LIBERA NOS A MALO…., di Teodoro Klitsche de la Grange

LIBERA NOS A MALO….

La pandemia (ma non solo) ci ha riempito di bonus: per le facciate, l’energia alternativa, i monopattini, le bici elettriche, ecc. ecc. Con gli italiani in gran parte contenti nel vedere come dai funebri ritornelli – dei governi Monti e post-Monti – con cui s’accompagnavano tasse nuove e innovative (nel senso dell’aumento), si fosse passati al carnevale, con lo Stato che, invece di ripartire carichi, distribuisce sovvenzioni.

Da qualche settimana tuttavia lo spartito è cambiato: i bonus, questa risorsa di sollecitudine paterna dello Stato-provvidenza sono stati pervertiti dai soliti italiani profittatori: risulterebbe che una consistente quota dei bonus finanziati da Pantalone sarebbe stata percepita da chi non ne ha diritto. Per cui sarebbe opportuno fare marcia indietro. Ci permettiamo però, al riguardo, di prendere esempio da quanto sosteneva Lenin: fare si un passo avanti ma per farne due indietro. Vediamo come.

Cos’è che hanno in comune la funzione predatoria-parassitaria di appropriazione/controllo delle risorse private da parte del settore pubblico e quella distributiva dell’erogazione di sovvenzioni pubbliche ai privati? La risposta è semplice: è lo stesso potere incaricato di fare l’uno e l’altro, in particolare quello amministrativo. Il quale (sempre) giustifica la prima attraverso la seconda: devo togliere dei quattrini (e non solo) ma per darli a voi. Anzi ai meno fortunati di voi come i migranti, gli indigenti, ecc. ecc.

Dato che a “dare le carte” è sempre lo stesso croupier, tuttavia manifesta in ambedue le attività le stesse tendenze (e difetti). Ossia sarà tardigrado; spesso parziale, non poco corrotto e così via, Tutto l’insieme di mende legate alle pubbliche amministrazioni italiane saranno tali, sia che prendano, sia che spendano. Quando poi si cerca di rimediare alla tardività (spesso indotta dagli stessi uffici), riducendo pareri, visti, concertazioni, passaggi (ed altro) il risultato può essere che anche qualche suddito furbo ci guadagna.

Per cui, anche se la politica dei bonus è sicuramente migliore di quella della tassazione a gogò con tanto di miserere e tua culpa cui ci hanno abituato i governi italiani eurodemomontidipendenti non è il percorso preferibile.

Meglio dell’erogazione dei bonus è evitare il malum, come una saggezza millenaria suggerisce dal Pater noster: il malum è il pubblico funzionario, onorario o burocrate che sia.

Del quale non occorre ricordare quanto sia stato scritto dai teorici (e pratici) dello Stato borghese, quello che normalmente chiamiamo liberal-democratico. E quanto fosse temuta la continua espansione della burocrazia, naturale nello Stato moderno. Basti, per tutti ricordare quel che scriveva Giustino Fortunato: “la tendenza al dominio universale della burocrazia, il cui trionfo sarebbe la resurrezione, sott’altra forma, dell’antico assolutismo, o, meglio, della peggiore delle tirannie, quella della servilità uniforme e meccanica”. Perché per un liberale l’espansione della burocrazia è, in primo luogo, una questione di potere e di libertà. Una burocrazia pervasiva e dotata di poteri crescenti significa meno spazio e libertà per i governati. Lo stesso principio della tutela dei diritti fondamentali – che è uno dei due dello Stato borghese, l’altro essendo quello della distinzione dei poteri (à la Montesquieu) – è stato considerato da Schmitt come “significa il riconoscimento del fondamentale principio di divisione dello Stato borghese di diritto: una sfera di libertà del singolo in linea di principio illimitata ed una possibilità d’intervento dello Stato in linea di principio limitata, misurabile e controllabile” ossia la divisione degli ambiti tra Stato (governanti) e società civile (governati).

Ma la possibilità d’intervento dei poteri pubblici può essere duplice, sia nel togliere che nel dare.

Dato che, in particolare nell’ultimo trentennio (ma non solo) il potere dello Stato è ulteriormente accresciuto – e le statistiche del PNL e del PIL mostrano quanto inutilmente – ci permettiamo di suggerire che meglio dei bonus, e assai più economicamente per le finanze statali, cioè per tutti noi, si proceda ad una radicale sfrondatura di gran parte di quei poteri di impedire, autorizzare, controllare attività private che più che finalizzati a tutelare interessi pubblici (asseriti) lo sono a salvaguardare i privatissimi interessi di coloro i quali – burocrati e non – traggono benefici (e redditi) dalla loro vigenza.

Teodoro Klitsche de la Grange

A COLPI DI GROSSRAUM, di Teodoro Klitsche de la Grange

 A COLPI DI GROSSRAUM

Diversamente dalla crisi pandemica e dai DPCM, quando molti ricordavano – e ricorrevano – alla teoria di Schmitt sullo stato d’eccezione, per quanto spesso cercando di amputarla dall’essere un criterio d’identificazione del sovrano, che fa troppo Salvini – non mi risulta che la crisi ucraina sia stata inquadrata in un’altra delle idee di Schmitt, così utili ad interpretare la situazione contemporanea: quella del Grossraum (grande spazio). Per connotare tale concetto occorre premettere che s’iscrive nella concezione di decadenza dello Stato moderno, cui Schmitt contrapponeva l’insopprimibilità del “politico”, quale essenza (Freund).

Onde se lo Stato non “fa” politica (o si autolimita in ciò) a colmare tale assenza ci pensano altri soggetti (dai partiti, alle chiese, agli imperi e così via). Dopo di che, atteso che un limite spaziale, nelle civiltà sedentarie (Hauriou) è necessario, come lo è un soggetto (e principio) ordinatore, il Grossraum può essere considerato come uno spazio delimitato, organizzato intorno ad un’egemonia di comando, in grado di governare una pluralità di sintesi politiche (cioè in primo luogo, gli Stati), escludendone le potenze esterne allo stesso.

In un’interpretazione post-Huntington tale spazio può somigliare alle “civiltà” i cui componenti sono affini per un patrimonio di idee, tradizioni, valori comuni. A tale tesi si può tuttavia replicare che il Grossraum, anche se non esclude – anzi è favorito – (dalle) affinità non vi trova un elemento essenziale. Questo perché lo sono, invece l’egemonia e la delimitazione spaziale, possibile anche in spazi di popoli non omogenei né affini. Come d’altra parte in altre sintesi politiche, come gli imperi, per lo più multi-etnici, multi razziali, multi religiosi            [1]. Più vicino al concetto di Grossraum è quello di “sfera d’influenza” e altre consimili, che designano l’effettività di un comando egemonico (e relativa pretesa) su più sintesi politiche. Che questo emerga da millenni fa parte della storia. Ogni (aggregato di) potenza si circonda, ove possibile – di stati-clienti, gli obblighi dei quali vanno dal massimo di fornire risorse – anche militari – alla sintesi politica egemone, al minimo di conservare una neutralità in caso di guerra tra quella e le altre, in effetti una rinuncia a muover guerra alla potenza egemone.

Già la storia romana e bizantina ci danno esempi di tale tipo di rapporto. Lacmidi e Gassanidi erano stati – clienti degli imperi persiano (sassanide) e romano. Gerusalemme, qualche secolo prima era stata  assediata dall’esercito di Tito, formato in buona parte da soldati forniti dai tre vicini stati – clienti dell’impero romano.

È chiaro che tali limitazioni assunte o imposte agli Stati clienti costituiscono  altrettanti paletti alla sovranità; questa, in senso giuridico ha il significato di non tollerare alcun limite (Romagnosi, Orlando tra i tanti). Onde al contrario di quanto succede in altri casi, gli strenui difensori dell’Ucraina lo sono diventati (forse a malincuore) anche della sovranità della medesima.

Più che alle incoerenze tra atteggiamenti concreti e affermazioni ideali, tuttavia la riflessione sul punto non dovrebbe prescindere da quanto pensava Spinoza: che la sovranità è illimitata in diritto, ma è limitata in fatto dalla possibilità reale di azione: tantum juris, quantum potentiae. Il sovrano non è colui che puote quel che si vuole, ma è chi è libero nel decidere tra alternative possibili. Questo vale in modo – ovviamente – assoluto per l’impossibile ontologico, e in modo relativo per l’impossibile concreto. Del pari per le scelte azzardate o, al limite insensate (Aron). Come quella del Principato di Monaco che intendesse muovere guerra alla Francia. Una scelta dall’esito positivo impossibile, in particolare per la sproporzione dei mezzi a disposizione e quindi (altamente) inopportuna. É la disparità delle forze tra le potenze aderenti e quelle egemoni (sostanzialmente, di converso, pari tra loro) della Nato e del Patto di Varsavia che ha conservato, dopo Yalta, la pace in Europa, e l’egemonia nei rispettivi blocchi degli USA e dell’URSS.

Dopo l’implosione dell’URSS, che è equivalsa ad una guerra perduta, la Russia ha dovuto rinunciare all’egemonia sulle nazioni dell’Europa orientale, e tollerare la perdita dell’unità politica delle repubbliche federate nell’URSS. Analogamente a quanto praticato e deciso a Yalta per gli imperi giapponese, italiano e il Reich tedesco. Tuttavia l’enorme estensione territoriale e la popolazione della Russia hanno conservato alla stessa nello spazio eurasiatico un primato dovuto allo squilibrio dei rapporti di forza con le vicine repubbliche ex sovietiche: l’Ucraina che è la più popolosa, ha comunque una popolazione pari o poco più di un quarto di quella russa; il PNL ucraino è circa 10 volte inferiore. Questo tralasciando altri fattori di potenza, dalla proporzione simile, e senza andare alla storia dei due paesi.

L’unica possibilità per l’Ucraina è una violenta guerra partigiana, che pare assai remota e comunque portatrice di enormi danni a ucraini, russi, nonché (almeno economici) agli europei occidentali. Qualcuno forse spera che gli aspiranti guerriglieri ucraini ripetano, per Putin, l’impresa dei loro predecessori della seconda guerra mondiale, che uccisero il generale Vatutin che aveva appena riconquistato l’Ucraina alla Russia.

Per cui l’avvertimento dato più volte negli anni trascorsi da politici e politologi come Kissinger, il nostro Prodi (ed altri – non molti) di non cercare di estendere la Nato a Stati ex-sovietici, appare come un consiglio assai azzeccato, e il più idoneo a conservare la pace e l’ordine internazionale. Come intuito da Schmitt con la sua dottrina del Grossraum. Questa è il contrario di quanto sbandierato nell’ultimo trentennio, di una visione del mondo propiziata della “fine della storia” (la quale si è affrettata a ricominciare), e fondata sulla condivisione di valori che per quanto apprezzabili, hanno il limite, politicamente decisivo, per essere efficaci  d’esser condivisi: se non lo sono, non servono a creare coesione politica e sociale, ma solo ad attizzare conflitti.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Per gli imperi è (quasi) la regola. Riguardo all’Ucraina proprio Huntington sostiene che “la linea di faglia” tra civiltà cristiana occidentale e cristianesimo orientale, attraversa l’Ucraina.

LA “NOVITÁ” DELLA RESPONSABILITÁ DIRETTA, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA “NOVITÁ” DELLA RESPONSABILITÁ DIRETTA

I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici” (art. 28 della Costituzione italiana)

Dopo la “bocciatura” da parte della Corte costituzionale del referendum sulla responsabilità dei giudici, sui teleschermi si è visto un fiorire di dichiarazioni sul fatto che non è ammissibile la responsabilità diretta del magistrato, che l’Italia è l’unico paese che l’avrebbe prevista, ecc. ecc. In genere a sostenere tale tesi (o similari) erano coloro che omaggiano la Costituzione come “la più bella del mondo”; pare che il Presidente della Corte costituzionale abbia affermato che “l’introduzione della responsabilità diretta avrebbe reso il referendum più che abrogativo, innovativo”: Ma di cosa se è già prevista la responsabilità diretta del funzionario dall’art. 28 della “più bella del mondo”?

Anzi occorre ricordare – a conferma che la responsabilità diretta era quella che volevano e si compiacevano di aver prescritto – alcuni interventi alla Costituente. All’uopo riportiamo affermazioni del costituente prof. Codacci Pisanelli “si ha al riguardo una notevole innovazione, perché gli impiegati non sono soltanto responsabili nei confronti dello Stato o dell’ente pubblico da cui dipendono, ma sono responsabili nei confronti dei terzi, ai quali siano derivati danni dalla loro attività. È un principio dalle gravi conseguenze, senza dubbio, ma la gravità delle conseguenze deve essere valutata in relazione al fatto che non si tratta di una innovazione radicale. Anche per altri impiegati esiste già qualcosa di simile. Non dobbiamo dimenticare che per i dipendenti dello Stato, i quali esplicano la funzione giurisdizionale, cioè per i magistrati, per i cancellieri e per gli stessi ufficiali giudiziari, è stabilita anche oggi la responsabilità personale… Col nuovo sistema non bisogna pensare che venga abbandonato il principio delle responsabilità dello Stato o della pubblica Amministrazione per atti compiuti dai suoi dipendenti; viceversa, il principio viene integrato con l’altro della responsabilità estesa anche alle persone fisiche preposte ai pubblici uffici”. Quanto all’asserito “solipsismo” della responsabilità diretta , Codacci Pisanelli diceva “In Inghilterra da secoli si applica questo principio, fin da quando, nel 1763, ci fu il famoso contrasto tra Giorgio III ed uno dei deputati, il Wilkes, il quale scrisse un articolo contro il re. Il re dispose, attraverso il primo ministro, perquisizioni domiciliari e arresti; il Parlamento insorse; l’autorità giudiziaria dichiarò la incostituzionalità della esecuzione dell’ordine impartito di eseguire quei sequestri e condannò colui il quale aveva eseguito l’ordine al risarcimento dei danni. Risale a questo tempo l’affermazione del principio della responsabilità personale dei pubblici impiegati per gli atti da essi compiuti” (v. V. Carullo, La Costituzione della repubblica italiana, Bologna 1950, pp. 77-78). Anche in altri ordinamenti, e da secoli, la responsabilità diretta del funzionario era tutt’altro che sconosciuta. Scrive Tocqueville che nell’ancien régime le azioni proposte in giudizio contro i funzionari pubblici erano sistematicamente avocate al conseil du roi. La rivoluzione istituì la “garanzia amministrativa” con la L. 16-24 agosto 1790; la quale, aggiungeva Tocqueville, ebbe un grande successo, dato che passati tanti diversi regimi politici, nessuno l’aveva cambiata. Anche in Gran Bretagna prima del Crown Proceedings Act del 1947 in linea generale a rispondere alle azioni giudiziarie era il funzionario che aveva preso la decisione o commesso il fatto. Quindi la responsabilità diretta, da secoli praticata, non è una novità se non per qualche politico o giurista dalla memoria corta. Ne è l’espediente rozzo di quei cavernicoli di Salvini e Meloni. C’è da chiedersi perché la responsabilità diretta trovi così tanti avversari, malgrado, alla fin fine non sia tanto diversa dalla cugina carnale, cioè quella indiretta? A favore della quale bisogna aggiungere che, pagando lo Stato, si ha una ben superiore garanzia della solvibilità del debitore.

Gli è che nel primo caso il funzionario deve vedersela con la parte lesa, che ha un diretto interesse alla riparazione richiesta e quindi è un avversario ben più motivato e temibile; nel secondo caso a recuperare il risarcimento corrisposto dallo Stato alla vittima, è un funzionario anch’esso, spesso svogliato, se non, come può succedere, complice e, soprattutto, che non combatte per un proprio interesse come il danneggiato.

E magari qualche dato statistico, più o meno segretato ce lo confermerebbe.

Teodoro Klitsche de la Grange

Lorenzo Castellani, Sotto scacco_recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Lorenzo Castellani, Sotto scacco, Liberilibri, Macerata 2022, pp. 115, € 14,00.

Il profilo più interessante di tale saggio, è che, contrariamente a quanto di solito generalmente praticato (anche da studiosi), riconduce a concetti, categorie, intuizioni che sono patrimonio da secoli del pensiero politico, le vicende d’attualità.

Così è per la pandemia. Il libro esordisce “Il potere politico si fonda sulla paura. E il caso della pandemia non costituisce eccezione… La paura, scaturita dal rischio posto dalla pandemia, è stato il carburante di legittimità politica per far accettare scelte di governo, restrizioni e norme che altrimenti mai sarebbero state considerate ricevibili dalle popolazioni delle democrazie occidentali” (e naturalmente il riferimento è, in primis, a Hobbes) “per paura si deve intendere anzitutto l’insicurezza collettiva e per politica il controllo autoritario e assolutista di tale insicurezza”. Dato che “secondo Luhmann, il sistema politico-giuridico opera come una struttura normativa di selezione delle alternative. Diritto e potere politico tracciano dei confini per i comportamenti individuali e sociali costringendo le possibilità di scelta tra innumerevoli alternative”, onde “Il sistema di potere, in definitiva, definisce quali rischi coprire e quali lasciar correre, quali paure sopire e quali far circolare”.

L’inconveniente, noto, è che per farlo, necessita di potere/i enormemente superiore, nello Stato moderno, a quello necessario a forme politiche meno impegnative.

Anche se esercitato attraverso un ordinamento amministrativo costituito da burocrazie professionali specializzate, il potere politico non rinuncia alla dinamica antichissima “dell’insondabilità e dell’inconoscibilità dei segreti su cui si fonda la decisione: “A certe istituzioni si obbedisce proprio perché non si possono comprendere le basi sulle quali poggiano le loro scelte”, comunque rimesse all’autorità di esperti, illuminati dal sapere. Anche in ciò nulla di nuovo: l’incremento del potere attraverso il mistero e l’inconoscibilità (ai più) è una costante da millenni. Kojéve la fa risalire alla teoria dell’autorità di Aristotele fondata sulla superiorità e sulla capacità di prevedere del superiore, e così (anche) dei dotti sugli inesperti (e ignoranti).

Ciò sarebbe anche conforme al pensiero istituzionale moderno, uno dei connotati del quale è la razionalizzazione, anche e soprattutto del potere politico (e lo Stato ne è il risultato). Solo che data la complessità dell’essere umano e delle società “c’è sempre un’incrinatura” che si frappone nella saldatura tra tecnica e potere, perché “Non c’è razionalismo capace di trasformare una società umana in una macchina e la politica in ingegneria”.

Da questa e da altre affermazioni del saggio deriva che, cambiando situazione e giustificazioni, la sostanza rimane – in larga parte – la stessa: a seguire Hauriou, le fond è il medesimo. Con la conseguenza che, dato il carattere prevalente e decisivo in politica della competizione e conservazione del potere, la pandemia è (e può esserlo ancora di più) la giustificazione dell’incremento dei poteri pubblici. I quali, nell’attualità possono avere due versioni; da una parte “c’è il tecno-autoritatismo cinese, nel quale le stesse tecnologie sono messe al servizio di un sistema esplicitamente totalitario, il cui aspetto più inquietante risiede nel fatto che differisce dal nostro soltanto per la sua intensità: una questione di misura più che di sostanza”. Mentre in occidente è il verde, le politiche green: “proposte dalla classe politica occidentale per gestire un altro stato di emergenza che subentrerà, o meglio appare già in compresenza a quello pandemico”.

Con la prospettiva di arrivare al Leviatano climatico: “lo stratagemma usato dall’alleanza tra capitalismo clientelare, finanza e politica per rilanciare lo sviluppo globale senza rinunciare a forme di centralismo economico, di moralismo pedagogico e di azioni disciplinanti sui singoli individui”.

Castellani ne individua i connotati già nella nota profezia di Tocqueville sul dispotismo mite: un potere fondato su un controllo generalizzato, un potere assoluto, pervasivo, previdente e dolce, che fiacca la volontà e riduce la comunità a un gregge “di cui il governo è il pastore”. È il dispotismo mite quello peculiare alla decadenza occidentale “securitario e centralista, in cui lo spirito d’iniziativa individuale e collettivo, la società civile, i beni comuni, le libertà negative e positive vengano mortificati e sacrificati sull’altare di un nuovo dirigismo e della sua pianificazione”. A questo l’autore contrappone il recupero di “forme di azione riflessiva, decentrata e consensuale … ancora possibili invece di pensare a forme di delegittimazione ed esclusione dell’avversario. L’auctoritas prevarrebbe sull’imperium, l’amicizia sull’inimicizia, la rule of law sul potere di polizia… ci sarebbe invece un rifiuto della sorveglianza come idea-guida dell’organizzazione sociale”; perché “la politica sapiente è l’arte di rinvigorire la società, e non di alimentare burocrazie, e la libertà di tutti è un privilegio la cui difesa compete alla classe dirigente”. Ciò sarebbe sicuramente aspirazione largamente maggioritaria. Speriamo che sia pure largamente percepita; perché lo diventi, si consiglia la lettura di questo saggio.

Teodoro Klitsche de la Grange

L’ULTIMO SPENGA LA LUCE, di Teodoro Klitsche de la Grange

L’ULTIMO SPENGA LA LUCE

Le recenti lezioni suppletive del seggio alla Camera lasciato libero dal neo eletto Sindaco di Roma on.le Gualtieri ha raggiunto un record di astensione elettorale: ha votato poco più di un decimo degli elettori (l’11% e frazioni). Dei votanti, un po’ meno del 60% ha plebiscitato (per così dire) la eletta on.le D’Elia (del PD). La quale ha occupato un seggio forte del consenso di poco più del 6% degli elettori.

Il tutto pone dei problemi che in una democrazia – anzi in ogni regime politico – sono considerati primari se non decisivi. Non ripetiamo i nomi di coloro che se ne sono occupati, ma solo i profili più importanti.

In primo luogo il rapporto tra potere (dei governanti) e consenso (dei governati): perché un regime politico sia vitale (nel senso anche della durata) occorre che potere e consenso convergano, di guisa che il comando della classe dirigente trovi la minore resistenza possibile: la quale è tale se i governati credono al diritto a governare nonché all’utilità del potere dei governanti. Se tale convinzione non c’è o è scarsa, il potere si esercita essenzialmente attraverso la coazione – esercitata dall’apparato (Donoso Cortès).

Ma un potere del genere è, di norma, transeunte (come, ad esempio, quello dell’occupazione militare) e di breve durata. Se riesce ad essere più duraturo è un potere dispotico, cioè fondato (in prevalenza) sulla paura (Montesquieu). Quando si leggono disposizioni accompagnate da sanzioni spropositate, si può star sicuri che, quanto è più eccessiva la sanzione irroganda tanto più è diffusa la disobbedienza al governo.

Resta il fatto che un regime basato in gran parte sulla coazione è, concettualmente l’inverso della funzione (e del pregio) della democrazia, quello di far “coincidere” comando e obbedienza, onde la volontà generale (cioè del tutto) sia “posta da tutti per applicarsi a tutti” (Rousseau).

In secondo luogo ogni regime politico si fonda sull’integrazione. Questo è il processo d’unificazione sociale che crea una polis armoniosa “basata su un ordine sentito come tale dai suoi membri” (Duverger). Per realizzarla occorre un’unione reale di volontà (Smend); a tale unione concorrono dei fattori d’integrazione (personale, funzionale o materiale). Non esiste un gruppo sociale che “non implichi partecipanti attivi, dirigenti e passivi”. In particolare l’integrazione funzionale si realizza in processi “il cui senso è una sintesi sociale” tra i quali “elezioni e votazioni… voto e principio di maggioranza sono forme d’integrazione più semplici ed originarie” (Smend), perché uno dei presupposti dell’effetto integrativo è “la partecipazione interna di tutti ad essa” (cioè alla vita istituzionale). In caso di elezioni, all’elettorato attivo il quale tra i fattori d’integrazione funzionale riveste un ruolo primario (anche se non esclusivo). Ma che succede se degli integrandi va a votare un’esigue minoranza?

Sono possibili due soluzioni.

Secondo la prima, condivisa attualmente dalla grande maggioranza della comunicazione mainstream, non succede nulla di rilevante.

Il rappresentante eletto, anche se alle elezioni hanno partecipato tre elettori ed abbia riportato due voti, è comunque legalmente abilitato a legiferare, e governare lato sensu. Tesi dovuta al combinarsi di due ragioni, concorrenti, ancorché in misura differente: la prima che l’elezione è avvenuta secondo le regole legali ed è quindi legale; la seconda che comunque, un governo è necessario e non ci si può “prendere una vacanza”. È inutile dire che la prima è quella preferita dalla maggioranza degli intellos di centrosinistra.

L’altra, realista, è che tutti i regimi politici conoscono una parabola, al termine della quale vengono sostituiti da un regime diverso. E tale sostituzione, quasi sempre non avviene rispettando le forme legali, stabilite dal regime senescente. Non è nelle possibilità umane creare una legalità eterna o comunque durevole per secoli e millenni, come dimostra la storia. Della quale qualche decennio fa era annunciata la fine, che la storia si è subito premurata di smentire.

Ancor più se tale legalità si basa su presupposti, attori, situazioni del tutto diverse da quelle del suo nascere. Non è l’illegalità – o la non legalità – che fa si che un regime sia vitale (e quindi efficace):è, come scriveva Smend, che, anche in uno Stato parlamentare, il popolo ha “una sua esistenza come popolo politico, come unione sovrana di volontà… in una sintesi politica in cui soltanto giunga sempre di nuovo ad esistere in generale come realtà statale”.

Esistenza, popolo, politico, sintesi, unione sovrana di volontà: già la terminologia usata dal giurista tedesco è idonea a suscitare la consueta raffica di anatemi ed esorcismi del pensiero mainstream.

Popolo? Sovrano? esistenza? Sintesi? È l’armamentario lessicale e concettuale dei sovranisti odierni da Orban a Salvini, passando per la Meloni; e quindi da esorcizzare. Inutilmente se non per taluni (molto pochi), perché le trasformazioni sociali avvengono con o senza legalità: è il fatto che crea il diritto. Per cui l’alternativa non è – sul piano fattuale – tra legalità e non legalità, ma tra cicli politici: prolungare il vecchio significa soltanto allungare la decadenza. E allontanare così l’aurora di un nuovo ciclo. Se in Italia assistiamo da circa 30 anni alla progressiva riduzione del numero dei votanti, la conseguenza non è di intonare peana se un deputato è eletto col 6% dei voti, ma solo sperare che l’ultimo degli eletti si premuri di spegnere la luce. In tempo di caro-bollette farebbe qualcosa di utile.

Teodoro Klitsche de la Grange

BIDEN INCENDIARIO?_di Teodoro Klitsche de la Grange

BIDEN INCENDIARIO?

Ciò che mi ha sorpreso nel discorso di Biden in occasione dell’anniversario di Capitol Hill sono due circostanze.

La prima: riporto un passaggio del discorso così come tradotto nel sito Rai-News “Il 6 gennaio fu un insurrezione armata e il mio predecessore cercò di rovesciare elezioni libere, di sovvertire la costituzione e di fermare un trasferimento pacifico dei poteri attraverso un gruppo di balordi, tutto il mondo ha visto con i suoi occhi”. Ora il Presidente USA parla d’insurrezione armata eseguita da un gruppo di balordi, per sovvertire la costituzione come voluto dal “predecessore”: cioè Trump.

Scrissi nell’occasione che di armi (dalla pistola in su) in mano ai dimostranti non “ne abbiamo viste con i nostri occhi”; ma ancor di più che l’aspetto, il comportamento, la (dis)organizzazione dei facinorosi provava che di colpo di stato, di sovversione della costituzione era umoristico parlarne. Perché – concordo nel mio piccolo con Biden – quello degli invasori di Capitol Hill era, come correttamente ha detto il Presidente “un gruppo di balordi”. Ma proprio per questo rendeva di una improbabilità totale che possa parlarsi di colpo di Stato. Nei colpi di Stato – riusciti o falliti – limitandosi al XX secolo -abbiamo sempre visto un’organizzazione di uomini armati che vinceva un’altra organizzazione armata (Stato o governo). Spesso mirando – in primo luogo – a disorganizzarla, come scrisse in un notissimo saggio Malaparte, sostenendo che i bolscevichi – Trocxkij soprattutto- avevano battuto il governo Kerensky proprio perché avevano cambiato il modello insurrezionale non basandolo su folle pletoriche e disorganizzate ma su militanti determinati, competenti e disciplinati. Comunque in grado di esercitare violenza; perciò armati e “inquadrati”. Anche quando i golpe fallivano, come quello del colonnello Tejero (e soci) nella Spagna post-franchista, i requisiti minimi dell’ordinamento e della organizzazione (militare) restavano invariati. Per cui l’assalto a Capitol Hill, con un pittoresco italo-americano vestito da scudiero di Conan appare il più incredibile colpo di stato della storia.

Per cui – e qua passiamo al secondo aspetto – appare facile declassarlo a folklore politico (come in effetti era). Tuttavia rivelava, proprio nella sua ingenuità, due elementi fondamentali: il rigetto di circa la metà degli americani verso le èlite e l’ascesa del sentimento ostile all’interno della comunità. Disponibile ad azioni avventate e rischiose. Anche per questo la politica di Biden – nel bene e nel male – è risultata assai meno lontana da quella di Trump di quanto si attendevano molti commentatori e opinionisti italiani (e non solo). Non si fa solo questione degli “interessi dello Stato” che non cambiano, mutano assai meno e assai più lentamente dei Presidenti, ma ancor di più di coesione nazionale, fattore determinante della “pace” interna allo Stato.

La pace esterna comporta, scriveva Kant, una “clausola d’amnistia”. Lo stesso può dirsi – fatte le debite proporzioni – per gli atti d’insurrezione.

Quando il consenso agli insorgenti è – potenzialmente – così diffuso, è meglio, smorzare l’ostilità, derogare alla prassi ordinaria, compresa l’applicazione rigorosa del diritto.

Parlare di d’insurrezione armata, di sovvertire la costituzione, va in senso contrario. Non so se ciò porterà a coltivare una repressione legale, ma penso che interesse degli USA e degli amici degli USA è che il Presidente faccia il lavoro del pompiere e non attizzi il fuoco.

Teodoro Klitsche de la Grange

TOCQUEVILLE, LA PANDEMIA E IL DISPOTISMO (POST) MODERNO, di Teodoro Klitsche de la Grange

TOCQUEVILLE, LA PANDEMIA E IL DISPOTISMO (POST) MODERNO

Mi è capitato di scrivere che il dispotismo e/o la tirannide da temere al nostro tempo non è (tanto) quello classico, basato su un illimitato uso della forza al servizio di una volontà non opponibile, ma un altro, più che sulla violenza e la paura fondato sulla frode e il raggiro.

Se ne era accorto quasi due secoli fa Tocqueville; nella Démocratie en amerique si chiedeva “quale tipo di dispotismo debbano paventare le nazioni democratiche”. Il capitolo è quanto mai interessante e, come succede ai pensatori di valore, prevede il futuro delle società dallo sviluppo delle tendenze in atto.

In primo luogo usa il termine dispotismo, ma si affretta a precisare che quello delle nazioni europee a lui contemporanee ha poco a che spartire con quanto, a tale proposito, scriveva Montequieu: per il quale dispotico era il regime che si basava come principio di governo sulla paura e i cui esempi erano prevalentemente non europei e non cristiani.

Tocqueville scrive che “un assetto sociale democratico, simile a quello degli Americani, poteva agevolare particolarmente lo stabilirsi del dispotismo” e le monarchie europee avevano già cominciato a servirsene “per allargare la cerchia del loro potere”: “Ciò mi portò a pensare che le nazioni cristiane avrebbero forse finito col subire un’oppressione simile a quella che un tempo pesò su molti popoli dell’antichità”. Ma, meglio riflettendo sul tema, ne mutava l’oggetto. Perché il dispotismo “antico” aveva il limite di non poter controllare capillarmente tutte le articolazioni di un vasto impero “l’insufficienza delle conoscenze, l’imperfezione delle procedure amministrative, e soprattutto gli ostacoli naturali suscitati dalla disuguaglianza delle condizioni, l’avrebbero ben presto fermato nella esecuzione di un programma così vasto”.

Così che il potere degli imperatori romani “non si estendeva mai su un gran numero di persone; si attaccava a qualche grande oggetto e trascurava il resto; era violento e limitato”.

Invece il dispotismo moderno “avrebbe altre caratteristiche: sarebbe più esteso e più mite e avvilirebbe gli uomini senza tormentarli”, e ciò per due ragioni. In primo luogo perché “in secoli di lumi e d’uguaglianza quali sono i nostri, i sovrani potrebbero giungere più facilmente a riunire tutti i poteri pubblici nelle loro sole mani e a penetrare più abitualmente e più profondamente nella cerchia degli interessi privati di quanto non abbia potuto mai fare nessun sovrano dell’antichità. Ma questa stessa uguaglianza che facilita il dispotismo, lo mitiga”.

Secondariamente perché data la modestia delle passioni, la mitezza dei costumi, la purezza della religione, l’umanità della morale, il rischio non è incontrare dei tiranni al governo, ma dei tutori. L’oppressione che minaccia i popoli democratici è del tutto nuova. Dalla parte dei governati Tocqueville vede “una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che non fanno che ruotare su sé stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo” quanto “al resto dei concittadini, (il cittadino) vive al loro fianco ma non li vede; li tocca ma non li sente; non esiste che in sé stesso e per sé stesso, e se ancora possiede una famiglia, si può dire per lo meno che non ha più patria”.

Da quella dei governanti invece “Al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che si incarica da solo di assicurare loro il godimento dei beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite”. Questo governo “lavora volentieri alla loro felicità, ma vuole esserne l’unico agente ed il solo arbitro; provvede alla loro sicurezza, prevede e garantisce i loro bisogni, facilita i loro piaceri… perché non dovrebbe levare loro totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere? È così che giorno per giorno esso rende sempre meno utile e sempre più raro l’impiego del libero arbitrio, restringe in uno spazio sempre più angusto l’azione della volontà e toglie poco alla volta a ogni cittadino addirittura la disponibilità di se stesso. L’uguaglianza ha preparato gli uomini a tutto questo: li ha disposti a sopportarlo e spesso anche a considerarlo come un vantaggio”. Dopo che il sovrano stende le sue braccia sulla società “Ne ricopre la superficie di una rete di piccole regole complicate, minuziose e uniformi… non spezza la volontà, la fiacca, la piega e la domina; raramente obbliga all’azione ma si oppone continuamente al fatto che si agisca; non distrugge, impedisce di nascere; non tiranneggia, ostacola, comprime, spegne, inebetisce e riduce infine ogni nazione a non essere più che un gregge timido e industrioso, di cui il governo è il pastore”.

E l’aspetto peggiore è che questa specie di servitù “Potrebbe combinarsi più di quanto non si immagini con qualche forma esteriore di libertà e che non le sarebbe impossibile stabilirsi all’ombra stessa della sovranità popolare”. Alla fine i governati “immaginano un potere unico, tutelare, onnipotente, ma eletto dai cittadini; combinano centralizzazione e sovranità popolare… si consolano del fatto di essere sotto tutela, pensando che essi stessi hanno scelto i loro tutori”; e prosegue “Esiste ai nostri giorni molta gente che si adatta facilmente a questa specie di compromesso tra il dispotismo amministrativo e la sovranità popolare, e che pensa di avere sufficientemente garantita la libertà individuale quando l’affida al potere nazionale. Questo non mi basta. La natura del padrone mi importa molto meno del fatto di obbedire”. Scegliere i propri governanti è un rimedio, ma non decisivo: significa diminuire il male, che la centralizzazione può produrre ma non eliminarlo “Capisco bene che in questo modo si conserva l’intervento individuale negli affari più importanti, ma non per questo lo si sopprime meno nei piccoli e in quelli privati. Ci si dimentica che l’asservimento degli uomini è pericoloso soprattutto nelle minuzie. Dal mio canto sarei quasi incline a credere la libertà meno necessaria nelle grandi cose che nelle piccole, se pensassi che non si potesse mai essere sicuri dell’una senza possedere l’altra. La soggezione nei piccoli affari si manifesta ad ogni momento, ed è sentita indistintamente da tutti i cittadini. Non li porta alla disperazione, ma, contrariandoli continuamente, li induce a rinunciare a far uso della loro volontà. Spegne, poco alla volta, il loro spirito e fiacca il loro animo”, di guisa da sembrargli incapaci di esercitare anche quello che residua loro “Diventeranno comunque ben presto incapaci di esercitare questo grande ed unico privilegio che rimane loro. I popoli democratici, che hanno introdotto la libertà nella sfera politica mentre accrescevano il dispotismo nella sfera amministrativa, si sono trovati in una situazione molto strana. Allorché si tratta della gestione di piccoli affari in cui il semplice buon senso potrebbe bastare, ritengono che i cittadini ne siano incapaci; allorché invece si tratta del governo di tutto lo stato, attribuiscono a questi cittadini immense facoltà; ne fanno alternativamente lo zimbello del sovrano e i suoi padroni, più che dei Re e meno che degli uomini”. Perché “È, in effetti, difficile capire come uomini, che hanno interamente rinunciato all’abitudine di dirigersi da soli, potrebbero riuscire a scegliere bene quelli che debbono guidarli; e nessuno riuscirà mai a far credere che un governo liberale, energico e saggio, possa mai uscire dai suffragi di un popolo di servi”.

Ho citato a lungo il pensatore francese perché penso che abbia descritto e compreso il nostro presente assai meglio di tanti contemporanei. Il dispotismo moderno (e post-moderno) non è basato sulla forza e (poco) sull’arbitrio, ma sulla frode e la manipolazione. Invece che un “tintinnar di sciabole” c’è un overdose di messaggi manifesti o subliminali, volti a creare obbedienza servendosi poco di frusta e catene. Al posto dei berretti dei generali, impongono le fake-news più improbabili. Tutte volte a magnificare un potere che si presenta come superiore, depositario della verità – oggi scientifica soprattutto – sollecito e provvido alla vita pubblica ma soprattutto privata.

La si vedeva da tempo, in particolare dalla prima crisi economica di questo secolo (quella del 2008), propalata con argomenti peraltro di una evidente improbabilità.

Ancor più ciò spicca nella crisi pandemica: non si erano mai visti condizionamenti così pervasivi della sfera del “privato”. Si replicherà – e con qualche ragione – che la causa della crisi – una malattia sconosciuta – comporta necessariamente dei limiti a diritti più “privati” che “pubblici”. Così il diritto di locomozione, di manifestazione, al lavoro; tutti comportanti correlativi divieti alla socializzazione, alle relazioni con gli altri.

Per cercare di ridurre danni ed effetti perversi occorre ricordare che l’eccezione (l’emergenza) ha un primo limite fondamentale, desumibile dal concetto, dalla ragione e dalla normativa dello Stato borghese: ossia di essere una situazione di fatto e che le limitazioni ai diritti per combatterlo durano finché dura la situazione eccezionale e non un giorno di più. Se non lo si rispetta allora significa che da una situazione (e una normativa) d’emergenza si è passati ad una situazione normale, ma con i vincoli dell’emergenza. Cioè al dispotismo, magari mite, ma pur sempre generatore di servitù.

D’altronde l’altro limite della normativa di emergenza nello Stato borghese è di non conculcare diritti che non hanno a che fare con l’efficacia delle misure di difesa. E qua il sospetto che, invece lo si voglia fare, è più che lecito. Non solo per (molte) prese di posizione – sopra le righe – contro il dissenso dalle misure governative (v. no-vax, green-pass), ma anche per un possibile sfruttamento della crisi pandemica al fine di rinviare o condizionare scelte costituzionali. Come l’elezione del Presidente della Repubblica. Nel qual caso, come ancor più nelle ripetizioni (ormai decennali) di Premier che non hanno ricevuto maggioranza elettorale (da Monti in poi), avremmo non lo scambio ineguale stigmatizzato da Tocqueville (meno libertà più democrazia) ma una sinergia, un crescere di pari passo: ossia meno libertà e meno democrazia.

Anche questo paventato dal pensatore francese come conseguenza del primo.

Teodoro Klitsche de la Grange

Buon Anno a modo nostro dalla redazione e da TKG

Anche il 2021 è andato. Auguriamo un 2022 migliore del precedente. Sarà un anno intrigante e inquietante nel mondo; dal destino segnato, ahimé, per il nostro paese. Sappiamo però che i destini privati non coincidono necessariamente con quelli di una comunità. E’, comunque, nostro dovere e nel nostro piccolo far emergere le risorse vitali che pur esistono nel nostro paese. Come con gli auguri natalizi intendiamo affermare lo spirito che alimenta l’impegno nel nostro sito con la pubblicazione di un contributo di una figura esterna, ma ormai affezionatissima_Giuseppe Germinario

PANDEMIA DOCET, di Teodoro Klitsche de la Grange

A detta di tanti, la pandemia – ormai biennale – ha insegnato molte cose, e altrettante ne cambierà. Perciò m’intruppo anch’io in questa (folta) compagnia, onde esporre quale ammaestramento – a mio avviso – se ne può trovare.

Il pensiero prevalente a livello di comunicazione mainstream prima della pandemia trovava il proprio nocciolo duro nelle credenze che: a) il mondo viaggiasse sul binario di un progresso lineare ed irreversibile dal più povero al più ricco, dal più violento al meno violento, dal più malato al più sano (e così via) b) all’orizzonte, ma già in larga misura in atto, c’era un ordinamento sociale privo d’eccezioni e quindi puramente normativo ed essenzialmente statico.

Nell’utopismo marxista (finito) era la società senza classi; nel successivo pensiero unico (e anche debole) ha assunto forme e nomi (parzialmente) diversi, dalla “fine della storia” alla “governance globale”. Tutte accumunate dal fatto che le emergenze, in tutte le loro manifestazioni, erano sostanzialmente finite, quali stroncate (il più delle volte) dal progresso, e ridotte in altre – più limitate (dal terremoto all’incidente aereo)- dalla capacità di contenerne e ridimensionarne gli effetti negativi.

La pandemia ha mostrato il carattere illusorio, anzi affabulatorio di certe credenze: è stata l’irruzione della realtà in un mondo di favole.

Il fatto che ci sia già costata oltre cinque milioni di morti e danni enormi (economici e sociali); e perfino che abbia limitato al minimo i consumi voluttuari (con scorno delle élite), rende impossibile ricondurla alla prima o alla seconda categoria: quanto alla seconda, per le dimensioni (non è un terremoto appenninico); quanto alla prima perché è evidente che il progresso non ci protegge da certi eventi. Anzi, una verosimile spiegazione della nascita e diffusione del Covid lo ascrive ad un errore nel laboratorio di Wu-Han, costruito – si dice – per lo studio delle malattie virali. Un classico caso di eterogenesi dei fini, scriverebbe Max Weber (a non fare ipotesi più maligne).

Resta il fatto che il progresso non produce solo il bene, ma anche il male: e in ogni caso, ci aiuta, ma non elimina i rovesci della fortuna.

Uso il termine impiegato da Machiavelli nel XXV capitolo del Principe, perché il genio fiorentino contrappone alla fortuna la virtù (dei governanti). La fortuna assomiglia a un fiume che allaga e distrugge edifici e colture; ciononostante gli uomini possono limitarlo con argini e ripari “Similmente interviene della fortuna, la quale dimostra la sua potenza, dove non è ordinata virtù a resisterle: e quivi volta a sua impeti, dove ella sa che non sono fatti gli argini né ripari a tenerla”. In Italia trova una campagna senza argini, ossia manca virtù nei governanti. Cosa che non succede nella “Magna, la Spagna e la Francia”.

Ad applicarla alla situazione italiana nelle crisi di questo secolo (quella finanziaria del 2008 e la pandemica), abbiamo la conferma di quanto sosteneva il segretario fiorentino: le due crisi sono state affrontate da governanti carenti di virtù. Tant’è che la prima si è trascinata in Italia per oltre un decennio, e in Europa (in Magna….) è durata assai di meno e provocato danni inferiori.

Quanto alla seconda, per trovare una risposta organizzativa non scadente in misure da “parata” (primule, banchi a rotelle, ecc. ecc.) abbiamo dovuto cambiare governo. Non so se questo basterà. Ma qualche miglioramento sicuramente l’abbiamo visto. Resta il fatto che la pandemia ci ha insegnato che i paternostri dispensati a piene mani dalla classe dirigente erano inutili; che tale inutilità era data essenzialmente dal non comprendere che la virtù consiste nella capacità di dare una risposta efficace a situazioni improvvise; che norme e progresso servono a poco se non adatte ad affrontare l’emergenza. E che la vita non è un viaggio in treno dove comunque, senza fatica, si arriva a destinazione. Ma soprattutto che per affrontare le crisi occorre la virtù, ossia la capacità prima di prevederle e prepararsi, poi di gestirle. Cioè tutto il contrario di quanto ci hanno propinato da decenni. Non so se l’anno prossimo vedremo il capitolo XXVI del Principe, ossia il riscatto generato proprio dall’aggravarsi della crisi. Non si vede il Principe adatto, né moderno né antico; d’altra parte la stessa sorte toccò a Machiavelli e all’Italia del XVI secolo, che trovò il proprio Principe solo nel XIX.

Teodoro Klitsche de la Grange

COSTITUZIONE MATERIALE E ANTIFASCISMO LEGALE, di Teodoro Klitsche de la Grange

COSTITUZIONE MATERIALE E ANTIFASCISMO LEGALE

Una dozzina d’anni fa Berlusconi – o meglio i suoi seguaci – contrapposero alla Costituzione formale la Costituzione materiale, suscitando la consueta raffica di anatemi ed esorcismi degli intellos di sinistra, che della costituzionale formale, o meglio della loro interpretazione del testo normativo, avevano fatto il proprio shibboleth. E avvertivano che il richiamo a quella materiale rischiava di rovinargli il giocattolo.

È appena il caso di ricordare che il termine (non il concetto) di costituzione materiale era opera di un acuto giurista come Costantino Mortati, membro dell’assemblea costituente della Repubblica, in buona parte sviluppando quanto espresso quasi un secolo prima da Ferdinand Lasalle nella nota conferenza “Über Verfassungswesen”, ove il rivoluzionario riconduceva la costituzione agli “effettivi rapporti di potere che sussistono in una data società”, alla forza attiva “che determina le leggi e le istituzioni giuridiche”. Scriveva Lassalle che “Gli effettivi rapporti di potere che sussistono in ogni società sono quella forza effettivamente in vigore che determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società, cosicché queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come sono” (il corsivo è mio); ed elencava i relativi “pezzi di costituzione”: il potere del re, quello dell’aristocrazia, della borghesia che comunque assicuravano un ordine, effettivo e concreto, e con ciò la coesione sociale. Così la costituzione è l’insieme – dei rapporti di forza reali – ed organizzati – di una comunità politica. E cos’è la Costituzione formale? Rispondeva Lassalle “Questi effettivi rapporti di forza li si butta su un foglio di carta, si dà loro un’espressione scritta, e, se ora sono stati buttati giù, essi non solo sono rapporti di forza effettivi, ma sono anche diventati, ora, diritto, istituzioni giuridiche, e chi vi oppone resistenza viene punito”.

Riprendendo e sviluppando la concezione di Lassalle, Mortati scriveva “Rimanendo nell’ordine di idee per ultimo esposte di una raffigurazione della costituzione che colleghi strettamente in sé la società e lo stato, è da ribadire quanto si è detto sull’esigenza che la prima sia intesa come entità già in sé dotata di una propria struttura, in quanto ordinata secondo un particolare assetto in cui confluiscano, accanto ad un sistema di rapporti economici, fattori vari di rafforzamento, di indole culturale, religioso ecc., che trova espressione in una particolare visione politica, cioè in un certo modo d’intendere e di avvertire il bene comune e risulti sostenuta da un insieme di forze collettive che siano portatrici della visione stessa e riescano a farla prevalere dando vita a rapporti di sopra e sotto-ordinazione, cioè ad un vero assetto fondamentale che si può chiamare «costituzione materiale» per distinguerla da quella cui si dà nome di «formale»”. A questo è affidata una “funzione di rafforzamento delle garanzie di conservazione della sottostante compagine sociale, non è tuttavia da dimenticare che è in quest’ultima, nell’effettivo rapporto delle forze da cui è sostenuta che deve trovarsi il vero supporto dell’ordine legale”1 (il corsivo è mio).

La Costituzione materiale consiste essenzialmente nelle forze politiche e sociali che hanno voluto e sostengono l’assetto fondamentale di poteri delineato da quella formale in norme collocate “al sommo della gerarchia delle fonti”.

Ma cosa succede se l’assetto delle forze politiche e sociali (cioè la costituzione materiale) cambia (com’è naturale) e quella formale (cioè la regolamentazione normativa) rimane la stessa? Il problema è ricorrente, dato che, come scriveva Hauriou, un ordinamento giuridico è un agmen, un esercito in marcia che adatta sempre la propria formazione alla situazione storica, pur conservando un assetto ordinato. Se però il divario tra regole e assetto delle forze diverge, si apre un dualismo che, nei casi estremi, conduce alla guerra civile, cioè all’“appello a Dio” di Locke. Il quale così significava che non c’è potere (superiore) sulla terra in grado di decidere un tale conflitto. Nella tarda modernità, nostra contemporanea, è stato notato più volte – in tutt’altro contesto da quello giuridico – che il divario tra élite e popolo si è allargato (da Lasch a Laclau, a tanti altri). Così si costituisce una situazione che prelude ad un nuovo insieme di rapporti di potere, che riarmonizzi le due costituzioni: sostanziale e formale.

Qualcuno dirà che non è vero che lo iato si sta allargando, che tutti vogliono la costituzione più bella del mondo, e via salmodiando. Ma ad un pensiero realista occorre riscontrare non tanto se quello iato è frutto di manipolazione (potrebbe esserlo, almeno in parte) ma se esiste realmente un modo più sicuro o se preferite, meno insicuro per accertare se esiste in una democrazia il consenso soprattutto elettorale che aveva il sistema nel complesso e ancor più le “forze politiche e sociali” che sostenevano il vecchio ordine e quello che hanno coloro che sostengono il nuovo.

Applicando questo criterio occorre ricordare che la Costituzione formale fu approvata dei partiti del CLN, che avevano circa il 90% dei seggi alla costituente. Le successive elezioni politiche del 18/04/1948 diedero al complesso dei partiti ciellenisti oltre il 90% dei suffragi popolari. Con ciò la costituzione – e quello che sarebbe stato poi l’arco costituzionale – otteneva un consenso “bulgaro”. Bella o brutta che fosse il consenso c’era e non lo si può negare.

Fino agli anni 80 la situazione, pur nella divaricazione tra comunisti e non comunisti, confermava un consenso ampio ai partiti dell’“arco costituzionale”. Ma il crollo del comunismo incrinava prima e dissolveva poi il sistema dei partiti della “prima Repubblica” e con esso il maggior sostegno della costituzione formale. Uscivano dal Parlamento tutti i partiti laici, la DC si riduceva ad un quarto di quel che era e si spezzava in (almeno) due tronconi, i comunisti perdevano buona parte del loro elettorato ed erano costretti a cambiare nome. Diventavano forze maggioritarie partiti che non facevano parte del CLN o ne erano stati esclusi. Dal 1994 in poi quelli eredi dell’arco costituzionale ottengono suffragi di una minoranza, ma la Costituzione formale è rimasta sostanzialmente la stessa (tranne per le modifiche al titolo V e qualche altro ritocco, apparente).

Negli ultimi dieci anni poi, il divario si è allargato: crescita dei partiti anti-establishment ma che ha prima raggiunto e poi passato regolarmente la maggioranza dei suffragi (v. elezioni dal 2018 in poi).

La novità degli ultimi mesi è che i tre maggiori partiti italiani (Lega, FdI e PD, a leggere i sondaggi) sono in un testa a testa intorno al 20%, e pochi decimi di percentuale (al massimo un punto pieno), indicano quale primo partito FdI, ossia il partito erede degli esclusi dall’arco costituzionale, mentre il PD, il partito (residuo) dell’arco, è più o meno sullo stesso livello di consensi.

Quasi tutti i suffragi non attribuiti ai due partiti epigoni (dell’arco e non dell’arco) sono espressi a partiti che ne stavano fuori per l’ovvia ragione che non esistevano (Lega, 5Stelle, FI e vari minori); né sono credibili le dichiarazioni ad usum delphini di lealismo alla costituzione formale di qualche dirigente, e dall’altro perché spesso i partiti suddetti caldeggiano riforme costituzionali incisive, un po’ perché quelle professioni d’intenti sono strumentali ad obiettivi tattici (di lotta tra, ma ancor più, nei partiti).

Resta il fatto che da un consenso al 90%, l’ “arco costituzionale” è attualmente tra il 20 e, tutt’al più (con minori vari) il 30% dell’elettorato.

Oltretutto tra le forze non riconducibili all’arco/non arco, sono prevalenti quelle che includono nella futura maggioranza (a quanto risulta dai sondaggi) proprio gli eredi del ventennio; altri sono critici verso la Costituzione formale, al punto di aver proposto vasti rimaneggiamenti della medesima.

Da questo deriva che l’ “antifascismo” in particolare inteso come conventio ad excludendum dalla maggioranza elettorale ha un consenso di una minoranza, ragguardevole ma pur sempre minoranza. In conclusione abbiamo un dato reale (la Costituzione materiale) che non corrisponde da tempo a quella formale. Resta da capire quanto possa durare una Costituzione formale non sostenuta da “forze politiche e sociali” coerenti alla stessa.

Emerge così un conflitto tra legittimità e legalità che è la principale causa della debolezza, interna e ancor più internazionale, della Repubblica.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 E proseguiva sottolineando l’intrinseca giuridicità, onde realizzare “un sistema di rapporti gerarchizzati secondo criteri di dominio e di soggezione”, v. Istituzioni di diritto pubblico, Tomo I, Milano 1976, pp. 30-31

FEDERALISMO E UNITÁ POLITICA, di Teodoro Klitsche de la Grange

FEDERALISMO E UNITÁ POLITICA (pubblicato nel 2008)

1. Nella prima metà del XIX secolo due grandi pensatori europei, Hegel e Tocqueville si posero il problema di come potesse conservarsi uno Stato federale, come gli Stati Uniti d’America, senza che l’Unione godesse di tutti quei poteri che il “centro” delle monarchie europee – cioè il governo monarchico – aveva nel proprio territorio,

Scriveva Hegel:

“Se paragoniamo poi l’America del nord con l’Europa, troviamo laggiù l’esempio costante di una costituzione repubblicana. Cioè l’unità soggettiva, perché vi è un presidente a capo dello Stato, eletto, per prevenire ogni possibile ambizione monarchica, solo per quattro anni. La protezione universale della proprietà e la quasi totale assenza d’imposte sono fatti che vengono continuamente elogiati. Ma con questo è già determinata anche la caratteristica fondamentale di questi Stati. Essa consiste nella tendenza del privato all’acquisto e al guadagno, nella prevalenza dell’interesse particolare, che si volge all’universale solo in servigio del proprio godimento. Vi sono, naturalmente, rapporti di diritto, ed una formale organizzazione giuridica: ma questa conformità al diritto è senza dirittura, e così i commercianti americani hanno la cattiva riputazione di ingannare sotto la protezone del diritto”, e prosegue “l’America del nord non va considerata come uno Stato già formato e maturo ma come uno Stato tuttora in divenire: esso non è ancora tanto progredito, da aver bisogno della monarchia. E’ uno Stato federativo: ma questi, per quel che concerne i loro rapporti con l’estero, sono gli stati peggiori. Solo la sua particolare posizione ha impedito che questa circostanza non causasse la sua totale rovina. Ciò si è visto nell’ultima guerra con l’Inghilterra. I Nord-americani non poterono conquistare il Canadà, e gli Inglesi poterono bombardare Washington, perché la tensione fra le provincie impedì ogni vigorosa azione. Inoltre, gli stati liberi nordamericani non hanno nessuno stato confinante, rispetto a cui siano nella situazione in cui gli stati europei sono reciprocamente, uno stato cioè che debbano considerare con sospetto e contro cui debbano mantenere un esercito stanziale. Il Canadà e il Messico non incutono loro timore, e l’Inghilterra ha fatto ormai esperienza da cinquant’anni che l’America le è più utile libera che dipendente”i.

Quindi da un lato Hegel connetteva la forma istituzionale dello Stato federale alla prevalenza, negli USA, del “privato” sul “pubblico” dall’altro, e più ancora, all’assenza di nemici “credibili” ai confini che consentiva di mantenere un governo debole. Considerazioni simili, e nello stesso periodo di tempo, faceva Tocqueville nella “Démocratie en Amérique”.

Sosteneva Tocqueville: “La più importante di tutte le azioni che possono far riconoscere la vita di un popolo è la guerra. Nella guerra un popolo agisce come un solo individuo di fronte a popoli stranieri: esso lotta per la sua stessa esistenza… Di qui deriva che tutti i popoli, che hanno dovuto sostenere grandi guerre, sono stati condotti, quasi loro malgrado, ad accrescere le forze del governo. Quelli che non sono riusciti a farlo, sono stati conquistati. Una lunga guerra pone quasi sempre le nazioni in questa triste alternativa, che la loro disfatta li consegna alla distruzione, e la loro vittoria al dispotismo.

Perciò, in genere, è in guerra che si rivela, nel modo più visibile e pericoloso, la debolezza di un governo; e ho mostrato come il difetto inerente ai governi federali sia appunto quello di essere molto deboli.

Nel sistema federale, non solo non c’è affatto accentramento amministrativo o qualcosa di simile, ma lo stesso accentramento politico esiste solo in modo incompleto; e questo è sempre una grave causa di debolezza, quando ci si deve difendere contro popoli nei quali è completo”. E ad esempio ricorda lo stesso episodio storico: la guerra con l’Inghilterra bel 1812ii.

Ambedue i pensatori si sono (forse) ispirati a quanto pochi anni prima, aveva cennato De Maistre sulle istituzioni europee ed inglesi in particolareiii.

Per cui la particolare conformazione della Costituzione e del diritto pubblico inglese era ricondotto, in gran parte, alla situazione geo-politica dell’Inghilterra: in analogia con Hegel e Tocqueville per l’America.

D’altro canto il rapporto tra sovranità all’esterno ed all’interno era considerato da Hegel anche nei Grundilinieniv.

2. Peraltro Hegel sottolineava il carattere politico – in quel senso . – del rapporto tra assetto interno e esterno (nemico e guerra), e lo distingueva da un mero decentramento amministrativo. Nell’opera giovanile Verfassung Deutschlands già lo scriveva, in relazione alla “costituzione” dell’Impero tedesco. Sosteneva a dimostrazione della tesi iniziale “La Germania non è più uno Stato” che “Il potere legislativo, quello giudiziario, quello spirituale, quello militare, mescolati nella maniera più disordinata e in parti le più disuguali, sono separati e congiunti, proprio variamente come la proprietà dei privati.

Attraverso dimissioni della Dieta, trattati di pace, capitolazioni elettorali, contratti domestici, deliberazioni della Corte suprema, ecc. la proprietà politica di ciascun membro del corpo statale tedesco è determinata nel modo più accurato”v, per questo ha il diritto di andare in rovinavi. Sosteneva peraltro che l’unità dello Stato non è data dall’uniformità del dirittovii né della religioneviii; ma l’essenziale per aversi uno Stato è che “una moltitudine di uomini si può chiamare uno Stato soltanto se è unita per la comune difesa della sua proprietà in generale” e “L’allestimento di questa effettiva difesa è la potenza dello Stato; esso deve da un lato essere sufficiente a difendere lo Stato contro i nemici interni ed esterni, dall’altro a mantenere se stesso contro l’impeto universale dei singoliix.

Le argomentazioni di Hegel e Tocqueville, comuni ad altri pensatori, si possono riassumere nei seguenti punti:

Che l’assetto dei rapporti o poteri pubblici – cioè la forma politica – è condizionata dalla situazione geo-politica, e, in particolare, dai nemici e dalle guerre possibili.

Che a costituire l’unità politica non è la comune religione, la lingua, e neanche le leggi ed i costumi o i commerci (cioè fattori in se non riconducibili al politico, anche se rilevanti, e spesso assai rilevanti, sul politico), ma è l’unità del popolo sotto un governo.

Che, quindi, ciò che rende debole il governo non è tanto la diversità di legge o di religione, costumi – spesso, si può aggiungere, “superata” grazie al federalismo o al decentramento – ma la divisione del potere politico. Per definire il quale occorre distinguerlo da quello non politico, ancorché pubblico: e in entrambi il criterio di distinzione è, per l’appunto, la guerra, cioè il rapporto estremo con l’hostis. È questo che può porre in gioco l’esistenza della comunità organizzata in Stato, così costituire l’extremus necessitatis casus ed essere la cartina di tornasole della vitalità di uno Stato.

Che, potenzialmente – le diversità ed i gruppi di interesse che sussistono in ogni comunità umana possono, nelle situazioni di crisi, se prevalenti, mettere in forse l’unità politica (e la capacità di difendersi). Se queste così diventano decisive, passano dal privato al pubblico – o meglio al politico (come gli interessi dei mercanti del Massachussets e del Connecticut nella guerra con l’Inghilterra).

3. La progressiva “tecnicizzazione” del diritto pubblico, cui probabilmente ha contribuito non solo il clima generale – di “onnipotenza normativa” – ma anche la specializzazione accademica, ha fatto si che quei rapporti, sopra elencati, tra situazione concreta e forma politica, fossero smarriti e, quel che più conta espunti dalle concezioni (e trattazioni) del diritto pubblico.

Ciò è stato l’effetto di due idola theatri diffusisi negli ultimi secoli.

In primo luogo l’onnipotenza del legislatore o (meglio ancora), del potere costituente. La frase di Sieyès, ricalcata da Rousseau, che la Nazione è “tutto ciò che può essere per il solo fatto di esistere” è stata, a dir poco, mal interpretata. Un sottile politico come Sieyès, oltretutto largamente tributario nelle sue concezioni della teologia cristianax non avrebbe mai pensato di poter prescindere nella fase “costituente” da ogni riferimento concreto e reale, a partire dalla situazione geopolitica, passando per i condizionamenti (e le determinanti) storici e naturali, per finire, in certi casi, alle leggi di “natura”, intendendole se non nel senso dell’ironia di Spinozaxi, come quelle della storia.

Ancora nell’insegnamento di Montesquieu lo “spirito” delle leggi (e a maggior ragione delle costituzioni) erano quei “rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose”xii, e capire le leggi, penetrarne lo “spirito”, era capire quei rapporti concreti e reali; onde, tra l’altro, scriveva che le leggi sono adatte al popolo che le ha “sviluppate” e non ad un altro.xiii Tutto il contrario quello che avvenne dopo, a partire dal tardo illuminismo fino all’età post-rivoluzionaria.

Ironizzava de Maistre che nel secolo XVIII ogni giovane acculturato, appena diplomato, aveva scritto almeno un trattato sull’educazione, una costituzione e un mondo. Incominciò a diffondersi non solo l’immagine del legislateur provvido e onnipotente, ma pure che all’onnipotenza (in diritto) del sovrano corrispondesse, in qualche misura, quella di fatto: la comunità politica era così considerata la materia da plasmare a piacimento dal legislateur. Tradizioni, costumi, condizionamenti politici, culturali e sociali erano conformabili a discrezione: la retta ragione e la bontà dei fini avrebbero creato istituzioni razionali, condivise e legittimate dal consenso generale di esseri razionali (nel senso dell’illuminismo). Gli sviluppi successivi, dalla Vandea agli insorgenti italiani ai guerrilleros spagnoli dimostrarono che la questione non era così semplice, ma il sogno utopico di costruire una società senza rispondenza alle situazioni (e ai problemi) concreti continuò; in particolare inverandosi nell’utopia radicale del marxismo collassato in pochi decennixiv.

Pertanto l’idea di poter elaborare costituzioni a tavolino (diversamente da quanto pensava Cicerone che fondava la superiorità politica di Roma sulla sua costituzione perché frutto delle esperienze e del lavoro di tante generazioni) sopravviveva e si sviluppava, anche per ragioni scientifiche, anche in un ambiente diverso: quello dei giuristi. Levatrice di ciò è stato, in gran parte, l’ideale “avalutativo” della scienza e, del pari, l’idea che, per il giurista interpretare tenendosi distante da tutto ciò che è politico (anche quando, come nel caso, l’oggetto – da studiare – è politico) è la via migliore per essere scientificamente “oggettivi”.

A leggere un manuale di diritto costituzionale o internazionale del periodo del positivismo affermato (cioè da metà del XIX secolo) i presupposti e i condizionamenti politici dell’assetto costituzionale sono di solito appena cennati; ciò che assume rilievo, pressoché esclusivo, è il dato positivo dell’elaborazione della costituzione in (un) atto organico, che il giurista può interpretare a guisa di un super codice. Come se le costituzioni fossero parti dei giuristi che contribuivano a stenderle (su carta). In questo orizzonte, largamente se non totalmente prevalente, la nota forse più stonata fu quella di Lassalle – non a caso un politico e non un giurista – che in una celebre conferenza formulava il concetto (moderno) di costituzione materiale, contrapponendolo a quel “pezzo di carta” (cioè i testi considerati dai giuristi) la cui funzione principale è, secondo Lassalle, di formulare e confermare i rapporti di forze realixv.

L’altro fatto rivelatore del mutato spirito è che se, ancora nel ‘700, si cercava lo “spirito” delle leggi, e la “forma” (in senso aristotelico-tomista, e non procedurale) dello Stato, col positivismo dalla forma – come oggetto d’interesse prevalente – si passa alle norme. Funzione del giurista è d’indagare sulle norme e su come si possa ricostruire l’unità di un sistema partendo dalle norme. Invece nel ‘700 un giurista come Vattel costruiva un sistema di diritto (interno ed internazionale) basandosi sulla forma: guerre in forma, soggetti (del diritto internazionale) in forma, rapporti formali.

Nel rapporto tra diritto interno ed internazionale il raccordo tra le due sfere (interna ed esterna) non si regge più sulla forma della struttura statale pubblica, ma si ricorre ad armamentario ed a principi e concetti propriamente giuridici. Scrive Triepel in un’opera “classica” sulle relazioni tra diritto interno e diritto internazionale: “La natura delle relazioni intercedenti fra questo diritto ed il diritto internazionale può essere molto varia. Vi possono essere norme di diritto interno la cui esistenza ovvero il cui contenuto dipende da norme di diritto internazionale; può darsi che le prime tutelino anche dalle seconde; le dette norme talora operano con concetti che si possono chiamare “di diritto internazionale”; di tutto ciò non mi è dato far qui che un semplice cenno, poiché sono appunto queste relazioni che dovremo esaminare minutamente nelle pagine che seguono”xvi. Per ricostruire queste relazioni tra norme è centrale il concetto d’ “impenetrabilità” dello Stato ( e cioè il monopolio territoriale della decisione su ciò che debba essere diritto – un elemento della forma-Stato) come di “recezione” o di “rinvio”. E’ chiaro tuttavia che impenetrabilità, rinvio, recezione presuppongono una struttura – una forma – dello Stato in grado in fatto prima che in diritto di “chiudere” il proprio territorio ad ogni potere esterno. Cioè (in primo luogo) eserciti stanziali e permanenti, flotte, efficienti difese delle frontiere e delle coste: strumenti per assicurare il monopolio della decisione politica e della forza legittima (e di conseguenza, anche se meno rilevante, del diritto applicato).

Ed è tale forma che garantisce non solo l’impenetrabilità, ma anche l’osservanza, ad esempio del diritto internazionale (cioè del diritto esterno): una tribù o anche uno Stato feudale ha probabilità assai minore di assicurare l’applicazione delle norme di un trattato internazionale di quanto ne abbia uno Stato moderno, anche un po’ malmesso come la Repubblica italiana. In uno Stato “fallito” (come ad es. la Somalia) la possibilità di far osservare il diritto internazionale (ed anche quello “interno”) è minima. Il tutto conferma l’immagine con cui Santi Romano sintetizzava il rapporto tra ordinamento e norme paragonando il primo al giocatore di scacchi, le seconde alle pedine mosse dallo stesso.

Ciò che è evidente è che quel rapporto tra norme è possibile solo se i soggetti tenuti ad applicarle hanno una forma ed esercitano un potere effettivo senza i quali il rapporto tra interno ed esterno può anche essere giuridicamente regolato e valido, ma è del tutto inutile. All’inizio del secolo scorso Schmitt, Hauriou e Santi Romano invertirono i termini del problema: è l’unità dell’ordinamento (l’istituzione) a dare unità al sistema normativo e non l’inverso.

4. Ad applicare alla situazione del mondo (contemporanea) le tesi desunte da Hegel e Tocqueville ne derivano conseguenze interessanti.

In primo luogo che a costituire una federazione, non è tanto necessaria l’omogeneità culturale delle comunità federate, ma l’unità politica. Ne deriva che la costituzione di super-Stati (differenti su tutto) sarebbe possibile ove vi fosse una effettiva unità politica. Dato che il criterio di quell’unità sono per l’appunto il monopolio della decisione sul nemico e la guerra (e la competenza a identificare il primo e dichiarare la seconda), ne consegue che occorre che la federazione per essere tale e non una mera unione di Stati anche se molto vicini culturalmente (come l’Unione europea), deve avere il monopolio dell’una e dell’altraxvii.

Pensare di realizzare un’unità di Stati, senza politico, è fermarsi all’anticamera dell’unità, senza raggiungerla mai.

Del pari l’entusiasmo politicamente corretto che accompagna ogni nuova istituzione, Ente, Tribunale purchè internazionale (Sabino Cassese ne ha contati oltre duemila) è mal speso e non vale a promuovere l’unità politica. Fin quando lo jus belli e le forze armate apparterranno agli Stati (e, in certi casi, ai movimenti di guerriglia) che vi siano Tribunali, agenzie (e monete) internazionali potrà essere edificante e spesso anche utile, ma non costituisce un fatto politico decisivo e tantomeno impedirà la guerra.

Neppure l’unità del diritto serve a produrre l’unità politica. A parte che per unificazione del diritto per lo più s’intende quello privato (o comunque non politico), è indubbio che una omogeneizzazione della normativa applicabile può essere d’aiuto agli scambi internazionali. Ciò che viene meno notato è come il diritto pubblico, e in particolare quello per essenza politico, non è oggetto di quasi nessun intervento. Si emanano norme e sottoscrivono trattati per i titoli di credito, società, strumenti finanziari e così via, ma non ci risulta che l’U.E. (ad esempio) abbia mai dato direttive sui poteri dei parlamenti, sulle competenze delle regioni degli Stati membri, sulle leggi elettorali, tanto meno sulla competenza a dichiarare la guerra. L’unico ambito del diritto pubblico su cui vi sia qualche normazione “internazionale” (oltre a quello amministrativo) è quello penale. Ma è troppo poco – e troppo evanescente – perché possa inficiare la regola che si omogeneizza il diritto privato ma non quello pubblico. Proprio perciò politicamente l’ “omogeneizzazione” giuridica è poco (o del tutto) irrilevante; per il suo carattere non-politico investe quello che Hauriou chiamava il diritto comune (Dike), contrapponendolo al diritto disciplinare (Thémis)xviii: il primo esterno ai gruppi (sociali), ai clan e alle famiglie e aggiunge “noi diremmo, oggigiorno, internazionalexix,il secondo interno a quelli.

Per cui la (comune) Dike non serve a mutarla in Themis e tantomeno a farla trasformare in qualcosa di politicamente decisivo. Piuttosto il confondere gli indubbi vantaggi che sul piano economico (degli scambi) e anche per altri ambiti dell’esistenza umana (aventi carattere privato) può avere l’omogeneità giuridica significa non percepire la peculiarità del politico e la distinzione tra pubblico e privato.

5. Un’altra considerazione occorre dedicare al problema in che modo i principi sopra ripetuti possano operare in un contesto che non è più quello “classico” degli Stati moderni (o dei di essi “tipi” come quello federale).

I “tipi” di relazioni con cui le unità politiche possono limitare la sovranità e/o l’indipendenza nella produzione ed applicazione del diritto sono diversi.

In particolare, se, come scrive Schmittxx “la federazione è un’associazione permanente, che serve al comune fine di autoconservazione politica di tutti i membri della federazione”, occorre considerare anche quei tipi di rapporti non riconducibili ad una federazione (o ad uno Stato federale).

Fatta questa premessa, occorre distinguere tra limitazioni alla sovranità, e limitazioni all’indipendenza.

Tra le limitazioni alla sovranità, tra la fine della seconda guerra mondiale a oggi, ve ne sono state (frequenti), anche a quella interna non riconducibili a quei rapporti e modelli già conosciuti e “classici” (ad esempio il protettorato). Caso clamoroso quello del quale fu “esternata” la dottrina della “sovranità limitata” degli Stati aderenti al “Patto di Varsavia”. Ma una menzione particolare (anche per gli effetti) compete alla Dichiarazione di Yalta sull’Europa liberata dove, tra le molte limitazioni enunciate v’è la seguente “Nel momento in cui, secondo l’opinione congiunta dei tre Governi, le condizioni di uno degli Stati Europei liberati o di quelli satelliti dell’Asse Europeo imponessero di intervenire, i suddetti tre Governi si consulteranno immediatamente tra loro per stabilire le misure necessarie da adottare e adempiere così agli obblighi previsti da questa dichiarazione”.

Il senso e gli effetti di tale dichiarazione sono chiari: i vincitori si riservavano il diritto d’intervento all’interno dei singoli Stati occupati, diritto ovviamente indefinito nei presupposti e nel contenuto (delle misure) e quindi determinabile a discrezione degli Stati vittoriosi : tale affermazione costituisce una limitazione alla sovranità interna, quella cioè che in molti Stati membri di una federazione, compete di solito ai medesimi e non alla federazionexxi.

Diversamente da una federazione le limitazioni alla sovranità come quelle sopra ricordate non comportano la garanzia dell’esistenza politica e della sicurezza degli Stati (federati), che Schmitt ritiene una delle conseguenze del “contratto federale”xxii.

Mentre nel patto costitutivo della federazione c’è ancora un “sinallagma” come garanzia di protezione (e obbedienza) che giustifica anche la forma “pattizia” o “contrattuale”, nelle dichiarazioni di Yalta tutto si risolve nella volontà dei vincitori (quindi egemoni in forza della vittoria e della conseguente occupazione militare) i quali dettano le condizioni di sviluppo politico degli Stati occupati, si riservano la facoltà di interpretarle/applicarle e di intervenire di conseguenza.

Non meraviglia che con la firma dei trattati di pace alcune limitazioni alla sovranità (interna) divenissero clausole del trattato stesso, come notò Vittorio Emanuele Orlando nel discorso alla Costituente contro l’approvazione del trattatoxxiii. Ciò non esclude che con un Trattato possano accordarsi quelle garanzie: tuttavia mentre nel caso della federazione ineriscono alla natura dello stesso e sono, come scrive Schmitt, la conseguenza dell’esistenza associata sia degli Stati membri che dello Stato federalexxiv, nel caso del trattato dipendono totalmente dalla volontà degli Stati contraenti (e sono soggette alle riserve comuni a tutti i trattati).

Spesso connesse alle limitazioni alla sovranità vi sono quelle all’indipendenza nell’esercizio del potere normativo o in quello di “polizia” e giudiziario. La recente normativa internazionale finalizzata alla lotta al terrorismo ce ne offre diversi esempi in cui taluno, non senza fondamento, ravvisa la formazione di una sorta di controllo degli Stati Uniti sugli altri Stati del pianeta, sviluppantesi – e questo è il carattere “originale” – non tramite eserciti e occupazioni militari ma con forme di dipendenza delle burocrazie giudiziarie e amministrative degli Stati “soggetti” al potere “imperiale”xxv dello Stato-guida.

Il che costituirebbe una forma di egemonia esercitata in un’epoca in cui si fa un gran parlare di governance, termine che difetta di quella chiarezza e distinzione di solito comune alla terminologia del periodo statale “classico”.

6. È difficile definire un’impero. Il termine è stato applicato a tante diverse forme politiche, dall’impero persiano achemenide a quello romano, dal Sacro romano Impero a quelli coloniali degli Stati europei dalla Rinascenza al secolo scorso, solo per citare quelli più familiari alla nostra cultura.

Trovare forme e tratti comuni tra Dario e Carlo Magno non è facile: tuttavia un primo tentativo di delinearne i caratteri si può iniziare partendo dai connotati tipici e salienti dello Stato moderno e notare le differenze: delimitando cioè l’Impero, in modo negativo, da ciò che è Stato.

In primo luogo nell’Impero non vi è il monopolio della decisione politica e della violenza legittima, invece connotati fondamentali dello Stato moderno, come sostenuto da Max Weber e Carl Schmitt. L’individuazione/designazione del nemico e l’esercizio dello jus belli è distribuito tra il centro e le periferie dell’Impero.

L’Anabasi offre una rappresentazione di ciò che avveniva nell’Impero achemenide: Artaserse non percepisce come ostili i preparativi del fratello Ciro di muovergli guerra perché crede che lo stesso volesse far guerra a (un altro satrapo) Tissaferne e ciò oltre a sembrargli normale non gli dispiaceva “affatto che si facessero guerra tra loro”xxvi (probabilmente perché così erano troppo impegnati per farla a lui). Ciro, per raggiungere il centro dell’impero e combattere col fratello attraversa territori, ottenendo aiuti da una parte e combattendo dall’altra; lo stesso aveva giustificato la spedizione militare come rivolta contro i Pisidi, altri sudditi dell’impero Persiano; tutta la posizione e la politica di Tissaferne nei confronti dei mercenari greci in ritirata è dominata dalla preoccupazione che possano fargli guerra nei suoi domini di satrapo.

In altre parole né monopolio dello jus belli né una situazione di pace all’interno e guerra all’esterno (l’aspirazione/situazione “statale”) facevano parte della normalità dell’Impero persiano. Lo stesso per altri imperi, segnatamente per il Sacro Romano Impero e in genere la società feudale, dove le guerre tra vassalli, comuni, e di questi (e del Papa) contro l’Imperatore costituivano la situazione normale. Contrariamente a quanto accade anche negli Stati federali, lo jus belli non è monopolizzato dal centro; si ha una situazione simile a quella descritta da Grozio, quando distingue le guerre pubbliche da quelle privatexxvii.

La seconda distinzione, tipica dello Stato moderno, è quella “spaziale” tra interno ed esterno, che ha un connotato del tutto specifico il quale delinea due “status” o situazioni differenti e, in molti casi, opposti: quello tra ordinamento (e quindi diritto) interno ed esterno.

Quello interno si basa sul potere-dovere (e le correlative responsabilità, interna ed internazionale) di mantenere la pace (e l’ordine) all’interno dello Stato; a tale scopo la sovranità è irresistibile (c’è una volontà prevalente) dai poteri “interni” e ha quindi il potere (e il dovere) per mantenere la pace. All’esterno coesistono più unità politiche, in principio uguali (non c’è una volontà prevalente) e il mezzo per far valere, realizzare far riconoscere (e regolare) i propri diritti ed interessi è il trattato e, in caso di disaccordo, la guerra. Questa, che all’interno è in linea di principio vietata e considerata attività criminale, all’esterno dell’unità politica è, in linea di principio, legittima se esercitata tra Stati sovrani. In molti imperi non è così: il legame pace-interno e guerra-esterno non è netto: non c’è uno spazio pacificato, qualitativamente opposto a quello d’oltre confine. La distinzione è, al massimo, quantitativa: le guerre interne sono, per le forze relative dei contendenti, meno pericolose e dannose (ma non è sempre sicuro) di quelle esterne. Il confine tra interno ed esterno consegue a questa separazione netta: diversamente dalle società feudali (dove i rapporti di vassallaggio e i conseguenti diritti e doveri attraversavano i confini per cui il Re d’Inghilterra era vassallo – ed aveva propri vassalli – nel Regno di Francia), nello Stato moderno il confine significa l’esclusività e l’irresistibilità (all’interno) del potere sovrano che ne esclude ogni altro della stessa natura.

In terzo luogo il rapporto tra comando/obbedienza e il connesso dovere di protezione (quest’ultimo costituente, secondo Hobbes, il fondamento dell’obbligazione politica)xxviii: nello Stato la sovranità esclude che vi sia un rapporto comando/obbedienza tra i sudditi ed altri poteri che possa prevalere sullo stesso rapporto con lo Stato. Nell’impero ciò non appare definito, onde vi possono essere diversi rapporti, potenzialmente (e spesso in atto) conflittuali tra loro.

Nella società feudale si poteva essere vassalli di più signori e quindi obbligati alla fedeltà ad entrambi: in caso di conflitto politico, o di guerra tra i seniores, la situazione che ne derivava era, a dir poco, confusa. Anche il rapporto di protezione/obbedienza conseguentemente ne veniva incrinato.

Quanto alla sovranità, chiave dello Stato moderno, in conseguenza di quanto sopra, negli imperi non appare dotata dei connotati costruiti da alcuni secoli di dottrina dello Stato moderno. Dei quali, i più importanti sono: l’illimitatezza (o irresistibilità)xxix e la generalità nel senso che il sovrano è competente a provvedere su tutto e “giudice” di tutto, anche della propria competenza.

Il primo peraltro, come scriveva Romagnosi, è un carattere essenziale che distingue nettamente e qualitativamente la sovranità da ogni altro potere di comando (tutti in qualche modo limitati e resistibili); mentre il potere “imperiale” appare differire dagli altri poteri pubblici essenzialmente per dimensioni (spaziali) e per collocazione (sta “sopra” agli altri, ma essenzialmente è un primus inter pares), cioè per differenze “quantitative” (è più potente, non è illimitatamente potente).

Del pari il potere imperiale, nato generalmente come sovrapposizione a precedenti poteri e organizzazioni politiche, ha una competenza non generale, né è giudice della propria competenza (come nella società feudale).

Raymond Aron distingue di conseguenza tre tipi di pacexxx, e, correlativamente tre tipi di guerrexxxi, anche in relazione alla esistenza di imperi.

7. La lezione desumibile da Hegel e Tocqueville è quindi utilmente applicabile alla situazione contemporanea.

In primo luogo né il diritto, né l’economia (e neppure altri “ambiti” dell’esistenza umana, come la morale o l’arte) possono costituire ex se il fondamento per l’unità politica. Anzi nel pensiero di Hegel il privato (nei passi sopra citati rapportato all’attività economica) è una causa di dissoluzione dell’unità politica: è l’ordinamento privatistico (e patrimonialistico) dell’Impero germanico a determinarne la rovina, sì da soccombere a Napoleone. La stessa tendenza del privato “all’acquisto ed al guadagno, nella prevalenza dell’interesse particolare” è l’attitudine spirituale meno idonea a costituire e consolidare uno Stato; nei Grundinien des philosophie des Rechts il concetto viene ribaditoxxxii.

Neppure l’esistenza di un’amministrazione nè di una burocrazia (e di regole per il funzionamento dell’una e dell’altra) è, di per sé, decisivo per l’unità politica: l’utopia di Saint-Simon di sostituire al governo degli uomini l’amministrazione delle cose si rivela fallace anche in ambito “internazionale”. Il moltiplicarsi di Enti, istituti, funzionari internazionali non ha fatto progredire affatto la pace, né eliminato e forse neppure ridotto le guerre. La spiegazione l’aveva già data Tocqueville quando nel passo sopra citato parla di debolezza dello Stato federale in relazione all’accentramento amministrativo (non all’amministrazione in genere, men che mai “autonoma”, come va di moda).

È l’amministrazione accentrata cioè l’apparato burocratico gerarchicamente organizzato e dipendente dal vertice politico a costituire fattore e garanzia di unità. In altre parole è un’amministrazione organizzata intorno al “presupposto” del politicoxxxiii del rapporto di comando/obbedienza, (cioè a servizio di un potere politico), a poter realizzare lo scopo, e non una qualsiasi amministrazione, solo perché dotata di bolli, timbri e registri. Senza “governo” la burocrazia (di un potere razionale-legale) porta in se solo l’idea di “regola”, ma non quella, necessaria, di “coazione”.

E del pari sia Hegel che Tocqueville attribuiscono carattere decisivo alla guerra (ed all’esistenza – ed alla scelta – del nemico). E’ questo, se ne desume, anticipando Schmitt (o seguendo Hobbes) a rivestire carattere decisivo per l’unità politica – e per l’esistenza della medesima. E’ il rapporto tra interno ed esterno, forma istituzionale e situazione concreta, in particolare geo-politica, a modellarla come vitale; ciò fino a determinare, in molti casi, la scelta tra rafforzamento del governo (per esistere come unità politica) e perdita (o compressione) delle libertà sociali ed individuali, con ricaduta nel dispotismo.

Ove si costruisca un’unità politica superiore non si sfugge al “criterio del politico”, il quale è decisivo: federazioni o unioni di Stati costruiti su burocrazie zelanti e regolamentazioni economiche (e sociali) non sono unità politiche, proprio perché mille funzionari non fanno un buon esercito.

Quanto all’altro aspetto – dell’impero o meglio degli imperi prossimi venturi – appare sicuro che, per esistere politicamente, devono avere anch’essi quel carattere anche se – a differenza dello Stato – distribuito tra centro e periferia, e perciò non monopolizzato.

Le conseguenze della “costituzione” di un potere imperiale, cioè di un potere non esclusivo ma prevalente, oscillante tra mera superiorità ed egemonia, si intravedono già nelle “nuove forme” di guerra, site al confine (concettuale) tra operazioni di polizia e guerra (vera e propria), e spesso caratterizzate da un confronto tra una potenza enorme e proprio perché tale molto vulnerabile e potenze minime e di conseguenza quasi invulnerabili: costituenti il tipo ideale (ed estremo) della guerra asimmetrica.

Il tutto non lascia intravedere uno sviluppo sicuramente pacifico: se lo jus publicum europeaum aveva ridotto le occasioni di justum bellum privandone gran parte dei soggetti “legittimati” alla guerra (dai grandi feudatari ai Comuni, alle compagnie di ventura), e costruendo lo Stato moderno come produttore di pace, non appare confortante l’idea di una “redistribuzione” dello jus belli tra diversi soggetti “regolari”e “irregolari”: una situazione neo-feudale.

Augusto dispose tre volte la chiusura del Tempio di Giano come simbolo della conseguita pax imperiale. Difficilmente in un’età imperiale, come quella che si profila nel futuro, si potrà procedere ad un atto analogo.

Teodoro Klitsche de la Grange

i V. LFS trad. it. Firenze 1941, p. 229-231 (i corsivi sono nostri).

ii “La costituzione dà al Congresso il diritto di chiamare in servizio attivo la milizia dei diversi Stati, quando si tratta di reprimere un’insurrezione o di respingere un’invasione; un altro articolo dice che, in questo caso, il Presidente degli Stati Uniti è il comandante in capo dell’esercito.

All’epoca della guerra del 1812, il Presidente ordinò alle forze militari del Nord di portarsi verso le frontiere; il Connecticut e il Massachussets, i cui interessi erano danneggiati dalla guerra, rifiutarono di inviare il loro contingente.

La costituzione, essi dissero, autorizza il governo federale a servirsi delle milizie territoriali in caso di insurrezione o di invasione; ora, nel caso presente, non c’è né insurrezione né invasione. Aggiunsero poi che la stessa costituzione, che dava all’Unione il diritto di chiamare le milizie in servizio attivo, lasciava agli Stati il diritto di nominare gli ufficiali; ne deriva, secondo loro, che in guerra nessun ufficiale dell’Unione aveva il diritto di comandare le milizie, eccetto il Presidente in persona. Ora, si trattava di servire in un esercito comandato da un altro.

Queste teorie assurde e distruttrici ricevettero non solo la sanzione dei Governatori e del corpo legislativo, ma anche quella delle Corti di giustizia di questi due Stati” e prosegue “Per quale ragione, dunque, l’Unione americana, per quanto protetta dalla relativa perfezione delle sue leggi, non si dissolve in mezzo a una grande guerra? Per la semplice ragione che non ha grandi guerre da temere.

Posta al centro di un continente immenso, in cui l’industria umana può estendersi senza limiti, l’Unione è isolata dal mondo quasi come se fosse circondata da ogni parte dall’Oceano.

Il Canada non conta che un milione d’abitanti: la sua popolazione è divisa in due nazioni nemiche. I rigori del clima limitano l’estensione del suo territorio e chiudono per sei mesi i suoi porti.

Al sud l’Unione tocca l’Impero del Messico; probabilmente è di qui che, un giorno, potranno venire grandi guerre. Ma, per lungo tempo ancora, il grado poco avanzato di civiltà, la corruzione dei costumi e la miseria impediranno al Messico di occupare un posto elevato tra le nazioni. Quanto alle potenze europee, la loro lontananza le rende poco temibili” concludendo “La grande fortuna degli Stati Uniti non è, dunque, quella d’aver trovato una costituzione federale, che permetta loro di sostenere grandi guerre, ma quella di avere una posizione geografica tale da non dover temere grandi conflitti.

Nessuno saprebbe apprezzare più di me i vantaggi del sistema federale. Vi vedo una delle più valide combinazioni in favore della prosperità e della libertà umane. Invidio la sorte idi quelle nazioni alle quali è stato permesso d’adottarlo. Ma, nondimeno, mi rifiuto di credere che dei popoli confederati possano lottare a lungo, a parità di forze, contro una nazione, dove il potere di governo è centralizzato” (i corsivi sono nostri) – v. La Démocratie en Amérique, libro I, parte I, trad. it. Torino, p. 200 ss.

iii “…il più grosso problema europeo è di sapere come si possa ridurre il potere sovrano senza distruggerlo.

Si fa presto a dire: «Ci vogliono delle leggi fondamentali, ci vuole una costituzione». Ma chi istituirà queste leggi fondamentali, e chi le farà attuare? Il gruppo o l’individuo che ne avesse la forza sarebbe sovrano, poiché sarebbe più forte del sovrano, di modo che, per l’atto stesso dell’istituzione, lo detronizzerebbe. Se la legge costituzionale è una concessione del sovrano, il problema si ripresenta. Chi impedirà che uno dei suoi successori la violi?… D’altra parte, si sa che i numerosi tentativi fatti per ridurre il potere sovrano non sono mai riusciti a far venire la voglia di imitarli. L’Inghilterra sola, favorita dall’Oceano che la circonda e da una carattere nazionale che si presta a queste esperienze, ha potuto fare qualcosa del genereDu pape, Lib. II, cap. II, trad. it. di A. Pasquali, Milano 1995, p. 158 (i corsivi sono nostri).

ivL’idealità che fa la sua comparsa nella guerra, venendosi così a trovare come in un rapporto accidentale con l’esterno, è in realtà identica all’idealità secondo cui i poteri statuali interni sono momenti organici del Tutto.

Sul piano dei fenomeni storici, questa identità si presenta, tra l’altro, nella figura per cui guerre fortunate hanno impedito irrequietudini interne e hanno consolidato la forza interna dello Stato.

Un fenomeno che rientra appunto in questo ordine è quello dei popoli che, non volendo oppure paventando sopportare una sovranità all’interno, sono stati soggiogati da altri popoli, e che si sono impegnati per la loro indipendenza con tanto minore successo e onore quanto meno si è potuto produrre al loro interno un primo serio assetto del potere statuale – popoli la cui libertà è morta per la paura di morire” (i corsivi sono nostri) LFD § 325 di V. Cicero, Milano 1996, p. 545.

v E proseguiva “da un lato questa legalità di mantenere ogni parte nella sua separazione dallo Stato, dall’altro le necessarie pretese dello Stato sul singolo membro di esso stanno nel più completo contrasto. Lo Stato richiede un centro comune, un monarca e degli stati in cui si riuniscano i diversi poteri, i rapporti con potenze straniere, le potenze militari, le finanze che hanno con esso relazione ecc.; un centro che avrebbe anche per la direzione, la necessaria potenza di affermare se stesso e le sue decisioni e di mantenere le singole parti in dipendenza da se. Atraverso il diritto invece è assicurato ai singoli Stati un’indipendenza quasi totale o addirittura totale… L’edificio statale tedesco non è null’altro che la somma dei diritti che le singole parti hanno sottratto al tutto; e questa legalità che veglia sollecitamente a che allo Stato non rimanga più alcun potere è l’essenza della costituzione” Op. cit. pag. 19.

vi E così prosegue “la Germania può essere saccheggiata e ingiuriata: il teorico del diritto statale saprà mostrare che tutto ciò è del tutto conforme ai diritti e alla prassi e che tutti i casi di infelicità sono piccolezze nei confronti dell’uso di questa legalità. Se il modo infelice in cui la guerra è stata condotta risiede nella condotta dei singoli stati, dei quali l’uno non inviò alcun contingente, moltissimi inviarono, invece che dei soldati, delle reclute arruolate appena ora, l’altro non pagò nessuna «mensilità romana», un terzo al tempo del più grande bisogno ritirò il suo contingente, molti conclusero trattati di pace e contratti di neutralità, la maggior parte ognuno alla sua maniera, annullò la difesa della Germania: allora il diritto statale dimostra che gli Stati hanno il diritto di una siffatta condotta, hanno il diritto di portare il tutto al più grande pericolo danno e sventura; e poiché questi sono diritti, i singoli e le comunità devono salvaguardare e difendere rigorosissimamente questi diritti di essere mandati in rovina. Per questo edificio giuridico dello Stato tedesco forse non esiste dunque nessuna insegna più adatta di questa: Fiat justitia, pereat Germania!”op. cit. trad it. in Scritti politici, Bari 1961 pp. 21.

vii Riguardo alle leggi propriamente civili e alla amministrazione della giustizia, né l’uguaglianza delle leggi e della procedura giuridica potrebbero rendere l’Europa uno Stato (tanto poco quanto l’uguaglianza dei pesi, delle misure e della moneta), né la loro diversità impedisce l’unità di uno Stato” perché “ i più potenti degli Stati effettivi hanno leggi assolutamente non uniformi. La Francia aveva prima della Rivoluzione una tale molteplicità di leggi che, oltre al diritto romano che valeva in molte province, in altre dominava quello burgundisco, quello britannico, ecc. e quasi ogni provincia, anzi quasi ogni città aveva una particolare legge tradizionale; uno scrittore francese disse a ragione che chi viaggiasse lungo la Francia doveva cambiare leggi tanto frequentemente quanto i cavalli dei servizi postali.

Non meno fuori dal concetto dello Stato giace la circostanza dello stabilire da quale particolare potenza, o secondo quale rapporto di partecipazione dei diversi stati o dei cittadini in generale devono essere date le leggi; Op. cit. pp. 32-22 (i corsivi sono nostri).

viii Quanto poco, prima e in sguito, la somiglianza delle religioni nella separazione in popoli potè impedire le guerre e riunirli in uno Stato, altrettanto poco nei nostri tempi la diversità della religione sgretola uno Stato. Op. cit. p. 36

ix Op. cit. p. 44 (i corsivi sono nostri)

x Mi si consenta di rinviare a quanto da me scritto in Diritto divino provvidenziale e dottrina dello Stato borghese in Behemoth n. 41, p. 25 ss.

xi v. Trattato politico, trad. it. Torino 1958, p. 205.

xii Montesquieu, Esprit des lois I, 1, 1

xiii Montesquieu, Esprit des lois, 1. I, 3: le leggi «doivent être tellement propres au peuple pour lequel elles sont faites, que c’est un trés grand hasard si celles d’une nation peuvent convenir à une autre».

xiv Era cioè proprio il contrario di quanto sosteneva Montesquieu. Ovvero che le leggi “devono essere in armonia con la natura e col principio del governo costituito, o che si vuol costituire, sia che lo formino, come fanno le leggi politiche; oppure che lo mantengano, come fanno le leggi civili.

Queste leggi debbono essere in relazione col carattere fisico del paese, col suo clima gelato, ardente o temperato; con la qualità del terreno, con la sua situazione, con la sua estensione, col genere di vita dei popoli che vi abitano, siano essi coltivatori, cacciatori o pastori: esse debbono essere in armonia col grado di libertà che la costituzione è capace di sopportare, con la religione degli abitanti, le loro disposizioni, la loro ricchezza, il loro numero, i loro commerci, costumi, maniere. Finalmente, esse hanno relazioni reciproche; con la loro origine, col fine del legislatore, con l’ordine delle cose sulle quali esse sono state costituite. Noi le dobbiamo considerare sotto tutti questi vari aspetti, ed è appunto ciò che intendo fare nella mia opera. Esaminerò tutte queste relazioni: esse, nel loro insieme, formano ciò che viene chiamato lo spirito delle leggi”. Lo spirito delle leggi deriva quindi dalle relazioni con i condizionamenti concreti e reali (tra cui i nemici e le guerre possibili) che erano considerati nei libri IX e X, che costituicono una vera miniera di intuizioni sul rapporto tra fattori geo-politici e istituzionali.

xv V. Über verfassungswesen, trad. it. in Behemoth n. 20, p. 5 ss.. E’ da notare che Lassalle muoveva una critica penetrante ai giuristi suoi contemporanei “tutte queste definizioni giuridiche formalmente simili aono altrettanto lontane quanto la precedente risposta in ordine alla costruzione di una risposta effettiva alla mia domanda. Perché tutte queste risposte contengono sempre e solo una descrizione esterna del come una costituzione viene ad esistenza e di ciò che una costituzione fa, ma non l’informazione: cosa una costituzione è. Esse indicano criteri, segni di riconoscimento, da cui si riconosce una costituzione dall’esterno e sul piano giuridico” per cui concludeva “ Gli effettivi rapporti di potere che sussistono in ogmi società sono quella forza effettivamente in vigore che determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società, cosicchè queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come sono” i corsivi sono nostri. V. op. cit. p. 5-6.

xvi H. Triepel Völkerrecht und Laudesrechts, trad. it. Torino 1913 pp. 4-5. (i corsivi sono nostri)

xvii Montesquieu considerava con favore le repubbliche federate perché federarsi è l’unico modo per dei piccoli Stati, di difendersi. “Furono queste associazioni a render fiorente per così lungo tempo la Grecia. Grazie ad esse i Romani attaccarono il mondo intero, e grazie ad esse sole il mondo intero si difese contro di loro. Quando Roma raggiunse il massimo della propria grandezza, fu per mezzo di simili associazioni poste oltre il Danubio ed il Reno, e sorte per effetto della paura, che i barbari poterono resistere… Le associazioni tra città erano in altri tempi più necessaria di quanto non lo siano oggi. Una città mal difesa correva rischi gravissimi. Essere conquistata significava la perdita non soltanto del potere esecutivo e legislativo, come avviene oggi, ma anche di tutte le proprietà individuali”. Poco dopo specificava che il non poter contrarre alleanza significa per l’appunto di non poter condurre una politica estera diversa dalla federazione Esprit des lois, Lib. IX, cap. 1-3.

xviii “Tutte le istituzioni generano un diritto disciplinare che resta al loro interno, si caratterizza per essere gerarchico e perché, davanti ai Tribunali che lo applicano, le parti non sono in posizione d’eguaglianza” Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 98.

xix Hauriou op.loc. cit., e aggiunge “Mentre Thémis ha la propria fonte nell’organizzazione sociale, Dike trova la propria nella socievolezza umana che non perde i propri diritti neppure di fronte agli stranieri, e del pari di fronte ai nemici”.

xx Verfassungslehre trad. it. di A. Caracciolo, p. 477, Milano 1984.

xxi v. sul punto C. Schmitt op.cit.p. 493: “Ma poiché le questioni dell’esistenza politica possono presentarsi diversamente nei diversi ambiti, specialmente in politica estera ed interna, allora è possibile che la decisione su una specie determinata di siffatte questioni, per esempio le questioni dell’esistenza in politica estera, abbia luogo nella federazione, mentre la decisione di altre questioni, per esempio il mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica all’interno di uno Stato membro, rimanga nello Stato membro. Questa non è una divisione della sovranità, ma deriva dalla coesistenza della federazione con i suoi membri: non si verifica una divisione, perché il caso di un conflitto, che determina la questione della sovranità, riguarda l’esistenza politica in quanto tale e la decisione nel caso singolo spetta sempre interamente all’uno o all’altro”

xxii v. op. cit., p. 480.

xxiii V. in Palomar n. 18, pp. 49 ss.

xxiv Op. cit., p. 480-481.

xxv v. gli articoli di Jean Claude Paye in Behemoth nn. 35, 37, 38.

xxvi Anabasi, I, 2.

xxvii In effetti in tali guerre, essendo “distribuito” lo jus belli, non c’è il criterio distintivo delle auctoritas cioè il diritto di dichiarare e muovere guerra, indicato da S. Tommaso e dai teologi-giuristi della Tarda Scolastica come una delle condizioni dello justum bellum.

xxviii V. Leviathan (conclusione); scrive Hobbes “E così sono giunto alla fine del mio trattato sul governo civile ed ecclesiastico, al quale hanno data occasione i disordini del tempo presente, e che è stato composto senza parzialità, senza prevenzione e senza altro scopo che di porre davanti agli occhi degli uomini la mutua relazione tra protezione ed obbedienza; alle quali la condizione della natura umana e le leggi divine – tanto naturali che positive – richiedono un’osservaznza inviolabile”, (il corsivo è nostro) trad. it. di Mario Vinciguerraq, vol. II, Bari 1974, p. 661.

xxix V. la definizione di G. D. Romagnosi in Scienza delle costituzioni, Firenze 1850 (tra i tanti che l’hanno ripetuto) v. V.E. Orlando nel discorso sopra citato alla Costituente.

xxx “Distinguo tre tipi di pace, equilibrio, egemonia, impero: in un dato spazio storico, le forze delle unità politiche o si controbilanciano o sono dominate da quelle di una di esse, oppure infine sono superate da quelle di una di esse in modo che tutte le unità, salvo una, perdono la loro autonomia e tendono a sparire in quanto centri di decisioni politiche” Paix et guerre entre les nations, trad. it. F. Airoldi Namer, Milano 1970, p. 188 (i corsivi sono nostri).

xxxi “La classificazione ternaria delle paci ci fornisce nello stesso tempo una classificazione, la più formale e la più generica, delle guerre: le guerre «perfette», conformi alla nozione politica della guerra, sono interstatali: in esse si affrontano unità politiche che si riconoscono reciprocamente esistenza e legittimità. Chiameremo soprastatali o imperiali le guerre il cui oggetto, o rigine o conseguenza, sia l’eliminazione di certi belligeranti e la formazione di un’unità al livello superiore. Chiameremo infrastatali o infraimperiali le guerre la cui posta è il mantenimento o la decomposizione di un’unità politica, nazionale o imperiale” op. cit., p. 191; si noti che Aron attribuisce allo Stato imperiale il monopolio della violenza legittima. Si può concordare a patto di chiarire che quando c’è uno Stato imperiale, questo è più Stato che Impero, e che l’essenza “statale” può essere prevalente in certe aree, e più sfumata in altre (come in molte colonie extraeuropee degli Stati europei).

xxxii Op. cit., v. (tra gli altri) §258 “Se lo Stato viene scambiato per la società civile, e se quindi la sua destinazione viene posta nella sicurezza e nella protezione della proprietà e della libertà personale, allora l’interesse dei singoli in quanto tali diviene il fine ultimo per cui essi sono uniti, e, a un tempo, il fatto di essere membro dello Stato finisce col dipendere dal capriccio individuale”, mentre “L’unione in quanto tale [degli individui nello Stato] è essa stessa l’autentico contenuto e fine, e la destinazione degli individui consiste nel condurre una vita universale: ogni loro ulteriore appagamento, attività, modo di comportarsi, ha per suo punto di partenza e risultato questo elemento sostanziale e universalmente valido”, trad. it. di V. Cicero, Milano 1996, p. 417-419.

xxxiii V. Julien Freund L’essence du politique, Paris 1965, p. 94 ss.

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