SURTOUT PAS TROP DE ZÈLE, di Teodoro Klitsche de la Grange

SURTOUT PAS TROP DE ZÈLE

I miei (pochi) lettori mi consentano di ritornare su un argomento da me assai frequentato: la disparità delle armi tra pubblica amministrazione e privati nelle controversie (meglio nel contenzioso) tributario, amministrativo e civile. Disparità incrementata dalla c.d. “seconda Repubblica”, a dispetto del fatto che la “parità delle armi” (processuali) è stato costituzionalizzata nel 1999 con la novella all’art. 111 della Costituzione. Prima e dopo la suddetta novella, il legislatore ha fatto tutto il possibile per contraddire a livello legislativo, quanto solennemente introdotto in quello costituzionale. Fin qui nulla di nuovo, se non lo straripante tasso d’ipocrisia ma ancor più di disinformazione, onde il problema, che riguarda tutti i cittadini italiani è costantemente sottovalutato o occultato nel dibattito pubblico.

Piuttosto occorre chiedersi se il sistema usuale e normale per riottenere il riequilibrio delle armi, ossia: a) l’istituzione di mezzi, soprattutto giudiziari, di difesa idonei a compensare almeno in parte lo squilibrio; b) la loro indipendenza; c) la parità, o almeno la non eccessiva disparità tra pubblico e privato, siano sufficienti in una situazione largamente compromessa come quella attuale.

A tale proposito è bene andare a quanto ne pensava Vittorio Emanuele Orlando. Com’è noto la tutela del privato verso le pretese dell’amministrazione fu attuato dalla classe dirigente liberale soprattutto con due leggi. La legge abolitiva del contenzioso amministrativo (del 1865) e la legge istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato (1889). Ma in particolare la prima attirò le considerazioni negative di Orlando sull’accoglienza che aveva ottenuto dalla magistratura dell’epoca. Scrive il giurista siciliano “Ciò che davvero importa, in questa materia, è di non lasciarsi sviare dalle incertezze della giurisprudenza. L’abbiamo detto più volte, e l’osservazione non è nostra soltanto: la legge del 1865 fu troppo liberale, e non trovò le condizioni ambientali idonee al suo sereno e completo svolgimento. Il sentimento autoritario era ed è ancora troppo radicato in noi, popolo nato ora alla libertà. Sicché, tutte le volte che essa ha potuto, la giurisprudenza ha allontanato da sé il calice amaro di agire come freno e limite del potere esecutivo. E così avviene, per una coincidenza che dopo l’anzidetto non sembrerà del tutto accidentale” (voce “Contenzioso amministrativo” del Digesto Italiano, Torino 1895-1898, il corsivo è mio). E sulla “timidezza” del potere giudiziario nei confronti di quello governativo-amministrativo ritorna più volte (nel saggio citato e altrove).

C’è da chiedersi se la “timidezza” attribuita da Orlando alla magistratura a lui contemporanea sia (o sia ritornata) ad essere connotato di quella attuale, magari non qualificabile così, ma piuttosto sodalizio, ansia, timore per le pubbliche finanze; ma il cui esito, comunque è di agevolare, ancor più di quanto non abbia fatto il legislatore, le pubbliche amministrazioni litiganti.

Prendiamo un paio di statistiche come esempio. Quella dell’Agenzia delle Entrate del 2020 evidenzia un “indice di vittoria” (per l’Agenzia) pari al 76,2% delle liti. Solo che a leggerlo risulta che a tale lusinghiero risultato hanno contribuito…anche le cause perse. Infatti la P.A. ha calcolato a proprio favore nell’indice anche quelle “parzialmente favorevoli” cioè quelle altrettanto “parzialmente favorevoli” al contribuente.

A un lettore attento piuttosto che tale criterio ad usum delphini, probabilmente apparirebbe più conforme alla realtà calcolare, salomonicamente, gli esiti parzialmente favorevoli in ragione della metà (a favore dell’Agenzia) e non tutti a favore. Quel che più conta e che (a tacer d’altro) dall’esperienza personale di difensore, e da quella di altri colleghi, quasi tutti i ricorsi totalmente o parzialmente favorevoli al contribuente si concludono con la compensazione delle spese (cioè il contribuente, pur vittorioso, paga per intero il proprio difensore), mentre nel caso contrario (di soccombenza totale) il Giudice tributario pone quasi sempre  a carico dello stesso le spese di giustizia. Mezzo semplice  ed efficace per disincentivare il contenzioso… a carico delle parti private.

Altro esempio: i giudizi di equa riparazione (Legge Pinto). Essendo quasi tutti gli esiti a favore delle parti private, il legislatore aveva già messo le… mani avanti, disponendo che le spese andassero liquidate in ragione della metà della tariffa ordinaria. Ma evidentemente tale zelo non appariva sufficiente. Per cui gli importi delle spese a carico delle P.P.A.A. resistenti solo calcolati dai Giudici in misura minore di guisa che è normale leggere che un processo Pinto alla Corte d’Appello, è “remunerato” con 3-400 euro o un giudizio al TAR con 2-400 euro.

E si potrebbe andare avanti, con risultati (quasi) sempre simili. Certo c’è da chiedersi se tali risultati siano dovuti più che alla “timidezza”, che non appare sempre come connotato della giustizia italiana, come confermano i processi a Ministri, non ultimi quelli a Salvini per decisioni governative (tutte) politiche, ma piuttosto ad un (malinteso) senso dell’interesse pubblico. Per cui ci si sente gratificati dal limitare gli esborsi a carico delle (disastrate) finanze italiane. L’ingenuità (almeno) di tale comportamento è che se si rende più economico il litigare al soccombente, il risultato sarà quello di aumentare il numero delle resistenze in giudizio infondate. Meglio seguire il consiglio di Talleyrand ai funzionari francesi “surtout pas trop de zèle”. Ma ancor di più l’interesse pubblico non è tanto un rapporto di dare e avere, tra incassato e speso. È in primo luogo l’affetto, la solidarietà tra cittadini della stessa comunità, compresi governati e governanti. Se la si scuote o la si svuota, con espedienti e artifizi da causidico, s’incrina e alla fine si distrugge la stessa comunità e istituzione politica. Cammino che in gran parte abbiamo già percorso.

Teodoro Klitsche de la Grange

INTERVISTA AD ORLANDO (VITTORIO EMANUELE), di Teodoro Klitsche de la Grange

INTERVISTA AD ORLANDO (VITTORIO EMANUELE)

Nubi minacciose si addensano sulla legge Severino: lega e radicali la vogliono – dice la stampa- abrogare per referendum. Un’invadenza inammissibile e sguaiata della volontà popolare in una materia (e vicenda) riservata alle élite. Allo scopo di farcela chiarire, abbiamo chiesto un’intervista ad Orlando, cioè a Vittorio Emanuele (e non al ministro PD) autorevolissimo statista e giurista. Ci è parso il più titolato a discuterne. E gentilmente ce l’ha concessa.

Caro Presidente che ne pensa della giurisdizione “politica” (e ordinaria) nei confronti delle massime autorità dello Stato?

Che ho scritto proprio della massima, cioè, ai miei tempi, quella del Re. Questi è inviolabile e ciò “significa che la persona del monarca non è soggetta ad alcuna giurisdizione; o, in altri termini, non esiste nello Stato alcuna autorità o potere capace di esercitare un’azione coercitiva sulla persona del Re. Il che importa, pure, che Egli non può sottostare al comando di alcuna autorità, non potendosi dare, nel campo del diritto, un comando che non sia assicurato da sanzioni coattive”. Se c’è un potere che “comanda” al Re o a similari “organi sovrani” significa il sovrano è colui che giudica e non chi è giudicato.

Ma così si crea un potere irresponsabile.

Ed è inevitabile: “un aspetto della nozione di inviolabilità dà luogo al concetto di irresponsabilità politica…Quanto poi a tutta la giurisdizione penale, poiché essa dà sempre luogo, in atto o in potenza, ad una coazione fisica, esercitata sulla persona, la norma dell’inviolabilità importa che il Re non può mai esservi sottoposto. Il che significa che, astrattamente, il Re potrebbe commettere un reato e restare impunito… ” per cui il principio onde il Re è sottratto ad ogni giurisdizione è imposto da una assoluta necessità; “poiché ognun vede come quell’autorità (per es., un giudice istruttore), che potesse disporre con un suo ordine della libertà e della persona del Capo dello Stato, avrebbe virtualmente un potere superiore; non sarebbe possibile distinguere l’arresto del Re dalla destituzione di esso. Il che importerebbe una contraddizione anarchica, poiché il Re non sarebbe più un Organo Supremo, ed anzi il Capo dello Stato il quale, per ciò stesso, non può nello Stato ammettere alcun superiore”.

Potrebbe spiegarcela più in dettaglio?

Certo. L’irresponsabilità può “considerarsi innanzi tutto da un punto di vista di ordine politico e poi da un punto di vista giuridico. Politicamente pare che abbia un’elevata ragione e risponda ad un interesse pubblico gravissimo il sottrarre la persona” del “sovrano” sia a censura diretta che ad “attriti pericolosi fra i più elevati poteri pubblici, che potrebbero poi degenerare in un dissidio irreparabile, col danno o della libertà dei cittadini o della forza dello Stato”. E poi vi sono altre forme di responsabilità che già Benjamin Constant considerava più consone alla natura del rapporto e della funzione.

Ma oltre che al Re, come Lei ha scritto, si applica anche agli “organi sovrani” dello Stato, al Parlamento per primo.

Come ho sostenuto questa è una specie particolare della “questione generale della natura dell’immunità parlamentare in relazione con la teoria degli organi sovrani”.

Ma così la giustizia non è più uguale per tutti…

Dicono nei talk-show. Ma se lo fosse non esisterebbe più lo Stato, come pensava un mio collega francese. La realtà è che ogni istituzione politica si fonda sul presupposto del comando/obbedienza, che ovviamente è un rapporto tra disuguali.

Perciò ritengo che è normale che in ogni regime politico vi sia un tale tipo di diseguaglianza. Questa è la regola e non l’eccezione e cioè “che le immunità parlamentari sono da considerarsi non come diritto di eccezione ma facciano parte, invece, del diritto comune e quindi si pongano in via di regole generali ed anzi come capisaldi di tutto l’ordinamento giuridico, dato, si intende, lo Stato rappresentativo”. Ossia quello che voi chiamate “democratico-liberale”.

E la storia dimostra che, pur contestato e anche se lesivo del principio di eguaglianza, in regimi democratici, il principio dell’immunità degli “organi sovrani” è stato sempre vigente “Questa forza di resistenza del principio… basterebbe da sola ad attestare la necessità del suo riconoscimento; possiamo aggiungere ora che vale a dimostrare che quel principio si pone come una condizione dell’istituto parlamentare, ed ha quindi in ciò il titolo di un vero e proprio diritto comune per quegli Stati il cui ordinamento su quell’istituto si fonda” come la vostra Repubblica.

E la ragione, ancor più per un regime democratico, è duplice: se non fosse la volontà popolare a decidere chi comanda, ma un ufficio giudiziario, sarebbe anche leso il principio che, in democrazia, è il popolo a eleggere (e non confermare) da chi vuol essere governato.

Per cui?

Meglio che sia il popolo e non altri a deciderlo. Come scriveva Machiavelli “i pochi sempre fanno a modo de pochi”. Per cui è meglio che lo facciano tutti.

Teodoro Klitsche de la Grange

Carl Schmitt, Romanticismo politico, a cura di Carlo Galli_recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Carl Schmitt, Romanticismo politico, a cura di Carlo Galli, il Mulino, Bologna 2021, pp. 248, 23 euro.

La grande attenzione con cui il pensiero di Carl Schmitt è stato considerato in Italia a far tempo dalla pubblicazione delle “Categorie del politico” ha (indotto e) prodotto anche una serie di ri-edizioni delle opere del giurista. A partire proprio dalle “Categorie del politico” (ora riedite da Il Mulino), dalla “Dittatura” e (a parte altro), fino ad adesso con “Romanticismo politico”. Questo viene pubblicato dal Mulino, curato come la precedente edizione (Giuffré 1981) da Carlo Galli, che vi ha premesso una nuova presentazione.

Prima di considerare quest’ultima, è bene sintetizzare quanto scriveva Schmitt sul romanticismo. Sostiene che “Il romanticismo è occasionalismo soggettivizzato: gli è infatti essenziale il rapporto occasionale col mondo, ma, al posto di Dio, è il soggetto romantico a occupare la posizione centrale. Partendo da questa, poi, trasforma il mondo, con tutto ciò che vi accade, in mero pretesto. Proprio questo spostamento dell’istanza suprema da Dio al soggetto geniale muta l’intera prospettiva, e porta alla luce l’occasionalismo nella sua purezza. Nei vecchi filosofi dell’occasionalismo, come Malebranche, era sì presente il concetto dissolvitore di occasio, ma la legge e l’ordine venivano ritrovati in Dio, l’Assoluto oggettivo”. Diversamente che nei filosofi dell’occasionalismo. “Ben diversamente avviene quando a realizzare la sua attitudine occasionalistica è l’individuo isolato ed emancipato”.

L’individuo così finisce per vagare nell’illimitato e nell’inafferrabile “L’occasione appare allora davvero come relazione con l’immaginario, e – secondo le diverse individualità dei romantici – con l’ebbrezza o il sogno, con l’avventura, la fiaba o rappresentazione magica. Da occasioni sempre nuove nascono mondi sempre nuovi, sempre occasionali, mondi senza sostanza, senza relazioni funzionali, senza sicura direzione, mondi privi di conclusione, di definizione, di decisione”.

E quando tale attitudine passa dall’estetica alla politica, ha un effetto disgregatore. Derivato dalla perdita di contatto – e quindi di “presa” sull’oggetto. Proprio da ciò consegue che il romanticismo “è al servizio di altre energie non romantiche, e la sua sublime superiorità rispetto alle definizioni e alle decisioni si rovescia in un accompagnamento servile di forze e decisioni romantiche”. Ma il tutto ha influenzato l’epoca moderna e post-romantica “Soltanto in una società minata dall’individualismo la produttività estetica del soggetto poteva porsi a sé stessa come centro spirituale della realtà”.

Scrive Galli nella presentazione che a giudizio di Schmitt “La mancanza di un rapporto causale o normativo fra soggetto e oggetto, fra romantico e mondo, dà luogo nel romanticismo a una produttività che consiste nel costruire un mondo soggettivo e fluttuante, esclusivamente estetico, elaborato con materiali presi a prestito da ogni ambito della realtà effettuale”.

Il romanticismo è “un rischio immanente alla modernità, una malattia esplosa in una fase storica determinata, ma in agguato, latente, nelle strutture profonde del pensiero moderno… Il soggettivismo moderno e la sua dialettica, la sua presunzione e la sua nemesi; il logos che è chiacchiera: tutto ciò è la posta in palio, in Romanticismo politico”.

Il pensiero borghese ne condivide i limiti “all’interno della radicata sfiducia schmittiana nel dispositivo razionale moderno che dà al soggetto il potere di disporre  dell’oggetto, di concettualizzarlo pienamente, borghese è chi crede che con la libertà soggettiva si possa costituire la politica, che invece passa attraverso il conflitto e la forma”. E ancora esistono altri romanticismi, quelli contemporanei dell’uomo post-moderno nel mondo della realtà virtuale “con il suo preteso protagonismo e con la sua reale subalternità”. “C’è da chiedersi insomma se, dal tempo del romanticismo ottocentesco attraverso il tempo dell’irrazionalismo avanguardistico primo-novecentesco fino all’epoca post-moderna, il rapporto fra oggettività, ma più in generale fra razionalità e non-razionalità, ruoti su sé stesso presentando sempre, in facce diverse, la medesima indeterminatezza”.

Due considerazioni, partendo da quella di Galli sui romanticismi contemporanei, che contribuiscono a rendere di interesse anche attuale questo saggio di Schmitt, risalente a circa un secolo fa. L’attitudine romantica (ma non solo) a soggettivizzare e esteticizzare (e così de-politicizzare) l’oggetto, soprattutto politico, è evidente nella c.d. “antipolitica”, almeno in gran parte di essa. La politica ha a che fare con oggetti concreti e rapporti reali: potere e libertà, amico e nemico. Ma se un’azione, un uomo o un comportamento viene giudicato non sulle capacità di attingere alla funzione della politica, ma sull’apprezzabilità estetica (o altro), il risultato è una (cattiva) propaganda. Che Achille fosse bello e valoroso non significava che non fosse pericoloso, almeno per i troiani, né che occorre giudicare politicamente la caduta di Troia dalla poesia dell’Iliade. Cosa che nella comunicazione contemporanea è praticata in continuazione non solo confondendo la politica con l’estetica, ma anche con altre “essenze” (Freund).

La seconda: non solo la politica, ma anche il diritto si regge sul rapporto equilibrato tra soggetto ed oggetto. Anzi il problema (principale) dell’applicazione del diritto è che la decisione dell’applicatore sia conforme al rapporto giuridico ed alla normativa ad esso applicabile.

Se non vi siano istituti e norme ad assicurare tale ragionevole corrispondenza, il soggettivismo del funzionario straripa in arbitrio illimitato. Magari dal “sistema” giustificato moralmente più che esteticamente. Tuttavia è proprio il pensiero borghese ad aver creato le più raffinate forme ed istituti per garantire – per quanto possibile – la corrispondenza tra diritto e decisione concreta (come, ad esempio la distinzione dei poteri – o i controlli di legittimità). Quindi il romanticismo politico, sotto tale aspetto, appare come una degenerazione (anche) rispetto al costituzionalismo liberale, la cui diffidenza verso la soggettività di governanti (e funzionari) emerge prepotente.

Teodoro Klitsche de la Grange

Corrado Ocone Salute e libertà, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Corrado Ocone Salute e libertà. Un dilemma storico-filosofico Rubbettino Soveria Mannelli 2021, pp. 125, euro 14,00

Il dilemma a cui si riferisce il titolo può lato sensu essere riportato al più generale potere e libertà, o anche paura e libertà e al ruolo della paura nella formazione-concezione dello Stato e nella modernità.

Ossia un’opposizione che ricorre nel pensiero politico, filosofico e giuridico moderno, riproposta da un anno a questa parte con riferimento alla pandemia, quindi attualizzazione di un dilemma costante. E in effetti, il rapporto paura/libertà è esaminato dall’autore riepilogando brevemente ciò che ne pensavano alcuni tra i maggiori filosofi: da Hobbes a Locke, da Machiavelli a Hegel (limitandoci ai più noti). Scrive Ocone sulla paura della modernità distinguendo i ruoli che aveva in Hobbes e Machiavelli: nel primo “È proprio sull’istinto di sopravvivenza dei singoli, sul loro conato ad autopreservarsi, che nasce lo Stato … E il suo compito è legato al raggiungimento di questo fine, cioè dare sicurezza /relativa) e allontanare (nella misura del possibile) la sempre incombente possibilità di morte … Il meccanismo securitario messo qui in campo assume su di sé il monopolio della forza legittima proprio per garantire la vita, l’esistenza dei contraenti”. Così la paura è resa “produttiva di politica” generando (e giustificando) l’ “istituzione di protezione”. Non era così nel mondo pre-moderno, dove il ruolo aggregante (e legittimante) era rivestito dal coraggio e dalla virtù; ma “In epoca moderna questo scenario cambia: la paura è intrinsecamente unita alla politica, ne è il centro e l’origine, il fondamento … Potremmo individuare due modalità in cui questa intrinsecità si manifesta: una, sicuramente trionfante, che è quella di Hobbes; l’altra, facente invece capo a Machiavelli. Da una parte, assistiamo pertanto alla neutralizzazione politica della paura; dall’altra, a una politica che incorpora la paura, per così dire. Al razionalismo formale dell’una corrispondente la ragione concreta e intrisa di passioni, sia “positive” o “calde” sia “negative” o “fredde”, dell’altra”. Tuttavia la democrazia liberale contemporanea ha rimosso tale origine; peraltro costantemente sottesa; probabilmente perché il “loro meccanismo funzionava nella prassi. Oggi ci poniamo con più forza la questione da un punto di vista teorico perché quel meccanismo si è inceppato, e andato in crisi e noi viviamo in quella crisi”. Riemerge prepotentemente con l’emergenza, e quindi con la crisi pandemica, con il “terrore sanitario” e il governo che limitava i diritti, anche garantiti dalla Costituzione, ponendo così la domanda se “La suddetta politica di controllo e disciplinamento esiste effettivamente? È intenzionale o una conseguenza di fatto? Ed è diretta al mero dominio, o anche a un dominio indirizzato verso certi fini o non altri?”. Con la conseguenza di doverla affrontare – anche per il futuro – evitando di buttare via “il bambino con l’acqua sporca”. Cioè di tenere insieme sia il meccanismo sanitario-securitario che la garanzia di spazi di libertà individuale e sociale (che è poi il problema principale del pensiero politico) e del liberalismo. Scriveva De Maistre su sovranità e libertà che “il più grosso problema europeo è di sapere come si possa ridurre il potere sovrano senza distruggerlo”. Ed in effetti (quasi) tutti i pensatori, soprattutto liberali se lo sono posto.

Lo Stato liberale, come scrive Carl Schmitt è uno Status mixtus, in cui sono compresenti sia principi di forma politica cioè fondativi del potere sia dello Stato “borghese di diritto” cioè limitativi del potere. Conciliarli non è facile, ma è sicuro che nella storia probabilmente il più raffinato sistema di controllo e limitazione del potere è quello organizzato nello Stato di diritto. Già la disciplina dello Stato di eccezione – che giustamente Agamben vede istituito proprio dalla rivoluzione borghese – ne appare il massimo possibile. Oltre quello c’è solo la rivoluzione o il colpo di Stato. Ma anche nella regolamentazione della giustizia politica, di quella amministrativa, del potere amministrativo-burocratico è evidente la volontà di conservarli tenendoli insieme. Come scritto nel Federalista se ad esser governati dovessero essere degli angeli, non ci sarebbe nessun bisogno di governi. Se a governare fossero gli angeli, non sussisterebbe la necessità di controlli sul governo. Ma dato che gli angeli stanno in cielo e non sulla terra, occorrono i governi e i controlli sui medesimi. Che è poi, il fondamento di quell’antropologia realistica comune al liberalismo come ad altre ideologie politiche.

Tuttavia è stato prospettato che la crisi si debba prorogare proprio per far durare i poteri d’emergenza e “approfittare del Covid non per tornare allo status quo ante ma per fare le riforme strutturali di cui abbiamo bisogno”. Ma oltre “a una eccessiva dose di costruttivismo sociale, una frase del genere contiene di fatto una volontà di controllo del potere non indifferente. L’emergenza viene vista come opportunità, o “felice” coincidenza, per imporre un controllo diverso”.

E a farlo sono sempre i soliti noti, ragione principe per diffidarne.

Teodoro Klitsche de la Grange

GUERRA SENZA MILITARI, di Teodoro Klitsche de la Grange

GUERRA SENZA MILITARI

In un’intervista a “La verità” il segretario del Partito comunista Marco Rizzo, tra molte cose condivisibili, ha introdotto un tema il quale, quasi totalmente dimenticato, è riproposto dalla crisi pandemica. Ha detto Rizzo che “è evidente che oggi conta più un ospedale di un F-35 o di una corazzata. Una nazione che salvaguarda la sanità è strategicamente più avanzata”.

In effetti è nel pensiero costituzionale e filosofico che una costituzione – e più in generale l’organizzazione politica di uno Stato – è buona quando consente di affrontare e superare le emergenze (le guerre, in primo luogo) e che sono le crisi possibili a dover forgiare l’assetto dei poteri pubblici (v. Ludendorff).

Per fare un esempio, restando all’irenico (tardo) secolo XX, De Gaulle sosteneva la necessità dell’art. 16 della Costituzione della V Repubblica (i poteri eccezionali del Presidente) con i caratteri della guerra moderna (anche atomica).

Va da se che, come sostiene l’on.le Rizzo, in una crisi sanitaria, indipendentemente dalle cause (se naturali, o frutto di imperizia umana, o anche – ma è assai improbabile – per attacco batteriologico) carri armati e cannoni sono del tutto inutili a difendersi. Ma vaccini ed ospedali, di converso, sono le casematte della difesa sanitaria.

In un libro di oltre vent’anni fa, due (allora) colonnelli cinesi descrivevano le nuove forme di guerra: commerciale, finanziaria, economica, informatica (e così via) tutte connotate da avere lo stesso scopo della guerra “classica” – e cioè quello di costringere il nemico a fare la nostra volontà (Clausewitz e Gentile), ovvero accrescere la nostra potenza, e dal non far uso della violenza, ma d’altri mezzi, denominandole così “operazioni di guerra non militari”. Per combattere le quali i mezzi militari servono a poco. Anche perché possono causare una pericolosa escalation.

Ai fini dell’influenza delle possibili crisi sulla conformazione delle istituzioni pubbliche la causa (naturale od umana) della stessa è poco o punto influente. Decisivo è che queste siano attrezzate a difendere la comunità che in esse si organizza per proteggersi.

Ed è proprio questa una ragione decisiva per mantenere, almeno in parte, lo Stato sociale del XX secolo. In questo l’Italia si è dimostrata (largamente) impreparata e quindi vulnerabile; l’Europa poco meglio. In fondo dai dati disponibili sulla pandemia, lo Stato più efficiente è stato Israele, preparatissimo a far guerra e a difendere la popolazione. Al contrario di gran parte dei governanti europei, per quelli d’Israele (compresi i governati) l’emergenza non è un oggetto riposto negli archivi della storia, ma una possibilità reale. Ossia proprio quello che popoli abituati a considerare il progresso come un dato acquisito ed immodificabile, e i quattro cavalieri dell’apocalisse dei pensionati del medesimo, non riescono più a concepire né affrontare. Tra i pochi effetti non negativi della crisi, un tuffo nella realtà non è da disprezzare.

Teodoro Klitsche de la Grange

QUALCHE SPUNTO DI SCHMITT PER IL XXI SECOLO, di Teodoro Klitsche de la Grange

QUALCHE SPUNTO DI SCHMITT PER IL XXI SECOLO

1.0 Per interpretare la situazione politica presente è tuttora di attualità il pensiero di Carl Schmitt; a prescindere dai tanti spunti che possono trarsene, al presente sono particolarmente interessanti alcune tesi sostenute dal pensatore di Plettemberg tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’60, assai prima dell’“epoca” contemporanea, successiva al collasso del comunismo, all’ “aumento” della globalizzazione (e alla morte del giurista).

2.0 In primo luogo è opportuno – per spiegare l’incremento straordinario qualche anno dopo il collasso del comunismo dei partiti popul-sovran-identitari – ricordare quanto scrisse nel discorso Das zestalter der neutralisierung und ent politisierungen1 (del 1929).

Sostiene Schmitt in tale scritto che la vita spirituale europea si è sviluppata negli ultimi quattro secoli (cioè nella modernità) cambiando centri di riferimento (dal teologico al metafisico, da questo al morale-umanitario e infine all’economico) “Una volta che un settore diviene il centro di riferimento, i problemi degli altri settori vengono risolti dal suo punto di vista e valgono ormai solo come problemi di secondo rango la cui soluzione appare da sé non appena siano stati risolti i problemi del settore centrale. Così, per un’epoca teologica tutto procede da sé, una volta ordinate le questioni teologiche; su tutto il resto allora gli uomini «saranno d’accordo». Lo stesso per le altre epoche”2.

Tale centro si riferimento è decisivo e prevalente “Lo Stato acquista la sua realtà e la sua forza dal centro di riferimento delle diverse epoche poiché i temi polemici e decisivi dei raggruppamenti amico-nemico si determinano proprio in base al settore concreto decisivo”3. Dopo il collasso del comunismo l’ultima scriminante del “politico” (ossia quella tra borghesia e proletariato) è venuta meno. Fukuyama scriveva che, dopo la vittoria delle liberaldemocrazie, era arrivata la fine della storia. Previsione sbagliata perché presuppone l’esaurirsi di ogni ragione di conflitto; cosa impossibile perché l’elemento del conflitto e della lotta (Machiavelli e Duverger tra i tanti) è un presupposto del politico ad esso connaturale (Freund). Pensare che l’uomo, zoon politikon, possa esistere senza una dimensione politica, presuppone cambiarne la natura, ossia quello che il giovane Marx pensava di poter fare ed è – invece – risultato impossibile.

Piuttosto alla scriminante borghese/proletario se n’è sostituita un’altra diversa. Il passaggio tra una scriminante amico/nemico e la successiva, scriveva Schmitt, ha un effetto politico decisivo: “La successione sopra descritta – dal teologico, attraverso il metafisico e il morale, fino all’economico – significa nello stesso tempo una serie di progressive neutralizzazioni degli ambiti dai quali successivamente è stato spostato il centro”. In tale processo “Quello che fino allora era il centro di riferimento viene dunque neutralizzato nel senso che cessa di essere il centro”, ma nel contempo e progressivamente “si sviluppa immediatamente con nuova intensità la contrapposizione degli uomini e degli interessi, e precisamente in modo tanto più violento quanto più si prende possesso del nuovo ambito di azione. L’umanità europea migra in continuazione da un campo di lotta ad un terreno neutrale, e continuamente il terreno neutrale appena conquistato si trasforma di nuovo, immediatamente, in un campo di battaglia e diventa necessario cercare nuove sfere neutrali” (i corsivi sono miei).

Che appare proprio quanto successo negli ultimi trent’anni. Dopo una (breve) fase in cui si pensava la globalizzazione “post-comunista” come ad una era stabile e “pacifica”, stante l’egemonia planetaria degli USA, s’intravedevano i primi scricchiolii da distribuire equamente in due categorie: le guerre umanitarie e, ancor più, l’emergenza di antagonisti – nemici – dell’ordine globalizzato. Ambedue convergenti nel confortare la tesi che la storia – e i conflitti – fossero tutt’altro che finiti. Quanto alle guerre “umanitarie” per lo più denominate in inglese e qualificate come operazioni di polizia internazionale, a parte le definizioni rimanevano guerre comunque; e neppure granché apprezzabili secondo le intenzioni esternate, giacché già quattro secoli fa Francisco Suarez metteva in guardia da guerre del genere. In ordine al nemico dell’“ordine nuovo”, in un primo tempo il fondamentalismo islamico, il tutto provava che un ordine, per quanto auspicabile, non può prescindere dal fatto che qualche gruppo di uomini non lo apprezzi, e in misura così intensa da arrivare (sempre) a combatterlo politicamente, e nei casi estremi, con le armi.

3.0 Era così evidente che l’“ordine nuovo” stava generando dialetticamente nuove ostilità, nuovi nemici e nuovi conflitti.

Rimaneva, e in parte rimane, poco chiaro su quale centro di riferimento spirituale si fondi la contrapposizione, interna all’occidente euroatlantico, tra populisti e globalisti. Quello che invece è chiaro – e può servire ad individuare il centro di riferimento è che sovran-popul-identitari da un lato e globalisti dall’altro fanno riferimento a coppie di valori/idee contrapposti che elenchiamo (senza pretesa di essere esaurienti):

NAZIONE/UMANITÁ

ESISTENTE/NORMATIVO

COMUNITÁ/SOCIETÁ

INTERESSE NAZIONALE/INTERESSE GLOBALE

Dei quali la prima colonna si riferisce al sovran-populismo, la seconda alla globalizzazione.

È appena il caso di citare qualche esempio. Per esistente/normativo mi permetto di rinviare a quanto da me scritto sulla Costituzione ungherese4. Quanto alla contrapposizione comunità/società è meno evidente ma comincia ad emergere dalle dichiarazioni costituzionali dei paesi “sovranisti” (v. le Costituzioni polacca e ungherese).

Che il termine a quo e ad quem di questi sia la Nazione e non l’umanità è del tutto evidente e non ha necessità di spiegazioni.

Quando all’interesse nazionale, come obiettivo di governo è anch’esso evidente, a parte le recenti vicende della Diciotti e del Ministro degli interni Salvini, che l’hanno riportato al centro del dibattito politico. E si potrebbe parlare di un “rieccolo” perché è sempre stato la bussola dello Stato moderno (e delle sintesi politiche antiche).

A trovare una frase che sintetizzi in poche parole la posizione dei sovranisti non si può che risalire all’affermazione di Sieyès “La Nazione è tutto quello che può essere per il solo fatto di esistere”5. Affermazione che scandalizza sicuramente un globalista.

4.0 La seconda concezione da prendere in esame per la valutazione della situazione politica contemporanea è quella che emerge, tra gli scritti di Schmitt, da “Terra e mare”. Fondamento di tale scritto è che l’esistenza umana è determinata dallo spazio in cui vive, dalla percezione che ne ha e dalle opportunità che offre. Pertanto questo determina o co-determina i rapporti politici, economici e sociali. In particolare il diritto. Scriveva Maurice Hauriou che il diritto conosciuto, elaborato, applicato dai giuristi è quello di società sedentarie, basate sul rapporto con la terra (e così, anche con il territorio come elemento dell’istituzione politica, in particolare – ma non solo – dello Stato moderno). Mentre il giurista francese contrapponeva le società sedentarie a quelle nomadi e spiegava gran parte degli istituti delle prime col rapporto con la terra e con un’esistenza orientata alla produzione regolare, Schmitt approfondiva la diversità tra esistenza marittima ed esistenza terreste, e in particolare che “la storia universale è una storia della lotta della potenza del mare contro la potenza della terra…”.

La novità nella storia moderna, sosteneva Schmitt, è che la Gran Bretagna, nel XVI secolo, si decise per un’esistenza marittima, assai più di come avevano fatto in altre epoche potenze marittime come Atene o Venezia ed in parte, anche Cartagine. Da ciò derivò l’espansione commerciale (ed industriale) inglese6.

Questo fatto era considerato da Schmitt determinante sia per il diritto internazionale che per l’assetto politico europeo westphaliano. L’equilibrio che ne derivava, conseguiva da quello di terra e mare (potenze continentali e potenza marittima) e tra stati europei. Nessuna delle quali era in grado di egemonizzare le altre, perché non avrebbe avuto la forza di imporsi ad una loro coalizione, un po’ come Machiavelli notava per gli Stati italiani (e dell’equilibrio tra gli stessi) della sua epoca. In questo senso la sovranità degli Stati, costruita intorno alla parità giuridica degli stessi – prescindendo dalla parità di fatto, aveva un certo senso, proprio perché la parità di fatto tra gli stessi – o almeno tra i maggiori – non era tanto lontana; e, d’altra parte la disparità poteva essere compensata con un’accorta politica di alleanze (e all’inverso di neutralità).

Il tutto entrava in crisi con il XX secolo; sosteneva Schmitt che “nel diritto internazionale le idee generiche ed universalistiche sono le armi tipiche dell’interventismo”7; e che “Una concezione giuridica coordinata ad un impero sparso su tutta la terra (ossia quello britannico) tende naturalmente ad argomenti universalistici”8

Nello scritto “Grande spazio contro universalismo”9, il giurista di Plettemberg ribadisce, con riferimento alla dottrina Monroe, la contraddittorietà dell’interpretazione universalistica all’enunciazione originaria della suddetta dottrina. Scrive Schmitt “È essenziale che la dottrina Monroe resti autentica e non falsificata, fintantoché è fissa l’idea di un grande spazio concretamente determinato, nel quale le potenze estranee allo spazio non possono immischiarsi.

Il contrario di un siffatto principio fondamentale, pensato a partire dallo spazio concreto, è un principio mondiale universalistico, che abbraccia tutta la terra e l’umanità. Questo conduce naturalmente a intromissioni di tutti in tutto. Mentre l’idea dello spazio contiene un punto di vista della delimitazione e della divisione e per questo enuncia un principio giuridico ordinatore, la pretesa universalistica di intromissione mondiale distrugge ogni delimitazione e distinzione razionale10 (il corsivo è mio).

Ciò ha fatto sì che si è convertito “un principio di non ingerenza concepito spazialmente in un sistema generale di intromissione delocalizzata” e così è diventato uno strumento ideologico della democrazia e “delle concezioni con essa collegate, in particolare del “libero” commercio mondiale e del “libero” mercato mondiale, al posto dell’originario e vero principio Monroe”11. Combinando all’uopo status quo e pacta sunt servanda, “cioè un semplice positivismo contrattuale”, con i principi ideologici del liberalcapitalismo.

Il risultato complessivo è che la dottrina Monroe, come interpretata negli anni tra le due guerre mondiali da la misura “della contrapposizione fra un chiaro ordinamento spaziale che poggia sul principio fondamentale del non intervento di potenze estranee allo spazio a fronte di un’ideologia universalistica, che trasforma tutta la terra nel campo di battaglia dei suoi interventi e intralcia il passo ad ogni crescita naturale dei popoli viventi12 (il corsivo è mio).

La situazione oggi è diversa: l’evoluzione dell’ordinamento internazionale con l’ONU (e la Carta dell’ONU), il divieto dell’uso della forza (v. art. 2, 4 della Carta dell’ONU), i poteri del Consiglio di sicurezza, la dottrina della “responsabilità di protezione”, le operazioni di peacekeeping e soprattutto la “difesa dei diritti umani” (e non solo) hanno complicato la situazione.

A cosa può servire la lezione di Carl Schmitt e, in particolare, la dottrina dei “grandi spazi”?

Sembra di poter rispondere che due concezioni (esplicite ed implicite alla stessa) e comunque intersecantesi possono essere utilmente applicate.

La prima delle quali è il realismo politico in relazione al concetto di sovranità. Come scrive il giurista tedesco, il problema della sovranità, probabilmente il principale, è conciliare l’aspetto politico con quello giuridico.

Se infatti il connotato distintivo della sovranità è l’assolutezza giuridica (non essere condizionato dal diritto ma esserne “al di sopra”)13, occorre coniugarla con i limiti di fatto. Come scrive Schmitt “Nella realtà politica non esiste un potere supremo, cioè più grande di tutti, irresistibile e funzionante con la sicurezza della legge di naturaLa conciliazione del potere supremo di fatto e di diritto costituisce il problema di fondo del concetto di sovranità. Da qui sorgono tutte le difficoltà”14 (il corsivo è mio). Altro infatti è la sovranità degli U.S.A. o della Cina, altro quella di S. Marino o del Liechtenstein. Trasposto nella situazione contemporanea, questo significa che mentre si censurano – giustamente – le violazioni dei “diritti umani” o il genocidio (ad esempio dei curdi in Iraq) e si parte per la “guerra giusta” ai ruandesi o a Saddam, ci si guarda bene dal fare la guerra a Putin per il Dombass o la Crimea e così alla Cina per Hong-Kong. Da notare che, mentre Hong-Kong è sotto sovranità cinese – e almeno può valere il carattere classico territoriale di questa – non è così per i citati territori nell’Europa orientale, entrambi – prima di annessioni ed occupazioni – facenti parte dell’Ucraina; la quale ha così subito una violazione della (propria) sovranità – al contrario della Cina. A questo punto, dati i “due pesi, due misure” c’è da chiedersi se non valga, come criterio di comportamento e decisione concreta, quello del “grande spazio”: mentre alla Russia è stato (di fatto) riconosciuto l’intervento in una repubblica prima facente parte dell’URSS, cioè del proprio “grande spazio”, lo stesso non è stato esercitato per proteggere popolazioni, diritti umani, e nel caso dell’Ucraina, l’integrità territoriale.

Per cui il realismo intrinseco alla concezione schmittiana (registra) e regola molto più che l’idealismo di quello15.

La seconda concezione che appare alla base del concetto di “grande spazio” è quella che collega il concetto di potenza (e di potere) di Max Weber e il “diritto” inteso qui come ordine. Scrive Weber definendola, che “la potenza designa qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte ad un’opposizione, la propria volontà”16. Nell’uso corrente fino a qualche decennio orsono erano chiamati potenze gli Stati, almeno quelli capaci di esercitare il comando all’interno e così tutelare la propria indipendenza, anche senza (o con minima) egemonia politica esterna. In termini fattuali è la capacità di far valere la propria volontà che determina l’essere potenza.

La quale applicando la formula di Spinoza tantum juris quantum potentiae determina i limiti fattuali delle potenze e quindi della capacità giuridica di esercitarli. Come scriveva il filosofo olandese “Se dunque la potenza per cui le cose naturali esistono e operano è la medesima potenza di Dio, è facile capire che cosa sia il diritto naturale. “… Per diritto naturale io intendo dunque le stesse leggi o regole della natura, secondo le quali ogni cosa accade, vale a dire, la stessa potenza della natura; perciò il diritto naturale dell’intera natura, e conseguentemente di ciascun individuo, si estende tanto quanto la sua potenza17 (i corsivi sono miei). E nell’ambito del “grande spazio” è relativamente facile per la potenza egemone esercitarla. Del pari, per lo più, ha l’interesse a farlo, per le connessioni e i rapporti che la congiungono ai propri vicini o satelliti. Rispettare i quali è la condizione perché si consegua facilmente uno stato di pace. Assai più che cercare di imporre un’unità del mondo, senza che tale unità si possa conseguire in pace con l’unico modo storicamente possibile: mantenendo il pluriverso, conforme all’assetto d’interessi, potenze e rayas.

Cioè limitandolo e determinandolo con criteri oggettivi e facilmente percepibili ed applicabili. Perché come scriveva Schmitt, l’unità del mondo non è l’unità dell’ecumene, ma “della organizzazione unitaria del potere umano, il cui scopo sarebbe pianificare, dirigere e dominare la terra e l’intera umanità. È il grande problema se l’umanità è già matura per sopportare un solo centro del potere politico”.

Che vi sia una religione, una teologia di sostegno a un tale ipotetico centro, la quale abbia capacità di resistenza ad obiezioni e critiche elementari, Schmitt non lo crede. Non l’ideologia del progresso, dato che progresso tecnico e morale “non camminano insieme” (né tra i governanti, né tra i governati). Né può confortare il razionalismo, non foss’altro – aggiungo – perché vale sempre il giudizio di De Maistre che l’uomo “per il fatto di essere contemporaneamente morale e corrotto, giusto nell’intelligenza e perverso nella volontà, deve necessariamente essere governato” (onde la ragione non basta); oltretutto il progresso tecnico ha l’inconveniente di accrescere il potere del governo. Come scriveva Goethe “è pericoloso per l’uomo ciò che, senza farlo migliore, lo rende più potente”18. E non la si vede neppure oggi che in quel (tentativo/progetto) di unità del mondo stiamo ancora, anche se ormai pare volgere al tramonto. Dietro l’unità di un mondo dominato dalla potenza vittoriosa nella contrapposizione borghese/proletaria, occorre riconoscere che il pensatore di Plettemberg aveva visto bene il futuro politico: una nuova contrapposizione amico-nemico, una costante dicotomia terra/mare, una pace attraverso l’equilibrio di (e tra) grandi spazi. Cioè tutto il contrario di quanto diffuso dalla propaganda mainstream.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 Trad. it. ne le Categorie del politico Bologna 1972 p. 167 ss.

2 Op. cit. p. 172

3 E prosegue “Finché al centro si trovò il dato teologico-religioso, la massima cujus regio ejus religio ebbe un significato politico. Quando il dato teologico-religioso cessò di essere il centro di riferimento, anche questa massima perdette il suo interesse pratico. Nel frattempo esso si è mutato, passando attraverso la fase della nazione e del principio di nazionalità (cujus regio ejus natio) , nella dimensione economica e ora dice: nel medesimo Stato non possono esistere due sistemi economici contraddittori; l’ordinamento economico capitalistico e quello comunistico si escludono a vicenda” op. cit. p. 172.

4 v. Attacco alla Costituzione ungherese in Nova Historica n. 67, anno 17, pp. 153-168, in particolare p. 164-165.

5 e continuando le citazioni dell’abate, tra le molte “Le nazioni della terra vanno considerate come individui privi di ogni legame sociale, ovvero, come si suol dire, nello stato di natura. L’esercizio della loro volontà è libero ed indipendente da ogni forma civile…Comunque una nazione voglia, è sufficiente che essa voglia; tutte le forme sono buone, e la sua volontà è sempre legge suprema…una nazione non può né alienare né interdire a se stessa la facoltà di volere; e qualunque sia la sua volontà, non può perdere il diritto di mutarla qualora il suo interesse lo esiga”

6 Anche Hegel sottolinea determinati diversi tipi di attività, e legando al mare lo sviluppo dell’industria e del commercio v. Lineamenti di filosofia del diritto, §247.

7 V. Il concetto di impero nel diritto internazionale, p. 27.

8 E prosegue “Una tale concezione non concerne uno spazio determinato ed unito né il suo ordinamento interno, ma in prima linea la sicurezza delle comunicazioni fra le sparse frazioni dell’impero”.

9 Trad it. Di A. Caracciolo in Posizioni e concetti, Giuffré, Milano 2007, pp. 491-503.

10 E prosegue “In effetto l’originaria dottrina Monroe americana non ha niente a che fare con i principi fondamentali ed i metodi del moderno imperialismo liberalcapitalistico. Come vera e propria dottrina dello spazio si trova anzi in pronunciata contrapposizione ad una trasformazione della terra in un astratto mercato mondiale del capitale senza tener in alcun conto lo spazio… Che una siffatta falsificazione della dottrina Monroe in un principio imperialistico del commercio mondiale fosse possibile, resterà per tutti i tempi un esempio impressionante dell’influenza inebriante di vuote parole d’ordine” Con l’interpretazione che ne dava W. Wilson “non intendeva all’incirca un trafserimento conforme del pensiero spaziale, non interventistico, contenuto nella vera dottrina Monroe, agli altri spazi, ma al contrario un’estensione spaziale ed illimitata dei principi liberaldemocratici alla terra intera ed a tutta l’umanità. In questo modo egli cercava una giustificazione per la sua inaudita ingerenza nello spazio extraeuropeo”, op. ult. Cit. pp. 493-494 (il corsivo è mio).

11 E continua che i due Roosevelt e Wilson avevano fatto “di un pensiero spaziale specificamente americano un’ideologia mondiale al di sopra degli Stati e dei popoli, essi hanno tentato di utilizzare la dottrina Monroe come uno strumento del dominio del capitale anglosassone sul mercato mondiale”

12 Op. ult. cit., p. 503.

13 Con la nota problematica su quanto l’assolutezza si applichi all’interno e quanto lo possa essere all’esterno, ossia nei riguardi dei soggetti di diritto internazionale (Stati e “ordinamento in fieri” già distinte da Bodin.

14 v. Der Begriff des Politischen, trad it. Di P. Schiera ora ne Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 44.

15 Idealismo, che in concreto, è spesso la fusione di interessi e paternostri.

16 Economia e società, trad. it. di T. Bagiotti, MIlano 1980, p. 51. Poco dopo scrive “ Per Stato si deve intendere un’impresa istituzionale di carattere politico nella quale – e nella misura in cui – l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima, in vista dell’attuazione degli ordinamenti” (p. 52).

17 Trattato politico, trad. it. di A. Droetto , Torino 1958, p. 161.

18 I passi ultimi citati sono tratti dal volume L’unità del mondo ed altri saggi, curato da A. Campi, A. Pellicani Editore, Roma 1994, pp. 303 ss. Schmitt scrive, proseguendo “L’unità mondiale di una umanità organizzata solo tecnicamente fu anche per Dostoievski un tremendo incubo. Questo incubo si aggrava via via che la tecnica cresce. E che rimedio è ancora possibile oggi, date le enormi possibilità tecniche e la crescente intensità del potere politico?” .

Roberto Esposito, Istituzione_a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Roberto Esposito, Istituzione, Il Mulino, Bologna 2021, pp. 163, € 12,00

La concezione e l’uso corrente del termine “istituzione” non lo correla alla vita e al mutamento. L’autore ritiene invece che “Compito primario delle istituzioni non è solo quello di consentire a un insieme sociale la convivenza in un dato territorio, ma anche di assicurare la continuità nel mutamento, prolungando la vita dei padri in quella dei figli…le istituzioni rispondono al bisogno degli uomini di proiettare qualcosa di sé al di là della propria vita – della propria morte – prolungando, per così dire, la prima nascita nella seconda”; e continua sottolineando le antinomie del concetto. Ad esempio tra movimento (momento istituente) e stabilità dell’istituzione. La logica dell’istituzione “tiene insieme movimento e stabilità, mutamento e permanenza, innovazione e conservazione”. Ma così è anche per altre antitesi: libertà e necessità, soggetto ed oggetto, interno ed esterno. L’autore analizza le concezioni di filosofi, sociologi, pensatori politici e, ovviamente, giuristi, essendo il concetto (e il termine) familiare soprattutto a quest’ultimi. Esposito ritiene (a ragione) che “I primi, e più influenti, teorici dell’istituzionalismo giuridico sono il francese Maurice Hauriou e l’italiano Santi Romano” e brevemente riassume i tratti fondamentali del loro pensiero (come – anche – di quello di Cesarini Sforza).

Andando a qualificare i caratteri più importanti del pensiero istituzionista, questo è vitalistico e realistico. Ed essendo la vita carica di contraddizioni, la funzione dell’istituzione è di tenerle insieme (eliminarle o sopprimerle non è nella possibilità umana). Ad esempio la contraddizione tra movimento e stabilità: Hauriou li sintetizza paragonando l’istituzione (nella specie lo Stato) ad un agmen: ad un esercito in marcia. Il quale si muove, cambia anche – in parte – posizione e compiti dei suoi reparti, ma conserva sempre l’ordine. In alcuni periodi il movimento si accelera, in altri rallenta: così si passa dai gouvernements de fait (emergenti da colpi di Stato o rivoluzioni) con trasformazioni veloci ed estese, ai gouvernements de droit consolidati, accettati e quindi meno innovativi, ma più stabili. Ma è l’ordine (nel senso dell’agmen) il loro comune denominatore.

Così nella rivoluzione (e nel partito rivoluzionario) cui dedicò una voce dei Frammenti di un dizionario giuridico, Santi Romano. Il partito rivoluzionario, pur essendo un soggetto politico non statale (ossia “movimento”) è già istituzione, anche se in fieri, fluttuante, dagli incerti confini. Ma già ha delle strutture, un vertice, una base; e delle regole, e quindi una certa effettività e più ancora un “tasso” di ordine: è un “ordinamento sia pure imperfetto, fluttuante, provvisorio”. Del pari, quando Romano individua i tratti fondamentali dell’instaurazione di un ordinamento statale, fa riferimento non a caratteri normativi come la conformità alle regole legalmente poste, allo Stufenbau, ma a elementi fattuali (o meglio non normativi), come l’effettività, la legittimità, il riconoscimento (dei sudditi) cioè la disponibilità ad obbedire. In definitiva “esistente e, per conseguenza, legittimo è solo quell’ordinamento cui non fa difetto non solo la vita attuale, ma altresì la vitalità”: il nuovo regime deve avere, per essere tale, stabilità e quindi durata. È vero, anche se riduttivo, quanto scrive Esposito che “l’istituzionalismo italiano – da Romano a Mortati – ha ricondotto il diritto alla sua radice vivente”; perché vitalismo e realismo sono caratteri tipici anche dell’istituzionalismo non italiano (come in Hauriou, Schmitt, Smend). Anche se spesso rinvenibili in giuristi non considerati istituzionalisti, ma semplicemente realisti.

Scrive l’autore nell’epilogo che “La prassi istituente reinterpreta in maniera inedita la relazione tra continuità e discontinuità, lasciandosi alle spalle sia lo storicismo progressista sia la tradizione rivoluzionaria della creazione ex nihilo”. E che la concezione de “l’ordine in movimento” sempre presente in giuristi come Hauriou e Santi Romano (e non solo) possa essere il criterio per capire le trasformazioni oggi in atto appare, in larga misura, probabile.

Teodoro Klitsche de la Grange

LA PARITÁ DELLE ARMI, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA PARITÁ DELLE ARMI

Comincia male l’annunciata riforma della giustizia tributaria. C’informa il comunicato congiunto dei Ministeri interessati che, in Cassazione “il contenzioso tributario rappresenta una delle componenti principali dell’arretrato accumulato (50.000 i ricorsi pendenti stimati a fine 2020, con una percentuale di riforma delle decisioni di appello del 45%)”, per concludere che la riforma della giustizia tributaria è “coerente con le indicazioni dell’Unione Europea”, la quale notoriamente non ha un’opinione lusinghiera della giustizia italiana in genere.

Ciò che preoccupa è che si sia iniziato col consueto richiamo alla pletora di ricorsi e all’arretrato, ossia guardando il problema non dall’angolo visuale dei contribuenti, ma da quello dell’amministrazione. Prendere le mosse dal quale, come scriveva Marx, è logico per una visuale burocratica, tendente naturalmente a confondere l’interesse dell’ufficio o dei burocrati allo stesso addetti con quello, generale, dello Stato. Il quale non è solo e tanto la deflazione del contenzioso, ma che il diritto sia applicato (con giustizia) e lo sia in tempi e modi appropriati.

Ancor più nel caso dell’Italia contemporanea dove la “deflazione” è stata (asseritamente) realizzata a dispetto dei diritti dei cittadini e dell’interesse generale, percorrendo le strade di espedienti rivolti a rendere più difficoltoso l’esercizio delle azioni giudiziarie e la realizzazione delle domande nei confronti delle P.P.A.A. (non solo di quella finanziaria): dall’aumento dei costi alla prescrizione di norme volte a rendere più complicato e defatigante l’esecuzione di sentenze e giudicati, a prassi finalizzate a scoraggiare il ricorso alla giustizia contro atti e comportamenti delle PP.A.A. (come l’uso della condanna alle spese dei cittadini come deterrente alla proposizione delle azioni giudiziarie).

Dato che ci si aspetta la ripetizione sui media mainstream delle usuali giustificazioni accompagnate dalle ovvie argomentazioni da causidico (del tipo se aumento i costi e ne riduco l’utilità le cause calano) e senza voler ripetere, a tale proposito, quanto scriveva Jhering in quel best-seller che fu “La lotta per il diritto”, è utile ricordare brevemente quel che è scritto nella Costituzione e, parimenti, ciò che pensava M. Hauriou.

Nella “costituzione più bella del mondo” è stata inserita (da decenni) una modifica implementativa dell’art. 111 della Costituzione (al fine, tra l’altro, anche di adeguarsi alla giurisprudenza europea). Attualmente il secondo comma dispone che “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. È tale condizione di parità, la quale per esserlo deve comprendere anche alcuni diritti sostanziali – e non solo processuali – ad essere, anche se non l’unica, quella più disattesa nella normativa (e nella prassi) vigente. Sia in maniera manifesta che indiretta e non apparente, ovvero con norme che di fatto si applicano quasi sempre solo alla parte privata e non a quella pubblica, come quelle che limitano i mezzi di prova. Altre prevedono esplicitamente un trattamento differente: ad esempio l’esecuzione esattoriale, onde l’esattore può pignorare i beni senza rivolgersi a un giudice (applicazione estensiva del principio dell’esecutività degli atti); il che oltre alla disparità di trattamento comporta la realizzazione immediata del credito, mentre, nel caso inverso la perdita di almeno uno-due anni. O quelle che escludono la possibilità di esecuzione avverso le PP.AA., o che la rendono assai difficile aggiungendovi oneri e obblighi del privato e prevedendo termini più lunghi, tutti inesistenti tra privati. E potremmo continuare per qualche pagina, solo a citare articoli e commi istituenti privilegi, deroghe, alterazioni delle parità, di converso sempre vigente tra parti private.

Ma qualcuno potrebbe obiettare che la parità tra poteri pubblici e diritti dei privati verso questi è impossibile. Ed ha pienamente ragione, Un grande giurista come Hauriou distingueva, già oltre un secolo fa, due diritti (e due giustizie correlative). Il primo, il diritto comune, conseguente alla sociabilité umana, generato al di fuori delle istituzioni, e che comunque comporta  una giustizia tra parti in condizioni di parità (Dike). L’altro, quello istituzionale, disciplinare, interno, caratterizzato dall’essere gerarchico e che di fronte ai Tribunali le parti non sono uguali l’una all’altra (Temi). E la cui sorgente (source) è l’organizzazione sociale. Senza questa disparità di trattamento, sostanziale e processuale, nessuna istituzione, soprattutto lo Stato, può stare in piedi, e ciò non è altro che un aspetto, il principale, della giudiziarizzazione del presupposto politico del comando-obbedienza. Ma di questo ho scritto già ed evito di ripetermi.

Quello che è sicuro è che negli ultimi decenni l’ambito di Temi è stato esteso a dismisura e applicato a materie non connotate da un interesse pubblico impellente e prevalente, ma semplicemente finalizzato a non pagare debiti, ad esigere crediti, di eliminare diritti d’ostacolo e semplificare, a loro scapito, la realizzazione di pretese infondate. Per cui la proposta più semplice per riformare la giustizia tributaria è quella di ridurre la disparità. Far crescere Dike e dimagrire Temi. Così se è impossibile far prevalere  sempre giudizi in condizione di parità, è auspicabile ridurne la disparità: parafrasando Orwell, se non sempre si può essere uguali, almeno si può essere meno disuguali.

Teodoro Klitsche de la Grange

AIUTANTI, SOPPORTATI, NEMICI_di Teodoro Klitsche de la Grange

AIUTANTI, SOPPORTATI, NEMICI

Tra i (modesti) vantaggi che le emergenze politiche, economiche e sociali possono arrecare, c’è quella di chiarire e porre in evidenza caratteri (e funzionamento) di regolarità politiche già evidenziate dalla dottrina. Così è per il Covid 19.

I sostegni dispensati dal governo Conte-bis – e in parte anche dall’attuale – dividono il grosso della popolazione italiana in tre macro-gruppi: coloro che vivono di uno stipendio pubblico/pensione, garantiti al 100%. Anzi tenuto conto delle chiacchiere sullo smart working pubblico (così diverso da quello privato), anche caratterizzato da una sostanziale identità di retribuzione a fronte di una prestazione più comoda, spesso ridotta e talvolta inesistente. Poi i dipendenti privati, con garanzie inferiori ai pubblici (tuttavia estese – causa pandemia – a quelli che non l’avevano). Infine i lavoratori autonomi, rimasti , in gran parte o totalmente senza tutela o con ristori minimi (Conte) ovvero con modesti (ma più diffusi) sostegni (Draghi).

A giustificare trattamenti così radicalmente differenziati, la retorica mainstream si è servita di tutti gli espedienti. Il primo, l’oscuramento (non parlarne e gonfiare le altre notizie). Poi la mistificazione – come enfatizzare le regole e dimenticare le (vastissime) eccezioni. Così ad esempio, i ristori ai lavoratori autonomi che non si applicavano ai pensionati (o agli iscritti) degli enti di previdenza privati (cioè a quasi tutti). Anche le usuali litanie: ce lo chiede l’Europa… siamo i più bravi ad affrontare l’emergenza (se non fosse per…qualche migliaia di morti in più degli altri) hanno trovato la propria consueta collocazione nei discorsi di propaganda.

È mancata invece totalmente l’applicazione generale e omogenea (se non identica) di quello che è uno dei principi costitutivi di qualsiasi comunità politica, ancor più se democratica, quello di solidarietà politica, sociale, economica collocato nell’art. 2 della Costituzione “più bella del mondo” (ossia tra i doveri fondamentali).

Ancorché il dovere di solidarietà abbia una funzione costitutiva delle comunità, non è quel che qui m’interessa considerare, ma è la conferma della teoria (da ultimo espressa) da Gianfranco Miglio su classe, organizzazione (e sintesi) politiche. Scrive Miglio che se configuriamo la sintesi politica come una sfera “abbiamo un nucleo centrale costituito dalla classe politica, mentre intorno si ha una classe dirigente con certi rapporti di osmosi rispetto ai ‘seguaci indifferenziati’ e, dall’altra parte, rispetto al nucleo che costituisce la classe politica stessa” e prosegue “i politologhi ritengono che fra classe politica in senso stretto e seguaci in senso lato si situi una fascia che alcuni chiamano «classe dirigente» e altri «classe politica secondaria»”; “oltre alla guerra contro il nemico, la classe politica svolge una funzione verso i propri seguaci… nei riguardi del nemico ci si attende una ‘rendita politica’ il vivere a sue spese”.

Il primo servizio reso  dalla classe politica, dopo la protezione dal nemico, “è una funzione di tutela della pace interna, che consente la sopravvivenza, mediante lo scambio, degli aggregati. Ogni aggregato vive dello scambio ‘privato’, del rapporto di ‘contratto-scambio’, di mercato ed è in attesa di rendite politiche”; il criterio di distinzione tra le une e le altre è che “nella rendita di mercato è elevata l’aleatorietà. Mentre la ragione per la quale vengono appetite le rendite politiche è data dal fatto che sono garantite”; il mezzo per approvigionarsene è la costrizione “All’esterno abbiamo le rendite politiche vere e proprie, costruite mediante un prelievo coercitivo: tutti i cittadini devono pagare le imposte, devono corrisponderle secondo un criterio proporzionale”; tali tributi “ vengono riversati come paghe pubbliche ai partiti politici, cioè a coloro che vivono al loro interno, quindi nella pubblica amministrazione”. Nella quale “Interessa piuttosto ottenere la paga pubblica. Quando si sente dire: «È meglio andare a fare il pubblico funzionario, perché almeno non ti licenziano mai», è perché la paga è garantita”: le rendite pubbliche (e così le paghe pubbliche) tendono alla garanzia assoluta del reddito, anche se “si tratta di paghe modeste in genere nel caso di paghe pubbliche garantite, laddove il sistema politico funzioni”. Basse ma non aleatorie, invece nel caso dei redditi di mercato, non c’è (teoricamente) un “tetto”, ma c’è l’aleatorietà. Nel dividere le prestazioni all’interno della sintesi politica occorre distinguere: vi sono cittadini che prestano una fedeltà passiva (scrive Miglio), cui vengono (di solito) erogati una prestazione generica, l’assicurazione dell’efficacia dell’obbligazione necessaria a “scambiare beni e prestazioni e quindi a sopravvivere”. Doveri fondamentali che, specie il secondo, sono assai compromessi dalla sgangherata burocrazia della Repubblica.

C’è poi una seconda categoria “che si crea nel caso dei seguaci attivi, cioè gli ‘aiutanti’ del potere politico. Costoro prestano ai capi politici una fedeltà attiva, ossia atti e comportamenti continuati, per far sì che coloro che detengono il potere lo conservino”, ai quali è garantita, almeno, una paga pubblica[1].

Ma, scrive il politologo lombardo “c’è una terza categoria (terza fascia) di seguaci: quelli ai quali si estorcono le risorse per erogare le paghe politiche. Sono i seguaci che potremmo definire dominati…A costoro normalmente la classe politica dà una protezione che possiamo definire ‘negativa’. È la protezione nei riguardi di se stessi: consiste nel garantire la sopravvivenza… Costoro, in cambio della sopravvivenza, devono prestare un tributo. Nei sistemi politici dei giorni nostri c’è la possibilità di un’osmosi continua fra questi due strati, tra la prima e la terza fascia, per cui di volta in volta il seguace ‘non attivo’, quello che non fa politica, può diventare temporaneamente un seguace dominato soggetto a tributo” (il corsivo è mio).

Cosa, della situazione attuale, può ricondursi, con qualche adattamento alla tripartizione di Miglio? Nel lungo periodo (cioè prima dell’emergenza pandemica) i connotati della divisione erano più sfocati (a parte le nebbie della propaganda, che contribuiscono a ciò). Così l’inefficienza della burocrazia, parte necessaria dell’aiutantato (anche se spesso non ritenuta tale), che invece ora è evidenziata perfino da coloro che hanno contribuito a renderla tale, con nomine, norme e direttive, per cui le rendite dalla stessa percepita appaiono ancor più sproporzionate alla produttività della stessa. Così per le prestazioni rese ai seguaci non attivi, come (ancora) quelle delle pubbliche amministrazioni e della giustizia. A tale proposito nel celebrare l’anno giudiziario 2021 i responsabili dei principali uffici giudiziari hanno informato che la già scarsa produttività della giustizia italiana è calata, causa pandemia, di quasi un terzo. Ma ancor più, le misure prese per fronteggiarla, hanno confermato l’intenzione ostile verso i lavoratori autonomi almeno di una frazione della classe politica; quella che si autorappresenta come “sinistra” o “centrosinistra”. La combinazione di chiusure forzate (per lo più necessarie) e ristori minimi o inesistenti, mostra (almeno) il totale disinteresse verso le condizioni di vita di buona parte degli italiani, e la (radicale) differenza rispetto agli altri, il cui trattamento, rispetto all’emergenza, è di gran lunga più favorevole.

Tale contestazione consente da un lato di confortare le considerazioni del politologo lombardo che le rendite politiche sono fattore decisivo della collocazione e dal trattamento delle classi all’interno della sintesi politica; dall’altro che la regolarità dell’amico-nemico non è limitata al campo esterno alla sintesi (cioè al rapporto con altra sintesi, ovvero, per lo più Stati esteri), ma si proietta anche all’interno, come d’altra parte, rilevato già da Schmith, e, più in generale, dal pensiero politico, soprattutto realista (Machiavelli compreso).

In conclusione: se ora appare evidente che buona parte del popolo italiano scende in piazza per affermare il proprio diritto all’esistenza economica e sociale (se non addirittura fisica), questa non è che la reazione ad una intenzione ostile (v. Clausewitz) che parte della classe politica, quella che è stata quasi sempre al governo negli ultimi dieci anni, ha manifestato e praticato, prima più occultamente e misuratamente, ora in modo più evidente e smisurato. Per cui se a tale intenzione ostile, si reagisce da parte dei dominati in modo più energico e manifesto, non se la possono prendere con i dissidenti attivi.

In fondo vale per ogni conflitto quel che Francisco Suarez pensava per la guerra: bellum defensivum semper licitum; chi si difende e difende la propria esistenza politica, economica e sociale non fa nulla di illecito.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] V. “Quale migliore, più concreta, immediata e palpabile garanzia esiste se non quella di una paga pubblica, di uno stipendio garantito politicamente? Comunque andranno le cose, comunque andrà il mercato e si evolverà la situazione economica, la paga verrà ricevuta. Al limite, la garanzia verrà assicurata anche stampando moneta non sorretta da un corrispettivo di valore e quindi si estorceranno risorse all’intera comunità per poter disporre  dei segni monetari necessari al pagamento della paga politica” Lezioni di politica, Scienze della politica, Bologna 2011, p. 334.

L’OCCASIONE E IL CONFLITTO SECONDO MACHIAVELLI, di Teodoro Klitsche de la Grange

L’OCCASIONE E IL CONFLITTO SECONDO MACHIAVELLI

A seguito delle manifestazioni contro le chiusure del Covid, per la sopravvivenza delle imprese e dei lavoratori autonomi, siamo tornati a intervistare il nostro Machiavelli che ci ha ricevuto con la consueta gentilezza.

Caro Segretario, che ne pensa delle manifestazioni contro le restrizioni?

Che è poco crederle dovute (solo) alla pandemia e che nuocciano alla libertà: gli è che i tumulti fanno bene alle repubbliche, almeno a quelle ben ordinate, come era Roma, sicché ho scritto “coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma, e che considerino più a’ romori ed alle grida di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano”.

Ma i manifestanti hanno fatto dei danni, rimosso le transenne, resistito alla polizia.

E con ciò? A Roma facevano anche di peggio ed hanno comunque conquistato il mondo, mantenendo la loro libertà: “i desiderii de’ popoli liberi rade volte sono perniziosi alla libertà, perché e’ nascono o da essere oppressi, o da suspizione di avere ad essere oppressi”.

Ma li accusano di essere degli incompetenti e di far politica con la pancia e non con il cuore. Di essere fuorviati da demagoghi e da fake news.

E per tutelare la verità, vogliono impedirne la diffusione! Come dicono a Vinegia “pezo el tacon del buso” E quando queste opinioni fossero false e’ vi è il rimedio delle concioni, che surga qualche uomo da bene che orando dimostri loro come ci s’ingannano. Gli è che non essendo i vostri vecchi governanti degni di fede, non potendo convincerle con le loro parole cercano d’impedire agli altri di parlare. Sanno bene che il popolo non chiede loro neppure l’ora, perché s’aspetta che cerchino anche in ciò di truffarlo.

E come biasimare il popolo: negli ultimi trent’anni è stato il più impoverito d’Europa e forse del pianeta. Dove stavano i vostri governanti? Su Marte o al potere?

Ma i governanti avevano fatto i piani per la ricostruzione, per la next-generation, per una nuova ripartenza.

E sono gli stessi – o i loro, meno degni, successori – che hanno lasciato quello che si fa per quello che si dovrebbe fare; sono andati dietro all’immaginazione della realtà, piuttosto che alla verità effettuale. Parlo dei comunisti. Volevano cambiare la natura umana ma gli uomini sono sempre gli stessi: per questo nei miei scritti ho ragionato sulle cose d’Italia prendendo a criterio le azioni degli antiqui. E non ho errato: i Romani che non s’illudevano sugli uomini e avevano tanta virtù, hanno costruito  un impero durato in occidente cinque secoli, e in oriente assai di più. I vostri post – o neo-comunisti sono arrivati – al massimo – a governare settant’anni, e il loro  impero è crollato da solo. Bel risultato! Invece della fine della storia, ne hanno realizzato un caso unico. Un misero esito per un vasto programma. Onde quanto sostengono, deve tener conto della loro credibilità – modestissima.

Ma almeno certe illusioni servono a temperare la crisi, a  evitare sconvolgimenti dolorosi.

Come se le crisi non facciano parte della storia, la quale è, come diceva un mio allievo mezzo francioso, il cimitero delle élite. Le vostre, pensano alla crisi come il loro cimitero. E dato che hanno di mira il loro particolare, ne sono terrorizzati. Ma la crisi non significa solo fine: ma anche nuovo inizio, come scrivevo nei Discorsi. Se un ordinatore di repubblica fonda uno Stato, lo fonda per poco tempo perché nessun rimedio può farci a fare che non sdruccioli nel suo contrario. Credere d’ordinarla in eterno è opera non umana, ma divina. Ma il Padreterno non ha voluto mai realizzarla. Rassegnatevi: come scrisse un filosofo, le costituzioni nascono dal sangue e dalla lotta. Cercate di evitare se possibile il sangue. Ma non lo è schivare la lotta. Chi sostiene ciò vuole evitare la lotta, quella dei suoi nemici. E lui vuol fare la guerra, ma spuntando le armi dell’avversario.

Bisogna quindi “ritornar al principio”?

Anche, ma soprattutto, più la fortuna batte, più occorre virtù, più uomini che ne sono dotati hanno l’occasione per emergere.

La crisi è l’opportunità per domare la fortuna; e gli uomini e le comunità virtuose non la possono tralasciare. A trascurarla si prolunga solo la decadenza e se ne ampliano gli effetti. Voi è almeno da trent’anni che decadete. E tutti i Paternostri recitati dai vostri governanti servivano solo ad occultarla; col solo risultato di prolungarla. Ma per batterla occorre tanta virtù: più in basso siete caduti più ne occorre per rialzarsi. Ma la troverete? Ai miei tempi no, Spero che i vostri siano più fausti.

Teodoro Klitsche de la Grange

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