L’IMPERATORE CLAUDIO ERA IL NONNO DI MACRON?_ di Teodoro Klitsche de la Grange

L’IMPERATORE CLAUDIO ERA IL NONNO DI MACRON?

L’autunno scorso un ex Presidente del Consiglio – e un mese fa l’attuale – si sono rallegrati per l’apertura dei Romani ai “provinciali”; onde già Claudio era stato fatto imperatore, malgrado nato a Lione. Da tale esempio ne hanno ricavato conforto per le politiche d’accoglienza, d’integrazione e, verosimilmente, forse anche per lo jus soli (?), maccheronicamente inteso.

A chi conosce la storia e i costumi di Roma la vicenda non sta così: Claudio era romano, anzi di una delle più antiche gentes. Svetonio riporta che i Claudii immigrarono in Roma ai tempi di Romolo, ad avviso di alcuni; secondo altri, subito dopo la caduta della monarchia. Alla Repubblica la gens Claudia dette centinaia di magistrati, tra cui ben ventotto consoli. Il fatto che Claudio fosse nato a Lione non vuol dire che fosse gallo. Era nato in Gallia perché il padre guidava le legioni romane nelle guerre contro le tribù germaniche. La circostanza della nascita lontano da Roma non significa per nulla che non fosse romano: lo era per jus sanguinis. Ancor più il rilevante ruolo della gens Claudia nella storia romana rende un po’ comica la tesi del Claudio gallico o non-romano.

È interessante chiedersi perché sia stato diffuso da persone di buona cultura. Sembra di escludere che i due credano che Claudio non era civis romanus perché nato in Gallia.

Piuttosto, nella propaganda diretta ad elettori i quali neppure sanno chi era Claudio (e forse cos’era l’impero romano) devono propinarsi argomenti semplici e comprensibili da parte dei meno acculturati. E quale argomento migliore del luogo di nascita, accompagnato dalla completa de-contestualizzazione, onde la Gallia provincia romana appare “uguale” alla attuale Francia, stato sovrano?

In altre parole dire che Claudio è nato a Lione (che allora i romani chiamavano Lugdunum) significa quindi che era gallo, quasi francese. Il fatto che la Gallia fosse una provincia di Roma, che erano – specie nel primo secolo dell’Impero – i magistrati romani a governarla, questo è probabilmente ignorato da tanti onde cede di fronte all’argomento tele-anagrafico, alla portata di tutti.

Certo sarebbe stato sicuramente più in linea con la tesi cara ai due leaders politici, ricordare, di Claudio, lo splendido discorso fatto per l’ammissione al Senato delle grandi famiglie galliche, riportato da Tacito, che è, a un tempo, spiegazione della capacità di Roma di integrazione di popoli diversi, e della stessa integrazione quale mezzo della politica. Disse Claudio che i romani, da Romolo in poi, non avevano mai considerato gli altri popoli, anche se un tempo nemici (e vinti) come alienigeni (cioè diversi da loro); per cui con chi si era fatta la guerra era possibile costruire insieme e vivere in pace.

L’inconveniente di quel discorso è che non è immediatamente comprensibile (soprattutto) e che comunque l’integrazione richiede tempo (i Galli ammessi l’avevano aspettata circa un secolo) e non verificata da un esame d’italiano (o giù di lì).

A proposito di altri esami (e d’istruzione): non vorremmo che, anche complice l’emergenza da Coronavirus, il distanziamento scolastico e così via, non si desse un ulteriore “taglio” allo studio della storia, che, a quanto si legge, ne ha già subiti. In particolare di quella antica giudicata – a torto – di scarsa utilità.

Il che non è vero: a leggere il libro italiano che sarebbe il più conosciuto al mondo, cioè il Principe, Machiavelli lo scrive prendendo gran parte del materiale dalla storia antica.

Perché, dopo certe lezioni, c’è da aspettarsi che gli studenti, disabituati a conoscenza e valutazione storica, rispondano agli esaminatori che l’imperatore Claudio era il nonno di Macron.

Teodoro Klitsche de la Grange

VIVA LA MORIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

VIVA LA MORIA

Scrive Manzoni che nella Milano appestata i monatti – addetti al trasporto dei malati al lazzaretto e dei cadaveri al cimitero – brindavano allegramente ripetendo “Viva la moria!”, dato che l’epidemia garantiva agli stessi un lavoro continuo e remunerativo, e la connessa possibilità di rubare e di estorcere denaro a malati e parenti. Una delle vittime fu proprio Don Rodrigo derubato dai monatti d’accordo con il Griso. Mentre Renzo, preso dalla folla per untore (ossia diffusore volontario della pestilenza) era protetto dai monatti quale procacciatore d’affari dei medesimi.

Il contegno dei monatti è da non dimenticare perché per ogni situazione, anche quella più luttuosa, c’è sempre qualcuno che ci guadagna, e non solo l’erario, come mi è capitato di scrivere poco tempo fa, citando Puviani e Pareto. Qualche tempo dopo il terremoto d’Abruzzo, destò scandalo la registrazione della telefonata di un imprenditore edile che esultava nell’apprendere l’entità dei danni provocati dal sisma, che si sarebbero tradotti – per lui – in appalti e commesse per la ricostruzione.

Indubbiamente alcuni settori hanno già beneficiato della pandemia: farmacisti, industrie farmaceutiche, imprese di pulizia, industrie tessili convertitesi alle mascherine e così via. Ma dato il rapporto chiaro e diretto tra evento e beneficio relativo non v’è ragione di alzare la guardia. Che invece occorre in altri, meno diretti, rapporti tra virus, poteri pubblici e beneficiari della spesa (tax-consommers).

Sarà, ma quel gran parlare della novità, del mondo nuovo, di ricostruire dopo la pandemia sembra, o può diventare l’ouverture di una (prossima) grande abbuffata.

Ricorda il prof. Conte che il nostro è il Paese della bellezza (ovvio) e per farlo crescere – anzi ripartire – occorre la “modernizzazione”, la “transizione ecologica” e l’ “inclusione sociale, territoriale e di genere” (quest’ultima non poteva mancare).

Tutte ovvietà, ed alcuni idola esclusivi della sinistra. Per sostenere questi “tre pilastri” del rilancio, qualche euro è già disponibile ma altre spese “dobbiamo deciderle e per la redistribuzione delle somme, se non abbiamo progetti concreti, misure di impatto, non andiamo da nessuna parte” (fonte: qui finanza).

Il prof. Conte si regge con una maggioranza il cui socio principale, non in parlamento, ma nell’elettorato è il PD che nella quasi trentennale stasi italiana da cui ri-partire, ri-distribuire, ri-progettare (e via ri-partendo e ri-parlando) ha grandi responsabilità, onde come partner della ri-costruzione è poco credibile. Dato tale pilastro del governo il nuovo facilmente sarà la ri-edizione del vecchio copione (cambiati titoli, colori e al limite la punteggiatura). C’è da dire peraltro che proprio la vaghezza e ovvietà dei propositi non fa presagire granché di nuovo né di travolgente.

Quello che però conta è che propositi vaghi possono attrarre perché una volta determinati – e dotati delle idonee provviste monetarie, merito (anche) di un’Europa meno avara del consueto – suscitano vere folle di candidati alla ri-distribuzione, non solo disoccupati, cassintegrati, partite IVA, ma anche (soprattutto) fornitori dei beni e servizi di ri-costruzione.

Cioè attirano una folla di tax-consommers i quali, come dicono in Spagna si attivano a buscar un lugar en el presupuesto, ossai a trovare una nicchia nel bilancio ed essendo questo all’uopo abbondantemente fornito, hanno una ricerca facile.

Ciò che per i contribuenti italiani è assunzione di obblighi e pesi, per quelli costituisce guadagni e affari. È prevedibile che quindi la lotta per la re-distribuzione sarà ampia e dura e l’unico a soccombere il contribuente.

Accanto ad alcune iniziative logiche (investire per un vaccino) già se ne sentono altre che appaiono meno confortate dall’esperienza e dalla logica.

Come quella che l’inquinamento avrebbe provocato (o almeno aiutato) il virus. Ma l’umanità è stata funestata da millenni di pestilenze e non risulta che i contemporanei di Renzo, di Boccaccio o di Marco Aurelio bruciassero, come facciamo noi, miliardi di tonnellate di carbone, gas, petrolio.

E gli italiani che di sprechi (pubblici) ne hanno sopportati tanti, tutti motivati dalle buone intenzioni dei governanti e dei tax-consommers, devono vigilare perché i sacrifici richiesti a tutti non si risolvano in benefici per pochi.

Teodoro Klitsche de la Grange

GLI “STATI GENERALI” DI CONTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

GLI “STATI GENERALI” DI CONTE

È impegnativa l’espressione con cui il prof. Conte ha designato il convegno programmato per la settimana in corso. “Stati generali”, che rimanda a quelli convocati (l’ultima volta) nel 1789, per risanare le finanze francesi e il cui risultato – come spesso accade – non fu quello preventivato, ma l’altro di cambiare in toto la forma politica, e ancor più, il mondo moderno; passando per rivoluzioni, terrore, guerre (civili e internazionali). Pare comunque da escludere che il convegno – a onta del nome – possa avere esiti così epocali; proprio perciò occorre fare qualche considerazione, per non confondere con le parole quel che è distinto nei fatti.

In primo luogo quali differenze hanno gli Stati generali di Conte da quelli convocati da Luigi XVI, e a cosa di attinente alla rivoluzione invece somigliano? È diverso, in primo luogo il ruolo (e la posizione) costituzionale: l’assemblea francese era un organo dell’Ancien régime, quello del prof. Conte è un’iniziativa che non ha funzione, rilievo, effetti istituzionali. E ciò fa gioco alla maggioranza parlamentare, perché qualunque cosa decida (??) il convegno, non può comandare e soprattutto mandarli a casa, né ora, né nel futuro.

Secondariamente, altro pregio del convegno, i partecipanti sono degli invitati di Conte e non dei delegati o rappresentanti di qualcuno (nazione, popolo, ceti, terzo stato, ecc. ecc.), quindi non possono parlar quali “rappresentanti” e a nome di qualcuno né esprimerne la volontà. I componenti degli Stati generali erano stati eletti dalle assemblee di “ceto”, ne riportavano volontà e aspirazioni esposte nei Cahiers des doléances, erano vincolati al mandato ricevuto; la funzione che avevano – anche se istituzionale – era consultiva. Ma erano scelti con procedimenti pubblici; nel regolamento (per l’elezione degli Stati generali) del 24 gennaio 1789 si leggeva che “il Re… ha voluto che i suoi sudditi venissero tutti chiamati a concorrere alle elezioni dei deputati che dovranno formare questa grande e solenne assemblea”. Così attraverso il procedimento elettorale si saldava la delega tra mandanti e mandatari. Comunque ben diversi dagli invitati del prof. Conte.

Semmai qualche tratto di maggiore somiglianza la convention di Conte ce l’ha con l’altra assemblea consultiva convocata nel 1787 da Calonne: l’Assemblea dei notabili, la quale, a differenza dei deputati – mandatari degli Stati generali, era composta da nominati dal monarca e quindi, malgrado fossero non del tutto proni alla volontà del governo non avevano alcuna intenzione di fare una rivoluzione, tantomeno quella che ne venne fuori. Anche perché come pensavano (e pensano) i rispettivi governi è improbabile che nominati dal re provvedano a tagliargli (e tagliarsi) la testa. E infatti non assentirono alle richieste del governo, ma se ne tornarono a casa buoni buoni (seguiti, subito dopo, da Calonne).

L’altra somiglianza è nella situazione critica, anche se priva del carattere epocale e del lavorio preventivo della talpa (illuminista) della storia.

Allora furono il deficit e i cattivi raccolti il contesto, e l’occasio che fece brillare la scintilla rivoluzionaria; oggi il Coronavirus, la più che ventennale stasi economica italiana e la crisi, non ancora esaurita, del 2008-2011.

Se è vero che la “talpa” non ha lavorato come quella del XVIII secolo, ha comunque scavato qualche tunnel: la scarsa considerazione in cui le élite globaliste sono considerate dai governati ne è il risultato. Misurata anche dal consenso crescente ai partiti sovran-popul-dentitari.

E la stessa convocazione dell’ (innocua) convention di Conte lo conferma.

I mandatari del 1789 avevano i Cahiers des doléances elaborati dalle assemblee dei mandanti e così un qualcosa di concreto e reale da esporre al monarca: gli invitati di Conte, non hanno né quelli, né un mandato, né – alle spalle – una procedura di scelta da parte dei mandanti. Sono dei partecipanti a un convegno: sicuramente innocui e probabilmente inutili.

Chi ha la rappresentanza nella versione forte, tipica della dottrina moderna dello Stato, e formulata da Sieyès per trasformare proprio gli Stati generali in assemblea costituente, è il Parlamento: e non ha neanche bisogno del genio di un abate rivoluzionario, perché è già presente ed enunciata nella costituzione (v. art. 67), come tale ogni parlamentare è un rappresentante e organo rappresentativo è il Parlamento: al contrario dell’ancien régime, un organo rappresentativo che discuta e decida, già c’è. E quindi non deve far altro che il proprio mestiere: eletto dal popolo deve decidere in favore del popolo, e soprattutto, in una repubblica parlamentare, dando (o revocando) la fiducia al governo. Proprio quella che il governo giallo-fucsia teme. E per questo preferisce una convention di invitati.

Teodoro Klitsche de la Grange

TIMEO DANAOS…, di Teodoro Klitsche de la Grange

TIMEO DANAOS…

Non è vero che il Covid-19 faccia solo dei danni: tra gli effetti benefici (rari) ha aperto gli occhi (perfino!) alle élite decadenti del centrosinistra nostrano. E cosa ha rivelato? che, come da molti decenni risultava da rilevazioni e statistiche, l’handicap (principale) dell’Italia è di avere, rispetto non solo agli altri paesi sviluppati, ma a gran parte di quelli esistenti sul pianeta, amministrazione e burocrazia di rara inefficienza, di guisa da riuscire a sminuire, travisare, minimizzare le misure decise dal Parlamento e dal governo. Meglio tardi che mai. Non solo Salvini, la Meloni e Berlusconi, ma anche dall’opposta sponda è tutta un’invocazione, meglio una maledizione – a San Burocrazio. Anche da coloro che dell’inefficienza dell’amministrazione hanno fatto una risorsa di governo (e spesso per tirare a campare, anche sul piano personale e privato).

Ma a tale “conversione” sulla via di Damasco, occorre prestare, per così dire, una fede critica. Ovvero valutarla dall’esperienza, dalla forma istituzionale e dalla storia.

In primo luogo: tutti sostengono che le misure straordinarie per compensare gli italiani dei danni sono state attuate con sconcertante lentezza; molti aggiungono, argomentando della (rapida) realizzazione del ponte di Genova, che occorre fare a meno di (gran parte) dei passaggi amministrativi i quali appesantiscono i procedimenti di esecuzione delle opere pubbliche. Si può replicare che non basta. In effetti le amministrazioni pubbliche italiane – salvo qualche eccezione – sono lente e gravate da passaggi inutili sia nell’erogare sussidi che nel concedere autorizzazioni, pagare debiti o realizzare opere ed interventi. Cassa integrazione lenta, bonus per partite IVA, esecuzioni di lavori pubblici sono solo i capitoli di un libro assai più esteso. Intervenire solo per questi significa da un lato mettere la classica toppa a un vestito vecchio e liso, dall’altro  gattopardescamente, a cambiare qualcosa perché (quasi) tutto rimanga uguale. Se l’Italia da circa trent’anni non cresce lo si deve, in buona parte, all’inefficienza dell’amministrazione. La costruzione in tempi record di qualche ospedale, grazie a deroghe alle leggi, non può cambiare l’andazzo generale. Così come, ad esempio, non servirono i vasti poteri concessi ad organi commissariali tenuti alla sola osservanza dei principi generali dell’ordinamento (e non della legge) nominati in forza della legislazione per il terremoto campano-lucano (1980); poteri che non trasformarono Campania e Basilicata nella Svizzera o nel Lussemburgo del sud.

Secondariamente l’“ideologia” alla base dell’intervento pubblico nell’economia è una specie robusta di costruttivismo, fondato sulla (pretesa) razionalità di un disegno di sviluppo centralizzato, guidato e iper-regolato rispetto alla disordinata (ed ingiusta) spontaneità del libero gioco degli interessi.

A parte altri tipi di obiezione che le si possono muovere è sicuro che anche il più razionale, corretto e giusto dei pianificatori-programmatori-amministratori non è in possesso né di tutte le informazioni di chi opera sul mercato (tutti) né può sostituirsi alle loro intenzioni e volontà, O meglio, se lo fa (e lo fa sempre) deve usare una coazione tanto più estesa quanto è il potere che esercita.

Il maggior esempio nel XX secolo di costruttivismo realizzato è stato il socialismo reale, con i suoi piani quinquennali (e altro). Quando, con l’ultima costituzione sovietica il PCUS ne annunciò la realizzazione, mancavano pochi anni a che tutto crollasse nell’indifferenza generale.

In terzo luogo, la crescita dell’amministrazione e della burocrazia è tendenza pluricentenaria dello Stato moderno, in particolare negli ultimi due secoli. Tanti pensatori, da Tocqueville a Donoso Cortes, Da Marx a Silvio Spaventa, da Fortunato a Don Sturzo (tra i tanti) l’hanno trattata. Ma è ineluttabile che la burocrazia, come scrive Max Weber, è la componente tipica  dello Stato moderno. Perché, anche se spesso ipertrofica, costituisce il tipo razionale di gestione pubblica.

Anche al fine di limitarne il potere, furono previste, nella successiva evoluzione dello Stato borghese vari tipi di garanzie. Tra queste la più importante (e incisiva) è il controllo dell’operato amministrativo da parte del giudice;  quello “ordinario” e/o quelli “nuovi”: la giustizia amministrativa e, successivamente, quella costituzionale.

In particolare quella amministrativa ed ordinaria è stata oggetto di limitazioni (e perfino di autolimitazioni) inconsuete e ripetute negli anni della “seconda Repubblica” al fine esternato di “ridurre le spese”. Che alla faccia dell’intenzione virtuosamente manifestata, non hanno fatto altro che aumentare. Anche in occasione della presente crisi sanitaria, si è sentito spesso dire che, per accelerare le procedure, occorre limitare i poteri dei giudici penali e dei TAR. Gli invocati “scudi” proliferano; un’avvenente ex-ministro pochi giorni fa, in televisione, se l’è presa con i TAR.

Ma non è dato capire a chi, se non ai giudici, devono rivolgersi le centinaia di migliaia di cittadini creditori insoddisfatti delle PP.AA. (spesso da lustri).

Piuttosto è il caso di attuare e far finalmente funzionare la normativa sulle responsabilità dei funzionati, prevista dall’art. 28 della Costituzione, e mai realmente attivata. Non quindi di limitare i poteri dei giudici (spesso timidamente esercitati) ma di rendere effettiva la responsabilità dei funzionari. Ma la classe politica consentirà ad abbandonare al rispetto del diritto l’aiutantato amministrativo?

Teodoro Klitsche de la Grange

Michel Onfray, Teoria della dittatura, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Michel Onfray, Teoria della dittatura, Ponte alle Grazie 2020, pp. 219, € 16,50.

 

Michel Onfray con questo saggio ci offre una “nuova” concezione della dittatura, che non è quella classica del secolo XX, in cui il termine era usato (soprattutto) per designare il totalitarismo, ma è la dittatura mascherata, con parecchi punti di contatto con il dispostismo mite descritto da Tocqueville in un celebre passo della Democratie en Amérique (2,4,6).

L’autore si pone il problema se la società attuale sia veramente libera, o almeno, abbia fatto negli ultimi decenni progressi verso la libertà. Per rispondere a questi interrogativi usa criteri desunti dalle due opere di Orwell più note: 1984 e La fattoria degli animali, in cui il romanziere inglese descriveva i totalitarismi del XX secolo: nazismo e comunismo. Da queste, Onfray desume sette “comandamenti” idonei a demolire le libertà e realizzare una dittatura: distruggere la libertà, impoverire la lingua; abolire la verità; sopprimere la storia; negare la natura; propagare l’odio; aspirare all’impero.

Ai comandamenti seguono i “principi” che ne sono le deduzioni conseguenti, come Praticare una lingua nuova, Usare un linguaggio a doppia valenza, Inventare la memoria, Cancellare il passato, Creare la realtà, e così via.

Comandamenti e principi che si trovano, per lo più, sia nei totalitarismo del ‘900 che nell’Europa di Maastricht, qui ovviamente in versione soft. Una particolare attenzione l’autore da alla comunicazione: Orwell in 1984 aveva descritto una società in cui il potere era esercitato prima che con la coazione, con un raffinato stravolgimento del legame tra realtà e rappresentazioni verbali. La neolingua è finalizzata a ridurre il pensiero “il potere sulle cose passa per il potere sulle parole”. La stessa riduzione dei vocaboli, la semplificazione della grammatica e della sintassi riducono le possibilità di un pensiero diversificato ed analitico. Ancor più se i termini sono (volontariamente) equivoci. Si arriva così a creare una realtà immaginaria: la realtà non ha un’esistenza autonoma, indipendente dal soggetto: è un prodotto della coscienza del soggetto che “le fornisce senso, vita e verità”. Continua Onfray “Una metafisica di questo tipo è estremamente interessante dal punto di vista politico… Se la realtà è solo quello che la coscienza le permette di essere, basta agire sulle coscienze per produrre la realtà che si desidera. In ambito di realtà, ciò che è, è soltanto ciò che si trova dentro la coscienza, quindi dentro la testa del soggetto. Grazie all’educazione delle coscienze, il potere potrà allora produrre la realtà che più gli conviene”.

Ovviamente per far questo occorre “non credere a quello che si vede o a quello che si sente; … credere soltanto a quello che il Partito sostiene”. Ossia la scissione tra rappresentazione verbale e realtà serve a corroborare l’esercizio del rapporto di comando-obbedienza, quindi a creare consenso al potere. Più consenso significa usare meno la forza.

L’autore riporta le frasi di uno dei personaggi di 1984, l’intellettuale-dirigente del Partito. Questi racconta al protagonista “Tu credi che la realtà sia oggettiva, esterna, che esista di per sé. Credi anche che la natura della realtà si riveli da sé… Ma, Winston, ti assicuro che quella realtà non è esterna…(esiste) soltanto nella mente del Partito, che è collettiva e immortale. Ciò che il Partito considera la verità è la verità”.. Anche la storia è vissuta e percepita in 1984 attraverso il ministero della Verità, solo in funzione del presente e in quanto serve al potere: il passato è riscritto per le esigenze  contingenti del Partito.

Nella conclusione l’autore sostiene “Chi può dire, oggi come oggi, di non essere d’accordo sul fatto che il ritratto del totalitarismo abbozzato da Orwell sia quasi un affresco dei nostri anni? Anche oggi, in effetti, la libertà è difesa male, la lingua messa sotto attacco, la verità cassata, la storia strumentalizzata, la natura bypassata, l’odio incoraggiato e l’imperialismo in marcia”. Il culto votato oggi al progresso è un “progressismo nichilista”, una marcia verso il nulla: e Onfray enumera tutti i sintomi che riconducono ai “comandamenti” di Orwell la situazione attuale, tra cui la moralina, concetto di Nietzsche il cui “nome rimanda, da una parte alla morale” e dall’altra agli stupefacenti, la quale “contamina queste stesse fonti con un manicheismo capace solo di opporre il bene al male, i buoni ai cattivi, il verso al falso, l’informazione all’intossicazione”. In un mondo siffatto il “progresso” consiste “nel mobilitare la scuola, i media, la cultura e il Web per fare propaganda… nel nascondere il vero potere e nello sviare altrove l’attenzione… consiste infine nel governare senza il popolo, contro il popolo e nonostante il popolo”.

Ossia nella mistificazione di un potere il quale diffonde un conformismo di massa per esercitare il dominio (detto nella vecchia lingua) o la governance, come si esprimono, nella neolingua, le classi dirigenti. Ma come possa ciò salvarci dall’evidente decadenza in cui sta sprofondando lentamente l’Europa e, più in fretta, l’Italia, non è dato comprendere. Anzi è (il frutto e) la derivazione, nel senso di Pareto, di questa stessa decadenza.

Teodoro Klitsche de la Grange

LIBERALI SENZA NEMICO?, di Teodoro Klitsche de la Grange

LIBERALI SENZA NEMICO?

Se qualche (politologo) marziano sbarcasse oggi sulla terra avrebbe l’impressione dal dibattito pubblico, che liberale significa: a) essere cosmopoliti; b) non volere – o rendere permeabili – le frontiere; c) essere individualisti, ma soprattutto anticomunitari; d) essere egualitari, indipendentemente dai (specifici) caratteri naturali; e) operare perché siano promossi a diritti e tutelati dal potere pubblico desideri e pulsioni individuali. Ciò, in aggiunta – ma non sempre – che i suddetti liberali sarebbero anche neo – liberisti (spesso è vero). E anche altro di minor rilievo. Tale giudizio è, in negativo, condiviso anche da coloro che ai liberali si oppongono. Orban ad esempio si oppone ad un “liberalismo” cui attribuisce – in gran parte – i connotati sopra ricordati.

  1. Ma è corretto qualificare liberale e movimento politico (in senso proprio) chi pensa così?

Ad esaminare cosa si intendeva per liberale (con la e finale) si deve rispondere che tale nuovo concetto ha alcuni tratti – e non sempre i più qualificanti – del liberalismo, ma gliene mancano altri.

Tra i primi indubbiamente i nuovi liberali hanno in comune con i “vecchi” l’individualismo (ma solo fino a un certo punto l’anticomunitarismo); in qualche misura anche l’egualitarismo, ma con la differenza essenziale che è un egualitarismo (quello dei “vecchi”) che tratta realtà eguali in modo uguale, mentre quello dei “nuovi” quasi sempre realtà diverse allo stesso modo. Quanto a cosmopolitismo e frontiere, se è vera l’avversione (tendenziale) dei liberali all’”ésprit de conquéte” è pur vera che, storicamente, non hanno difeso la comunità nazionale meno di governanti di diverso orientamento.

Relativamente ai “diritti” è il caso di ricordare che, spesso, per i liberali classici questi hanno il carattere di “libertà da”, ossia di protezione della sfera individuale dall’invadenza pubblica (in primo luogo) ma anche privata. Mentre per i “liberali” odierni hanno spesso le strutture di “libertà di” e spesso comportano la compressione (e talvolta la penalizzazione) d’opinioni diverse.

Ad esempio il matrimonio tra omosessuali, che significa conferire una facoltà (lo jus connubi) tutelato e riconosciuto a creare un nuovo status, secondo molti un’istituzione (la famiglia).

Peraltro tali diritti sono spesso soggetti ad interpretazioni quanto mai estensive, equivocando sulla rubrica della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (del 1789), confondendo “uomo” e “cittadino” ed attribuendo anche al primo i diritti del secondo. Per loro natura i diritti spettanti al civis sono libertà di, ossia di partecipazione alla vita, alla decisione ed alla funzione pubblica (voto, accesso, partecipazione – v. art. 6-11-14); ancora più spesso, si facilita l’acquisizione della cittadinanza agli immigrati, basandola sulla durata di residenza, su quella del lavoro, sullo jus soli (e così via), facendo acquisire così lo status per esercitarli.

È evidente inoltre che nella narrazione dei “nuovi” liberali, la tutela di diritti cui i “vecchi” tenevano molto è (largamente) depotenziata; se un tempo ciò che era tipico della constitution sociale era la garanzia della “libertà e proprietà”, ora spesso libertà (nel senso dei vecchi) e proprietà viene sottovaluta dai nuovi. Basti ricordare la diffusione di norme contro opinioni culturali: dal revisionismo storico alle fake-news, ossia la libertà di dire anche sciocchezze sulla rete. Il che, tenuto conto del ruolo che la libertà di opinione ha nel sistema delle libertà liberali – è storicamente la prima ad emergere nel mondo moderno nella libertà di coscienza e la tolleranza religiosa  – è un vulnus niente male. E cui le èlite dirigenti peraltro non sono affatto estranee, data la mole (quantitativa ma anche qualitativa) delle bufale (fake-news) dalle stesse diffuse, anche nell’ultimo trentennio. O la scarso interesse delle stesse per il diritto di proprietà, specie se lo si confronta con l’attenzione riservata alla libertà di commercio e a quella d’iniziativa economica.

Sul piano istituzionale non danno grande attenzione né al principio di distinzione dei poteri (né alle garanzie dei diritti), che richiede istituzioni apposite, pensate e realizzate dai “vecchi” liberali. E che negli ultimi decenni almeno in Italia, hanno fatto consistenti passi indietro[1]; e quel che parimenti conta, nella generale indifferenza.

Quanto all’altro caposaldo del costituzionalismo liberale, cioè la tutela dei diritti fondamentali e con ciò del principio di separazione tra Stato e società civile (Schmitt) ha anch’esso fatto passi indietro, un po’ perché alcuni diritti fondamentali sono più belli di altri (v. sopra), e, in genere, perché le limitazioni alle istituzioni di garanzia li riducono tutti.

  1. Se si dovesse cercare il “punto d’Archimede” del liberalismo, ovvero ciò che lo distingue essenzialmente e fa si che sia quello che è e non qualcosa di diverso (come Lassalle sosteneva per le costituzioni) è che il liberalismo, o più limitatamente la concezione liberale dello Stato, non è una concezione che istituisce un potere, ma i controlli al potere stesso. Un sistema di valori, d’interesse, d’idee, nel linguaggio di “recente” modernità un’ideologia, legittima il potere. Così è legittimata una monarchia tradizionale, una democrazia, un’aristocrazia, anche un regime tirannico o totalitario, o uno status mixtus. Ma tuttavia le forme di Stato e di governo possono essere liberali o no – forse l’unica che non può esserlo, tra quelle praticate nella storia del cristianesimo occidentale è, per incompatibilità totale, il totalitarismo comunista o nazista. Se hanno tutela dei diritti fondamentali, separazione dei poteri, possono essere qualificate come liberali, se no, non lo sono. Scrive Schmitt “Il moderno Stato costituzionale nella sua struttura è composto di due diversi elementi: di una serie di intralci al potere statale propri dello Stato borghese di diritto e di un sistema sia esso monocratico o democratico di attività politica[2].

Riprendendo la nota espressione del “Federalista”, perché vi sia uno Stato liberale è necessario che, oltre ai governi, esistano anche i controlli sui governi. Per cui il punto essenziale del liberalismo è che il potere politico sia limitato (almeno nello stato normale e, in qualche misura anche nella situazione eccezionale); così d’altra parte, come sostiene Schmitt, non esiste uno Stato liberale “puro” ma solo delle forme politiche limitate da un sistema liberale di garanzie e controlli.

Una monarchia rappresentativa del XIX secolo, in cui il potere monarchico richiedeva, per alcuni atti, la deliberazione di parlamenti eletti da un elettorato assai ristretto (nell’Italia appena unita circa il 5% degli uomini maggiorenni) era qualificato liberale sia perché era prevista la tutela dei diritti fondamentali sia la separazione dei poteri. Questo pur essendo un regime riconducibile ad uno Status mixtus aristo-monarchico. Così come la democrazia “compiuta” del XX secolo, col suo apparato di garanzie, controllo di costituzionalità compreso. e l’elettorato universale, è una democrazia liberale.

  1. Se essenziale è la tutela dei diritti, in primo luogo dell’individuo, e delle istituzioni che consentono di farlo, ne deriva che è nemico chi impedisce di esercitare tali diritti e conformare conseguentemente l’ordinamento.

Indipendentemente dall’insorgere di un nemico per altre ragioni (controversie territoriali, economiche, giuridiche e così via) questo può essere configurato hegelianamente, anche come differenza etica, ossia come negazione dei principi fondamentali dell’ethos condiviso nella comunità (come durante il XX secolo uno Stato borghese per i comunisti e viceversa) e conformato nelle sue istituzioni[3].

Quindi tra i tanti nemici possibili e reali ce n’è uno – o qualcuno – che è tale perché è una “differenza etica”; è la stessa identificazione di tale nemico a chiarire connotati essenziali (e fini) del liberalismo.

È indubbio che il nemico “etico” per un liberale “classico” era così colui che non accetta (o riduce) limiti e controlli all’esercizio del potere. Già col periodo rivoluzionario la palma passò dai sostenitori dell’ancien regime agli estremisti giacobini. Durante la restaurazione divenne nuovamente la Santa Alleanza. Dopo la comune il movimento socialista, e poi i bolscevichi. La caduta del “socialismo” reale ha privato i liberali del nemico dichiarato (ma una nuova antitesi è andata emergendo).

Tuttavia in tale disorientamento, è cresciuto un “nemico” (poco credibile e) poco o punto simile a quello “classico”. Se il “nemico” dei (sedicenti) liberali post-moderni è l’omofobo, il “razzista” (declinato in tutte le sue gradazioni, da quella seria, ma fortunatamente consegnata alla storia, dei campi di sterminio, via via scendendo fino alle troppe contravvenzioni stradali inflitte ai rom dai vigili di un comune ungherese – UE.dixit); il creatore di fake-news e via salendo (ma non troppo) in politicità, l’inquinatore e soprattutto il sovran-populista, allora i nemici (nuovi) non hanno la grandezza demoniaca dei nemici di un tempo. Da Robespierre a Stalin, da Hitler a Metternich, da Lenin a Mao.

Si potrebbe osservare che ognuno ha  il nemico che si merita: la vittoria sul “grande” nemico garantisce una fama grande e imperitura, quella su un nemico piccolo piccolo assicura al vincitore solo di poter dominare qualche anno di più.

  1. Nel nemico depotenziato e ridotto a misura di contendente, c’è comunque un pericolo: di spoliticizzare, più ancor di quanto sia già, il liberalismo. La cui funzione principale era di creare istituzioni limitative del potere. Se i liberali sono quelli che difendono le scelte (privatissime) di preferenze sessuali, e così via, chi difenderà gli uomini dagli abusi del potere? Se poi perché un potere sia “liberale” basta che assicuri la libertà di consumo, di scelta del partner, di migrazione, allora accettabilmente liberale è anche il PC cinese (che di strada dai tempi di Mao ne ha fatta, tuttavia, tanta) malgrado Tien-a-men e i Lao-gai (tuttora, si dice, esistenti, almeno nel Xin-Iang). In effetti in Cina c’è libertà di consumo, Xi-in.ping difende a ogni piè sospinto la libertà di mercato, non risultano discriminazioni nei confronti di omosessuali. Che sia comunque un regime a partito unico, con minoranze (spesso religiose) represse, diritti umani poco protetti, separazione dei poteri poco trascurata (a dir poco) tutte cose che avrebbero indotto un “vecchio” liberale ad essere critico e circospetto, non pare muovano granché un liberale post-moderno.

Ma così il liberalismo perde la propria politicità (e funzione) che nell’età moderna è stata (anche) quella di neutralizzare le antitesi del politico, e così di permettere una convivenza pacifica all’interno delle comunità politiche, oltre allo sviluppo delle libertà fondamentali. Per far questo occorreva politicamente identificare il nemico in colui che conculcava quella libertà e i principi dello Stato borghese di diritto cioè nel contrapporvisi. Ma ora che i “liberali” si occupano d’altro, chi ci salverà da quel nemico?

Teodoro Klitsche de la Grange

 

[1] Rinvio per un’analisi più articolata al mio lavoro Temi e Dike nel tramonto della Repubblica in Rivoluzione liberale on.line 17/07/2018)

[2] v. C. Schmitt Verfassungslehre, trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1984, p. 154 (il corsivo è mio).

[3] Scriveva Hegel a tale proposito “Una differenza siffatta è il nemico; e la differenza, posta in relazione, sussiste nel contempo come  il proprio contrario, come il contrario dell’essere degli opposti, come il nulla del nemico, e questo nulla equivalente da entrambi i lati è il pericolo della lotta. Questo nemico può essere, per l’elemento etico, soltanto un nemico del popolo ed esso stesso un popolo. Presentandosi qui la singolarità, è per il popolo che il singolo si espone al pericolo della morte” ora in Scritti politici, Roma…., p. 174.

Funzionarismo, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTA PRELIMINARE

L’articolo che segue è l’introduzione al mio saggio “Funzionarismo” pubblicato nel 2013.

Il virus ha suscitato un dibattito sui mali della burocrazia, in specie di quella italiana e sui rimedi.

Affinché il tutto non si riduca, dopo le consuete invettive a San Burocrazio e Kirieleison vari, nel solito topolino, il tutto può servire a ricordare quanto il problema sia non il roditore ma la montagna, riconosciuta come tale dai più attenti pensatori dello Stato e della politica moderni, come dai politici che hanno fondato l’uno (e l’altra). Lo Stato borghese è, per sua natura, anti-burocratico; solo che della burocrazia non può fare a meno, come qualsiasi forma moderna di Stato (e di potere). Ne deriva che all’uopo necessita di adeguati limiti e contro-poteri. Che non possono ridursi a una semplificazione amministrativa e alla eliminazione delle procedure e controlli, che nell’emergenza è opportuna, ma nella normalità può costituire un cattivo affare. Proporre misure o poco utili o troppo blande vuol dire, in definitiva, conservare la sostanza dall’esistente: proprio quello di cui non si sente alcun bisogno.

Introduzione

Nei primi decenni del secolo scorso il termine “funzionarismo” era impiegato, almeno nelle opere di tre intellettuali di spicco dell’epoca (ma non solo da questi), non riconducibili ai medesimi interessi culturali. Un giurista, Antonio Salandra; un economista, Giustino Fortunato; un pensatore politico, Antonio Gramsci. Anche se il significato del termine usato presentava delle differenze tra l’uno e l’altro.

Per Salandra funzionarismo denotava la situazione dell’ordinamento dello Stato moderno per cui s’incrementava la funzione amministrativa[1] e, correlativamente, il personale addetto; ciò era provato dai dati quantitativi costituiti dall’aumento delle spese e del numero degli impiegati per cui questi “dànno un’adeguata misura del bisogno sempre crescente di mezzi materiali e personali, che l’amministrazione risente per conseguimento dei suoi fini. La continua progressione dei bilanci e l’estensione di quello che fu detto funzionarismo non possono in alcun modo essere disconosciute”.

Funzionarismo significa così un incremento del ruolo e del potere della burocrazia perché il potere pubblico esercita le funzioni (crescenti) a mezzo di impiegati specializzati. Apparentemente il significato che ne da Salandra è il più “neutro” dei tre; ma subito dopo, da buon liberale-conservatore, aggiunge[2] una considerazione spesso ripetuta dai teorici dello Stato borghese.

Sociologico (e anche più “di valore”) il giudizio di Fortunato. Questi ricorda come vi sia un nesso indissolubile tra proletariato intellettuale e funzionarismo[3] che porta alla proliferazione d’impieghi pubblici di dubbia (o inesistente) utilità. Vede poi distintamente la contrapposizione che così è generata, tra burocrati e rappresentanza (e sovranità) popolare. Il socialismo trova presa facile tra i dipendenti pubblici. Vi aveva attecchito facilmente perché «smarrito assai presto il contenuto etico, non indugiò a coltivare l’egoismo di categoria e a favorire i particolari sfruttamenti della piccola borghesia dominante, sempre più desiderosa di accrescere i pubblici uffici. sostituendo vaste imprese pubbliche, autoritarie e gerarchiche, alla libera concorrenza dei cittadini»;[4] questa burocrazia parassitaria «non concepì i servizi amministrativi se non immaginandoli pari a quelli di una macchina, che dovesse agire per solo uso e consumo de’ suoi congegni, nel particolare esclusivo interesse di coloro che vi fossero addetti, – la macchina per la macchina».

Prevedeva che, combinandosi nell’ordinamento degli Stati moderni, rapporto gerarchico (cioè di comando-obbedienza) e divisione del lavoro, si sarebbe concretizzato un assetto policratico dove «all’antico feudalismo “a base locale” terrebbe dietro un feudalismo “a base funzionale”, – tanto più prossimo e sicuro quanto più presto e meglio praticato dagli addetti a’ pubblici uffizi e dagli agenti delle imprese di Stato. che “la fatale evoluzione economica”, avverte il Turati, costringerà ad essere, piaccia o non, i primi cittadini della città futura».[5]

Tale tendenza si sta già realizzando, sosteneva Fortunato, perché la burocrazia è riuscita a «sottrarre alla concorrenza privata il maggior numero di intraprese, assumendone direttamente l’esercizio: ossia, la tendenza al dominio universale della burocrazia, – il cui trionfo sarebbe la resurrezione, sott’altra forma, dell’antico assolutismo, o, meglio, della peggiore delle tirannie, quella della servilità uniforme e meccanica».

Gramsci avverte la contraddizione dello Stato liberale che da un lato costruisce uno Stato “rappresentativo” che trova il proprio punto centrale nell’ “autonomia” della società civile garantita dalla divisione dei poteri (in primo luogo) e nella sovranità popolare; all’opposto nell’espansione dei poteri burocratici.[6]

Dall’altro l’espressione funzionarismo connota in Gramsci – nella scia, sul punto, di Michels – la prevalenza all’interno del sindacato e del partito socialista del potere dei funzionari e della conseguente weltanschauung riformistica e burocratica, in antitesi con lo spirito rivoluzionario. Al posto della dedizione e dello slancio del militante, teso a realizzare, attraverso la fase della dittatura del proletariato, la società senza classi e l’uomo nuovo , subentra il calcolo e la trattativa, la “pratica quotidiana” del funzionario. Contraria, di conseguenza, allo “spirito” rivoluzionario, onde il termine acquista un significato negativo, ovviamente (in larga parte) diverso da quello che ha in Giustino Fortunato. In parte (grande), ma non in tutto. Infatti: nello spirito liberale, non solo in quello rivoluzionario-giacobino, c’è una forte connotazione anti-burocratica. Tocqueville, ad esempio, scrive in più passi contro la “garanzia amministrativa” dei funzionari.[7]

E la famosa descrizione che fa del “dispotismo”, del potere paternalistico ha quali presupposti, da un canto la presenza crescente del potere burocratico, dall’altro l’assenza (il venir meno) dello spirito civico dei cittadini.[8]

Le previsioni e le valutazioni di Tocqueville hanno molti punti di contatto con quelle di Max Weber: «dove domina il moderno funzionario specializzato con istruzione specifica, il suo potere è senz’altro indistruttibile, poiché l’intera organizzazione dal più elementare approvvigionamento della vita riposa sulla sua prestazione»; ma il pericolo è evidente[9]; l’organizzazione burocratica è “spirito rappreso”[10] «In unione con la macchina inanimata, essa è all’opera per preparare la struttura di quella servitù futura alla quale un giorno forse gli uomini saranno costretti ad adattarsi impotenti, come i fellah dell’antico Egitto, qualora un’amministrazione e un approvvigionamento razionale mediante funzionari – pur ottimi dal punto di vista puramente tecnico – costituiscano per essi il valore ultimo ed esclusivo che deve decidere sul modo di dirigere i loro affari.»[11]

  1. La percezione del burocrate e della burocrazia era, nel pensiero dei politici “costruttori” dello Stato borghese, negativa.

Ciò perché il perseguimento dell’interesse generale, cioè la ragione d’essere dell’istituzione politica (e “generale”), era visto come negativamente condizionato dagli interessi particolari, sia dei governanti che dei governati. Onde il problema della giusta costituzione e delle rette leggi, consisteva, sotto il profilo organizzativo, in misura non secondaria sul come modellare l’una e gli altri di guisa che gli interessi privati e settoriali, di cui sono portatori  sia i governanti che i governati, non prevalgano sull’interesse pubblico. Nel The federalist il problema è posto chiaramente. Il saggio n. 10 si interroga su come far prevalere, in una repubblica ben ordinata, l’interesse generale su quelli particolari. Essendo impossibile rimuover la causa di ciò (individuata nel pluralismo e nella disuguaglianza di proprietà e condizioni) si poteva solo, con opportune disposizioni e accorgimenti costituzionali, controllarne almeno gli effetti, di guisa da non consentire o rendere difficile agli interessi di parte (anche ed anzi soprattutto quelli espressi dai governanti) prevalere su quello generale. Non vi si legge un richiamo esplicito alla burocrazia; ma dato il sistema pubblico americano all’epoca verosimilmente solo per lo scarso sviluppo della stessa.

Che invece si trova nei rivoluzionari francesi, che avevano a che fare con la monarchia “burocratica” dell’ancien régime.

Ad esempio nel progetto di dichiarazione dei diritti proposto da Robespierre alla Convenzione è interessante, ai nostri fini, soprattutto l’art. 25 in cui si proclama: «In ogni Stato la legge deve soprattutto difendere la libertà pubblica ed individuale contro l’abuso dell’autorità di coloro che governano. Ogni istituzione che non consideri il popolo come buono e “il magistrato come corruttibile è difettosa”» (com’è noto, tale espressione non fu inserita nella dichiarazione del 1793). Funzione della legge è quindi difendere la libertà dell’abuso di governanti e funzionari i quali si presumono corruttibili addirittura per esplicita disposizione costituzionale (peraltro mai andata in vigore).

Anche se, come noto, proprio con la rivoluzione francese, e a motivo anche della diffidenza verso il potere giudiziario, ed in omaggio al principio di distinzione dei poteri (o meglio ad una delle di esso “interpretazioni”) furono posti gravi limiti all’attività giudiziaria nei confronti di quella amministrativa e dei funzionari pubblici.[12]

E nel discorso pronunziato alla Convenzione il 10 maggio 1793, Robespierre disse: «Mai i mali della società provengono dal popolo, bensì dal governo. E non può essere che così. L’interesse del popolo è il bene pubblico; l’interesse di un uomo che ha una carica è un interesse privato. Per essere buono il popolo non ha bisogno d’altro che di anteporre se stesso a ciò che gli è estraneo, il magistrato, per essere buono, deve sacrificare se stesso al popolo.»[13]

Anche Saint-just nel rapporto presentato alla Convenzione a nome del Comitato di salute pubblica il 19 vendemmiaio dell’anno II (10 ottobre 1973) scrive: «Tutti coloro che il governo impiega sono parassiti; chiunque abbia una carica non fa niente personalmente e prende dei collaboratori subordinati; il primo collaboratore ha a sua volta aiutanti, e la Repubblica diventa preda di ventimila persone che la corrompono, la osteggiano, la dissanguano. Dovete diminuire dovunque il numero degli impiegati, affinché i capi lavorino e pensino. Il ministero è un mondo di carta… Gli uffici  hanno preso il posto della monarchia; il demone dello scrivere ci intralcia, e non si governa per niente. Ci sono pochi uomini alla testa delle nostre amministrazioni che siano di larghe vedute e in buona fede: il servizio pubblico, come è esercitato, non è virtù, è mestiere»; e nel successivo rapporto del 23 ventoso dell’anno II (13 marzo 1794) rincara «C’è un’altra classe corruttrice, è la categoria dei funzionari… Tutti vogliono governare, nessuno vuole essere cittadino. Dov’è dunque la comunità politica? Essa è quasi usurpata dai funzionari.»[14]

É inutile ripetere qui le considerazioni di tutti coloro che, politici, scienziati della politica, giuristi, economisti, sociologi sono ritornati sull’opposizione tra interesse generale e interesse del funzionario, dopo le rivoluzioni francese e americana.

  1. Tuttavia un’eccezione occorre farla per Marx. Il quale contestava quanto sosteneva Hegel nei paragrafi 287-297 dei Grundlinien, dove questi (tra l’altro) scrive: «Mantenere stabili l’interesse generale dello Stato e la legalità in tutti questi diritti particolari, e ricondurre questi ultimi a quell’interesse generale, comporta una cura da parte di delegati del potere governativo, di funzionari statuali esecutivi e le più alte magistrature deliberanti costituite collegialmente, le quali convergono nei vertici supremi che sono a contatto col monarca.»[15]

E questo perché, secondo Marx, nella prassi burocratica avveniva  proprio l’opposto. Infatti notava che in Hegel «Poiché l’universale come tale è fatto per sé sussistente esso  è immediatamente confuso con l’empirica esistenza, e il limitato è immantinente preso, in guisa acritica, per l’espressione dell’idea.»[16] Cioè Hegel pensa, secondo Marx, che dato che i burocrati dovrebbero agire così (secondo la razionalità dello Stato), allora avrebbero agito così. Di fatto è il contrario: la burocrazia, scrive Marx, confonde gli scopi dello Stato con quelli burocratici «Poiché la burocrazia è, secondo la sua essenza, lo “Stato come formalismo”, essa lo è anche secondo il suo scopo. Il reale scopo dello Stato appare dunque alla burocrazia come uno scopo contro lo Stato. Lo spirito della burocrazia è lo  “spirito formale dello Stato”. Essa fa, dunque, dello “spirito formale dello Stato”, o reale aspiritualità dello Stato, un imperativo categorico. La burocrazia si pretende ultimo scopo dello Stato. Poiché la burocrazia fa dei suoi scopi “formali” il suo contenuto, essa viene ovunque a conflitto con gli scopi “reali”. Essa è dunque costretta a spacciare il formale per il contenuto e il contenuto per il formale. Gli scopi dello Stato si mutano in scopi burocratici e gli scopi burocratici in scopi statali.»[17]

Anzi il perseguimento da parte dei burocrati del proprio tornaconto fa si che «Nella burocrazia l’identità dell’interesse statale e del privato scopo particolare è posta in modo che l’interesse statale diventa un particolare scopo privato di fronte agli altri scopi privati, mentre il superamento della burocrazia è possibile solo a patto che l’interesse generale diventi realmente, e non come in Hegel meramente nel pensiero, nell’astrazione, interesse particolare, il che è possibile soltanto se il particolare interesse diventa realmente l’interesse generale. Hegel parte da un’opposizione irreale e giunge perciò soltanto a una identità immaginaria, essa medesima per verità contraddittoria. Una siffatta identità è la burocrazia.»[18] La burocrazia non è pertanto idonea a far superare l’opposizione tra Stato e società civile[19]; ciò perché «La “polizia” e i “tribunali” e l’ “amministrazione” non sono deputati della stessa società civile, che in essi e per essi amministra il suo proprio generale interesse, bensì delegati dello Stato per amministrare lo Stato contro la società civile.»[20] Non risolve l’opposizione, ma serve a gestirla: senza quella non avrebbe scopo (né senso).

L’opposizione tra Hegel e Marx si spiega da un lato col fatto che Hegel giustifica la razionalità dello Stato (assoluto) secondo quel che dovrebb’essere (ma non è detto che all’organizzazione migliore corrispondano comportamenti corrispondenti) mentre Marx la contesta facendo leva sulla “patologia fattuale” dei comportamenti burocratici.

Passando all’epoca contemporanea occorre, sul tema, ricordare i contributi della c.d. scuola di “public choice”,[21] su cui torniamo in seguito.

Anche gli studiosi di public choice partono dallo stesso assunto, più volte condiviso: contestano cioè che l’Amministrazione operi per il bene comune, più o meno oggettivato nella norma. Di questo asserto, sostengono, non può dirsi se sia vero o non vero, senza procedere a un controllo dei presupposti di validità e degli effetti reali: esso va verificato nei fatti.

Pretendere invece che quanto si deve (o dovrebbe) fare corrisponda a quanto poi si fa è invece assurdo ed illogico, perché consiste (analizzandolo logicamente) essenzialmente nel trasformare un asserto deontico in un’asserzione fattuale e nel sostituire aspirazioni a realtà.

Analizzando i comportamenti degli operatori pubblici (tra cui la burocrazia), questa si comporta di guisa da massimizzare l’interesse proprio e non quello generale; il perché della crescita inesorabile degli organici, degli uffici e delle spese pubbliche, al di là delle effettive necessità da soddisfare è dovuto, secondo gli studiosi di “public choice”, all’aumento di potere che questo rappresenta per i pubblici funzionari. Il burocrate, al pari del politico, misura la propria capacità d’incidenza e la propria rilevanza sociale attraverso il potere che esercita.

Questa breve sintesi storica – che potrebb’essere (enormemente) accresciuta con tutto ciò che è stato (fatto e) scritto sulla falsariga degli autori (e dei documenti) citati – prova che:

  1. a) l’ideologia borghese dello Stato è (anche) contrapposta al potere amministrativo, e soprattutto a quello burocratico;
  2. b) che nella burocrazia è stato visto un corpo estraneo o comunque non omogeneo allo Stato borghese, e il relativo atteggiamento è stato ispirato da avversione e diffidenza;
  3. c) che comunque della burocrazia qualunque Stato non può fare a meno; onde il (principale) modo di difendersi (dal potere burocratico – e dal suo abuso) è di sottoporla a rappresentanti politici e di creare dei contropoteri e dei limiti;
  4. d) dall’altro lato che la burocrazia ha prodotto una propria Weltanchauung, un proprio modo di vedere lo Stato e il potere;
  5. e) che il potere burocratico non è in grado di creare una propria legittimità ma solo di rafforzare (o indebolire) quella esistente;
  6. f) che la burocrazia è reclutata prevalentemente in uno strato sociale, spesso non corrispondente (o corrispondente solo in parte) con quello da cui è tratta la classe politica (in senso stretto).

 

[1] «Quelle funzioni degli Stati moderni, che, perseguendo particolarmente il fine di benessere e di coltura, hanno più rigorosamente il nome di amministrative, vanno d’anno in anno crescendo di numero, di intensità e di diffusione […]» v. La giustizia amministrativa nei governi liberi, Utet, Torino 1904, pp. 8 ss.

[2] «L’autorità, se anche preordinata a difesa e integrazione della libertà, non si esercita senza diminuzione della libertà stessa. E quanto più essa si divulga, quanto maggiore cioè è il numero e di conseguenza inferiore la qualità degli individui che la esercitano, tanto più grave e frequente è il pericolo ch’essa ecceda, e che non sia raffrenata la naturale tendenza di coloro che ne dispongono ad abusarne e a disviarla a fini personali», op. loc. cit.

[3] «Proporzionalmente così alla popolazione come ai pubblici servizi, lo Stato italiano annovera il maggior numero d’impiegati, specialmente di quelli che hanno mansioni esecutive, triste espressione del nesso indissolubile  che è in Italia fra il proletariato intellettuale e il funzionarismo, due escrescenze parassitarie di un organismo debole e malato». I servizi pubblici e la XXII legislatura ne Il mezzogiorno e lo Stato italiano Laterza,  Bari 1911 p. 417.

[4] Op. cit.  p. 423.

[5] Op. cit. p. 424 e prosegue «Vassalli un tempo de’ baroni, cui il re aveva delegato i suoi poteri, domani saremmo sudditi di tutte le organizzazioni, le quali esercitino attribuzioni di Stato, e come una volta il re trattava con i baroni, così è facile il Parlamento scenda a patti con i rappresentanti di quelle, nominati, se occorre, con mandato imperativo. Si avvererebbe, in conclusione, l’arguto detto del Tocqueville, che la storia umana rassomigli ad una grande pinacoteca, in cui pochi sono i quadri originali e molte le copie».

[6] «Tutta l’ideologia liberale, con le sue forze e le sue debolezze, può essere racchiusa nel principio della divisione dei poteri, e appare quale sia la fonte della debolezza del liberalismo: è la burocrazia, cioè la cristallizzazione del personale dirigente, che esercita il potere coercitivo e che a un certo punto diventa casta. Onde la rivendicazione popolare della eleggibilità di tutte le cariche, rivendicazione che è estremo liberalismo e nel tempo stesso della sua dissoluzione». Note sul Machiavelli Editori Riuniti, Roma 1971 p. 119 v. anche p. 408.

[7] «Tra le nove o dieci costituzioni che sono state emanate in perpetuo in Francia da sessant’anni in poi, se ne trova una nella quale è detto espressamente che nessun agente amministrativo può essere citato davanti ai tribunali ordinari senza autorizzazione. L’articolo parve tanto bene immaginato che, pur abbattendo la costituzione di cui faceva parte, si ebbe cura di tirarlo fuori dalle rovine, e da allora è sempre stato tenuto con cura al riparo dalle rivoluzioni. Gli amministratori usano ancora chiamare il privilegio loro accordato da questo articolo una delle grandi conquiste dell’’89; ma in ciò sbagliano, perché, sotto l’antica monarchia, il Governo non aveva meno cura che ai nostri giorni di evitare ai funzionari il fastidio di doversi confessare alla giustizia come semplici cittadini. La sola differenza fondamentale fra le due epoche è questa: prima della Rivoluzione, il governo poteva coprire i propri agenti solo ricorrendo a mezzi illegali e arbitrari, mentre in seguito ha potuto legalmente lasciare che violassero la legge» v. L’ancien régime et la revolution, L’antico regime e la rivoluzione, trad. di G. Candeloro, Rizzoli, Milano 1981, p. 94.

[8] «Quando penso alle modeste passioni degli uomini di adesso, alla mitezza dei loro costumi, alla loro apertura mentale, alla purezza della loro religione, all’umanità della loro morale, alle loro abitudini laboriose e sistematiche, al ritegno che dimostrano quasi tutti nel vizio come nella virtù, non ho tanto paura che incontrino nei loro capi dei tiranni quanto dei tutori… Al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che si incarica da solo di assicurare loro il godimento dei beni e di vegliare sulla loro sorte. É assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite… Lavora volentieri alla loro felicità, ma vuole essere l’unico agente ed il solo arbitro; provvede alla loro sicurezza, prevede e garantisce i loro bisogni, facilita i loro piaceri, guida i loro affari principali, dirige la loro industria, regola le loro successioni, spartisce le loro eredità; perché non dovrebbe levare loro totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere?» De la démocratie en Amerique, La democrazia in America trad. it. a cura di N. Matteucci, Utet,  Torino 1968, p. 811-812.

[9] «Le forme di vita degli impiegati e dei lavoratori dell’amministrazione statale delle miniere e delle ferrovie prussiane non sono in alcun modo sensibilmente diverse da quelle delle grandi imprese capitalistiche private. Esse sono tuttavia meno libere, perché ogni lotta di potere contro una burocrazia statale è senza speranze, e poiché non può essere invocata alcuna istanza che abbia in linea di principio interessi contrari ad essa e alla sua potenza – come invece è possibile fare nei confronti dell’economia privata. Tutta la differenza si ridurrebbe a questo: se il capitalismo privato venisse eliminato, la burocrazia statale dominerebbe da sola. La burocrazia privata e la burocrazia pubblica, che attualmente operano l’una accanto all’altra e, per quanto è possibile, l’una di fronte all’altra – tenendosi quindi pur sempre in certa misura sotto un controllo reciproco – si troverebbero fuse in un’unica gerarchia, ma in forma senza confronto più razionale e perciò più ineluttabile» v. Wirtschaft und Gesellschaft, trad. it.  di F. Casabianca e G. Giordano, Vol. V, Comunità, Milano 1980, p. 501.

[10] Op. cit., p. 501.

[11] Op. loc. cit.

[12] V. art. 13, Titolo I, L. 16-24 agosto 1790, cit. da G. Colzi in Commentario sistematico alla Costituzione italiana (diretto da P. Calamandrei e A. Levi) G. Barbera ed., Firenze 1950, p. 251.

[13] E proseguiva: «Il governo è istituito per far rispettare la volontà generale; ma gli uomini che governano hanno una volontà individuale, e questa cerca sempre di dominare. Se essi impiegano in questo senso la forza pubblica, il governo non è che il flagello della libertà. Dovete concludere, quindi, che principale obiettivo di ogni Costituzione deve essere difendere la libertà pubblica e quella individuale contro lo stesso governo… Hanno proclamato con grande solennità la sovranità del popolo e intanto l’hanno incatenato; e mentre riconoscevano che i magistrati sono i suoi mandatari, li hanno trattati come i suoi dominatori e i suoi idoli. Tutti sono stati d’accordo nel presupporre il popolo insensato e ribelle, e i funzionari pubblici essenzialmente saggi e virtuosi», I Giacobini, Einaudi-Mondadori, Firenze 1978, p. 40.

[14] v. I Giacobini, Einaudi-Mondadori, Firenze 1978, pp. 81 e 87.

[15] Grundlinien das Philosophie des Recht, trad. it. di V. Cicero, Rusconi, Roma (rist. 1980).

[16] v. K. Marx Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, Editori Riuniti, Roma 1989, pp. 63-64.

[17] E prosegue: «In quanto al burocrate preso singolarmente, lo scopo dello Stato diventa il suo scopo privato, una caccia ai posti più alti un far carriera, in primo luogo egli considera la vita reale come materiale, ché lo spirito di questa vita ha la sua separata esistenza nella burocrazia. Questa deve dunque pervenire a render la vita quanto possibile materiale. In secondo luogo, la vita è per lui, cioè in quanto essa diventa oggetto dell’attività burocratica, vita materiale, ché il suo spirito gli è imposto, il suo scopo è fuori di lui, la sua esistenza è l’esistenza del bureau. Lo Stato esiste ormai solo come vari immobili spiriti burocratici, il cui rapporto è subordinazione e passiva obbedienza», op. cit., pp. 68-69 (i corsivi sono  nostri).

[18] Op. cit., p. 70.

[19] Con una terminologia – e una connotazione – diversa, ma con punti di contatto tale opposizione viene ripresa da Hauriou nella distinzione tra istituzione e società (comunità) e diritti che da queste sono espressi.

[20] Op. cit., p. 72.

[21] Sulla Scuola di public choice, v. «Quaderni della fondazione Einaudi», 4, 1979, Roma, 1979; H. Lepage, Domani il capitalismo, trad. it. di S. Bencini e S. Carruba, Editrice L’Opinione, Roma, 1979; v. anche l’interessante rivista diretta da D. Da Empoli «Journal of public finance and public choice» (Gangemi ed.), Roma.

il potere dell’ipocrisia, di Teodoro Klitsche de la Grange

PREMESSA

Questo breve saggio, scritto circa vent’anni orsono per la rivista francese “Catholica” (n. 72) e pubblicato in italiano da “Libro aperto” (n. 23) ha ancora attualità e non solo perché l’ipocrisia è uno dei mezzi (eterni) per l’esercizio del potere politico (rientra nelle astuzie – forse la principale – della volpe machiavellica) ma perché è spesso sintomo e causa di decadenza e dissoluzione delle élite, delle comunità e delle sintesi politiche (Pareto).

C’è l’ipocrisia del governante, ma anche quella dei governati, in particolare quando anche questi se ne servono per agire per il loro privato interesse, servendosi del “pubblico”.

In conclusione il pericolo che gli ipocriti costituiscono per lo Stato (come ovviamente, anche per la religione) sottolineato da Moliere anche nella prefazione all’opera è una costante non della sua epoca, ma di sempre.

per rileggere la pagina e/o proseguire la lettura cliccare sul link sottostante

Il potere dell’ipocrisia

ECCEZIONE E CORTE COSTITUZIONALE, di Teodoro Klitsche de la Grange

ECCEZIONE E CORTE COSTITUZIONALE

Nell’intervista data qualche giorno orsono al “Corriere della Sera” la Presidente della Corte costituzionale ha ribadito considerazioni sull’emergenza da Coronavirus e tutela dei diritti costituzionali consolidate da tempo nell’establishment italiano. E che inducono ad un esame critico.

La prima, sostiene la prof. Cartabia è che la Costituzione italiana non prevede alcuna normazione sullo stato di eccezione. Su ciò non si può non concordare.

Ma se è vero ciò non si comprende come, qualche anno fa, si descriveva soprattutto dal centrosinistra, quella italiana come “la costituzione più bella del mondo”, mentre quelle racchie prevedono (quasi) tutte norme e procedure per lo stato d’eccezione. Anche perché, incidendo lo stato d’eccezione su diritti costituzionalmente garantiti, è opportuno che la Costituzione (o almeno un atto equiparato come una legge costituzionale) preveda organi, competenze, procedure e situazioni che legittimino le deroghe alla normativa costituzionale. Ha ragione Agamben a scrivere “che lo stato di eccezione moderno è una creazione della tradizione democratico-rivoluzionaria e non di quella assolutista”; perché fino a quando non vigevano diritti garantiti da una Costituzione (quasi sempre scritta) non era necessario neppure prevedere specifiche prescrizioni su se, quando e come derogarvi.

Questo senza voler introdurre la tesi (da ultimo, in particolare, di Santi Romano) che la necessità è fonte del diritto, superiore alla legge, la quale ha precedenti illustri: dal romano salus rei publicae suprema lex allo scolastico necessitas legem non habet. Onde il criterio per valutare la validità delle misure d’emergenza non è la conformità alle norme ma la congruità allo scopo, non essendo previsti organi, competenze, procedure, situazioni.

Secondariamente la Presidente sostiene che anche in situazioni di crisi valgono i principi (costituzionali) di sempre. Si noti parla di principi e non di norme o precetti. E aggiunge che la diversità delle situazioni a poter giustificare l’applicazione e in che misura di detti principi. Così nella terminologia impiegata (e nel concetto espresso) esprime una concezione riconducibile al neo costituzionalismo allo “Stato di diritto costituzionale” nelle università italiane largamente condivisa, e di cui un acuto giurista argentino, Luis Maria Bandieri ritiene che abbia sostituito il neopositivismo, basato sulla norma e sulla Stufenbau (ossia un positivismo di norme) con un positivismo di principi e di valori.

In terzo luogo, e sempre coerentemente al neo-costituzionalismo, la Presidente ritiene che giudicare se la normativa emergenziale è o meno conforme se non alle norme almeno ai principi costituzionali e in che misura, è la Corte costituzionale, attraverso la tecnica del bilanciamento e della ragionevolezza onde se un diritto costituzionale è sacrificato la congruità e proporzionalità del sacrifico è giudicabile, come per qualsiasi altro caso, anche non riconducibile allo stato d’eccezione, dalla Corte Costituzionale. Per cui, con ciò, risponde anche all’interrogativo: quis judicabit?

Non si può non concordare anche se parzialmente, su quanto affermato e compiacersi che, anche nell’emergenza, valgano le tutele (e le procedure di garanzia) ordinarie.

Tuttavia la ricostruzione della prof. Cartabia si presta a qualche obiezione.

In primo luogo lo stato d’eccezione può essere originato da crisi del più vario tipo: terremoti, inondazioni, pandemie, guerre (e altro). C’è una differenza essenziale però tra quelle causate da eventi naturali ovvero dalla volontà umana, come la guerra (internazionale o civile) o le situazioni acute di ostilità (embarghi, blocchi economici) e le altre, causate da eventi naturali.

A proposito delle quali non è comprensibile quanta sia l’utilità dei Tribunali laddove la causa è la volontà ostile, dato che i mezzi per contrastarla non sono nella disponibilità dei giudici, ma dei governi (dalla bomba atomica in giù). Il fatto che un Tribunale giudichi lesivo del diritto di proprietà che l’esercito abbia requisito un fondo per farne un bunker è confortante ma poca cosa rispetto al fatto che il nemico sia respinto. Nella crisi che stiamo vivendo, si fa abuso delle metafore del virus come nemico, della malattia come battaglia (ecc.) ma comunque a un “nemico” siffatto manca il connotato principale: la volontà ostile.

Nelle situazioni di emergenza la tutela dei diritti è bene vi sia, ma, nell’economia generale, diritti e giustizia hanno un ruolo secondario se non marginale. Nell’emergenza contano di più i doveri di solidarietà “politica, sociale ed economica”, come dispone l’art. 2 della Costituzione. Ma soprattutto rileva il conseguimento dell’obiettivo: superare la crisi con il minimo danno possibile.

Secondariamente bisogna chiedersi perché le disposizioni delle costituzioni degli Stati democratico-liberali, almeno da quello che mi è capitato di leggere, affidino ad organi politici legittimati democraticamente (in via diretta o indiretta) dichiarazione e gestione degli stati d’eccezione. Nessuna che ci risulti, lo ha affidato alle Corti Costituzionali: si può rispondere che è ovvio, per quanto appena scritto.

Le Corti possono decidere delle controversie, ma per affrontare la crisi occorre il potere governativo-amministrativo, con mezzi e personale adatto non solo a conoscere ma soprattutto ad agire. Ma sul punto è più interessante notare che i suddetti organi sono stati investiti non solo perché hanno i mezzi (e le responsabilità) ma perché sono politici e soprattutto legittimati democraticamente.

Già dai primi decreti e atti legislativi francesi dell’epoca rivoluzionaria e napoleonica a dichiarare lo stato d’eccezione erano, a seconda dei regimi, gli organi (come il Direttorio o l’Imperatore) legittimati democraticamente (eletti o plebiscitati). Per cui il giudizio politico – che è quello che maggiormente conta – è dato dal popolo che giudica se i propri governanti abbiano affrontato la crisi in modo soddisfacente. A ciò deve aggiungersi il corollario, per la verità più evidente in alcuni saggi di neo-costituzionalisti che nell’intervista del Presidente, che un allargamento dei poteri della Corte costituirebbe una deriva verso lo “Stato dei giudici” (Justizstaat). Poco auspicabile a meno di non politicizzare le Corti costituzionali – più di quanto non sia – trasformandole nelle repliche del Consiglio dei dieci di Venezia, che Machiavelli riteneva avesse, oltre a quelle giurisdizionali (anche) le funzioni di fronteggiare le situazioni eccezionali (Discorsi, I, XXXIV).

In terzo luogo, se indubbiamente il richiamo a “principi” e “valori” costituzionali e non a norme ha il pregio di rendere la decisione più adattabile alla situazione, conformandola alla necessità contingente, e così generando un “diritto flessibile”. è assai dubbio se, il pregio, spesso richiamato, del carattere “neutro” della Corte ma ancor più la struttura del processo e la razionalità attribuita alla decisione in contraddittorio siano ragioni produttive di consenso, più delle elezioni alle cariche pubbliche, tipico degli organi democratici.

Come scrive Bandieri, esponendo (e sintetizzando) le concezioni di scrittori neo-costituzionalisti “la politica odierna non sarebbe più capace di mediare i conflitti concernenti valori essenziali, né d’esprimere un qualsiasi «consenso razionale», mentre la politica giudiziaria col suo strumentario tecnico ricolmo d’imparzialità, è presentata come la sola capace di padroneggiarlo1.

Sarebbe così, scrive il giurista argentino, necessario per superare “l’insufficienza del principio maggioritario” (ovviamente rinunciando al medesimo).

Ma a parte il fatto che se non c’è il principio maggioritario l’alternativa reale è che decide una minoranza (l’unanimità è in diritto interno praticamente esclusa), è realistico supporre che il consenso a dei principi o valori (più facilmente) sia preventivo e antecedente rispetto all’organizzazione del potere, almeno a quella compiuta.

Usando la terminologia di Maurice Hauriou un Gouvernament de fait diventa Gouvernement de droit, perché organizza in istituzioni l’idea di diritto già condivisa nella comunità. La constitution sociale precede la constitution politique. O per dirla nel lessico di Rudolf Smend realizza l’integrazione materiale (oltre alle altre forme d’integrazione) non tanto perché produce consenso, ma perché il consenso ai principi e valori applicati dai governi, dai parlamenti come dai Giudici già c’è, e, in generale, si mantiene nei limiti in cui non vengano traditi. “Principi e valori” devono essere già condivisi nella comunità, come d’altra parte, per qualsiasi regime politico.

La storia insegna come sia difficile governare, ove l’èlite sia decisa a far valere un “insieme” di principi e valori diversi, o peggio contrapposti a quello dei governati. Spesso gli ordinamenti degli imperi sono stati più tolleranti delle diversità dei popoli e delle culture, anche prevedendo giudici “di comunità” e leggi personali. Ma nel mondo globalizzato la tendenza è proprio il contrario: a espandere una particolare “tavola dei valori” (diritti umani-mercatismo universale) e regimi democratici (almeno fino a una certa data, e non si sa con quanta convinzione), a chi di democrazia non voleva saperne.

Onde è più difficile, se non impossibile che l’ “imparzialità” e la procedura possano surrogare la diversità fondamentale di opinioni ed interessi meglio di organi politici, democraticamente scelti. Come d’altra parte è chiaro che, a proteggere i diritti sono più adatte le Corti che i governi.

In conclusione e sintetizzando argomenti degni di più diffusa trattazione: nello stato d’eccezione, a qualunque causa dovuto, la protezione dei diritti fondamentali è un bene. Le Corti costituzionali che lo fanno, anche. Ma uscire dall’emergenza, con i meno danni possibili è il meglio. Per cui vale per le Corti (e per i Tribunali) quanto diceva de Gaulle per l’intendenza: che segue.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 v. in Behemoth on-line n. 54.

UN GIURISTA EUROSCOMODO, di Teodoro Klitsche de la Grange

UN GIURISTA EUROSCOMODO

Il 17 aprile scorso è venuto a mancare Giuseppe Guarino, illustre giurista ed avvocato, oltre che deputato e più volte ministro. In tempi di MES e di euro-furberie, buona parte dei commenti a caldo (specie sui media ad elevata diffusione) hanno voluto ricordare che era un europeista. Dato che purtroppo oggigiorno l’aggettivo non accomuna tanto ad Adenauer, Martino, Monnet e ai “padri fondatori”, ma a qualche grigio euroburocrate o a governanti nazionali euroasserviti , il rischio di equivocare il pensiero di Guarino, strumentalizzandone la figura, è alto. Per la verità, scendendo nell’audience, i “coccodrilli” sul giurista sono più equilibrati, e ricordano come avesse criticato l’andazzo preso dall’Unione europea nell’ultimo trentennio, che aveva tradito – in larga parte – la visione dei fondatori.

E lo fece da giurista, sostenendo l’invalidità di atti dell’U.E., contrari ai trattati e alla “funzione” dell’Unione europea.

Il saggio che sviluppa in modo più completo le tesi critiche di Guarino è “Cittadini europei e crisi dell’euro”, pubblicato nel 2014 dall’Editoriale Scientifica. La recensii quasi subito nel numero 55 (on-line) di “Behemoth”. Dopo poco tempo l’editore (mi si disse su segnalazione del prof. Guarino) chiese l’autorizzazione a pubblicarla anche (in stampa) sulla rivista “Diritto comunitario e degli scambi internazionali”.

In tempi in cui pompose mediocrità, per lo più affette da complesso euroancillare cercano di perseverare (anzi di aggravare) negli errori che il prof. Guarino con tanto acume (giuridico e politico) stigmatizzava, mi sembra utile riproporla ai lettori.

Teodoro Klitsche de la Grange

Giuseppe Guarino, Cittadini europei e crisi dell’euro, Editoriale scientifica, Napoli 2014, pp. 185, € 14,00.

 

Questo è un libro denso di idee, E quel che parimenti interessa, aderenti alla realtà: quella da cui molti giuristi, in specie quelli più à la page, rifuggono.

È scritto da un giurista dotato di visione non limitata al proprio ambito scientifico (in genere strettamente inteso). La cui tesi di fondo è che i guai provocati dall’euro (che siano guai è sicuro, e Guarino cita – all’uopo – ripetutamente i dati, drammaticamente sconfortanti, della stagnazione dei paesi dell’area “euro”), siano dovuti ad un regolamento, illegale perché contrario al TUE (Maastricht), che ha realizzato un vero e proprio golpe. Scrive l’autore “Il golpe è stato attuato a mezzo del reg. 1466/97. Per la formazione del regolamento, come si è detto, si è fatto ricorso alla procedura di cui agli artt. 103, n. 5 e 189 c) TUE che, nello stesso momento in cui è stata utilizzata, è stata anche violata perché ce se ne è avvalsi per uno scopo diverso dall’unico previsto.

La procedura di cui agli artt. 103, n. 5 e 189 c) TUE in nessun modo avrebbe potuto essere impiegata per modificare norme fondamentali del Trattato. L’essersene avvalsi configura una ipotesi non di semplice illegittimità, bensì di incompetenza assoluta. Gli atti adottati sono di conseguenza non illegittimi, ma nulli/inesistenti”. Il che comporta, a ragionare con precisione e consequenzialità giuridiche, la responsabilità degli organi dell’Unione e delle persone fisiche che lo hanno posto in essere. Per cui abrogare il predetto regolamento attraverso un contrarius actus non è nulla di illegale o illegittimo, ma è semplicemente il ripristino di una situazione di legalità internazionale, perché le norme mutate dal regolamento 1466/97 sono disposizioni di Trattato internazionale. Ma cosa ha prescritto il regolamento 1466/97 in violazione sia delle norme dei Trattati sia degli obiettivi dell’Unione, come dei diritti degli Stati. Scrive Guarino: “Quanto all’Unione è stato modificato, in modo radicale ed irreversibile, l’obiettivo principale, consistente (artt. 2 e 3 TUE) nel conseguimento di uno sviluppo dalle caratteristiche e secondo le modalità previste nei suddetti articoli e nell’aver abrogato, per aver regolato in modo diverso la intera materia, l’art. 104 c) TUE, contenente la disciplina dei mezzi di cui gli Stati si sarebbero potuti avvalere per l’adempimento all’obbligo di promuovere sviluppo.

Quanto agli Stati la illecita variazione consiste nell’averli privati, con l’abrogazione degli artt. 102 A, 103, 104 c) TUE, nonché degli altri connessi, a mezzo di norme (quelle del reg. 1466/97) regolanti in modo diverso l’intera materia , degli unici poteri politici ad essi attribuiti in funzione alla conduzione economica dell’Unione”, e aggiunge l’autore che ciò “ha inciso sul carattere fondamentale dell’Unione, in assenza del quale gli Stati non sarebbero stati legittimati a parteciparvi, quello della democraticità. È l’affermazione che tra tutte genera la massima incredulità”.

L’acuto giurista sostiene che, per rimediare, e data la comprovata dannosità dell’attuale disciplina dell’euro, tra l’altro non conforme al TUE, ma in violazione dello stesso, occorre,per i paesi a rischio, un’uscita concertata dalla moneta unica, che non ha nulla di illegale, dato che significa il passaggio da paese senza deroga a paese con deroga, come ce ne sono – allo stato – undici nell’U.E. La soluzione migliore sarebbe che lo facessero di concerto quattro o cinque Stati. Meglio se tra i promotori ci fossero la Francia e l’Italia.

Ci sono tante cose in questo libro, e con dispiacere il recensore, ratione officii le  deve tralasciare per concentrarsi su due che colpiscono più di altre i giuristi, e che sottolinea per i lettori.

La prima che Guarino, a proposito della disciplina dell’euro, la definisce robottizzata: ossia di una moneta che non ha – sopra – un vertice politico decidente e decisivo, ma solo una regolazione normativa. Ma se è così (e così è) la regolamentazione dell’euro ha un pregio: verificare sul piano fattuale la non praticabilità di un assetto fondato sulla perfezione (bontà, saggezza) della normazione, senza un potere che diriga e all’occorrenza ne deroghi. L’idea del nomos basileus applicata, nel caso, alla moneta comune, si è rivelata illusoria . Il pensiero va a de Maistre e al suo giudizio tranchant  “il n’est pas au pouvoir de l’homme de créer une loi qui n’ait besoin d’alcune axception”. L’eccezione  serve di tanto in tanto: ma la necessità di adeguarsi ai cambiamenti è costante. E la regolamentazione dell’euro non ne ha tenuto conto; essendo stato pensato (e ri-pensato) in un periodo di cambiamento, ha una disciplina che poteva essere congrua in periodi di stabilità – come quello dalla fine del secondo conflitto mondiale al crollo del comunismo – non lo è quando la situazione si “mette in movimento” (ossia negli ultimi vent’anni), per cui occorrono flessibilità, adeguamenti; cioè decisioni. Il tutto ricorda la critica che un altro acuto giurista, Hauriou, rivolgeva ad Hans  Kelsen e al normativismo: che il giurista austriaco aveva immaginato un sistema statico, e per ciò inadatto alla vita, che è movimento ed alla quale il diritto si deve adeguare.

Ma come ci si può adeguare se il potere “adeguatore”, cioè quello politico, manca? Essere guidati dall’impersonalità della norma, piuttosto che dalla personalità della decisione è una prospettiva forse seducente, ma del tutto irreale, come salire su un automobile senza conducente:prima o poi si va a sbattere. É quello che hanno constatato gli europei. Si è sognata – nel XX secolo, la “Costituzione senza sovrano” (Kirkheimer – e tanti altri, dopo) per verificare che senza sovrano  non può funzionare neppure la moneta.

La seconda: a prescindere dalla lettera della normativa, farcita di buone ed appetibili intenzioni è al contenuto effettivo, e al senso delle norme che deve guardarsi. Come scrive Guarino “la modifica introdotta dal reg. 1466/97 rispetto al TUE (Maastricht), sul piano formale, è consistita nell’abrogazione di un diritto-potere, quello degli Stati di concorrere alla crescita con la propria “politica economica”, concorrendo così anche alla crescita dell’Unione, sostituendola con un obbligo/obbligo, gravante sugli Stati, avente come contenuto il pareggio del bilancio a medio termine, da conseguirsi nel rispetto di un programma predeterminato. Gli elaboratori delle norme non si sono resi conto delle conseguenze che sarebbero derivate dall’aver messo a base del sistema, un “obbligo” al posto di un “potere”. Di conseguenza il sistema ha leso la libertà degli Stati, ossia delle comunità di decidere come, quanto e in quali direzioni crescere. La libertà politica comunitaria è in primo luogo quella di scegliere scopi, mezzi e forme del vivere comune e si chiama sovranità; adesso non “va di moda” ma non se ne può prescindere, ancor meno di quanto si possa fare a meno della libertà individuale.

Nel complesso un libro che si consiglia di leggere dato il surplus di idee che lo connota. In un coro di banali cortigianerie agli idola ed ai potenti (economici, burocratici e politici) di turno sentire qualcuno che non canta nel coro (ed è molto intonato) è salutare e necessario.

Teodoro Katte Klitsche de la Grange

1 17 18 19 20 21 28