosevelt e Churchill erano sicuramente “dialoganti” e “tolleranti” ma il tutto non impedì loro di distruggere con bombardamenti terroristici  Hiroshima e Dresda, Amburgo e Nagasaki, per debellare (“resa incondizionata”, che è proprio l’opposto del trattato di pace come inteso nello jus publicum europeaum) quei nemici che a quei valori (e procedure) non credevano. E qualcosa d’analogo accade nell’ordinamento interno. In politica e nelle comunità ordinate c’è sempre il momento dell’assoluto, di ciò che non è ulteriormente discutibile, quale oggetto (e conseguenza) di decisioni irrevocabili. Dal giudicato tra condomini (partendo dal basso) e risalendo fino agli atti espressione di sovranità (come quelli costituenti o dello stato d’eccezione, le rotture costituzionali e così via). In fondo aveva ragione Locke quando diceva che, in certi frangenti, non c’è che l’appello al cielo (quindi all’Assoluto). E ancor di più Vico nel sostenere, distinguendo tra certum e verum, che certum ab auctoritate, verum a ratione. La certezza richiede l’autorità, la verità la ragione, e non sempre, per così dire, coincidono: anzi, non coincidono spesso e, in ogni caso una comunità può prosperare senza verità assolute (la “religione ufficiale”, cioè pubblica), ma non senza certezze. E l’esigenza di queste porta, in ogni caso, al momento in cui la discussione cessa e la decisione interviene senza possibilità d’appello; in questo senso  assoluta.

E’ perciò appare quanto meno imprudente l’affermazione che passare all’”ateismo metodologico” significa realizzare (un elemento del) “disincanto” del mondo mentre invece appare, al contrario, un reincantamento, col sostituire all’assoluto un qualcosa che assoluto non è o si pensa che non lo sia, ma alla fine, per necessità, e magari suo malgrado, lo deve diventare.

  1. Di reincantamento, ancora, occorre a pieno titolo parlare quando Flores sostiene che se si consegna Dio (o, i di esso surrogati) alla sfera privata, a decidere le norme è ciascuno di noi.

Da una parte, a questa è sottesa l’antica aspirazione alla “legge senza comando” (cioè non eteronoma) dall’altra non è chiaro in che modo la teologia cristiana possa aver contrastato la concezione che la comunità possa darsi leggi positive. Anzi se si parte sia dal pensiero tomista che da quello di molte sette protestanti, è proprio il contrario: la dottrina del diritto divino provvidenziale è, secolarizzata, la base (forse principale) delle democrazie liberali, come notavano Hauriou e Carré de Malberg (tra gli altri). La teologia cristiana, nel presupposto della libertà di coscienza del cristiano, dell’autorità della legge divina, della distinzione tra potere temporale e spirituale, è stata il lievito della società e dello Stato moderno. Ad esempio Hauriou sintetizza così la dottrina teologico-politica dei tomisti e (poi) dei pensatori controrivoluzionari: “…La dottrina del diritto divino provvidenziale (de Maistre e de Bonald) secondo cui il potere, nel suo principio fondamentale fa parte dell’ordine provvidenziale del mondo, ma è a disposizione dei governanti mediante mezzi umani; questa dottrina permette altrettanto adeguatamente sia la giustificazione del potere minoritario, esercitato da un’élite, che del potere maggioritario, esercitato dalla maggioranza del popolo (vox populi vox Dei)”[3] per concludere “La teologia cattolica pone il primato della libertà umana: l’ordine divino si propone all’uomo per mezzo della grazia”.[4]

In effetti la concezione/integrazione di S. Tommaso all’originale frase di S. Paolo “Non est potestas nisi a Deo”, cui l’Aquinate aggiunse “per populum” è stata fondamentale per la secolarizzazione del potere e della “titolarità” della politica agli uomini, per di più con avallo divino.

Otto von Gierke, pur dando un’importanza decisiva alla teologia protestante per la formazione dello Stato moderno, non trascura la dottrina della Seconda Scolastica, e scrive che i più accaniti avversari della Riforma, “particolarmente i  Domenicani ed i Gesuiti impugnarono tutte le loro armi spirituali a favore di una costruzione puramente temporale dello Stato e del diritto di sovranità… Anche i maggiori teorici di questa tendenza sono d’accordo nel ritenere che l’unione statale abbia le sue radici nel diritto naturale, che in forza di questo spetti alla collettività associata la sovranità sui suoi membri, e che ogni diritto dei governanti provenga dal volere della collettività alla quale il diritto naturale attribuisce la facoltà e l’obbligo di trasmettere i propri poteri”[5]. Altri giuristi hanno condiviso questa impostazione[6].

Certo non si può dire altrettanto di altre religioni: non foss’altro perché, come scriveva Gaetano Mosca, per lo più non conoscono la netta distinzione tra potere spirituale e temporale: nella quale, si deve concordare con Flores (e con Mosca), consiste il primo fondamento della libertà. Ma questo è connotato peculiare del cristianesimo; estraneo a (quasi) tutte le altre confessioni religiose, e neppure del tutto estraneo al cristianesimo orientale (anche se moderatamente). Giustiniano si attribuiva, coerentemente alla visione cesaropapista, la cura di vigilare sui “vera Dei dogmata[7].

Quello che appare, parimenti, illusorio è il tentativo di risolvere l’eteronomia del comando (giuridico) nell’autonomia, “propria” di quello morale. Malgrado l’accenno al concetto funzionalistico (quindi tendenzialmente eteronomo) di norma, Flores poi pensa che tramite il voto (e il consenso) si raggiunga (o ci si avvicini) all’autos-nomos: il che è vero – in parte – ma, come al solito è necessario badare a non trarne le estreme conseguenze. Cioè credere che si realizzi la piena autonomia non foss’altro perché, per la minoranza dissenziente la norma promulgata dopo il dia-logos resta comunque eteronoma. E assoluta: perché Flores mette in guardia dalla “democrazia totalitaria” dal “dispotismo delle maggioranze”, e scrive giustamente che “la democrazia liberale nasce come correttivo e antidoto ai rischi di dispotismo della maggioranza. Il costituzionalismo esprime questo limite e questa sequenza con il nome di diritti dell’uomo inalienabili”.

Solo che quando si scrive di diritti inalienabili, intangibili, insopprimibili, inviolabili e così via, non si fa altro che scomodare… l’assoluto, perché significa che, in luogo della volontà sovrana, diventano assoluti quei diritti (e perciò non possono essere conculcati da quella, la quale, come scriveva, tra i tanti, Orlando, così diventa non più… sovrana).

L’assoluto tolto di qua, rispunta di là, come scriveva de Bonald (v. sopra). Cosa notata nello stesso fascicolo di Micromega da Vattimo il  quale scrive, peraltro, che dovrebbe chiamarsi nichilismo proprio la tesi di Flores del prender atto che la norma dipende solo da noi “anche per rispettare il «diritto» di Nietzsche che l’ha battezzato appunto così”. Il quale in “Umano, troppo umano” scriveva “Ma dove il diritto non è più, come da noi, tradizione, esso può essere solo imposto, solo costrizione; noi tutti non abbiamo più un senso tradizionale del diritto, perciò dobbiamo accontentarci di diritti arbitrari, che sono espressione della necessità che esista un diritto”.

Che esista un diritto è necessario e connaturale all’esistenza di un gruppo umano (ubi societas ibi jus), che sia “partecipato” e in certa misura “consensuale” è auspicabile ma non indispensabile all’esistenza del gruppo.

La quale è peraltro imperativo altrettanto assoluto nei regimi democratico-liberali che negli altri: tutti antepongono la salvaguardia dell’esistenza comunitaria a quella degli individui.

Persino la nostra Costituzione così irenica e politicamente emasculata scomoda il sacro e definisce “sacro dovere” del cittadino la difesa (e l’eventualità di morire) per la Patria, cioè per la comunità e l’unità politica: segno evidente di quale è la “scala” di priorità.

  1. Questa tesi della negazione dell’Assoluto metafisico, come necessità-presupposto per negare l’assoluto politico, è uno degli idola della modernità più ricorrenti (e più smentiti). Nell’essere ateo- anche se “metodologico”- s’intravede il desiderio di sentirsi indipendenti dal mondo e dalle costanti che regolano le società umane.

Fu accusato di ateismo un filosofo come Spinoza che, considerando comunque la grandiosità (e l’imprevedibilità) delle forze della natura,  la condensò nella formula “Deus sive natura” Il che significa non negare l’Assoluto ma toglierlo dal cielo, senza pertanto pretendere d’eliminarlo dalla terra. Per cui, in realtà l’”ateismo” moderno è, per lo più, alla fine, una sorta di panteismo, come sosteneva Donoso Cortés. Marx credeva di aver trovato la “soluzione dell’enigma della storia” col comunismo, clavis universalis  per l’interpretazione (ed il controllo) del mondo, almeno storico (economico e sociale). I fatti hanno provato che non era così: il comunismo è crollato senza aver , neppure alla lontana, realizzato il sogno della società senza classi, cioè l’uscita dell’uomo dalla storia. L’assoluto (Dio, la Ragione, la Storia) ha fagocitato (e poi rimosso) il colossale incidente storico costituito dal socialismo reale. Il quale è stato, peraltro e contraddittoriamente, quanto di più assoluto (politicamente) potesse essere realizzato.

V’è di più: ad analizzare la nozione di diritto naturale e di Nazione di Sieyès, il quale non fa che applicare le teorie giusnaturalistiche (da S. Tommaso a Spinoza) questo conferma che l’assoluto appartiene alla natura ed alla Storia e non è possibile agli uomini modificarlo: quod est naturale habenti naturam immutabilem, scriveva S. Tommaso. E Spinoza identificando potere e diritto (naturale): tantum juris quantum potentiae. Da cui deriva che dove non c’è potentia (non è concretamente possibile) non c’è neppure jus.

E per l’appunto, che possibilità c’è di indurre gli uomini ad essere atei metodologici, (che è come dire essere buoni, ragionevoli e così via) quando ancora oggi (tre secoli dopo l’illuminismo) non lo sono? Ed essere atei metodologici garantisce che non ammazzeranno il prossimo, tra l’altro, perché la pensa diversamente? Non c’è solo Osama da convincere a non uccidere qualche migliaio di civili, (tanto per ricordare chi è motivato dalla religione a condurre una guerra, senza limiti, e al quale un po’ di ateismo metodologico farebbe bene); ma anche i coreani, i tutsi e gli huto, l’Eta, gli osseti e i ceceni, i kosovari e i serbi e così via.

Tutti conflitti che non hanno alcun motivo riconducibile alla religione, ma piuttosto, e per lo più, a quello di costituire una propria unità politica su basi etniche e/o nazionali. E sarebbe un elenco sterminato citare tutte le guerre del passato fatte per ragioni non teologico-religiose, ma molto terrene: da quelle che Flores identifica come surrogati dell’Assoluto (Razza, Partito, ecc.) a quelle che con l’assoluto avevano assai poco da spartire: in particolare quelle fatte per il vile denaro (in questo caso promosso ad “assoluto”) o per interessi di potenza ovvero di (mera) conservazione della propria esistenza. Ma appena c’è guerra fa capolino, anzi interviene a vele spiegate, l’assoluto. É per questo de De Maistre sosteneva che “la guerra è divina in se stessa, perché è una legge del mondo”[8]. Lo stesso per la sovranità, assoluta per definizione: perché non dipende dalla volontà umana, ma dalla necessità naturale (e storica) il vivere in società ed essere governati[9]. Per cui l’assoluto esiste nella natura e nella storia, sulla terra anche se (forse) non in cielo. E dato che esiste, nelle forme più varie e non solo in quelle che ricorda Flores, è necessario tenerne conto; almeno quanto è illusorio pensare di aver trovato rimedi – mai sperimentati – contro le avversità (e le scomodità) della natura e della storia.

L’aspirazione ad eliminare l’assoluto dall’universo politico-giuridico è comunque pervicace nella modernità. Per tentare di realizzarla si sono seguite principalmente due vie, che presuppongono ambedue una concezione dell’uomo che le colloca – sotto il profilo morale o intellettuale- in una visione ottimistica. La prima è che possa formularsi un progetto razionale di organizzazione della società che permetta di risolvere (o addirittura d’impedire) l’insorgere dei conflitti; l’altra che comunque l’uomo abbia dei caratteri positivi tali (razionalità, bontà, perfettibilità – l’elenco più lungo lo fa Carl Schmitt nel Der begriff des politischen) da poter accettare quel progetto, realizzarlo e conservarlo.

Flores ha “scoperto che l’ateismo metodologico è consustanziale alla democrazia liberale, ed entrambi mettono capo all’individuo realmente esistente come soggetto di potere/libertà. Solo queste scelte di valore consentono di affrontare conflitti altrimenti irrisolvibili nel pluralismo di una società multiculturale”. Nella realtà occorre che gli individui realmente esistenti  siano d’accordo su quelle scelte di valore (e d’istituzioni conseguenti). E con ciò si ritorna all’origine: se non sono d’accordo, riemerge l’assoluto: o come guerra (assoluta o meno, non importa, perché  in ogni caso, significa che tale soluzione non elimina il conflitto); o come potere (largamente) “eteronomo“ e irresistibile, che assicura l’ordine intracomunitario. Il difficile è convenire su quella determinata scelta di valori (e d’istituzioni e norme conseguenti): non foss’altro perché, come scriveva Weber, il mondo dei valori è “politeista” onde non produce unità, ma conflitti. “Tra i valori, cioè, si tratta di ultima analisi, ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra «dio» e il «demonio». Tra di loro non è possibile nessuna relativizzazzione e nessun compromesso”. Per promulgare norme condivise, occorre che vi sia un “fondo” unitario, quello che per la nazione Renan identifica con il sentimento dei sacrifici compiuti e di quelli che si è ancora disposti a compiere insieme. E cioè la volontà di vivere in comunità[10] Per cui quel che conta è che i valori di riferimento (e ancor più le radici comuni) non siano così configgenti e divaricate da non permettere un compromesso. Una comunità di credenti nella medesima religione, con la medesima lingua, costumi e diritto simili è assai più unita e gestibile di un’altra divisa tra atei e credenti, parlante tre o quattro lingue diverse, con consuetudini e diritti configgenti. È l’omogeneità (tra e) degli individui esistenti in una comunità a determinare – in gran parte – la possibilità di operare col massimo dei consensi. La disomogeneità, il pluralismo delle culture compresenti lo rende assai più difficile se non impossibile. Tant’è che spesso, per quelle differenze, unità politiche si frantumano o non possono costituirsi.

Sarebbe certo auspicabile che palestinesi ed israeliani potessero passare sopra alle differenze di religione, di cultura, di consuetudini, di diritto, al sentimento ostile cresciuto in quasi un secolo di scontri, e agli interessi in contrasto, convertendosi all’ateismo metodologico e costituire così un ordinamento comune. Anche se ragionassero etsi deus non daretur resterebbero quei macigni a separarli e mantenerli due popoli distinti. La cui possibilità di raggiungere la pace è conservare le distinzioni e organizzarle in due unità politiche: cioè in due Stati. Che proprio per essere omogenei saranno, come è Israele, e con tutta probabilità sarà il futuro Stato palestinese, largamente confessionali. E lo stesso è accaduto, limitandoci al secolo scorso, per tutti quei tentativi di far convivere in una stessa unità politica popoli distinti per religione, ma anche per (tanti) altri motivi: ad esempio gli irlandesi cattolici, “secessionisti” dall’unità politica con la Gran Bretagna; o la maggioranza arabo-berbera dell’Algeria, determinata a non essere l’outremer della Francia; o i popoli delle (defunte) URSS e Iugoslavia, diversi (a tacer d’altro) per lingua e/o razza e/o religione. E si potrebbe continuare a lungo in questa enumerazione.

Ma perché è così difficile far convivere in uno stesso ordinamento popoli che si sentono diversi per le ragioni più varie? La risposta probabilmente la dette due secoli fa De Maistre, che, criticando la dichiarazione dei diritti dell’uomo (e i progetti e le idee) della Costituzione francese del 1795, scriveva di non aver mai conosciuto in tutta la sua vita l’uomo, ma solo francesi, tedeschi, italiani, russi. Gli è che le differenze sono concrete e appartengono al mondo reale di ciò che esiste; l’ateismo metodologico, come tante altre simili, a quello delle idee.

I romani, veri maestri nell’arte dell’integrazione, come riconoscevano loro stessi da Cicerone nella Pro Balbo a Tacito negli Annales[11], praticavano il sistema d’integrare nella cittadinanza romana e poi nella classe dirigente i capi delle popolazioni sottomesse; di portare i loro dei nel Pantheon (come elemento rappresentativo-simbolico della pax deorum); di rispettarne al massimo possibile le consuetudini e il diritto. Solo così – e dopo parecchi secoli – l’orbis divenne urbs, pur mantenendo i propri dei; adorando Serapide o Mitra, Sol invictus o Tanit, ciascuno era, civis romanus governato dallo stesso potere imperiale, nella medesima unità politica (e indubbiamente il raggiungimento di questo traguardo fu agevolato dalla tolleranza del politeismo).

Quell’unità che è funzione dell’assoluto politico: ed è stata soddisfacentemente (e storicamente, al meglio) realizzata con lo Stato moderno (che nella sovranità ha  il “proprio” essenziale)

In questo le tesi di Flores appaiono emblematiche di un liberalismo (parziale ed) estenuato (perciò decadente). Parziale perché scambiano i principi dello Stato e della democrazia borghese (come fatto all’art. 16 della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789) per l’alfa e l’omega del pensiero politico (e istituzionale) liberale. Mentre lo Stato borghese è il risultato della combinazione (almeno) tra uno (o più) principi politici (democrazia, aristocrazia, monarchia) costitutivi del potere, con quelli liberali (di limite al potere). Peraltro il liberalismo si regge su una concezione “problematica” dell’uomo: la quale se non arriva al pessimismo antropologico della teologia protestante presuppone comunque l’uomo peccatore, soggetto a traviamenti della volontà (e ad errori). Onde la necessità della Costituzione liberale è stata esposta nel più chiaro dei modi da Madison nel Federalista: se gli uomini fossero angeli, non ci sarebbe alcun bisogno di un governo; se a governare fossero gli angeli non sussisterebbe la necessità di controllo sul governo, ma dato che gli uomini non sono angeli, sono necessari i governi e i controlli sui governi.

Questa concezione antropologica corrisponde esattamente a quella tomista che reputa necessario il governo, ma controllabili (dalla comunità) i governanti, proprio perché uomini come tutti gli altri[12]

Per cui appare contrario ad un approccio realistico (e fenomenologico) alla politica l’affermazione di Flores che l’individuo “non la comunità è il soggetto la cui insopprimibile libertà dev’essere tutelata dalla Costituzione liberale”. Mentre, di sacro c’è, tra l’altro anche nella nostra Costituzione, come scritto, solo il dovere di difendere e (anche) di morire per la patria (art. 52). Perché anche le Costituzioni liberali non hanno appreso quella lezione e fanno come tutte le altre. E per fortuna: se le democrazie liberali avessero avuto la convinzione che Flores attribuisce alla “costituzione ideale” liberale, ora saremmo tutti inquadrati a cantare, marciando, die Fahne hoch o l’Internazionale. Peraltro Flores ne è, fino a un certo punto, consapevole (e lo scrive); ma il lettore s’interroga se non faccia parte dell’armamentario delle utopie – e degli idola – di certa modernità contestare la realtà delle cose enfatizzando certi aspetti particolari, magari encomiabili e condivisibili, ma comunque relegati in seconda fila e praticabili solo in situazioni normali. Perché a metterli davanti, ad anteporli, ad assolutizzarli (sempre e dovunque) c’è la sicurezza di distruggere il tutto: quel tutto di cui non è colta l’essenza, col rifiutare un’analisi fenomenologica e non assiologica della realtà.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

(*) Questo articolo è la rielaborazione di un intervento già pubblicato nel 2009 sul sito “Politicamente.net”.

[1]  V. il fascicolo (supplemento) Micromega di ottobre 2008 “Dio, nichilismo e democrazia”, v. anche, di recente, l’intervento di G. Zagrebelsky su Repubblica del 14/10/2010 (La neolingua di Berlusconi)

[2] Sul punto ci permettiamo rinviare a quanto scritto in Diritto divino provvidenziale e dottrina dello Stato borghese in Behemoth n. 41, pp. 25 ss.

[3] V. M. Hauriou Précis de droit constitutionnel Paris 1929 p. 29 ss. ( i corsivi sono nostri) ; v. sul diritto divino provvidenziale J. Barthélemy e Paul Duez Traité de droit constitutionnel Paris 1929 p. 67 ss. ; R. Carré de Malberg Contribution à la théorie generale de l’État Paris 1929, Tome 2° p. 149 ss.., v. Anche (meno diffusamente) A. Esmein Eléments de droit constitutionnel français et comparé. Paris 1914 p. 281 e 283 ; L. Duguit L’État, le droit objectif et la loi positive, Paris 1901.

[4] Ma anche in diversi documenti e scritti della teologia politica protestante è ribadito il concetto della potestas “costituente” del popolo.

[5] v. Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien (i corsivi sono nostri) , trad. it. Torino 1974 pp. 69-71.

[6] Tra gli altri ricordiamo Barthélemy-Duez op. cit. p. 68 « Si enfin Saint Paul a dit : « Omnis potestas a Deo », les théologiens ont indiqué le sens de cette parole en ajoutant : « per popolum ». Le pouvoir, qui est de droit divin, appartient au peuple : c’est la thèse de Sain Thomas, de Bellarmin, de Suarez.

[7] Novella VI “Quomodo oporteat”.

[8] Soirées de Saint-Pétersbourg, trad. it. 1971, pp. 399 ss. E lo argomenta in vario modo ripetendo « la guerra è divina ». Proudhon lo apprezzava scrivendo che proprio per il fatto di dichiararne l’essenza divina, e così misteriosa, dimostrava di averci capito qualcosa. La guerre et la paix, trad. it., Lanciano 1974, p. 51.

[9] Du Pape, Lib. II, cap. 10: “L’uomo dovendo dunque vivere necessariamente in società e necessariamente essere governato, la sua volontà non conta nulla nell’instaurare il governo; perché dal fatto che i popoli non hanno la scelta e che la sovranità risulta direttamente dalla natura umana, neanche i sovrani esistono per la grazia dei popoli: la sovranità non essendo effetto della loro volontà che la stessa esistenza sociale”.

[10] E prosegue “Abbiamo scacciato dalla politica le astrazioni metafisiche e teologiche. Cosa resta, dopo? Restano l’uomo,  i suoi desideri” E. Renan Qu’est-ce que une nation, trad. it., a cura N. Iannello e C. Lottieri, Treviglio 1996, p. 18. Anche Renan pensava di aver liberato la politica della metafisica e della Teologia. Solo lo faceva sulla base del sentimento comunitario, della storia, della volontà umana, e non della possibilità di darsi una legislazione comune. La quale presuppone quella, e non ne è il presupposto.

[11] Per Cicerone Pro Balbo, capp. VIII-XI; per Tacito il discorso, che riporta, di Claudio per l’ammissione al Senato delle grandi famiglie galliche Annales XI, 24.

[12] Diversamente da come succede nella dottrina del diritto divino soprannaturale, la quale nega il diritto di resistenza, il potere costituente del popolo (e quindi il tirannicidio). Probabilmente espressa per la prima volta, dall’Ambrosiaster nel commento dell’Epistola ai Romani, “L’apostolo chiama uomini di comando (principes) quei re che vengono eletti per migliorare il modo di vivere e proibire quanto è contrario al bene, avendo in sé l’immagine di Dio, affinché tutti siano sottoposti a uno solo”, quindi ripresa successivamente (tra gli altri) da Lutero e da Bossuet; anche se comunque, essendo per il cristianesimo l’uomo comunque peccatore anche il governante è tale, e quindi la dottrina in esame, va intesa nel senso che il governante non ha giudice su questa terra (non è soggetto al giudizio di altri uomini).

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Hjalmar Schacht, Magia del denaro, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Hjalmar Schacht, Magia del denaro, Oaks Editrice 2023, pp. 310, € 24,00.

Il nome di Hjalmar Schacht dice poco al lettore italiano contemporaneo (a meno che non sia uno storico dell’economia): banchiere, finanziere, commissario per la moneta (1923), Presidente della Reichsbank, Ministro delle Finanze e dell’Economia nazionale di Hitler. Dimessosi da Ministro, nel 1944 fu incarcerato perché sospetto di aver avuto contatti con i congiurati del 20 luglio e, poco tempo dopo – giudicato per crimini di guerra (e assolto) dal Tribunale di Norimberga.

Il suo prestigio era tale che continuava, nel secondo dopo guerra ad ispirare le riforme economiche e finanziarie nella Germania occidentale, e fare il consulente di altri Stati. Quale “tecnico” dell’economia, operò e collaborò con governi di quattro “formule politiche” (scriverebbe Gaetano Mosca): l’Impero guglielmino, la repubblica di Weimar, il regime nazista e la repubblica federale. Il fatto che abbia goduto di fiducia e considerazione pluripartizan è la conferma delle sue capacità fuori dal comune; e dei risultati conseguiti. Pertanto, in un periodo storico come l’attuale, turbato da crisi la cui soluzioni e – almeno in Italia – e secondo la comunicazione mainstream – dovrebb’essere “tutto il potere ai tecnici”, è quanto mai opportuna la ri-pubblicazione di questo libro. Non foss’altro per rendersi conto della differenza tra Schacht e qualche insegnante promosso a governare in Italia “per fare i compiti a casa”.

In effetti Schacht appare come  risolutore di crisi economiche. Tante ne dovette affrontare nella sua carriera di banchiere pubblico, e fu decisivo per superarle.

Dall’inflazione  del marco all’inizio degli anni ’20 al pagamento delle riparazioni imposte a Versailles, dal pagamento del debito estero alla grande crisi del ’29.

Scrive Schacht “problemi, come quelli che il periodo 1920-1940 ha sollevato, non sono apparizione sporadica ma che, invece, di tempo in tempo, tornano a presentarsi nella medesima forma o in un ‘altra simile”. In effetti problemi non troppo dissimili si sono presentati in questo secolo, anche in forma diversa e spesso attenuata dallo sviluppo  del Welfare State dopo la crisi del ’29. Quello che il grande banchiere non ha mai dimenticato è che la moneta e la banca si reggono sulla fiducia e quindi sulla responsabilità del banchiere nell’erogare il credito “Alle false strade della politica monetaria appartiene l’assunzione di crediti quando sulla possibilità della loro restituzione non ci si dà, con eccessiva leggerezza e irresponsabilità, alcun pensiero”.

Emerge così dal libro quella che si può definire l’etica di ruolo del banchiere, soprattutto del banchiere centrale. Non bisogna dimenticare come Schacht, il quale con la sua genialità aveva contribuito a finanziarie la ripresa degli anni ’30 e il riarmo della Germania, si dimise nel 1937 da Ministro quando si accorse che la politica hitleriana avrebbe portato la Germania alla distruzione (e quindi all’insolvenza). Nelle ultime righe Schacht scrive “È sempre la magia del denaro a porre problemi. Problemi che cambiano sempre e per i quali, dobbiamo rendercene conto, non esiste un sistema risolutivo valido genericamente. Ogni nuova situazione richiede nuovi metodi, nuove intuizioni, nuove idee. Alla base di tutto, comunque, deve esserci sempre e soltanto questa considerazione: mantenere in buona salute la moneta tedesca”.

Un libro da non perdere anche per capire e valutare l’oggi.

Teodoro Klitsche de la Grange

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ALLA C.P.I. MANCA L’ISPETTORE GINKO, di Teodoro Katte Klitsche de la Grange

ALLA C.P.I. MANCA L’ISPETTORE GINKO

La notizia che la Corte Penale Internazionale ha spiccato un mandato d’arresto nei confronti di Putin non è inaspettata: è un altro tassello della tendenza, tutta moderna (ma non solo) a confondere la politica con il diritto, e segue l’altra simile, di confonderla con la morale.

Altri exploits del genere, come quando anni orsono, alla Corte erano intenzionati a procedere nei confronti dei funzionari USA per gli abusi sui detenuti a Guantanamo, furono respinti  dall’allora amministrazione USA come pericolosi e irresponsabili. Ci sarebbe tanto da scrivere su quella confusione, sulla funzione della politica e sul carattere del “trasgressore”, il quale in politica è il nemico, nel diritto penale il reo. Mi limito ad alcune breve considerazioni.

La C.P.I. nacque, per così dire, zoppa: ad onta delle grandi manifestazioni di giubilo che ebbe in Italia quando fu istituita, si capiva che non avrebbe avuto vita e azione facile dal fatto che tutti gli Stati che avevano maggiori possibilità di trasgredire la normativa applicanda, si erano ben guardati dal ratificarne il trattato istitutivo: Russia, USA, Cina, Turchia, India, molti paesi arabi ed Israele. Oltretutto il fatto che la C.P.I. fosse competente a giudicare del “crimine di aggressione” giovava a tenerne lontani tutti gli Stati che avevano intenzione non solo di farla, ma anche di essere coinvolti in una guerra (v. sopra), anche se (talvolta) non aggressori.

In secondo luogo: la C.P.I. non ha una forza pubblica che ne esegua le decisioni, attività rimessa alla cooperazione degli Stati. Ovviamente poco intenzionati a farlo ove a subirle fossero politici e funzionari degli stessi. Da qualche secolo il carattere distintivo (e intrinseco) del diritto è di essere applicato con la coazione. Come scriveva Kant “al diritto è immediatamente connesso, secondo il principio di contraddizione, la facoltà di costringere colui che lo pregiudica” per cui “Diritto e facoltà di costringere, significa dunque, una cosa sola”. Lo Stato moderno, che ha rivendicato a se il monopolio della violenza legittima (e della decisione politica) è l’istituzione che ha assunto la funzione di applicare il diritto esercitando il monopolio della coazione. Ma se, come nel caso delle decisioni della C.P.I., per essere eseguite sono rimesse al bon plaisir degli Stati, il problema reale è quello di convincerli o costringerli a farlo. Col che il tema della forza, apparentemente uscito dalla porta, rientra dalla finestra. E in effetti i casi di applicazione di indagini e decisioni della C.P.I. concernono ex governanti di Stati falliti o convinti, magari con qualche previo bombardamento di persuasione, a farlo.

Così come avvenuto per il processo di Slobodan Milosevic (e altri) dell’analogo (alla C.P.I.) Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia. Ma, data l’altissima improbabilità che la decisione venga eseguita, quali effetti può avere? Quelli più facilmente prevedibili e di contribuire col timbro della C.P.I. alla criminalizzazione di Putin, cioè del nemico, e, quindi forse, a rinfocolare il sentimento d’ostilità – per la verità non imponente – dei popoli della “coalizione anti-russa” nei confronti dell’arcidiavolo del Cremlino.

L’altro, connesso, è che criminalizzare il nemico, se può soddisfare la vittima ha in genere l’effetto di intensificare e prolungare la guerra. E qua passiamo ai caratteri distintivi tra “politico” e “diritto” e alle regole che derivano dalle differenze.

La prima delle quali è che, come scriveva Hegel, “non c’è il Pretore tra gli Stati”; non essendoci un’istituzione terza (il “Pretore”) in grado di costringere i belligeranti, l’unica possibilità è che un  terzo/i volenteroso/i e soprattutto equidistante/i, si offra di arbitrare il conflitto, anche prospettando sanzioni in caso negativo o benefici in quello positivo. Ma questo terzo/i è in genere un altro Stato: e nel caso che tutti gli Stati che finora hanno manifestato (o realizzato) di voler mediare (la Cina) o raffreddare le ostilità (come la Turchia per le esportazioni di cereali) sono Stati che, avuto riguardo (soprattutto) al loro interesse sono, intervenuti in tal senso. Cioè a mediare: non Tribunali istituiti per condannare

La seconda è che il nemico in politica non è un criminale: e tale distinzione (già nel Digesto) non è dovuta tanto ad un disprezzo per regole, leggi, norme, quanto alla considerazione realistica che, essendo l’ostilità e i conflitti coessenziali alla politica, il nemico non è solo colui con cui si fa la guerra, ma anche quello con cui si tratta la pace. A meno di non volerne la distruzione totale, come entità politica se non fisica; come nel caso di resa incondizionata e successivo processo quale criminale di guerra. Ma una tale prospettiva è tutt’altro che incentivante la pace. Un bel  processo e un’esemplare condanna, sono poca cosa rispetto ai tanti danni che proseguire un conflitto provoca. Un morto in più, prima della guerra, come detto da millenni da Plotino (il “visir” di Tolomeo perorante l’uccisione di Pompeo) fino ad un ex Presidente del Consiglio italiano qualche giorno fa, può evitarne anche decine di migliaia, se eseguito prima o durante la guerra. Ma nessuno, a guerra conclusa.

Alessandro Campi, Il fantasma della Nazione. Per una critica del sovranismo, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Alessandro Campi, Il fantasma della Nazione. Per una critica del sovranismo, Marsilio Editore, Venezia 2023, pp. 205, € 15,00.

Diversamente da quanto più frequentemente si legge, questo saggio formula una critica al sovranismo, che è scientifica e lungimirante. Al contrario, per l’appunto di quanto raccontato nei media maenstream, dove a parlare di Nazione è regola pronunciare formule (e termini) esorcizzanti, e ancor più fare una gran confusione: tra Cavour e Mazzini da una parte e Alfredo Rocco e Enrico Corradini dall’altra (per non parlare di Mussolini). Ovvero tra il sentimento patriottico del risorgimento e quello dei nazionalisti e del fascismo.

Il primo – tra i non pochi pregi del libro – è così rimettere a posto significati, definizioni (e appartenenze). Tanto per fare un esempio il sentimento (nazionale) risorgimentale era quello di una Nazione che voleva costituirsi in Stato, di guisa da non dipendere dagli altri Stati, di gran lunga superiori agli Stati pre-unitari per popolazione, territorio, risorse, per cui era una rivendicazione di indipendenza ed autonomia. Mentre il nazionalismo dei Rocco e Corradini era una rivendicazione di potenza nei confronti di altri popoli – coloniali soprattutto. Il primo era difensivo, il secondo d’aggressione: distinzione essenziale che ancora gli ideologi del pensiero unico non riescono (o non vogliono) afferrare.

Particolarmente interessante è il pensiero di Campi sul rapporto tra destre e nazione, visto (anche) i diversi – e talvolta opposti – modi di declinarlo. In Italia, scrive Campi “quello tra destre (al plurale) e nazione è stato un rapporto per certi versi ambiguo e controverso, discontinuo e accidentato, fortemente rivendicato sul piano ideale quanto scarsamente produttivo su quello politico, che ha finito per generare un nazionalismo-patriottismo più che altro sentimentalistico e retorico, letterario, estetizzante e occasionalistico, come tale incapace di definire una chiara visione degli interessi nazionali dell’Italia… Potremmo dire che la nazione-mito, facile da invocare sul piano della propaganda e in chiave di mobilitazione politica, ha prevalso a destra sulla nazione-progetto, intesa come realizzazione nel concreto della storia di un disegno politico collettivo o comunitario”. Onde la destra italiana, non sembra “sia mai riuscita a elaborare una dottrina nazionalistica coerente e organica in grado di saldare il richiamo all’idea di nazione con un forte senso dello Stato e di tradurre quel richiamo sul terreno della progettualità politica”. A intenzioni “buone” hanno corrisposto spesso risultati modesti o addirittura pessimi. Tralasciando, per ragioni di spazio, tutte le interessanti analisi di Campi sul rapporto con la Nazione delle varie destre (risorgimentale, nazionalista, fascista, della prima repubblica, della seconda), veniamo all’attualità.

Nel presente la concezione di destra della Nazione, o meglio dello Stato nazionale “è la forma politica che assume l’identità collettiva di una comunità interessata a mantenere la propria integrità contro chi la insidia”. In effetti, scrive l’autore “la prima cosa che colpisce nel sovranismo populista, nelle diverse declinazioni che ne sono state offerte dalla politica italiana recente, è il suo carattere meramente difensivo e reattivo”. Se questo costituisce un pregio rispetto alle declinazioni “aggressive” del nazionalismo, ha il difetto di suggerire “un ripiegamento a difesa di ciò che si ha e di ciò che si è, soprattutto di ciò che si teme di perdere. Il sovranismo, in altre parole, è una dottrina della decadenza, è il nazionalismo dei popoli stanchi”. Oltre che l’altro difetto di commettere imprudenze in politica estera. Per cui “Più che una dottrina politica o un progetto ideologico, il sovranismo, come spesso viene declinato soprattutto dalla nuova destra di Salvini e Meloni, può dunque essere considerato un espediente politico-psicologico, grazie al quale si offre un antidoto momentaneo e provvisorio alla paura e all’incertezza in cui oggi si trovano molti individui e interi strati sociali”. Infatti manca il progetto che costituisca una realistica visione del domani. Malgrado la Nazione, sostiene Campi nelle ultime pagine, sia tutt’altro che “obsoleta” e superata. Lo dimostra come possa coniugarsi con la democrazia e il pluralismo “L’unità della nazione, assunta come presupposto del pluralismo, è dunque ciò che consente agli attori di una democrazia di dividersi senza il timore che la comunità si disgreghi o scivoli sul terreno di un conflitto aperto e letale. Questa connessione tra democrazia e nazione viene spesso sottovalutata dai critici di quest’ultima. Mentre invece rappresenta una interessante scommessa per il futuro”.

Due note a conclusione. È inutile ricordare come il saggio, come in genere, l’opera di Campi sia ispirata al pensiero politico realista, molto spesso rigettato (o demonizzato) dal “pensiero amico”.

Secondariamente se è vero che la Nazione nelle “vecchie” concezioni delle varie destre italiane si è per lo più manifestata in declamazioni roboanti e risultati modesti, onde non è confortante per il futuro, è anche vero da un lato che i sovranisti-populisti praticamente non sono mai andati al governo se non con il Conte 1 nel 2018 e poi da qualche mese con la Meloni, onde si può sperare che col tempo possano realizzare, almeno in parte, quanto promesso.

Anche perché, purtroppo, la situazione italiana ha raggiunto il fondo del barile nel decennio trascorso (il peggiore della pur cattiva “seconda Repubblica”). Il che da ai sovranisti un compito assai difficile, simile a quello descritto da Machiavelli nell’ultimo capitolo del Principe: di risollevare un popolo impoverito (e così anche indebolito) da élite politiche (e istituzioni) decadenti. E che soprattutto per questo da quasi dieci anni da un consenso maggioritario (intorno al 55-60% dei voti espressi nelle elezioni succedutesi) agli avversari di quelle élite. Operare meglio delle quali non è impossibile, fare un miracolo sì.

Teodoro Klitsche de la Grange

DIRITTO DIVINO PROVVIDENZIALE E DOTTRINA DELLO STATO BORGHESE, di Teodoro Klitsche de la Grange

DIRITTO DIVINO PROVVIDENZIALE

E DOTTRINA DELLO STATO BORGHESE

  1. E’ tradizionale nella dottrina del diritto francese, di uno Stato formato da otto secoli di monarchia, iniziare la trattazione dei poteri pubblici dalla giustificazione teologica del potere stesso[1]. A cui si fa seguire l’esposizione della teoria del diritto divino e la distinzione tra “doctrine du droit divin surnaturel” e “doctrine du droit divin providentiel” attribuendo l’affermazione della prima ai Re di Francia (Barthélemy – Duez) e particolarmente a Luigi XIV e Luigi XV, ovvero a Bossuet (Hauriou); mentre per la seconda l’attribuzione è concorde a de Maistre e de Bonald[2]. La distinzione tra le due concezioni è così esposta da Hauriou: “La dottrina teologica ha avuto due forme successive in Francia: 1) la dottrina del diritto divino soprannaturale (Bossuet) che consiste nel sostenere che Dio stesso sceglie i governanti e l’investe dei loro poteri: questa concezione è compatibile solo con la monarchia assoluta; 2) La dottrina del diritto divino provvidenziale (de Maistre e de Bonald) secondo cui il potere, nel suo principio fondamentale fa parte dell’ordine provvidenziale del mondo, ma è a disposizione dei governanti mediante mezzi umani; questa dottrina permette altrettanto adeguatamente sia la giustificazione del potere minoritario, esercitato da un’élite, che del potere maggioritario, esercitato dalla maggioranza del popolo (vox populi vox Dei)” e prosegue sottolineando i vantaggi di questa seconda teoria: 1) di significare che l’istinto del potere è nella natura umana, e in tal senso, pre-sociale; 2) di collocare l’origine del potere al di sopra sia della collettività sociale, sia del diritto dei governanti, sia di chiunque: ossia di non portare a nessun assolutismo; è la più propizia alla libertà; 3) provenendo da Dio il potere è per natura orientato verso la ragione, la giustizia ed il bene comune.

E soprattutto come appare dal contesto sistematico di tali considerazioni, permette di ricollegare pouvoir de fait e pouvoir de droit, di “aprire” cioè il diritto ai mutamenti della storia. In un senso più specifico, di fondare il potere costituente (umano) al di sopra della stessa costituzione. Barthélemy e Duez sostengono, del pari, che la dottrina del diritto divino provvidenziale non è necessariamente aristocratica o monarchica, perché ogni uomo o classe può essere scelto dalla Provvidenza per eseguire i propri disegni: quindi non è contraria alla democrazia[3]. Sia Barthélemy che Carré de Malberg considerano la dottrina del diritto divino provvidenziale come già formulata da S. Tommaso e seguita dalla maggior parte dei teologi cattolici[4].

Tale concezione tuttavia non è considerata da tutti i giuristi un “antecedente” della democrazia moderna. Jellinek, nello scrivere della democrazia – e delle repubbliche – moderne le ricollega alle concezioni della Riforma, in particolare a quelle calviniste[5]. Otto Von Gierke ritiene che fu “la Riforma a far rivivere con nuova energia il pensiero teocratico. Attraverso tutte le differenze delle loro concezioni, Lutero, Melantone, Zwinglio e Calvino concordano nell’insistere sulla funzione cristiana e quindi sul diritto divino dei governanti. Anzi, dato che per un verso sottomettono più o meno decisamente allo Stato il dominio della Chiesa e per l’altro legittimano l’esistenza dello Stato in base all’adempimento dei suoi doveri religiosi, essi conferiscono al principio di S. Paolo omnis potestas a Deo una portata fino allora sconosciuta”. Tuttavia non trascura la dottrina della Seconda Scolastica, e scrive che i più accaniti avversari della Riforma, “particolarmente i  Domenicani ed i Gesuiti impugnarono tutte le loro armi spirituali a favore di una costruzione puramente temporale dello Stato e del diritto di sovranità” (anche per sostenere la tesi della potestas indirecta implicante una limitata subordinazione dello Stato alla Chiesa) “Lasciando però fuori causa i rapporti con la Chiesa, essi svilupparono in effetti una dottrina dello Stato scevra di qualsiasi presupposto dogmatico, su fondamenti puramente filosofici: Questo vale non soltanto per gli autentici monarcomachi di questo gruppo: Anche i maggiori teorici di questa tendenza sono d’accordo nel ritenere che l’unione statale abbia le sue radici nel diritto naturale, che in forza di questo spetti alla collettività associata la sovranità sui suoi membri, e che ogni diritto dei governanti provenga dal volere della collettività alla quale il diritto naturale attribuisce la facoltà e l’obbligo di trasmettere i propri poteri”[6]

Carl Schmitt sostiene  “Secondo la concezione medievale solo Dio ha una potestas constituens, per quanto di questa si possa parlare: La frase:” Ogni potere (o autorità) viene da Dio” (Non est enim potestas nisi a Deo, Rom. 13,1) significa  il potere costituente di Dio. Anche la letteratura politica dell’epoca della Riforma si attiene a ciò, soprattutto la teoria dei monarcomachi calvinisti” e continua che, con la dottrina del pouvoir constituant di Sieyés, è la nazione il soggetto del potere costituente, malgrado lo sviluppo dell’assolutismo  “Nel XVII secolo il principe assoluto non è ancora definito come soggetto del potere costituente, ma solo perché l’idea di una libera decisione totale, presa dagli uomini, sulla forma e la specie della propria esistenza politica assai lentamente poteva svilupparsi in azione politica: Le conseguenze delle concezioni teologiche-cristiane del potere costituente di Dio nel XVIII secolo,nonostante l’illuminismo, erano ancora troppo forti e vitali”.[7]

  1. Resta da vedere in che misura la teoria del pouvoir constituant – e di riflesso della sovranità nazionale – sia il risultato non solo dell’Illuminismo, delle concezioni di Rousseau e dei giacobini, ma della teologia politica cristiana e più specificamente, della teoria del diritto divino “provvidenziale”.

Che la concezione di Sieyés fosse la secolarizzazione della teologia politica, con la Nazione onnipotente al posto del Dio Onnipotente è chiaro; meno è se tale concezione fosse tributaria delle riflessioni dei filosofi del XVII secolo – in particolare Hobbes e Spinoza (e, poi, Rousseau) – o della teologia cattolica e riformata, in particolare del XVI e XVII secolo [8], ovvero dei giuristi   teorici   del diritto naturale. In effetti i connotati di tale concezione, che valgono a distinguerla, sono, oltre a quelli indicati da Hauriou, altri, presenti nel pensiero dell’abate rivoluzionario.

Sieyés sostiene che la “La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto: La sua volontà è sempre conforme alla legge, essa è la legge stessa: Prima di essa e al di sopra di essa non c’è che il diritto naturale” e prosegue “ In ogni sua parte la Costituzione non è opera del potere costituito, ma del potere costituente: Nessun tipo di potere delegato può cambiare alcunchè delle condizioni della propria delega. E’ in tal senso e non in altro che le leggi costituzionali sono fondamentali. Le prime, quelle costitutive del potere legislativo, vengono fondate dalla volontà nazionale prima di qualunque Costituzione, Esse ne formano il primo gradino”[9]. Insiste ripetutamente sul concetto di volontà, “che è al di fuori di ogni forma” e che “ una Nazione non può né alienare né interdire a se stessa la facoltà di volere; e qualunque sia la sua volontà, non può perdere il diritto di mutarla qualora il suo interesse lo esiga”; per cui “ Quand’anche le fosse concesso, una Nazione non deve insabbiarsi nelle pastoie di una forma positiva: equivarrebbe a rischiare di perdere irrevocabilmente la propria libertà, perché sarebbe sufficiente una sola occasione favorevole alla tirannia, per legare i popoli, con il pretesto della Costituzione, ad una forma che impedirebbe loro di esprimere liberamente la propria volontà, e di liberarsi dunque dalle catene del dispotismo”; è chiaro che in tal modo, viene  fondato il “diritto” della comunità a darsi la forma istituzionale che preferisce senza che la volontà morfopoietica  della Nazione possa essere sottoposta ad alcun vincolo giuridico.

In effetti tale concezione di Sieyés significa che non esiste un diritto al potere di chicchessia per investitura divina, ma solo la potestas della comunità di darsi la forma che preferisce: la modellazione della forma, e quindi il diritto e la scelta di chi esercita il potere è rimesso alla volontà e all’opera umana. In qualche misura “aggiorna” il pensiero della teologia cristiana, e tomista in particolare, sulla tirannide, basato sul principio che “tota respublica superior est rege[10].

Parimenti in Sieyés è naturale la tendenza umana ad associarsi: l’uomo è un animale politico, come sempre ripetuto dalla teologia cristiana, per cui è naturalmente portato ad associarsi: l’istinto politico – dell’ordine e del potere –  è quindi naturale e, addirittura, pre-sociale, come sostiene Hauriou. E i teologi in vario modo avevano argomentato sia il carattere di legge naturale che la ragionevolezza dell’ aggregazione degli uomini in società; per lo più spiegandolo con la debolezza umana, non avendo l’uomo armi naturali come zanne, artigli e dovendo difendersi dalle fiere[11], nonchè  dagli altri uomini; da ciò la necessità  di costituire un potere comune e far rispettare la legge[12]. Non dissimile dalle rappresentazioni dei teologi è quanto scriveva Sieyés: “Esiste, a dire il vero, una grande ineguaglianza di mezzi fra gli uomini. La natura li crea forti o deboli; ad alcuni concede un’intelligenza, mentre ad altri la rifiuta. Ne consegue che vi sarà fra essi ineguaglianza di lavoro, ineguaglianza di risultati, ineguaglianza di consumo o di godimento; ma non ne consegue che possa esservi ineguaglianza di diritti”, per cui “il diritto del debole sul forte è lo stesso di quello del forte sul debole. Quando il forte riesce ad opprimere il debole, produce un effetto senza produrre un obbligo. Lungi dall’imporre un nuovo dovere al debole, rianima in esso il dovere naturale ed imperituro di resistere all’oppressore” e “Dunque una società fondata sulla reciproca utilità è in sintonia con i mezzi naturali che si offrono all’uomo per raggiungere il proprio fine; in tal senso questa unione è un bene, e non un sacrificio e l’ordine sociale diviene un’estensione, un complemento dell’ordine naturale……”[13]; la associazione in  società è ragionevole perché lo stato sociale non tende a degradare, ad avvilire gli uomini,ma, al contrario, a nobilitarli, a perfezionarli. Dunque “la società non indebolisce, non riduce i mezzi particolari che ogni individuo apporta all’associazione per sua personale  utilità; al contrario, li accresce;; li moltiplica, sviluppando le facoltà morali e fisiche; li accresce ancora attraverso il fondamentale concorso dei lavori e dei pubblici soccorsi” e “L’uomo, entrando in società, non sacrifica dunque una parte della sua libertà: anche quando non esisteva il vincolo sociale, nessuno aveva il diritto di nuocere  ad un altro” e “Lungi dal limitare la libertà individuale, lo stato sociale ne amplifica e ne assicura il godimento; esso allontana una moltitudine di ostacoli e di pericoli ai quali era esposta, quando era garantita unicamente dalla forza privata, e la affida al controllo onnipotente dell’intera associazione. Così, poiché nello stato sociale l’uomo accresce i suoi mezzi morali e fisici, sottraendosi nello stesso tempo all’inquietudine che ne accompagna l’uso, non è errato affermare che la libertà è più completa e assoluta nell’ordine sociale di quanto non possa esserlo nello stato detto di natura”. Diversamente da quanto affermava Rousseau, quindi il giudizio sullo stato sociale è positivo, come sempre sostenuto dalla teologia cristiana. Non c’è nulla dell’accorato inizio del Contrat social : “L’uomo è nato libero ed è ovunque in catene”, né della spiegazione che Rousseau da dello stato sociale nel  Discours sur l’origine de l’inégalité parmi les hommes , come soluzione che favorisce i più ricchi, che assicurano  col potere pubblico le proprie posizioni.[14]

  1. D’altra parte la concezione di Sieyés si distingue da quella del diritto divino soprannaturale, comune a Bossuet, come a Lutero e Calvino.

Lutero ritiene che la ribellione ai poteri costituiti sia contraria alle Sacre Scritture e che il cristiano, anche se vessato da un potere malvagio , deve sottomettersi e rimettersi alla volontà (e diritto) divino[15], perché farsi giustizia da soli significa abusare di un diritto che appartiene solo a Dio. Calvino contesta la tesi degli anabatttisti che non sia  lecito  al cristiano essere magistrato o  sovrano[16], perché è “manifestamente contrario alla Scrittura che non ci debba essere più alcuna forma di governo”[17]; i governanti “ricevono la loro autorità da (Dio), e ne rappresentano la persona essendo in qualche  modo i suoi vicari;” condanna rivolte e sollevazioni popolari[18], poiché si deve essere sempre sottomessi alla volontà di Dio che ha    costituito dei re sui regni.[19]

Bossuet spiega il noto passo dell’Epistola ai Romani di S. Paolo così: i principi agiscono come ministri di Dio e suoi luogotenenti in terra; il loro trono non è quello di un uomo,ma quello di Dio stesso; la persona del Re è sacra, anche se non cristiano come Ciro  , perché  rappresenta sempre la maestà Divina[20]. L’autorità è ad immagine di Dio: il principe è l’immagine materiale della (di Dio) immortale autorità. Nel principe l’uomo può morire ma l’autorità non muore mai[21]; il solo principio che possa assicurare              la stabilità degli Stati è che ogni suddito deve rispettare l’esercizio dei poteri  e dei giudizi pubblici[22] . D’altra parte, secondo Bossuet solo al principe appartiene il potere di comandare legittimamente e a lui solo l’esercizio della coazione. Se così non fosse lo Stato (la comunità) ricadrebbe nell’anarchia[23]; da cui è uscita proprio perché si è costituita (è divenuta) popolo sotto un sovrano.[24]

  1. In effetti, come si può notare, la concezione del pouvoir constituant presenta una stretta affinità con la concezione del diritto divino provvidenziale con la quale condivide i principali punti di contatto: Che poi la teoria sia in se, come cennato, la secolarizzazione della teologia cristiana, con la Nazione cui vengono attribuiti i connotati di Dio è ancor più evidente: l’assenza di limiti (giuridici) – l’onnipotenza della volontà della nazione; la sua capacità di “creazione” dell’ordine, donando con la costituzione da un lato un ordinamento (una forma) che “supera” il caos, e dall’altro la stessa capacità di azione (ed esistenza) politica; la risoluzione della distinzione/antitesi tra essere e dover-essere[25]:

Ma non è men vero che, nella sua difesa della “bontà” dell’associazione degli uomini Sieyés riprendeva quanto sempre sostenuto dalla teologia cristiana: in effetti già S.Agostino legava ordine, pace, e civitas[26], sottolineando la concordia, che, nelle cose “temporali” vi era tra la città terrena e quella celeste[27]. D’altra parte la concezione del diritto divino provvidenziale è stata esposta sotto altri profili, più articolati di quelli fin qui ricordati, da S. Roberto Bellarmino. Questi, nel confutare anch’egli le tesi degli anabattisti, adduce cinque prove, tre delle quali “logiche” (deduttivo-razionali) e due “storiche”. Di particolare interesse è la distinzione tra autorità (voluta da Dio è quindi buona in se, facendo parte dell’ordine della creazione) e chi la esercita, cioè il governante (che, quale essere umano è sempre soggetto al peccato ed all’errore): “A quanto dicono in contrario gli Anabattisti affermo innanzi tutto non essere vero che i re e i principi siano generalmente malvagi: non si tratta infatti qui di uno Stato particolare, ma del potere politico in generale, e in questo senso fu re e principe anche Abramo.” E prosegue: “gli esempi dei re malvagi non provano che il potere politico sia malvagio in se stesso; spesso infatti i cattivi si servono di cose buone; gli esempi invece dei re buoni provano che il potere politico è buono, perché i buoni non si servono di cose cattive. Di più: i principi cattivi sono spesso più di giovamento che di danno, come fu di Saul, Salomone e altri. Del resto è ancora più utile per uno Stato avere un principe cattivo che non averne nessuno; dove infatti non ce n’è alcuno, lo Stato non può conservarsi a lungo: Salomone stesso lo disse, Prov., c. 11: Dove non c’è un principe, il popolo va in rovina; invece dove c’è, anche se cattivo, viene almeno conservata l’unità del popolo[28]. Meglio un cattivo governante che l’anarchia del non-governo.

Sul potere politico “A questo proposito però son da farsi alcune osservazioni. La prima è questa: il potere politico in generale, cioè non considerato nelle sue forme particolari di monarchia, aristocrazia o democrazia, viene immediatamente soltanto da Dio, poiché è una conseguenza necessaria della natura dell’uomo”; ed in origine risiede nella moltitudine “Essendo infatti questo potere di diritto divino, questo diritto non diede il potere a un qualche uomo particolare; lo diede quindi a tutta la moltitudine.” E “lo stesso diritto naturale trasferisce il potere politico dalla moltitudine a uno o a più individui. La moltitudine infatti non può esercitare essa stessa questo potere, e perciò è obbligata a trasferirlo a uno o ad alcuni pochi individui. Pertanto il potere dei principi, considerato in generale, è esso pure di diritto naturale e divino, e il genere umano, anche se tutti gli uomini in ciò s’accordassero, non potrebbe stabilire il contrario, che cioè non vi fossero principi e capi.”; tuttavia “le forme particolari di regime politico sono “de jure gentium” e non di diritto naturale, poiché è chiaro che dipende dalla libera volontà della moltitudine stabilire che governi un re o alcuni consoli o altri magistrati; e, se v’è una legittima causa, la moltitudine può mutare un regime monarchico in aristocratico o democratico e viceversa, come sappiamo che è avvenuto a Roma”. La conclusione è “da quanto è stato detto segue che il potere politico, considerato in particolare, viene certamente da Dio, mediante però una deliberazione e un’elezione umana, come tutto ciò che è “de jure gentium”. Questo “jus gentium” è come una conseguenza dedotta dal diritto naturale mediante un intervento umano. In tali tesi di Bellarmino sono chiari i presupposti di altrettanti capisaldi del pensiero politico e costituzionalistico moderno; la distinzione tra l’autorità (buona e necessaria perché ordinata da Dio) e chi la esercita (uomo e quindi peccatore, come coloro che sono governati)[29]. Questo è il fondamento della concezione sviluppata nello Stato borghese per cui, proprio perché i governanti non sono degli angeli, occorrono dei controlli su di essi, come scritto nel Federalista[30]. Il che ha portato all’incremento eccezionale nell’organizzazione delle democrazie liberali, del sistema giuridico (e politico) dei “freni e contrappesi”; e, parimenti, alla impossibilità di controlli giuridici sul sovrano (soggetto solo a limitazioni di carattere etico, religioso ed ontologico cioè di “diritto naturale” non di diritto positivo, comunque non suscettibili di coazione). Conferma ad un tempo la necessità del potere politico (di diritto divino) e l’accidentalità delle forme in cui è ordinato e dei soggetti scelti ad esercitarlo. Ribadisce la distinzione tra “titolarità” del potere politico a tutta la moltitudine, obbligata a trasferirla a uno o più, per “diritto naturale” (cioè per necessità oggettiva) e così afferma il carattere necessario della rappresentanza; mentre le forme in cui si organizza, che non sono di diritto naturale (v. sopra) dipendono dalla libera volontà della moltitudine che può sempre cambiarle proprio perché non di diritto naturale ma de jure gentium. E il tutto può avvenire per decisione (con un “atto”) il che anticipa anche la concezione del moderno costituzionalismo che vede la costituzione (per lo più) come deliberazione del potere costituente.

  1. Anche tali ultime tesi sono transitate nel diritto e, ancor più, nella dottrina (politica e) giuridica dello Stato democratico liberale. A volerne ricordare una, la più importante: nella Dichiarazione dei diritti dell’uno e del cittadino, all’art. 3 così si proclama “Le principe de toute souveraineté réside essentiellement dans la nation. Nul corps, nul individu, ne peut exercer d’autorité qui n’en émane expressément». Questa dichiarazione in cui alla “moltitudine” si sostituisce la Nazione, sempre contrapposta ai pouvoirs constituées, fu ripetuta in forme simili in tutte le successive  costituzioni francesi (tranne, ovviamente in quella del  1814)[31].

Hauriou sostiene che il diritto non sfugge alla regola che, dietro ogni fisica,        c’è una metafisica. La quale normalmente,non si manifesta, anzi è occultata accuratamente da uno strato di diritto, e così rimane, se ci si ferma all’apparenza (come è normale in una situazione normale, cioè quasi sempre). Ma “ quando il rivestimento giuridico viene a mancare, come nel potere di fatto, si ricade sul fondo metafisico o teologico”[32].  Il che succede quando si produce un cambiamento rivoluzionario radicale. Per la Francia moderna questo si è ripetuto – scrive Hauriou nel 1929 – almeno quattro volte dopo la rivoluzione del 1789. Il potere di fatto tende a diventare – e per lo più vi riesce – un potere di diritto: ma per far questo una legge è completamente inutile “Un gouvernement provisoire n’a jamais fait voter une loi pour déclarer qu’il devenait légitime”.[33] In tali vicende la régle de droit non trova impiego, anzi spesso è convalidata dalla giurisprudenza gran parte del diritto creato da tali governi, anche se non ratificato: questo perché, scrive Hauriou, il  governo è necessario, un governo di fatto è meglio che nessun governo, e il potere è una cosa naturale e d’origine divina. E conclude “Tel est l’enseignement de la morale théologique; tel est celui de la sagesse et telle est la pratique”.[34]

C’è da chiedersi per quale ragione la concezione del diritto divino provvidenziale sia presente così vistosamente nella teoria del diritto e nello Stato borghese. Le risposte potrebbero essere diverse e concorrenti: che in effetti la filosofia moderna, specie quella del XVII e XVIII secolo è largamente tributaria del diritto naturale e della teologia della Seconda Scolastica e che attraverso questa “secolarizzazione” sia arrivata ai costituenti francesi e di qui al costituzionalismo europeo; o perché a far la rivoluzione è stata una nazione cattolica come la Francia, e in essa vi avuto grande importanza un sacerdote come l’abbé Sieyès[35], educato dai Gesuiti; ma l’argomento che pare più importante – e preferibile- è che tale concezione, come ben visto da Hauriou permette di spiegare in modo a un tempo realistico e razionale il rapporto tra fatto e diritto, essere e dover essere, potere ed ordine, trasformazione e conservazione, libertà e necessità. In effetti la diversa concezione del diritto divino soprannaturale porta in se difetti analoghi a quelli che Hauriou individuava nelle teorie del diritto, ad esso contemporanee, di Duguit e di Kelsen, che accomunava come sistemi statici. Tali sistemi “si presentano volentieri come oggettivi, e lo sono effettivamente perché eliminano l’opera dell’uomo che è la sorgente del soggettivo; ma sono soprattutto statici per la loro concezione erronea dell’ordine sociale, e sotto questo aspetto statico li esamineremo perché rende manifesta la loro incompatibilità con la vita”[36]. Nel sistema di Kelsen l’ordine giuridico e statale è considerato l’espressione di un imperativo categorico della ragion pratica; peraltro è un “monismo idealistico”, dove Stato e diritto si confondono[37]. E in effetti è il profilo statico che prevale su quello dinamico[38]. Per cui se tale teoria riesce ad evitare la concezione del potere di dominio, non evita il dominio di un imperativo categorico che comporta un ordine sociale necessitante[39]. Ma il giogo di una filosofia del genere “serait pour le droit pire que celui de la théologie. La théologie catholique pose le primat de la liberté humaine: l’ordre divin se propose à l’homme par la grace ». Invece nel sistema di Kelsen l’ ordine del “panteismo idealista” s’impone come necessità costrittiva. Per cui conclude che in Francia non avrà fortuna “parce que ses tendances sont inconciliables avec celles du droit. Seule une philosophie de la liberté créatrice est compatible avec lui. ». Quanto al sistema di Duguit, questo prende come punto di partenza « la notion positiviste d’un ordre des choses sociales conçu comme le prolongement de l’ordre des choses physiques. De cet ordre des choses découlent des normes. » ; la sua grande preoccupazione è sopprimere il potere come fonte del diritto. Ma questo comporta la staticità del sistema, per la negazione « du pouvoir subjectif de création du droit, le mouvement juridique, qui résulte surtout des forces subjectives, est arreté ». E, tranne i casi di eccezioni nel sistema « le droit ne peut se développer que dans la mesure des normes établies ou par l’établissement de nouvelles normes, mais c’est là une formation coutumière d’une extreme lenteur. Le système tend donc vers l’immobilité coutumière ». E ne conclude che il sistema di Duguit è, come quello di Kelsen “impropre à la vie”.

In effetti, ad analizzare le conseguenze della dottrina del diritto divino soprannaturale, si vede che, ovviamente per ragioni diverse, presenta gli stessi inconvenienti di quelle di Kelsen e di Duguit. In primo luogo d’essere statica, poiché cristallizza i rapporti di potere e le regole per accedervi: chi ha il potere, ha diritto al comando e a pretendere l’obbedienza che gli si deve; ogni innovazione è, non provenendo da chi detiene il potere, contro il diritto divino. In secondo luogo di mettere il diritto davanti al fatto, che è proprio il contrario di quanto succede, ad esempio in diritto internazionale, dove è il fatto del controllo di uno Stato (della popolazione e del territorio), e non la legalità dell’insediamento, a fare d’un governo rivoluzionario un interlocutore internazionale. Se così non fosse, se ci si dovesse basare sul criterio di “diritto divino soprannaturale” (o di una pura valutazione “normativa”), l’Italia  dovrebbe essere rappresentata da un Savoia[40], la Germania da un Hohenzollern e la Russia da un Romanov. Con l’effetto di porre in contrapposizione il diritto con la realtà (e la vita); e di rendere (anche) inidoneo quello a indirizzare questa. C’è inoltre un’antitesi radicale tra la distinzione di Bellarmino tra autorità e governante (peccatore) e quel “vous étes des dieux” rivolto da Bossuet ai monarchi: che giustamente Hauriou ritiene compatibile solo con la monarchia assoluta.

Ma la fortuna della concezione del diritto divino provvidenziale non è solo di essere “dinamica”, e cioè realistica, ma anche di spiegare il rapporto tra forza e diritto, sempre in termini realistici. Ritenendo necessario il vivere in società e sotto un governo ma non le relative forme, è aperta all’innovazione e al carattere nomogenetico della forza, finalizzata a garantire l’esistenza comunitaria Il tasso d’innovazione che questo introduce serve a garantirne l’adattamento alle mutevoli condizioni della storia, cioè la vitalità. Il realismo della concezione in esame è dato  essenzialmente dal rapporto delineato tra legge naturale e jus gentium; in altri termini tra necessità e libertà umana.

Riconoscendo che tra le leggi di natura v’è quella di associarsi sotto un governo politico, la teologia cristiana aveva individuato una delle “costanti”, definite da Miglio come le regolarità della politica[41]; in quanto tali immodificabili dalla volontà umana. Che, di converso, le utopie “assolute”[42], ritengono di poter modificare, credendo di aver trovato “la soluzione dell’enigma della Storia”, come scriveva il giovane Marx[43]; dalla storia puntualmente smentita, col crollo pressochè contemporaneo di quasi tutti i regimi del socialismo reale, che di quella visione utopistica erano le realizzazioni.

Ma la credenza di poter modificare le “regolarità”, che si rivela particolarmente chiara nel caso, come il comunismo, di utopie realizzate – e confinate sollecitamente nell’archivio della storia – non è esclusiva di quelle, essendo presente sia pure in misura più limitata in altre concezioni ideologiche, da certi tipi di pacifismo a frange liberali (non al liberalismo, che mantiene un’impostazione realistica, com’è evidente dalla concezione “problematica” dell’uomo, derivata sia dalla teologia cristiana che dal pensiero politico).

A questa immutabilità delle “costanti” si contrappone- e la integra – la mutevolezza delle forme politiche, rimesse al potere-e quindi alla libertà- delle comunità umane: tale concezione fonda la libertà politica nel senso primario della libera “conformazione” dell’ordinamento sociale e politico: in ciò è la specificazione, all’interno della comunità della definizione di S. Tommaso “Liber est qui sui causa est”: non esser limitati se non dalla legge divina (e naturale), della quale nessuno è dispensato[44]. Di tal guisa questa concezione riconosce alle comunità umane tutta la libertà possibile, senza alcun vincolo giuridico se non auto-impostosi dalle stesse.

Inoltre ritornando sul carattere della dinamicità, è il caso di ricordare che Hauriou, come altri grandi giuristi, non ricollega il concetto di ordine sociale alla “conformità” tra norme e comportamenti, cioè a qualcosa di statico, ma a tutt’altro ovvero al movimento “lento e uniforme” della comunità umana. Su questo concetto ritorna più volte specificando che è il movimento “d’un insieme ordinato, è il risultato di una organizzazione e risulta da ciò che l’ordine è essenzialmente organizzazione”; e per chiarire il concetto ricorre a un paragone biologico. Come gli organismi viventi conservano la forma (che cambia, ma lentamente), pur soggetti a un ricambio di cellule e tessuti estremamente rapido, così i gruppi sociali si comportano come organismi viventi, a condizione d’essere organizzati, e durano secoli conservando una forma simile, pur essendo del tutto mutate le “cellule”, cioè gli uomini[45]. E per tali ragioni, cioè (anche) per la capacità di adattarsi alla vita politica e sociale, giudicava che la dottrina del diritto divino provvidenziale, ponendo l’origine del potere al di sopra della collettività sociale e di chiunque altro, non conduce ad alcun assolutismo, ed è quindi la più propizia alla libertà. Non solo alle individuali, ma anche a quella della comunità di darsi la forma che preferisce.

  1. Avevamo iniziato col chiederci il perché nella dottrina francese a cavallo tra XIX e XX secolo sono considerate attentamente le dottrine del diritto divino, e in particolare quella “provvidenziale”. Nei limiti del presente scritto ne abbiamo individuata qualche ragione, per lo più tra quelle già indicate dallo stesso Hauriou, relative all’essenza dell’ordinamento e del rapporto) sociale e politico.

C’è anche un’altra ragione, implicita nel pensiero del doyen: è che Hauriou era un convinto sostenitore della civiltà (e del pensiero) occidentale, cui dedica alcune delle pagine più interessanti, anche per chi le legge oggigiorno. La civiltà occidentale – scrive – per la sua forza, la sua attività e per le sue idee, domina il mondo, ma non lo ha completamente assimilato. Nello stesso tempo sta subendo una delle sue crisi interne[46]; molti dubitano del valore dei suoi caposaldi. Anche se la civiltà sedentaria probabilmente sopravvivrà in forme parzialmente diverse, i popoli europei rischiano di sparire in una tormenta, dopo molte sofferenze. In questo frangente non è il nemico esterno, ma quello interno il più pericoloso[47]; perciò – continua Hauriou – non si deve dubitare della civiltà occidentale, poiché quanto da essa realizzato “en fait d’oeuvres de beauté et de vérité intellectuelle, est devenu classique, c’est-à-dire a réalisé l’idéal humain[48]. Lo stesso comunismo, allora da poco realizzato in Russia, gli appare incompatibile con la società sedentaria ed individualista, e, piuttosto che una fase “estrema” della modernità, gli pare un ritorno alle forme giuridiche tipiche delle società nomadi[49]. Di questa civiltà occidentale fanno parte tanto la libertà che la proprietà; il diritto romano e la teologia cristiana; la scienza come l’arte. La dottrina del diritto divino provvidenziale esprime alcune delle idee base su cui si può modellare l’organizzazione sociale dell’ “ordre individualiste”.

Contrariamente all’attenzione che la dottrina francese rivolge alla concezione in esame è raro leggere analoghe considerazioni altrove, soprattutto in Italia. Ad esempio a consultare la voce “Democrazia” del classico “Dizionario di politica” si può leggere di tutto, da Erodoto a Rousseau, dalle democrazie degli antichi a quelle socialiste (ed oltre): manca tuttavia qualsiasi cenno a questa, che probabilmente ha influenzato la forma dello Stato contemporaneo non meno delle altre[50] e le cui tracce sono (largamente) presenti nella nostra Carta Costituzionale; e, il che è parimenti rilevante, le conseguenze di questa sono, oggi più che ieri, e malgrado tutti gli sforzi contrari, common sense.

[1] V. M. Hauriou Précis de droit constitutionnel Paris 1929 p. 29 ss. ; J. Barthélemy e Paul Duez Traité de droit constitutionnel Paris 1929 p. 67 ss. ; R. Carré de Malberg Contribution à la théorie generale de l’État Paris 1929, Tome 2° p. 149 ss.., v. Anche (meno diffusamente) A. Esmein Eléments de droit constitutionnel français et comparé. Paris 1914 p. 281 e 283 ; L. Duguit L’État, le droit objectif et la loi positive, Paris 1901

[2] Ovviamente sintetizziamo, perché in effetti deriva da S. Tommaso, come Barthélemy , Duez  (e Carrè de Malberg ricordano).

[3] « La doctrine du droit divin providentiel ne répugne donc pas nécessairement à la démocratie par la volonté de Dieu, donc divine », Op. cit. p. 68

[4] Barthélemy-Duez op. cit. « Si enfin Saint Paul a dit : « Omnis potestas a Deo », les théologiens ont indiqué le sens de cette parole en ajoutant : « per popolum ». Le pouvoir, qui est de droit divin, appartient au peuple : c’est la thèse de Sain Thomas, de Bellarmin, de Suarez; Carré de Malberg scrive : La parole de saint Paul «omnis potestas a Deo » ne signifie que les Gouvernements ou leurs chefs soient directement créés désignés par Dieu (doctrine du droit divin surnaturel) ; elle ne signifie pas davantage qu’ils soient indirectement  par la façon dont la Providence divine dirige le coirs des éveneméts (droit divin providentiel). Mais, le principe de l’origine divine du pouvoir doit  etre entendu seulement en ce sens, précisé par saint Thomas d’Aquin (Somme théologique, 2° partie,I, question 96, art. 4), que Dieu, ayant créé l’homme sociable, a aussi voulu le pouvoir social, attendu qu’il n’est pas de société qui puisse subsister sans une autorité supérieure douée de la puissance de commander  à chacun en vue du bien de tous. Ainsi, le pouvoir, envisagé en soi, procéde de Dieu ;  il est, en son essence, d’origine divine, en ce que sa nécessité découle des lois memes qui conditionnent l’ordre social, lois dont Dieu est l’auter ;  mais il n’e demeure  pas moins certain que, dans les domaine des réalités positives, le pouvoir ne peut etre organise que par des moyens humains. En d’autres termes, c’est aux hommes qu’il appartit de régler ses formes et ses conditions d’exercice, comme aussi de déterminer ses titulaires ». Op. cit. p. 151

[5] “Questa esigenza si afferma per la prima volta in conseguenza delle dottrine politiche, che si vennero maturando nelle lotte della Riforma. Già altrove fu spiegato come la dottrina calvinistica, che della comunità fa il titolare del reggimento della Chiesa, si sia sviluppata nella Scozia, nell’Olanda ed in Inghilterra in una teoria, la quale rappresenta anche l’ordinamento laico come un prodotto della volontà comune ed eleva la pretesa che al popolo, unificato nello Stato mediante un contratto, debba competere durevolmente il potere supremo nello Stato e che da esso debba anche essere esercitato” G. Jellinek La dottrina generale del diritto dello Stato, trad. it. di M. Petrozziello, Milano 1949, p. 254

[6] v. Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien (i corsivi sono nostri) , trad. it. Torino 1974 pp. 69-71; e così prosegue “ Questa dottrina si presenta nella sua completezza soprattutto presso il geniale e profondo Suarez: Questi fa derivare direttamente e necessariamente il potere sovrano dal “corpo politico e mistico” che gli uomini singoli costituiscono per un atto di unione assolutamente libero, sebbene corrispondente alla ragione naturale e quindi alla volontà divina. Non sono però i singoli che con la loro volontà stabiliscono la sovranità della collettività sopra i propri membri : essi infatti non possiedono inizialmente alcuno dei diritti sorti con la collettività stessa (per es. il diritto di vita e di morte e il vincolo di coscienza), né, volendo l’associazione, possono impedire che divenga sovrana. Ma nemmeno è Dio ad attribuire, con un atto particolare alla collettività (come al Papa), la sovranità, pur essendo, in qualità di “primus auctor”, la fonte di ogni potere. Il potere sovrano spetta piuttosto ad essa “ex vi rationis naturalis”, e Dio lo concede come “ proprietas consequens naturam” , “ medio dictamine rationis naturalis ostendentis, Deum sufficienter providisse hunano generi et consequenter illi dedisse potestatem ad suam conservationem et convenienter gubernationem necessariam”.

[7]  Verfassungslehore, trad. it. di A. Caracciolo,   Milano 1984 p. 112

[8]  Si tenga presente che appare evidente l’ influsso del pensiero teologico su Hobbes, ed ancora più su Spinoza e sui  giusnaturalisti  “giuristi”  come Grozio e Vattel

[9] Qu’est-ce-que le Tièrs état, trad. it. in Opere, tomo I°, Milano 1993, p. 255.

[10] V. F. Suarez De charitate  Disp. 13 De bello sectio VIII° ; v. Anche Juan De Mariana De rege et regis institutione, trad. it., Napoli 1996, Lib. I, cap. VI°, p. 54. S. Tommaso d’Aquino, De regimine principum, Lib. I°, cap. VI°; v. anche F. Suarez Defensio fidei catholicae et apostolicae…, Lib. III, 3 (sulla attribuzione solo alla comunità perfetta del supremo potere civile).

[11]“ Quello che è stato detto è sufficiente a dimostrare che l’uomo ha bisogno delle forze e dell’aiuto altrui, dal momento che da solo non è capace di procurarsi tutti gli aiuti per vivere, nemmeno la più piccola parte di quelli. Si aggiunga a tutto questo la debolezza del suo corpo per respingere le forze esterne ed evitare gli attentati alla sua persona: La vita degli uomini, infatti, non era sicura dalle numerose bestie feroci, quando ancora la terra non era stata coltivata e le erbacce estirpate e distrutte.” v. Juan de Mariana op. cit. p. 18, S. Tommaso op. cit. Cap. I°, “Naturale autem est homini ut sit animal sociale et politicum, in multitudine vivens, magis etiam quam omnia alia animalia, quod quidem naturalis necessitas declarat. Aliis enim animalibus natura praeparavit cibum, tegumenta pilorum defensionem, ut dentes, cornua, unguens, vel saltem velocitament ad fugam. Homo autem institutus est nullo horum sibi a  natura praeparato, sed loco omnium data est ei ratio, per quam sibi haec omnia officio manuum posset praeparare, ad quae omnia praeparanda unus homo non sufficit. Nam unus homo per se sufficienter vitam transigere non posset”; v. anche il Compendio di dottrina sociale della Chiesa dove la tesi è ribadita “ La Chiesa si è confrontata con diverse concezioni dell’autorità, avendo sempre cura di difenderne e di proporne un modello fondato sulla natura sociale delle persone:”Iddio, infatti, ha creato gli esseri umani sociali per natura” e poiché non vi può essere “società che si sostenga, se non c’è chi sovrasti gli altri, muovendo ognuno con efficacia ed unità di mezzi verso un fine comune, ne segue che alla convivenza civile è indispensabile l’autorità che la regga; la quale, non altrimenti che la società, è da natura, e perciò stesso viene da Dio”” L’autorità politica  è pertanto necessaria a motivo dei compiti che le sono attribuiti e deve essere una componente positiva ed insostituibile della convivenza civile”” (prgf. 393) (Roma, 2004)

[12] E gli stessi uomini, confidando ciascuno sommamente nelle proprie forze, alla stregua di una bestia feroce e solitaria, che alcuni atterrisce ed altri teme, si appropriarono, senza che nessuno potesse proibirlo, dei beni e della vita dei più deboli, specialmente quando, formata una certa società con altri, le mani di molti irrompevano nei campi, tra le greggi e le case, saccheggiando e rubando ogni cosa, con pericolo anche della vita di chi tentasse resistere loro: Aspetto miserabile della vicenda! Ovunque ladrocini, scorrerie e stragi si esercitavano impunemente senza lasciare alcun riparo all’innocenza ed alla debolezza altrui. Così, poiché la vita di ognuno era esposta ai mali esterni, e neppure i consanguinei tra loro e i congiunti si astenevano da mutue violenze, quanti erano oppressi dai più forti, cominciarono a stringersi con altri in un mutuo accordo di società e a rivolgersi ad uno solo che primeggiasse in giustizia e lealtà, con l’aiuto del quale fossero impediti i soprusi interni ed esterni; dovendo instaurare la giustizia, tutti, dai superiori agli inferiori, furono sottomessi ad una stessa legge. Da qui sorsero per la prima volta l’aggregazione urbana e la regia potestà, che a quel tempo non si ottenevano con ricchezze e intrighi, ma con moderazione, onore e provata virtù ” vJuan de Mariana op. loc. cit.

[13] Reconnaissance et exposition raisonée…..in  Sieyés Opere  cit. p 383 ss.

[14] Così Rousseau vi descrive l’origine della società civile “Questa fu e dovette essere l’origine della società e delle leggi, che diedero nuove pastoie al debole e nuova forza al ricco, distrussero irrimediabilmente la libertà naturale, stabilirono per sempre la legge della proprietà e della disuguaglianza, di un’abile usurpazione fecero un diritto irrevocabile, e per il profitto di alcuni ambiziosi assoggettarono per sempre il genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria” in R. Parenti “Il pensiero liberale e democratico nei secoli XVII e XVIII°”, Napoli 1973 p. 117.

[15] V. ad es. Esortazione della pace… in Oevreus tomo IV Ginevra p. 157 v. anche “I soldati possono essere in stato di graziaop. cit. p. 243

[16] v. “Pertanto, noi dobbiamo considerare se essere cristiano ed essere magistrato, oppure sovrano di uno Stato,siano cose incompatibili al punto che per essere l’uno, un uomo sia costretto a rinunciare ad essere l’altro. Pongo una prima domanda: se esercitare l’ufficio di magistrato oppure di sovrano di uno Stato è una condizione che contrasta con la vocazione dei credenti, come mai se ne sono valsi i giudici dell’Antico testamento, e così pure i re giusti – come Davide, Ezechia, Iosia – e anche alcuni profeti come Daniele?” Calvino Opere scelte, tomo II, Torino 2006

[17] op. cit. p. 205

[18]Mais si ceux qui, par la volonté de Dieu, vivent sous des princes, et sont leurs sujets naturels, transférent cela a eux, pour etre tentés de faire quelque révolte ou changement, ce sera non seulement une folle et inutile spéculation, mais aussi méchante et pernicieuseL’institution chrétienne, tomoIV Lib.  IV   Cap. XX

[19] “ Car si c’est  son plasir de constituer des rois sur les royaumes, et sur les peuples libres d’autres supérieures quelconques, c’eest à nous de nous rendre sujets et obèissant aux supèrieurs quels qu’ils soient qui domineront au lieu où nous vivrons »  op. ult. cit.

[20]  Politique de Bossuet (Raccolta di brani di Bossuet) Paris, p. 80 – 81

[21] “N’importe, vous etes des dieux, encore que vous mouriez, et votre autorité ne meurt pas; cet esprit de royauté passe tout entier à vos  successeur, et imprime partout la meme crainte, le meme respect, la meme vénération; L’homme meurt, il est vrai; mais le Roi, disons-nous, ne meurt jamais: l’image de Dieu est immortelle” op. cit. P.82

[22] Op. cit. p. 91

[23] Op. cit. p. 111

[24] Op. cit. p. 84

[25] Com’è palese dalla frase (v. sopra). “La nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre conforme alla legge, essa è la legge stessa”.

[26] v. De Civitate Dei, lib. XIX, cap. XII-XVIII

[27] Op. cit., lib. XIX, cap. XVIII

[28] in Scritti politici, Bologna, 1950, p. 231

[29] E’ bene precisare che anche secondo la concezione del diritto divino soprannaturale, il governante, essendo uomo, è peccatore e comunque soggetto ad errore. La differenza (essenziale) consiste nel quis judicabit?. Infatti secondo la prima è solo Dio che può giudicare il sovrano (v. sopra, in particolare Lutero, che ritiene usurpazione del potere divino da parte dell’uomo giudicare – e ribellarsi – al sovrano); mentre per i teologi – giuristi ricordati il re può essere giudicato – e detronizzato – dalla comunità. Analoghe considerazioni si trovano nelle pagine di Thomas Müntzer “i prìncipi non sono i signori ma i servitori della spada; essi non devono fare ciò che gli aggrada (Deuteroniomio 17:18-20), ma ciò che è giusto. Perciò bisogna, secondo l’antica e buona consuetudine, che il popolo sia presente quando si giudica secondo la legge di Dio (Numeri 15:35). E perché? Qualora le autorità intendessero pervertire il giudizio, allora i cristiani che le stanno intorno devono impedirlo e non tollerarlo, poiché si dovrà rendere conto a Dio del sangue innocente” (Salmo 79:10). V. Scritti politici, Torino 1972, pp. 192-193.

[30] Federalist papers n. 10, trad. It, p. 96; è noto che la tematica del potenziale conflitto d’interessi tra governati e governanti attraverso tutto il pensiero politico e giurispubblicistico, a partire dalla filosofia greca e medievale fino ai giorni nostri, con gli elitisti e la scuola di “public choice”. Per più dettagliati riferimenti ci sia consentito rimandare al nostro scritto “Interesse generale ed espropriazione”  Consiglio di Stato, p. II aprile 1982.

[31] Carré de Malberg op. cit. Tome II p. 167

[32]  Op. cit. p. 29

[33] Op. cit p. 31 In effetti una legge del genere sarebbe oltreché inutile, anche un frutto d’umorismo involontario

[34]  Op. cit. p. 33

[35] V. G. Troisi Spagnoli Vita di Sieyès in Opere, cit. p. 31 (e seguenti)

[36] op. cit. p. 8

[37]Mais notre auteur n’est pas seulement kantiste, il est aussi, il le déclare lui-meme, panthéiste idéaliste et par conséquent moniste. Son monisme va se traduire immédiatement par un second postulat, à savoir que, dans le plan statique, l’Etat et le Droit se confondent.”, op. Cit.  p. 9; e poco dopo “Dans ce système exclusivement idéaliste, les êtres réels disparaissent, n’étant tous représentés que par des ordonnancements de règles.”

[38]N’oublions pas que, pour lui, le plan dynamique reste dominé par le plan statique et que, par suite, les sources du droit positif resteront dominées et limitées par le droit transcendant.” Op. cit. p. 10

[39]Le primat de la liberté est remplacé par celui de l’ordre et de l’autorité. La maxime fondamentale n’est plus: “Tout ce qui n’est pas défendu est permis jusqu’à la limite”, elle est: “Tout ce qui n’est pas conforme à la constitution hypothétique est sans valeur juridique.”, op. cit. p. 11

[40] Almeno a voler considerare gli eventi del 1944 e 1946, e particolarmente il referendum del 2 giugno 1946 come inidoneo e/o illegittimo.

[41] V. Presentazione a «Le categorie del politico” p. 13, Bologna 1972.

[42] Intendiamo come tali quelle che si possono ricondurre all’assunto di poter modificare la natura (umana) come il marxismo o (talune eresie chialiastiche); v. sul punto Behemoth n. 40 (recensione a Gnerre) p. 68.

[43] E’ il caso di ricordare il periodo nei Manoscritti economico filosofici del 1844, di cui quella frase è la conclusione “il comunismo s’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanismo, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie. E’ la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione”.

[44] Sulle varie accezioni del diritto naturale e sulle forme di giusnaturalismo (per volontà divina, quale legge naturale e quale dottrina della ragione) v. G. Fassò “Giusnaturalismo” in Dizionario di politica, cit. vol. II, p. 94.

[45]On verra dès lors, des organismes sociaux traverser des siècles, alors que leur matière humaine et une grande partie des situations sociales qu’ils contiennent auront été renouvelées, parce qu’ils ont un gouvernement et parce que leurs équilibres essentiels ayant été maintenus, les formes auront survécu”, op. cit. p. 71

[46]Au XIX siècle, l’esprit critique l’avaint emporté sur l’esprit de foi créatrice. Il en est résulté que beaucoup d’Occidentaux se sont pris eux-memes à douter de la valeur de leurs directives. Cette défalillance passagère serait sans importance, si elle ne coincidait pas avec l’esprit de résistance qui se marque chez les populations moins évoluées qui nous entourent. », op. cit. P.55.

[47] Op. cit. p. 56

[48] Op. loc. cit.

[49] « Il est possible que des sociétés nomades, avec leur faible population et leurs habitudes de subsistance à base de produits spontanés, aient vécu sous des régimes communistes; il n’y avait point d’obstacle majeur, puisqu’il n’y avait pas à assurer la production”. Op. cit. p. 43. v.

[50] Fanno eccezione i cenni nella voce “Assolutismo” di  R. De Mattei in Edd, vol. III pp. 917-923, e nella voce “Democrazia” di G. Fassò in Noviss. Digesto it. vol. V p. 442 ss.

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