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La distruzione dell’ex Jugoslavia: il caso della Croazia e delle relazioni serbo-croate_di Vladislav Sotirovic

La distruzione dell’ex Jugoslavia: il caso della Croazia e delle relazioni serbo-croate

L’esistenza della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia (RSFJ) di Broz si basava principalmente sull’instaurazione della sua dittatura personale e sul culto della personalità, nonché sul sostegno materiale, politico e finanziario incondizionato delle cosiddette democrazie occidentali, ma soprattutto degli Stati Uniti d’America (USA) dopo la rottura di Stalin con Tito nel 1948[1] fino alla morte del presidente a vita della RSFJ. L’ideologia del comunismo nazionale di Broz-Kardelj, basata sulla banale pratica dell’autogoverno (quasi) socialista, ha svolto il ruolo di cemento ideologico in uno Stato multinazionale e fondamentalmente disunito che è durato quanto il suo dittatore. [2] Gli Stati Uniti mantennero artificialmente in vita la Jugoslavia per ben dieci anni dopo la morte ufficiale (e non provata) del caporale austro-ungarico e autoproclamato maresciallo Tito (1980), fino a quando le basi geopolitiche delle relazioni internazionali cambiarono radicalmente con la scomparsa dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS), del Patto di Varsavia e dell’unificazione dei due Stati tedeschi (1989-1991).[3] Dato che la Jugoslavia era diventata superflua nei piani politico-militari americani per il dopoguerra fredda, fu lasciata affondare nella sanguinosa guerra civile del 1991-1995, che è solo una parte delle guerre storiche delle civiltà nei Balcani e nello spazio globale. [4]

La politica (quasi) jugoslava di “fratellanza e unità” di Josip Broz Tito (1892-1980) aveva come obiettivo principale la preparazione politica ed economica della disintegrazione del paese dopo la sua morte secondo il modello amministrativo-territoriale: tutte le repubbliche socialiste e entrambe le province autonome dovevano diventare Stati indipendenti con la conseguenza finale di una Grande Croazia (patria di Broz) etnicamente pura e riconosciuta a livello internazionale e di una Piccola Serbia ridotta ai confini della “Serbia di Bismarck” nel periodo successivo al Congresso di Berlino del 1878 fino alle guerre balcaniche del 1912-1913. Pertanto, Broz creò province autonome solo in Serbia (secondo la Costituzione del 1974, di fatto repubbliche veramente indipendenti) e fece di tutto per impedire che venisse alla luce la verità sull’orribile etnocidio contro i serbi nell’ISC dopo il 1945[5] e, infine, per verificarlo e legalizzarlo.

Dopo la morte di Broz (4 maggio 1980), gli albanesi del Kosovo furono i primi a dare inizio allo smantellamento violento e organizzato della RSFY nella primavera del 1981[6] con l’intenzione finale di separare la provincia del Kosovo dalla Serbia, compiere la pulizia etnica dei serbi e di tutti gli altri non albanesi e ripristinare la Grande Albania di Mussolini/Hitler della Seconda Guerra Mondiale. Il terrore organizzato e sistematico degli albanesi del Kosovo contro la popolazione serba della provincia[7], così come il separatismo albanese in Kosovo dopo la morte di Broz, furono direttamente alimentati e incoraggiati politicamente dai leader di Croazia e Slovenia come il modo più efficace per continuare il funzionamento della federazione jugoslava asimmetrica di Broz, in cui la Repubblica Socialista di Slovenia e la Repubblica Socialista di Croazia avevano una posizione politica, economica e finanziaria privilegiata rispetto a tutte le altre repubbliche, ma soprattutto rispetto alla Repubblica Socialista di Serbia, all’interno della quale le due province autonome (Vojvodina e Kosovo) fungevano da meccanismo ottimale per preservare questo stato asimmetrico di relazioni e politica inter-repubblicane. La proposta dei neoeletti governi “democratici” di Slovenia e Croazia[8] di ristrutturare la federazione jugoslava in una confederazione di sei “Stati sovrani”, ognuna delle quali avrebbe avuto un proprio esercito e missioni diplomatiche[9], non era altro che una proposta di riconoscimento de facto dell’indipendenza delle repubbliche jugoslave, ma entro i confini creati nella Titoslavia del 1945, che avvantaggiava principalmente una Croazia più grande di Broz, ma anche una Slovenia più grande. Questa proposta di confederazione asimmetrica aveva anche la funzione politica di essere creata in modo tale da essere sicuramente respinta come oggettivamente inaccettabile dalla Serbia e dalle altre repubbliche jugoslave, fornendo così un motivo formale a Lubiana e Zagabria per dichiarare l’indipendenza della Slovenia e della Croazia dal resto della Jugoslavia, cosa che avvenne il 25 giugno 1991, segnando anche l’inizio di una sanguinosa guerra civile.

La letteratura accademica occidentale, così come i mass media e gli ambienti politici occidentali, accusano generalmente le politiche “nazionaliste” di Slobodan Milošević (1941-2006) come principale, e persino unico, ispiratore della dissoluzione della RSFJ. [10] Slobodan Milošević, tuttavia, non è certamente più colpevole della scomparsa dell’ex Stato comune e dello scoppio della guerra civile rispetto ad altri leader delle repubbliche jugoslave, in particolare il dottor Franjo Tuđman (1922-1999) e la sua Unione Democratica Croata (CDU), ma è certamente vero che ha condotto la sua lotta politica per l’unificazione amministrativa della Repubblica di Serbia, la sua posizione politica ed economica paritaria nella federazione jugoslava e la protezione dei serbi sia in Kosovo che in tutta la Jugoslavia, ma soprattutto in Croazia, dove i neonazisti ustascia salirono al potere nella primavera del 1990, appena rivestiti delle vesti della democrazia e dei “valori europei”. Tuttavia, Milošević ha (ab)usato tale situazione e il clima politico generale in Jugoslavia per instaurare un regime autoritario personale e l’etnopopulismo in Serbia[11] , ma la stessa politica autoritaria ed etnopopolare è stata introdotta da Franjo Tuđman in Croazia, attuando la sua politica di serbofobia (non solo serbofobia) e l’ideologia ustascia risalente al periodo della seconda guerra mondiale. [12]

La leadership politica della Serbia è direttamente accusata dalle stesse fonti di aver tentato di realizzare l’idea di una Grande Serbia durante il periodo della dissoluzione della Jugoslavia[13] sulle basi ideologiche del Načertanije di Ilija Garašanin (1812‒1874) del 1844. [14] Slobodan Milošević (1941-2006) avrebbe voluto diventare il nuovo Josip Broz Tito di tutta la Jugoslavia, cosa che in sostanza non è da escludere, ma che non è nemmeno dimostrabile con prove concrete. A differenza di lui, Franjo Tuđman (1922‒1999) aveva molto probabilmente come obiettivo personale e politico principale quello di rimanere nella storia croata come il nuovo Poglavnik (leader supremo/Führer) nazionale che aveva restaurato l’ISC di Pavelić della Seconda Guerra Mondiale entro i suoi confini “etnostorici” e, se possibile, finalmente ripulito etnicamente dai serbi. La storiografia croata di questo periodo, principalmente per ragioni politiche piuttosto che scientifiche, fece un grande passo avanti accusando direttamente l’élite politica e nazionale serba di attuare il concetto ideologico-storico non solo di una Grande Serbia, ma anche di una Serbia genocida in cui non ci sarebbe stato posto per i non serbi, e questo concetto può essere presumibilmente rintracciato storicamente in una serie ideologica collegata dall’articolo “Serbi tutti e ovunque” di Vuk Stefanović Karadžić (1787-1864) del 1836 (stampato nel 1849) fino al Memorandum dell’Accademia Serba delle Scienze e delle Arti (SASA, originariamente SANU) del 1986. [15]

Tuttavia, almeno per quanto riguarda il ruolo della parte croata nella dissoluzione della Jugoslavia, il nuovo governo CDU (originariamente HDZ) a Zagabria non era altro, per la stragrande maggioranza dei serbi in tutto il paese, che una reincarnazione dell’ISC (originariamente NDH) di Pavelić, responsabile dell’uccisione dei serbi, e dell’ideologia ottocentesca del Partito croato dei diritti (CPR, originariamente HSP, l’ideologia nazista-ustascia del XX secolo) del “sangue e suolo” nella risoluzione della “questione serba” non solo nelle aree della già Grande Croazia di Broz, ma anche nell’intera area a ovest del fiume Drina, che è stata rivendicata come spazio etnico-storico esclusivamente croato sin dai tempi di Ante Starčević (1823-1896), padre dell’ultranazionalismo croato e della politica di genocidio dei serbi. In sostanza, l’ideologia e la politica CPR-ustascia dell’HDZ di Tuđman nella risoluzione della “questione serba” a ovest del fiume Drina durante e dopo lo scioglimento della SFRY si basava sull’ideologia e sulla politica di genocidio contro i serbi a ovest del fiume Drina fin dal XIX secolo nei circoli clericali e nazionalisti-sciovinisti croati. [16] Che la CDU al potere fosse una copia dell’ISC di Pavelić era chiaro ai serbi non solo dalla retorica degli organi ufficiali dello Stato croato, ma anche dalla simbologia ustascia utilizzata durante la seconda guerra mondiale, nonché dalla posizione ufficiale del partito e dello Stato nei confronti del leader dell’ISC Ante Pavelić (1889-1959), il “macellaio dei Balcani” che guidò lo Stato in cui fino a 750.000 serbi furono uccisi nel modo più brutale.[17] Non c’è quindi da stupirsi che i serbi della Croazia, che vivevano in masse compatte, principalmente nelle zone di Banija, Lika e Kordun, furono semplicemente costretti ad auto-organizzarsi a livello nazionale, ovvero a proclamare prima la Regione Autonoma Serba (SAR, originariamente SAO) Krayina il 21 dicembre 1990 e poi, il 28 febbraio 1991, ad adottare la Risoluzione sulla separazione della Repubblica di Croazia e della SAR Krayina, che rimase in Jugoslavia.[18]

Dopo la dichiarazione di indipendenza della Repubblica di Croazia il 25 giugno 1991, le formazioni armate ben equipaggiate della Croazia (con circa 200.000 fucili a canna lunga)[19], assistite dalle milizie di partito e da vari “cani da guerra” croati e stranieri, attaccarono con tutte le loro forze gli insediamenti serbi nella zona della SAR Krayina, ma anche le caserme dell’Esercito Popolare Jugoslavo (YPA, originariamente JNA), avendo il sostegno diplomatico e politico delle “democrazie” occidentali, e soprattutto della Germania unita, che sfruttò la crisi e la guerra jugoslava per imporsi come leader dell’intera Comunità Europea (dal 1992, Unione Europea). [20] Iniziò così formalmente la guerra civile quadriennale nei territori della Repubblica Socialista di Croazia, anche se i combattimenti tra le forze di difesa territoriale serbe e le unità di milizia di riserva con la polizia regolare croata e i paramilitari erano iniziati già prima. Il 1° agosto 1991 iniziarono i combattimenti a Dalj, Erdut, Osijek, Darda, Vukovar e Kruševo. I croati combatterono per l’integrazione territoriale della Croazia titoista e per espellere il maggior numero possibile di serbi, mentre i serbi locali combatterono per la separazione territoriale dalla Croazia come unico modo per salvare le loro vite dal genocidio che stava per arrivare.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex professore universitario

Ricercatore presso il Centro di studi geostrategici

Belgrado, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com

Riferimenti:

[1] La posizione ufficiale della storiografia titista jugoslava e della propaganda politico-statale secondo cui Tito ruppe con Stalin nel 1948 è errata, poiché Stalin interruppe definitivamente i rapporti con Broz in quanto cliente occidentale ed espulse lui e la sua Jugoslavia dall’Informburo. Anche l’affermazione secondo cui Broz avrebbe confutato tutte le calunnie dell’Informburo contenute nella risoluzione del 28 giugno 1948 al quinto congresso del Partito comunista jugoslavo (21-28 luglio 1948) è errata. [Branislav Ilić, Vojislav Ćirković (urednici/eds.), Hronologija revolucionarne delatnosti Josipa Broza Tita, Beograd: Export-Press, 1978, 123]. Sulla Titoslavia di quel periodo, cfr. [Алекс Н. Драгнић, Титова обећана земља – Југославија, Београд: Чигоја штампа, 2004].

[2] Sul carattere psicopolitico del culto della personalità e della dittatura di Broz, si veda [Владимир Адамовић, Три диктатора, Стаљин, Хитлер, Тито: Психополитичка паралела, Београд: Informatika, 2008, 445−610].

[3] Jeffrey Haynes, Peter Hough, Shahin Malik, Lloyd Pettiford, World Politics, Londra−New York: Routledge, Taylor & Francis Group, 2011, 34−43.

[4] Victor Roudometof, “Nationalism, Globalization, Eastern Orthodoxy: ‘Unthinking’ the ‘Clash of Civilizations’ in Southeast Europe”, European Journal of Social Theory, 2 (2), 1999, 233−247; Samuel P. Hungtington, The Clash of Civilization and the Remaking of World Order, Londra: The Free Press, 2002; Ignas Kapleris, Antanas Meištas, Istorijos egzamino gidas: Nauja programa nuo A iki Ž, Vilnius: Leidykla “Briedis”, 2013, 387. Le potenze occidentali hanno svolto un ruolo diretto nella dissoluzione della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia alimentando l’intolleranza religiosa e interetnica, nonché le passioni nazionalistiche nel territorio della Jugoslavia [Veljko Kadijević, Moje viđenje raspada: Vojska bez države, Belgrado: Politika, 1993, 40]. Per informazioni sul ruolo dei fattori internazionali nel processo di disgregazione della Jugoslavia e nelle guerre che ne sono seguite nel suo territorio, si veda [Richard H. Ullman (ed.), The World and Yugoslavia’s Wars, New York: A Council on Foreign Relations, 1996] . L’antagonismo occidentale nei confronti della Serbia e dei serbi in un contesto storico è stato forse definito al meglio da H. Sitton-Watson nel 1911, quando scrisse che «la vittoria dell’idea pan-serba significherebbe la vittoria della cultura orientale su quella occidentale» [Trajan Stojanović, Balkanski svetovi: Prva i poslednja Evropa, Belgrado: Equilibrium, 1997, 377].

[5] Per informazioni sul serbocidio nell’ISC e sulla cooperazione diretta della Chiesa cattolica romana con il regime nazista ustascia nell’ISC, si veda [Марко Аурелио Ривели, Надбискуп геноцида: Монсињор Степинац, Ватикан и усташка диктатура у Хрватској, 1941−1945, Никшић: Јасен, 1999].

[6] Радослав Ђ. Гаћиновић, Насиље у Југославији, Београд: ЕВРО, 2002, 243.

[7] Per il terrore albanese documentato contro i serbi del Kosovo nella SFRY, vedi [Јеврем Дамњановић, Косовска голгота, Интервју, Специјално издање, Београд: Политика, 22 ottobre 1988].

[8] Il fatto che i governi di Slovenia e Croazia nel 1990 fossero stati formalmente eletti in modo democratico dopo le prime elezioni parlamentari del dopoguerra è servito e continua a servire come principale alibi per il blocco “anti-serbo” sia in Jugoslavia che all’estero per la difesa dichiarata delle politiche di Lubiana e Zagabria nel processo di smembramento della RSFJ. Tuttavia, va sottolineato che tutti i governi delle altre repubbliche jugoslave nello stesso 1990 furono eletti in modo altrettanto democratico quanto i governi della Slovenia e della Croazia. Inoltre, Adolf Hitler salì al potere nella Repubblica di Weimar nel gennaio 1933 in modo estremamente democratico, almeno da un punto di vista puramente formale e giuridico.

[9] Susan L. Woodward, Balkan Tragedy: Chaos and Dissolution after the Cold War, Washington, DC: The Brookings Institution, 1995, 132.

[10] Si veda, ad esempio: [Louis Sell, Slobodan Milosevic and the Destruction of Yugoslavia, Durham−Londra: Duke University Press, 2003; Richard Overy, XX amžiaus pasaulio istorijos atlasas, Vilnius: Leidykla “Briedis”, 2008, 144; Kimberly L. Sullivan, Slobodan Milosevic’s Yugoslavia, Minneapolis, MN: Twenty-First Century Books, 2010; Adam Lebor, Milosevic: A Biography, Londra−Berlino−New York−Sydney: Bloomsbury, 2012].

[11] Bernd J. Fišer, Balkanski diktatori: Diktatori i autoritarni vladari jugoistočne Evrope, Belgrado: IPS, Belgrado−IP Prosveta, Belgrado , 2007, 481−539.

[12] Jill A. Irvine, “Ultranationalist Ideology and State-Building in Croatia, 1990−1996”, Problems of Post-Communism, 44 (4), 1997, 30−43. Tuttavia, l’ideologia ustascia riguardo alla “questione serba” in Croazia è completamente contraddittoria rispetto alla sua soluzione pratica durante l’ISC, dato che gli ustascia, così come lo stesso Poglavnik Ante Pavelić, sostenevano che in Croazia ci fossero essenzialmente pochissimi veri serbi perché la stragrande maggioranza dei “serbi” croati erano in realtà croati di etnia croata di fede ortodossa [Irina Lyubomirova Ognyanova, “Nazionalismo e politica nazionale nello Stato Indipendente di Croazia (1941-1945)”, bozza del documento presentato alla Convenzione Speciale “Nazionalismo, identità e cooperazione regionale: compatibilità e incompatibilità”, organizzata dal Centro per l’Europa centro orientale e balcanica, Università di Bologna, Forlì, Italia, 4-9 giugno 2002, 5]. Tuttavia, nella pratica, durante l’ISC, il regime ustascia cercò di eliminare in un modo o nell’altro tutti i cristiani ortodossi sia in Croazia che in Bosnia-Erzegovina, il che suggerisce che gli ustascia fossero principalmente l’esercito crociato del Vaticano. Il regime di Tuđman ha affrontato un problema simile nel nuovo ISC “democratico” degli anni ’90.

[13] Richard W. Mansbach, Kirsten L. Taylor, Introduction to Global Politics, Londra-New York: Routledge, Taylor & Francis Group, 2012, 442.

[14] Per quanto riguarda il Načertanije di Garašanin, si veda [Радош Љушић, Књига о Нечертанију: Национални и државни програм Кнежевине Србије (1844), Београд: БИГЗ, 1993]. Per quanto riguarda Ilija Garašan come statista, si veda [Дејвид Мекензи, Илија Гарашанин: Државник и дипломата, Београд: Просвета, 1987].

[15] Ante Beljo et al. (a cura di), Serbia from Ideology to Agression, Croatian Information Centre, Zagabria−Londra−New York−Toronto−Sydney: Zagrebačka tiskara, 1992. Per le verità, i malintesi e gli abusi del concetto e dell’ideologia della Grande Serbia, cfr. [Василије Ђ. Крестић, Марко Недић (уредници/eds.), Велика Србија: Истине, заблуде, злоупотребе, Зборник радова са Међународног научног скупа одржаног у Српској академији наука и уметности у Београду од 24−26. октобра 2002. године, Београд: Српска књижевна задруга, 2003]. Sul legame reciproco tra il Načertanije di Garašanin e l’articolo di Vuk “Serbi tutti e ovunque” vedi [Vladislav B. Sotirović, Srpski komonvelt: Lingvistički model definisanja srpske nacije Vuka Stefanovića Karadžića i projekat Ilije Garašanina o stvaranju lingvistički određene države Srba, Vilnius: privatno izdanje, 2011]. Entrambe le opere erano una risposta diretta all’ideologia e alla politica nazionalista e sciovinista del Movimento Illirico croato sulla croatizzazione dei serbi cattolici romani e ijekaviani e sulla creazione della Grande Illiria, ovvero la Grande Croazia [Vladislav B. Sotirović, The Croatian National (“Illyrian”) Revival Movement and the Serbs: Dal 1830 al 1847, Saarbrücken: LAP LAMBERT Academic Publishing, 2015].

[16] Sulla genesi dell’idea e dell’ideologia del serbocidio tra i croati nel contesto della creazione di una Grande Croazia con i suoi confini orientali fino al fiume Drina, cfr. [Василије Ђ. Крестић, Геноцидом до велике Хрватске, Јагодина: Гамбит, 2002].

[17] Richard W. Mansbach, Kirsten L. Taylor, Introduction to Global Politics, Londra−New York: Routledge, Taylor & Francis Group, 2012, 442. Ad esempio, il Partito croato dei diritti (CPR) – tacito partner di coalizione del partito leader CDU – adottò il 17 giugno 1991 la cosiddetta Carta di giugno, che chiedeva apertamente il ripristino dell’ISC nazista di Pavelic entro i confini orientali fino ai territori serbi settentrionali di Subotica e Zemun, al fiume Drina, Sandžak (Raška) nella Serbia meridionale e la baia di Kotor in Montenegro. L’affermazione che tutta la Bosnia-Erzegovina e il Montenegro (“Croazia Rossa” – Croazia rubea, nell’ideologia ultranazionalista croata) siano storicamente ed etnograficamente terre croate, dal tempo del principe Trpimir e del re Tomislav (X secolo) fino ai giorni nostri, è chiaramente sottolineata dal quotidiano croato NarodGlasilo za demografsku osnovu i duhovni preporod hrvatskog naroda del 1998. [Василије Ђ. Крестић, Геноцидом до велике Хрватске, Јагодина: Гамбит, 2002, додатак] . Dall’estate del 1990, il CPR/HSP ha organizzato le sue unità paramilitari (naziste ustascia) delle Forze di Difesa Croate – CDF (originariamente HOS), che dall’ottobre 1991 sono state in gran parte integrate nelle formazioni regolari dell’esercito croato. Il CDF/HOS sosteneva apertamente l’estremismo nazista ustascia, utilizzava la simbologia ustascia e glorificava il Poglavnik/Führer Ante Pavelić dell’ISC. [Ivo Goldstein, Croatia: A History, Londra: C. Hurst & Co, 1999, 225].

[18] Вељко Ђурић Мишина, Република Српска Крајина: Десет година послије, Београд: Добра воља, 2005, 16−19.

[19] Le formazioni armate croate (così come quelle slovene) furono quindi equipaggiate con le più moderne armi leggere e attrezzature militari e addestrate da esperti militari austriaci e tedeschi per svolgere azioni rapide ed efficaci contro l’YPA. Allo stesso tempo, come forma di guerra speciale contro l’YPA e la SFRY, fu preparata e attuata una diserzione di massa dalle unità dell’YPA, in modo che rimanessero vuote e quindi impreparate a svolgere azioni più serie [Радослав Ђ. Гаћиновић, Насиље у Југославији, Београд: ЕВРО, 2002, 260].

[20] Ad esempio, sull’incitamento diretto e il finanziamento del separatismo da parte degli albanesi del Kosovo da parte della Germania, cfr. [Matthias Küntzel, Der Weg in den Krieg: Deutschland, die NATO und das Kosovo, Berlino: Elefanten Press, 2000]. Nel processo di disintegrazione della politica estera della SFRY, è certo che la diplomazia della Germania unita è stata la più pronta e, in modo convincente, la più efficace. Con la frammentazione dello Stato jugoslavo nelle sue repubbliche come Stati “indipendenti”, Berlino stava realizzando il suo vecchio progetto geopolitico di “penetrazione verso sud-est” (Drang nach Südost) in condizioni di pace [Славољуб Шушић, Пробни камен за Европу, Београд: Војноиздавачки завод, 1999, 177]. Tuttavia, questa penetrazione geopolitica ed economica tedesca nell’Europa sud-orientale è solo una parte del progetto geopolitico strategico della Questione Orientale dell’Occidente e in particolare della Germania, che dovrebbe essere inteso come la lotta geostrategica per trasformare la Russia in una sfera coloniale occidentale, e non come la questione della sopravvivenza del Sultanato ottomano in Europa, come è stato finora considerato negli ambienti accademici [Срђан Перишић, Нова геополитика Русије, Београд: Медија центар „Одбрана“, 2015, 56−60 ]. Per una Germania unita e rafforzata, la brutale disintegrazione della Jugoslavia e la pacifica scomparsa dell’URSS facevano parte di un progetto a lungo termine di revisione dei risultati di entrambe le guerre mondiali [Славољуб Шушић, Геополитички кошмар Балкана, Београд: Војноиздавачки завод, 2004, 116−122].

The Destruction of ex-Yugoslavia: The Case of Croatia and Serbo-Croat Relations

The existence of Broz’s SFRY (Titoslavia) was based primarily on the establishment of his personal dictatorship and personality cult, as well as the wholehearted material, political, and financial support of the Western so-called democracies, but primarily the United States of America (USA) since Stalin’s break with Tito in 1948.[1] until the very death of the president-for-life of the SFRY. Broz-Kardelj’s ideology of national communism, based on the banal practice of (quasi)socialist self-government, played the role of ideological cement in a multinational and fundamentally disunited state that lasted as long as its dictator.[2] The US artificially maintained Yugoslavia for a full ten years after the official (and unproven) death of the Austro-Hungarian corporal and self-proclaimed marshal Tito (1980), until the geopolitical basis of international relations fundamentally changed with the disappearance of the Union of Soviet Socialist Republics (USSR), the Warsaw Pact, and the unification of the two German states (1989‒1991).[3] Given that Yugoslavia became unnecessary in American military-political plans for the post-Cold War era, it was left to sink into the bloody civil war of 1991‒1995, which is only part of the historical wars of civilizations in the Balkans and the global space.[4]

The (quasi) Yugoslav policy of “brotherhood and unity” of Josip Broz Tito (1892‒1980) had as its main goal the political and economic preparation of the disintegration of the country after his death according to the administrative-territorial template: all socialist republics and both autonomous provinces were to become independent states with the ultimate consequence of an internationally recognized ethnically pure Greater Croatia (Broz’s homeland) and Lesser Serbia reduced to the borders of “Bismarck’s Serbia” in the period after the Berlin Congress of 1878 until the Balkan Wars of 1912‒1913. Therefore, Broz created autonomous provinces only in Serbia (according to the 1974 Constitution, in fact, truly independent republics) and did everything to prevent the truth about the horrific ethnocide against Serbs in the ISC after 1945[5] , and finally to verify and legalize it.  

After Broz’s death (May 4th, 1980), the Kosovo Albanians were the first to begin the organized violent dismantling of the SFRY in the spring of 1981[6] with the ultimate intention of separating Kosovo province from Serbia, ethnically cleansing Serbs and all other non-Albanians, and restoring Mussolini/Hitler’s Greater Albania of the Second World War. Organized and systematic terror by Kosovo Albanians against the Serbian population of the province[7] as well as Albanian separatism in Kosovo after Broz’s death, were directly fueled and politically encouraged by the leaderships of Croatia and Slovenia as the most effective way to continue the functioning of Broz’s asymmetrical Yugoslav federation, in which the Socialist Republic of Slovenia and the Socialist Republic of Croatia had a privileged political, economic and financial position in relation to all other republics, but especially in relation to the Socialist Republic of Serbia, within which the two autonomous provinces (Vojvodina and Kosovo) served as the best mechanism for preserving this asymmetrical state of inter-republic relations and politics. Proposal of the newly elected “democratic” governments of Slovenia and Croatia[8] on the restructuring of the Yugoslav federation into a confederation of six “sovereign states”, each of which would have its own armies and diplomatic missions[9] was nothing else than a proposal for de facto recognition of the independence of the Yugoslav republics but within the borders created in Titoslavia in 1945, which primarily benefited a greater Broz’s Croatia but also a greater Slovenia. This proposal for an asymmetrical confederation also had its political function of being created on such a way to be surely rejected as objectively unacceptable by Serbia and other Yugoslav republics, and thus providing a formal reason for Ljubljana and Zagreb to declare the independence of Slovenia and Croatia from the rest of Yugoslavia, which happened on June 25th, 1991, which also marked the beginning of a bloody civil war.

Western academic literature, as well as Western mass media and political circles, generally directly accuse the “nationalist” policies of Slobodan Milošević (1941‒2006) as the main, and even the sole, inspirer of the breakup of the SFRY.[10] Slobodan Milošević, however, is certainly not more guilty of the disappearance of the former common state and the outbreak of civil war than other leaders of the Yugoslav republics, especially Dr. Franjo Tuđman (1922‒1999) and his Croatian Democratic Union (CDU), but it is certainly true that he led his political struggle for the administrative unification of the Republic of Serbia, its equal political and economic position in the Yugoslav federation, and the protection of Serbs both in Kosovo and throughout Yugoslavia, but especially in Croatia, where neo-Nazi Ustashi came to power in the spring of 1990 just redressed in the garb of democracy and „European values“. However, Milošević (mis)used such a situation and general political atmosphere in Yugoslavia to establish personal authoritarian rule and ethnopopulism in Serbia[11] , but the same authoritarian and ethnopopular politics Franjo Tuđman introduced in Croatia, implementing his policy of Serbophrenia (not only Serbophobia) and Ustashi ideology from the time of the Second World War.[12]    

The political leadership of Serbia is directly accused by the same sources of attempting to realize the idea of ​​a Greater Serbia during the period of the breakup of Yugoslavia[13] on the ideological foundations of Ilija Garašanin’s (1812‒1874) Načertanije from 1844.[14] Slobodan Milošević (1941‒2006) allegedly wanted to become the new Josip Broz Tito of the whole of Yugoslavia, which is not excluded in essence, but is not factually provable either. Unlike him, Franjo Tuđman (1922‒1999) very likely had as his main personal and political goal to remain recorded in Croatian history as the new national Poglavnik (supreme leader/Führer) who restored Pavelić’s ISC from the Second World War within its “ethnohistorical” borders and, if possible, finally ethnically cleansed of Serbs. Croatian historiography in this period, primarily for political rather than scientific reasons, went a big step further by directly accusing the Serbian political and national elite of implementing the ideological-historical concept of not only a Greater Serbia but also a genocidal Serbia in which there would be no place for non-Serbs, and this concept can allegedly be traced historically in a connected ideological series from the article “Serbs all and everywhere” by Vuk Stefanović Karadžić (1787‒1864) from 1836 (printed in 1849) up to the Memorandum of the Serbian Academy of Sciences and Arts (SASA, originally  SANU) in 1986.[15]

However, at least as far as the role of the Croatian side in the breakup of Yugoslavia is concerned, the new CDU (originally HDZ) government in Zagreb was, for the vast majority of Serbs throughout the country, nothing more than a reincarnation of Pavelić’s Serb-killing ISC (originally NDH) and the 19th century’s ideology of Croatian Party of Rights (CPR, originally HSP, the 20th century Nazi-Ustashi ideology) of “blood and soil” in resolving the “Serbian question” not only in the areas of Broz’s already Greater Croatia, but also in the entire area west of the Drina River, which has been claimed as an exclusively Croatian ethno-historical space since Ante Starčević (1823‒1896), a father of Croatian ultra-nationalizm and the policy of genocide on Serbs. In essence, the CPR-Ustashi ideology and policy of Tuđman’s HDZ in resolving the “Serbian question” west of the Drina River during and after the dissolution of the SFRY was based on the ideology and policy of genocide against Serbs west of the Drina River since the 19th century in Croatian clerical and nationalistic-chauvinist circles.[16] That the ruling CDU was a copy of Pavelić’s ISC was clear to Serbs not only from the rhetoric of official Croatian state bodies, but also from the used Ustashi symbolism from the Second World War, as well as the official party’s and state stance towards the ISC’s leader Ante Pavelić (1889−1959) – the “Balkan Butcher” who headed the state in which up to 750,000 Serbs were killed in the most brutal manner.[17] Therefore, it is no wonder that the Serbs from Croatia who lived in compact masses there, primarily in the areas of Banija, Lika, and Kordun, were simply forced to self-organize nationally, i.e., to first proclaim the Serbian Autonomous Region (SAR, originally SAO) Krayina on December 21st, 1990, and on February 28th, 1991, to adopt the Resolution on the separation of the Republic of Croatia and the SAR Krayina, which remained in Yugoslavia.[18]

After the declaration of independence of the Republic of Croatia on June 25th, 1991, the well-equipped armed formations of Croatia (with around 200,000 long barrels)[19] assisted by party militias and various Croatian and foreign “dogs of war”, they attacked with all their might Serbian settlements in the SAR Krayina area, but also the barracks of the Yugoslav People’s Army (YPA, originally JNA), having diplomatic and political support in the Western “democracies”, and above all in a united Germany, which used the Yugoslav crisis and war to impose itself as the leader of the entire European Community (since 1992, the European Union).[20] Thus formally began the four-year civil war in the territories of the Socialist Republic of Croatia, although fighting between the Serbian territorial defense forces and reserve militia units with Croatian regular police and paramilitaries had been waged earlier. On August 1st, 1991, fighting began in Dalj, Erdut, Osijek, Darda, Vukovar, and Kruševo. The Croats fought for the territorial integration of Titoist Croatia and to expel as many Serbs from it, while local Serbs fought for territorial separation from Croatia as the only way to save their lives from the newly coming genocide.  

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex-University Professor

Research Fellow at Centre for Geostrategic Studies

Belgrade, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com


References:

[1] The official position of Yugoslav Titoist historiography and state-political propaganda that Tito broke with Stalin in 1948 is incorrect as Stalin finally severed relations with Broz as a Western client and expelled him and his Yugoslavia from the Informburo. The claim that Broz refuted all the Informburo slanders from the Resolution of June 28th, 1948, at the Fifth Congress of the Communist Party of Yugoslavia (July 21st‒28th, 1948) is also incorrect.  [Branislav Ilić, Vojislav Ćirković (urednici/eds.), Hronologija revolucionarne delatnosti Josipa Broza Tita, Beograd: Export-Press, 1978, 123]. About Titoslavia from that period, see [Алекс Н. Драгнић, Титова обећана земља – Југославија, Београд: Чигоја штампа, 2004].   

[2] On the psychopolitical character of Broz’s cult of personality and dictatorship, see [Владимир Адамовић, Три диктатора, Стаљин, Хитлер, Тито: Психополитичка паралела, Београд: Informatika, 2008, 445−610].

[3] Jeffrey Haynes, Peter Hough, Shahin Malik, Lloyd Pettiford, World Politics, London−New York: Routledge, Taylor & Francis Group, 2011, 34−43.

[4] Victor Roudometof, “Nationalism, Globalization, Eastern Orthodoxy: ‘Unthinking’ the ‘Clash of Civilizations’ in Southeast Europe”, European Journal of Social Theory, 2 (2), 1999, 233−247; Samuel P. Hungtington, The Clash of Civilization and the Remaking of World Order, London: The Free Press, 2002; Ignas Kapleris, Antanas Meištas, Istorijos egzamino gidas: Nauja programa nuo A iki Ž, Vilnius: Leidykla “Briedis”, 2013, 387. Western powers played a direct role in the dissolution of the SFRY by fueling religious and interethnic intolerance as well as nationalist passions in the territory of Yugoslavia [Veljko Kadijević, Moje viđenje raspada: Vojska bez države, Beograd: Politika, 1993, 40]. For information on the role of international factors in the process of the breakup of Yugoslavia and the wars that followed in its territory, see [Richard H. Ullman (ed.), The World and Yugoslavias Wars, New York: A Council on Foreign Relations, 1996]. Western antagonism towards Serbia and Serbs in a historical context was perhaps best defined by H. Sitton-Watson in 1911 when he wrote that “the victory of the Pan-Serbian idea would mean the victory of Eastern culture over Western culture” [Trajan Stojanović, Balkanski svetovi: Prva i poslednja Evropa, Beograd: Equilibrium, 1997, 377].

[5] For information on Serbocide in the ISC and the direct cooperation of the Roman Catholic Church with the Nazi Ustashi regime in the ISC, see [Марко Аурелио Ривели, Надбискуп геноцида: Монсињор Степинац, Ватикан и усташка диктатура у Хрватској, 1941−1945, Никшић: Јасен, 1999].    

[6] Радослав Ђ. Гаћиновић, Насиље у Југославији, Београд: ЕВРО, 2002, 243.

[7] For documented Albanian terror against Kosovo Serbs in the SFRY, see [Јеврем Дамњановић, Косовска голгота, Интервју, Специјално издање, Београд: Политика, October 22nd, 1988].

[8] This fact that the governments of Slovenia and Croatia in 1990 were formally elected democratically after the first post-war parliamentary elections served and continues to serve as the main alibi for the “anti-Serbian” bloc both in Yugoslavia and abroad for the declarative defense of the policies of Ljubljana and Zagreb in the process of breaking up the SFRY. However, it must be emphasized that all the governments of all other Yugoslav republics in the same 1990 were just as democratically elected as the governments of Slovenia and Croatia. Moreover, Adolf Hitler came to power in the Weimar Republic in January 1933 in an extremely democratic manner, at least from a purely formal and legal perspective.

[9] Susan L. Woodward, Balkan Tragedy: Chaos and Dissolution after the Cold War, Washington, DC: The Brookings Institution, 1995, 132.

[10] See, for instance: [Louis Sell, Slobodan Milosevic and the Destruction of Yugoslavia, Durham−London: Duke University Press, 2003; Richard Overy, XX amžiaus pasaulio istorijos atlasas, Vilnius: Leidykla “Briedis”, 2008, 144; Kimberly L. Sullivan, Slobodan Milosevic’s Yugoslavia, Minneapolis, MN: Twenty-First Century Books, 2010; Adam Lebor, Milosevic: A Biography, London−Berlin−New York−Sydney: Bloomsbury, 2012].

[11] Bernd J. Fišer, Balkanski diktatori: Diktatori i autoritarni vladari jugoistočne Evrope, Beograd: IPS, Beograd−IP Prosveta, Beograd , 2007, 481−539.

[12] Jill A. Irvine, “Ultranationalist Ideology and State-Building in Croatia, 1990−1996”, Problems of Post-Communism, 44 (4), 1997, 30−43. However, the Ustashi ideology regarding the “Serbian question” in Croatia is completely contradictory in relation to its practical solution during the ISC, given that the Ustashi, as well as Poglavnik Ante Pavelić himself, claimed that in Croatia there were essentially very few true Serbs because the vast majority of Croatian “Serbs” were in fact ethnic Croats of the Orthodox faith [Irina Lyubomirova Ognyanova, “Nationalism and National Policy in Independent State of Croatia (1941−1945)”, draft of the paper presented at the Special Convention Nationalism, Identity and Regional Cooperation: Compatibilities and Incompatibilities, organized by the Centro per l’Europa centro orientale e balcanica, University of Bologna, Forli, Italy, June 4−9th, 2002, 5]. However, in practice during the ISC, the Ustashi regime sought to eliminate in one way or another all Orthodox Christians in both Croatia and Bosnia-Herzegovina, which suggests that the Ustashi were primarily the Vatican’s crusading army. Tuđman’s regime faced a similar problem in the new „democratic“ ISC in the 1990s.     

[13] Richard W. Mansbach, Kirsten L. Taylor, Introduction to Global Politics, London−New York:  Routledge, Taylor & Francis Group, 2012, 442.

[14] About Garašanin’s Načertanije, see [Радош Љушић, Књига о Нечертанију: Национални и државни програм Кнежевине Србије (1844), Београд: БИГЗ, 1993]. About Ilija Garašan’s as a statesman, see [Дејвид Мекензи, Илија Гарашанин: Државник и дипломата, Београд: Просвета, 1987].

[15] Ante Beljo et al. (eds.), Serbia from Ideology to Agression, Croatian Information Centre, Zagreb−London−New York−Toronto−Sydney: Zagrebačka tiskara, 1992. For the truths, misconceptions and abuses of the concept and ideology of Greater Serbia, see [Василије Ђ. Крестић, Марко Недић (уредници/eds.), Велика Србија: Истине, заблуде, злоупотребе, Зборник радова са Међународног научног скупа одржаног у Српској академији наука и уметности у Београду од 24−26. октобра 2002. године, Београд: Српска књижевна задруга, 2003]. On the mutual connection between Garašanin’s Načertanije and Vuk’s article “Serbs All and Everywhere” see [Vladislav B. Sotirović, Srpski komonvelt: Lingvistički model definisanja srpske nacije Vuka Stefanovića Karadžića i projekat Ilije Garašanina o stvaranju lingvistički određene države Srba, Vilnius: privatno izdanje, 2011]. Both works were a direct response to the national-chauvinist ideology and policy of the Croatian Illyrian Movement about the Croatization of Roman Catholic and Ijekavian Serbs and the creation of Greater Illyria, i.e. Greater Croatia [Vladislav B. Sotirović, The Croatian National (“Illyrian”) Revival Movement and the Serbs: From 1830 to 1847, Saarbrücken: LAP LAMBERT Academic Publishing, 2015].  

[16] On the genesis of the idea and ideology of Serbocide among Croats in the context of the creation of a Greater Croatia with its eastern borders till the Drina River, see [Василије Ђ. Крестић, Геноцидом до велике Хрватске, Јагодина: Гамбит, 2002].

[17] Richard W. Mansbach, Kirsten L. Taylor, Introduction to Global Politics, London−New York:  Routledge, Taylor & Francis Group, 2012, 442. For example, the Croatian Party of Rights (CPR) – a tacit coalition partner of the leading CDU, adopted the so-called June Charter on June 17th, 1991, which openly demanded the restoration of Pavelic’s Nazi ISC within its eastern borders as far as northern Serbian territories of Subotica and Zemun, the Drina River, Sandžak (Raška) in southern Serbia and the Bay of Kotor in Montenegro. The claim that all of Bosnia-Herzegovina and Montenegro (“Red Croatia” – Croatia rubea, in Croatian ultra-nationalistic ideology) are historically and ethnographically Croatian lands, from the time of Prince Trpimir and King Tomislav (the 10th century) to the present day, is clearly emphasized by the Croatian newspaper NarodGlasilo za demografsku osnovu i duhovni preporod hrvatskog naroda from 1998. [Василије Ђ. Крестић, Геноцидом до велике Хрватске, Јагодина: Гамбит, 2002, додатак]. Since the summer of 1990, the CPR/HSP has organized its paramilitary (Nazi Ustashi) units of the Croatian Defense Forces – CDF (originally HOS), which have been largely integrated into the regular formations of the Croatian Army since October 1991. CDF/HOS openly advocated Nazi Ustashi extremism, used Ustashi symbolism and glorified the Poglavnik/Führer Ante Pavelić of the ISC. [Ivo Goldstein, Croatia: A History, London: C. Hurst & Co, 1999, 225].

[18] Вељко Ђурић Мишина, Република Српска Крајина: Десет година послије, Београд: Добра воља, 2005, 16−19.

[19] Croatian (as well as Slovenian) armed formations were then equipped with the most modern light weapons and military equipment and trained by Austrian and German military experts to carry out quick and effective actions against the YPA. At the same time, as a form of special war against the YPA and the SFRY, mass desertion from YPA units was prepared and carried out, so that they would remain unfilled and therefore unprepared for carrying out more serious actions [Радослав Ђ. Гаћиновић, Насиље у Југославији, Београд: ЕВРО, 2002, 260].

[20] For example, on the direct incitement and financing of separatism by Kosmet Albanians by Germany, see [Matthias Küntzel, Der Weg in den Krieg: Deutschland, die NATO und das Kosovo, Berlin: Elefanten Press, 2000]. In the process of the foreign policy disintegration of the SFRY, it is certain that the diplomacy of the united Germany was the most prompt and convincingly the most effective. By breaking up the Yugoslav state into its republics as “independent” states, Berlin was realizing its old geopolitical project of “penetration to the Southeast” (Drang nach Südost) in peacetime conditions [Славољуб Шушић, Пробни камен за Европу, Београд: Војноиздавачки завод, 1999, 177]. However, this German geopolitical and economic penetration into southeastern Europe is only part of the strategic geopolitical project of the Eastern Question of the West and especially Germany, which should be understood as the geostrategic struggle to transform Russia into a Western colonial sphere, and not the issue of the survival of the Ottoman Sultanate in Europe, as has been considered so far in academic circles [Срђан Перишић, Нова геополитика Русије, Београд: Медија центар „Одбрана“, 2015, 56−60 ]. For a united and strengthened Germany, the brutal disintegration of Yugoslavia and the peaceful disappearance of the USSR were part of a long-term project of revising the results of both world wars [Славољуб Шушић, Геополитички кошмар Балкана, Београд: Војноиздавачки завод, 2004, 116−122].

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Idee errate dei serbi riguardo alla legge del 1° dicembre (1918)_di Vladislav Sotirovic

Idee errate dei serbi riguardo alla legge del 1° dicembre (1918)

Esistono diverse idee errate evidenti riguardo alla legge che proclamava la creazione della Jugoslavia, o la cosiddetta unificazione a Belgrado il 1° dicembre 1918, che la storiografia serba, in particolare, evita ostinatamente di affrontare.

Innanzitutto, l’atto della cosiddetta unificazione non fu approvato a Belgrado il 1° dicembre 1918, ma a Zagabria il 23 novembre dello stesso anno dal Consiglio nazionale dello Stato degli Sloveni, Croati e Serbi o Stato SCS (in quest’ordine in base alle categorie etniche). Ciò che viene costantemente e sistematicamente ignorato dalla storiografia serba è che questo Stato autoproclamato sulle rovine dell’Austria-Ungheria era concepito principalmente come uno Stato nazionale croato con gli sloveni e i serbi come una sorta di minoranze nazionali. Ricordiamo che la bandiera dello Stato di questa entità politica era il tricolore croato senza lo stemma: rosso, bianco e blu. Tuttavia, i serbi etnici costituivano una chiara maggioranza nazionale individuale in questo Stato. Proclamativamente, lo Stato della SCS, proclamato il 29 ottobre 1918 dal Parlamento (Sabor) a Zagabria, comprendeva tutti i territori etnici slavi meridionali dell’Austria-Ungheria, ma sotto la bandiera croata. Per rendere le cose ancora più chiare, l’emblema dello Stato di questa entità politica era chiaramente croato perché comprendeva le “terre storiche croate” (il cosiddetto Regno Triune), ovvero Croazia, Slavonia e Dalmazia. Pertanto, il dottor Franjo Tuđman (presidente croato negli anni ’90) poté appropriarsi di tutti questi territori come terre che sarebbero state annesse alla Jugoslavia dalla “Croazia”, soprattutto perché, per qualche folle motivo, il governo del Regno di Serbia era l’unico al mondo a riconoscere questo Stato (e quindi a scavare una fossa sia per i serbi che per la Serbia)! Alla fine di novembre del 1918, una delegazione speciale dello Stato SCS fu inviata da Zagabria a Belgrado con le cosiddette “Istruzioni” (linee guida) per l’unificazione con la Serbia e il Montenegro. A Belgrado, questo atto di unificazione fu confermato (illegittimamente) solo il 1° dicembre 1918 dal reggente Alexander Karađorđević alla presenza della delegazione ufficiale dello Stato SCS di Zagabria. Pertanto, l’atto di unificazione fu proclamato a Zagabria e a Belgrado, ma confermato, ovvero legittimato, da un uomo che non aveva alcuna autorità legale per legittimare un atto politico e storico così importante.

In secondo luogo, da allora fino ad oggi, esiste un mito storico tra i serbi secondo cui con questo atto e i risultati della Grande Guerra (1914-1918), la Serbia sconfisse l’aggressore Austria-Ungheria perché scomparve dalla mappa dell’Europa, e il popolo serbo si unì nel quadro dello “Stato nazionale” per cui aveva lottato per secoli. Si dimentica, tuttavia, che dopo il 1918 sia l’Austria che l’Ungheria erano ancora sulla mappa dell’Europa (solo entro i confini etnici) con quei nomi, ma non la Serbia! Non dimentichiamo che la Serbia entrò nella Grande Guerra per difendere la sua indipendenza politica e quindi il suo nome sulla mappa dell’Europa, ma dopo la stessa guerra, al posto della Serbia, emerse la Jugoslavia austro-ungarica! Il jugoslavismo era un’ideologia austro-ungarica anti-serba (cioè contro la Serbia) destinata agli slavi meridionali austro-ungarici (jugoslavi) invece che a uno Stato unito di tutti i serbi e solo serbi. L’idea viennese di jugoslavismo risale all’inizio del XIX secolo, con l’obiettivo di riunire tutti gli slavi meridionali dell’Impero austriaco (dal 1867, Impero austro-ungarico) attorno a Vienna e non attorno a Belgrado. Nella prima metà e nella metà dello stesso secolo, appare anche con il termine Movimento illirico. Tuttavia, gli sloveni e i serbi (e soprattutto Vuk Stefanović Karadžić) riconobbero immediatamente l’essenza dello jugoslavismo e dell’illirismo austriaci, vedendo in essi, prima di tutto, le rivendicazioni della Grande Croazia sui territori slavi meridionali dell’Impero austriaco (come scrisse Vuk nella sua opera etnografica “Serbi tutti e ovunque” nel 1836). In una prospettiva storica, i serbi su entrambe le sponde del fiume Drina non lottavano per la Jugoslavia, ma per uno Stato nazionale unito di etnia serba, e l’ideologia dello jugoslavismo fu “nascosta sotto il tappeto” per loro in momenti storici oscuri e difficili, presumibilmente come un modo per risolvere la questione nazionale serba. Così, nello spirito dell’ideologia politica quotidiana dominante dello jugoslavismo in entrambe le grandi Jugoslavie (Regno e Repubblica), il “Načertanije” (1844) di Garašanin fu presentato come un programma jugoslavo di unificazione, e la battaglia di Kosovo (1389) come una resistenza jugoslava generale all’invasione dei conquistatori ottomani (ad esempio, dallo storico serbo-erzegovese Vladimir Ćorović). In ogni caso, il 28 luglio 1914, l’Austria-Ungheria dichiarò guerra al Regno di Serbia con l’unico obiettivo di cancellarlo dalla mappa dell’Europa. La guerra finì con la Serbia che non era più sulla mappa dell’Europa, ma l’Austria e l’Ungheria sì, e al posto della Serbia, il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (il Regno di SCS) apparve sulla scena internazionale. Tuttavia, a peggiorare le cose, la Serbia non esisteva nemmeno come regione all’interno del Regno di SCS, e la completa vittoria dell’Austria-Ungheria sulla Serbia arrivò nel 1929, quando il Regno di SCS fu ribattezzato Jugoslavia (austro-ungarica). Ricordiamo anche che la bandiera di Stato di entrambi i regni tra le due guerre (così come della Repubblica di Broz) era la bandiera croata (cioè la bandiera del Regno Triune) solo capovolta.

Quindi, in terzo luogo, nella Jugoslavia del primo dopoguerra (il primo nome era Regno dei Serbi, Croati e Sloveni o Regno di SCS), c’erano tutti i serbi, ma mescolati con un gran numero (e insieme il più grande) di non serbi, cosicché i serbi in Jugoslavia erano in realtà una minoranza rispetto a tutti gli altri popoli e nazionalità (collettivamente). Tutte le Jugoslavie erano etnicamente e religiosamente eterogenee, e in entrambe le grandi Jugoslavie non esisteva una chiara maggioranza etnica di alcun gruppo etnico o confessionale. Individualmente, gli serbi etnici erano sempre i più numerosi, ma non hanno mai avuto la maggioranza assoluta (50% + 1). I croati erano sempre al secondo posto e gli sloveni al terzo. Nel Regno di SCS, la popolazione ortodossa (principalmente serbi) nel 1921 era del 46,67%; i cattolici (principalmente croati e sloveni) del 39,29% e i musulmani (tutti i gruppi etnici) dell’11,22%. Pertanto, i cattolici erano quasi altrettanti quanto i serbi. Per questi e molti altri motivi culturali, storici, economici e politici, subito dopo la proclamazione dell’unificazione nel 1918, divenne chiaro che la Jugoslavia non era e non poteva essere uno Stato “nazionale” di tutti i serbi con cui i serbi avrebbero risolto la secolare “questione nazionale serba”, soprattutto dal 1929, quando l’etnonimo serbo fu rimosso anche dal nome ufficiale dello Stato e sostituito con quello austro-jugoslavo, quando il Paese fu ribattezzato Regno di Jugoslavia.

In quarto luogo, e soprattutto, la Serbia ha compiuto sacrifici umani e materiali anomali per la cosiddetta “unificazione” con i suoi ex nemici, occupanti e assassini di massa, che con l’atto stesso dell’‘unificazione’ ha trasferito dal campo dei vinti a quello dei vincitori e dei cittadini uguali in uno Stato comune, che dovevano essere trattati nel quadro dell’ideologia del “jugoslavismo integrale” (la forma della successiva banalità di Broz sulla “fratellanza e unità” utilizzata nella Jugoslavia socialista). La Serbia ha perso un totale di (almeno) 1 milione e 100.000 persone nella Grande Guerra, di cui 450.000 soldati e 650.000 civili, mentre le potenze centrali sul territorio serbo hanno perso 380.000 soldati. Si stima che circa il 50% della capacità industriale del Regno di Serbia sia stata distrutta durante la guerra, mentre le infrastrutture industriali nei territori jugoslavi dell’Austria-Ungheria sono rimaste intatte. Questo è stato il motivo cruciale per cui i territori austro-ungarici della Jugoslavia del dopoguerra erano industrialmente superiori alla Serbia. La Serbia perse circa il 60% della sua popolazione maschile e un terzo della sua popolazione totale nella Grande Guerra, che rappresenta il più grande etnocidio nella storia della Serbia. Tuttavia, questo etnocidio avrebbe potuto essere evitato? In linea di principio, sarebbe stato possibile se il governo del Regno di Serbia avesse rinunciato alla Dichiarazione di Niš sull’unificazione di tutti gli jugoslavi prima che le potenze centrali attaccassero la Serbia nell’autunno del 1915. Ricordiamo che il 7 dicembre 1914 il governo serbo di Pašić adottò a Niš la cosiddetta “Dichiarazione di Niš” sull’unificazione del Regno di Serbia con i “fratelli” austro-ungarici di origine slava meridionale, ovvero sulla creazione della Jugoslavia al posto della Grande Serbia. La Dichiarazione fu adottata, tra l’altro, come metodo per seminare discordia nelle file austro-ungariche, ma in seguito si rivelò controproducente per i serbi. In ogni caso, nella primavera e nell’estate del 1915, quando era chiaro che le potenze centrali avrebbero attaccato la Serbia e quando l’Intesa stava lottando per ogni potenziale alleato, alla Serbia fu offerta una proposta ragionevole dall’Intesa su come attirare la Bulgaria dalla parte dell’Intesa e quindi neutralizzarla, evitando allo stesso tempo la catastrofe nazionale dell’occupazione che si verificò nell’autunno dello stesso anno. Poiché la Bulgaria non avrebbe pugnalato la Serbia alle spalle durante la grande offensiva tedesco-austro-ungarica imminente, la Serbia avrebbe ceduto alla Bulgaria la Macedonia del Vardar senza la sua parte settentrionale “indiscussa”, che la Bulgaria aveva già riconosciuto come annessa alla Serbia nel 1912 al momento della conclusione dell’accordo serbo-bulgaro prima della prima guerra balcanica. In cambio, dopo la guerra, l’Intesa promise fermamente alla Serbia tutti i territori austro-ungarici abitati da una popolazione a maggioranza serba: la maggior parte della Slavonia, parti della Croazia e della Dalmazia, nonché l’intera Bosnia-Erzegovina. In altre parole, una Grande Serbia senza croati e sloveni. Tuttavia, nell’interesse dell’unificazione di tutta la Jugoslavia non solo con i serbi ma anche con gli sloveni e i croati, il governo del Regno di Serbia rifiutò questa proposta storicamente ottimale in nome della conservazione della “Macedonia serba” sulla base dei diritti storici, anche se non era certo che i serbi fossero la popolazione maggioritaria in queste zone della Macedonia. Lo stesso famoso filologo serbo del XIX secolo Vuk Stefanović Karadžić non era sicuro che i serbi fossero la maggioranza in Macedonia o addirittura che vivessero in gran numero perché non parlavano una lingua serba pura (štokaviana) (né l’ekaviana della Serbia né l’ijekaviana dall’altra parte del fiume Drina), e il famoso geografo serbo Jovan Cvijić definì intorno al 1910 la maggioranza della popolazione slava in Macedonia “slavi macedoni” (tra serbi e bulgari) oltre ai bulgari puri. In ogni caso, la punizione divina non tardò ad arrivare, nell’ottobre 1915, quando, sotto la pressione militare delle potenze centrali da ovest e della Bulgaria da est, il governo serbo decise di lasciare la Serbia con l’esercito principale e alcuni civili e di ritirarsi in Grecia attraverso il Kosovo e l’Albania (“Golgota albanese”). Seguirono anni di occupazione e terrore contro i civili e, quando il paese fu liberato nell’autunno del 1918, la Serbia cessò di esistere, sostituita dalla Jugoslavia.

In quinto luogo, alla fine della Grande Guerra, una Jugoslavia comune era necessaria solo ai croati e agli sloveni (austro-ungarici) sconfitti, ma non ai serbi, e soprattutto non a quelli della Serbia. I croati, attraverso la Jugoslavia, salvarono quanto più possibile della Dalmazia dalle rivendicazioni italiane alla fine della guerra, basate sul Trattato di Londra dell’aprile 1915 (il trattato tra l’Intesa e l’Italia). Così, il vile uovo austro-ungarico chiamato “jugoslavismo” fu inviato in Serbia da Zagabria proprio prima della fine della guerra, che era già stata vinta dai serbi, e il reggente Alexander Karađorđević (nato a Cetinje, in Montenegro) lo accettò con una procedura estremamente illegittima per soddisfare le sue pretese psicomegalomani di diventare re di una grande Jugoslavia (“Regno di Alessandria”), che propagava ideologicamente a tutti i livelli lo “jugoslavismo integrale” delle “tre tribù omonime”. Proprio per queste ragioni “integraliste”, in entrambe le grandi Jugoslavie (“Regno di Alessandria” e “Titoslavia” di Broz), la questione dei crimini di genocidio di massa contro la popolazione del Regno di Serbia occupato dai soldati austro-ungarici non fu mai sollevata ufficialmente, almeno in termini di etnia dei carnefici occupanti. Naturalmente, per semplici ragioni politiche, poiché un numero enorme di quei carnefici in uniforme blu proveniva dai territori jugoslavi dell’Austria-Ungheria, compresi anche quelli di etnia serba. Ricordiamo che l’originale Josip Broz, nato a Kumrovec, in Croazia, nel 1892 (non l’altro chiamato Tito – Segretario del Partito Comunista Jugoslavo!), prestò servizio in una di queste unità di occupazione-esecuzione (la Divisione Croata del Diavolo). A Šumarice, Kragujevac, nella Serbia centrale, c’è un cosiddetto cimitero “cecoslovacco” dove si trovano i resti degli slovacchi che prestarono servizio in uniforme blu ma si rifiutarono di sparare ai civili serbi. Per rappresaglia, altri soldati austro-ungarici spararono ai loro compagni slovacchi. Finora non si conoscono casi di soldati austro-ungarici di origine jugoslava che si siano rifiutati di sparare ai civili serbi o di bruciare le case serbe nella Serbia occupata, come hanno fatto gli slovacchi a Kragujevac.

Infine, in nessuna delle Jugoslavie è mai stato organizzato un referendum nazionale, ovvero il popolo non si è mai chiesto se volesse o meno vivere con gli altri nello stesso Stato. E tutti gli altri erano diversi dai serbi della Serbia, compresi i serbi etnici del territorio dell’Austria-Ungheria. Non dovremmo mai dimenticare che prima dell’“unificazione”, i serbi (tutti cittadini della Serbia) non hanno mai vissuto nello stesso Stato con gli jugoslavi austro-ungarici, né hanno avuto molti rapporti con loro su alcuna base. E viceversa. Entrambi non avevano alcuna esperienza storica di convivenza e si conoscevano molto poco. Soprattutto i serbi serbi e i croati e sloveni cattolici. I serbi ortodossi della Serbia non conoscevano bene né i serbi ortodossi della Bosnia-Erzegovina e del Regno Triune, né i musulmani e i cattolici. Tuttavia, a differenza dei serbi ortodossi della Serbia, i serbi ortodossi austro-ungarici e ottomani conoscevano molto meglio i loro compatrioti musulmani e cattolici (croati e sloveni) rispetto ai serbi del Regno di Serbia. In questo contesto, i serbi conoscevano gli “slavi macedoni” e persino i bulgari della Bulgaria molto meglio dei loro “fratelli” jugoslavi dell’Austria-Ungheria. Per non parlare dei serbi e degli albanesi in Kosovo o dei serbi e degli ungheresi in Vojvodina (Ungheria meridionale fino al 1918). Un esempio illustrativo: un gran numero di cognomi serbi dell’Austria-Ungheria prebellica non esistono in Serbia, né terminano con il suffisso -ić, a differenza dei cognomi dei serbi della Serbia. È il caso di Gavrilo Princip (l’assassino dell’arciduca austro-ungarico Francesco Ferdinando e di sua moglie Sofia, uccisi a Sarajevo il 28 giugno 1914), il cui cognome è completamente latinizzato, e si vocifera che il suo vero nome di battesimo non fosse Gavrilo ma Gabriel. Va menzionato anche Tesla. Gli antenati di Nikola Tesla (famoso inventore serbo dell’Austria-Ungheria) si trasferirono dalla Serbia occidentale all’Austria (Monarchia asburgica, oggi Croazia) come serbi ortodossi con un cognome che terminava in -ić (Draganić). Tuttavia, in Austria, il cognome fu completamente cambiato in Tesla, ma questi stessi Tesla non si convertirono al cattolicesimo né cambiarono la loro identità etnica (per diventare croati). Lo stesso padre di Nikola era un prete ortodosso serbo (ci sono diverse spiegazioni sul perché il cognome sia stato cambiato, ma sono irrilevanti ai fini di questo testo). A proposito, il nome della madre di Tesla, Georgina, è assolutamente raro tra i serbi ortodossi in Serbia, anche se è presente nell’elenco ufficiale dei nomi femminili “serbi” della Chiesa ortodossa serba. I cognomi Princip o Tesla non sono mai esistiti in Serbia, il che non significa automaticamente che non siano di etnia serba, ma che non provengono dalla Serbia, cioè dal paese che si è “unificato” nel 1918 con gli jugoslavi austro-ungarici. È interessante notare che lo studente liceale Gavrilo Princip non era mai stato in Serbia e Nikola Tesla ci era stato solo una volta (a Belgrado). Dragutin Dimitrijević Apis (di etnia valacca), che fu il principale artefice dell’assassinio a Sarajevo nel giugno 1914, non aveva ancora attraversato il fiume Drina. Per informazioni sulle grandi differenze etnoculturali, o meglio sui contrasti etnografici, degli jugoslavi nello Stato comune, si veda Tihomir Đ. Đorđević, Our National Life (Наш народни живот, edizione tra le due guerre in tre volumi), e sulla caratterologia degli jugoslavi, si veda Vladimir Dvorniković (edizione tra le due guerre). A proposito, la stragrande maggioranza dei serbi della Serbia, compresi quelli della Vojvodina ungherese, utilizzava il dialetto ekaviano come lingua madre nel 1918, mentre i serbi al di là del fiume Drina e i croati utilizzavano il dialetto ijekaviano, che era, come lo è oggi, piuttosto croatizzato nella zona del Regno Triune. Fino alla creazione della Jugoslavia, in Serbia non si utilizzava l’alfabeto latino, ma solo l’alfabeto cirillico distillato di Vuk. Tuttavia, per motivi di fratellanza e unità con gli jugoslavi austro-ungarici, dopo l’atto del 1° dicembre 1918, l’alfabeto latino (importato dalla parte jugoslava dell’Austria-Ungheria) ottenne lo stesso status del cirillico e oggi ha un primato indiscusso in Serbia.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex professore universitario

Ricercatore presso il Centro di studi geostrategici

Belgrado, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs; sotirovic1967@gmail.com

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Serbian Misconceptions about the December 1st Act (1918)

There are several obvious misconceptions about the act of proclaiming the creation of Yugoslavia, or the so-called unification in Belgrade on December 1st, 1918, which Serbian historiography, in particular, persistently avoids.

First of all, the act of so-called unification was not passed in Belgrade on December 1st, 1918, but in Zagreb on November 23rd of the same year by the National Council of the State of Slovenes, Croats and Serbs or the State of SCS (in that order in ethnic categories). What is mostly constantly and consistently ignored by Serbian historiography is that this self-proclaimed state on the ruins of Austria-Hungary was conceived primarily as a Croatian national state with Slovenes and Serbs as some kind of national minorities. Let us recall that the state flag of this political entity was the Croatian tricolor without the coat of arms on it: red, white, and blue. However, ethnic Serbs constituted a clear individual-national majority in this state. Proclamatively, the State of SCS, which was proclaimed on October 29th, 1918, by the Parliament (Sabor) in Zagreb, encompassed all South Slavic ethnic territories in Austria-Hungary but under the Croatian flag. To make things even clearer, the state emblem of this political entity was clearly Croatian because it consisted of the “Croatian historical lands” (the so-called Triune Kingdom), i.e., Croatia, Slavonia, and Dalmatia. Therefore, Dr. Franjo Tuđman (Croatian President in the 1990s) could appropriate all these territories as lands that were allegedly brought into Yugoslavia by “Croatia”, especially since, for some crazy reason, the Government of the Kingdom of Serbia was the only one in the world that recognized this state (and thereby dug a grave for both Serbs and Serbia)! At the end of November 1918, a special delegation of the State of SCS was sent from Zagreb to Belgrade with the so-called “Instructions” (guidelines) for unification with Serbia and Montenegro. In Belgrade, this act of unification was only (illegitimately) confirmed on December 1st, 1918, by the regent Alexander Karađorđević in the presence of the official delegation of the Zagreb State of SCS. Therefore, the act of unification was proclaimed in Zagreb and in Belgrade, only confirmed, i.e., legitimized, by a man who did not have any legal authority to legitimize such a major political and historical act.

Secondly, from then until today, there is a historical myth among Serbs that with this act and the results of the Great War (1914‒1918), Serbia defeated the aggressor Austria-Hungary because it disappeared from the map of Europe, and the Serbian people united within the framework of the “national state” for which they had strived for centuries. It is forgotten, however, that after 1918, both Austria and Hungary were still on the map of Europe (just within the ethnic borders) under those names, but not Serbia! Let us not forget that Serbia entered the Great War to defend its political independence and therefore its name on the map of Europe, but after the same war, instead of Serbia, Austro-Hungarian Yugoslavia emerged! Yugoslavism was an Austro-Hungarian anti-Serbian (i.e., against Serbia) ideology intended for Austro-Hungarian South Slavs (Yugoslavs) instead of a united state of all Serbs and only Serbs. The Viennese idea of ​​Yugoslavism dates back to the beginning of the 19th century in order to gather all the South Slavs of the Austrian Empire (from 1867, the Austro-Hungarian Empire) around Vienna and not around Belgrade. In the first half and middle of the same century, it also appears under the term Illyrian Movement. However, the Slovenes and Serbs (and above all Vuk Stefanović Karadžić) immediately recognized the essence of Austrian Yugoslavism and Illyrianism, correctly seeing in them, first and foremost, Greater Croatian claims to the South Slavic territories of the Austrian Empire (as Vuk wrote in his ethnographic work “Serbs All and Everywhere” in 1836). In a historical perspective, the Serbs on both sides of the Drina River did not strive for Yugoslavia, but for a united national state of ethnic Serbs, and the ideology of Yugoslavism was swept “under the rug” for them in murky and difficult historical moments, supposedly as a way of resolving the Serbian national question. Thus, in the spirit of the ruling daily political ideology of Yugoslavism in both greater Yugoslavias (Kingdom and Republic), Garašanin’s “Načertanije” (1844) was presented as a Yugoslav program of unification, and the Battle of Kosovo (1389) as a general Yugoslav resistance to the encroachment of the Ottoman conquerors (e.g., by Serb-Herzegovinian historian Vladimir Ćorović). In any case, on July 28th, 1914, Austria-Hungary declared war on the Kingdom of Serbia with the sole aim of erasing it from the map of Europe. The war ended with Serbia no longer on the map of Europe, but Austria and Hungary did, and instead of Serbia, the Kingdom of Serbs, Croats, and Slovenes (the Kingdom of SCS) appeared on the international scene. However, to make matters worse, Serbia did not exist even as a region within the framework of this Kingdom of SCS, and Austria-Hungary’s complete victory over Serbia came in 1929, when the Kingdom of SCS was renamed (Austro-Hungarian) Yugoslavia. Let us also recall that the state flag of both interwar Kingdoms (as well as Broz’s Republic) was the Croatian flag (i.e., the flag of the Triune Kingdom) only turned upside down.

So, thirdly, in the post-WWI Yugoslavia (the first name was the Kingdom of Serbs, Croats and Slovenes or the Kingdom of SCS), all Serbs were found, but mixed with a large number (and together the largest) of non-Serbs, so that Serbs in Yugoslavia were actually a minority compared to all other peoples and nationalities (collectively). All Yugoslavias were ethnically and religiously heterogeneous, and in both greater Yugoslavias, there did not exist a clear ethnic majority of any ethnic or confessional group. Individually, ethnic Serbs were always the most numerous but never had an absolute majority (50% + 1). Croats were always in second place and Slovenes in third. In the Kingdom of SCS, the Orthodox population (mainly Serbs) in 1921 was 46.67%; Catholics (mainly Croats and Slovenes) 39.29% and Muslims (all ethnic groups) 11.22%. Therefore, there were almost as many Catholics as there were ethnic Serbs. For these and many other cultural, historical, economic and political reasons, soon after the proclamation of unification in 1918, it became clear that Yugoslavia was not and could not be a “national” state of all Serbs with which the Serbs supposedly resolved the centuries-old “Serbian national question”, especially since 1929, when the Serbian ethnonym was also removed from the official name of the state and replaced with the Austro-Yugoslav one as the country became renamed into the Kingdom of Yugoslavia.

Fourth, and most importantly, Serbia made abnormal human and material sacrifices for the so-called “unification” with its former enemies, occupiers and mass murderers, whom it transferred by the very act of “unification” from the camp of the defeated to the camp of the victors and equal citizens in a common state who were to be treated within the framework of the ideology of “integral Yugoslavism” (the form of Broz’s later platitude of “brotherhood and unity” used in socialist Yugoslavia). Serbia lost a total of (at least) 1 million and 100,000 people in the Great War, of which 450,000 soldiers and 650,000 civilians, and the Central Powers on the territory of Serbia 380,000 soldiers. It is estimated that around 50% of the industrial capacity of the Kingdom of Serbia was destroyed during the war, while industrial infrastructure in the Yugoslav territories of Austria-Hungary remained intact. That was the crucial reason why the Austro-Hungarian territories of post-war Yugoslavia were industrially superior to Serbia. Serbia lost about 60% of its male population and a 1/3 of its total population in the Great War, which is the largest ethnocide in the history of Serbia. However, could this ethnocide have been avoided? In principle, it was possible if the Government of the Kingdom of Serbia renounced the Niš Declaration on the unification of all Yugoslavs before the Central Powers attacked Serbia in autumn 1915. Let us recall that on December 7th, 1914, the Pašić Government of Serbia adopted in Niš the so-called “Niš Declaration” on the unification of the Kingdom of Serbia with the Austro-Hungarian “brothers” of South Slavic origin, i.e., on the creation of Yugoslavia instead of Greater Serbia. The Declaration was adopted, among other things, as a method of discord in the Austro-Hungarian ranks, but it later turned out to backfire on the Serbians. In any case, in the spring and summer of 1915, when it was clear that the Central Powers would attack Serbia and when the Entente was fighting for every potential ally, Serbia was offered a reasonable proposal by the Entente on how to attract Bulgaria to the Entente side and thus neutralize it, while at the same time avoiding the national catastrophe of occupation that occurred in the autumn of the same year. Since Bulgaria would not stab Serbia in the back during the upcoming German-Austro-Hungarian major offensive, Serbia was to cede Vardar Macedonia to Bulgaria without its “undisputed” northern part, which Bulgaria had already recognized to be annexed by Serbia in 1912 when concluding the Serbian-Bulgarian agreement before the First Balkan War. In return, after the war, the Entente firmly promised Serbia all the Austro-Hungarian territories inhabited by a majority Serbian population – the major part of Slavonia, parts of Croatia and Dalmatia, as well as the entire Bosnia and Herzegovina. In other words, Greater Serbia without Croats and Slovenes. However, for the sake of all-Yugoslav unification not only with Serbs but also with Slovenes and Croats, the Government of the Kingdom of Serbia rejected this historically optimal proposal in the name of preserving “Serbian Macedonia” based on historical rights, even though it was not known for certain that Serbs were the majority population in these areas of Macedonia. The famous 19th-century Serbian philologist Vuk Stefanović Karadžić himself was not sure that Serbs were the majority in Macedonia or even that they lived in large numbers because they did not speak a pure Serbian (Štokavian) language (neither the Ekavian from Serbia nor the Ijekavian from across the Drina River), and famous Serbian geographer Jovan Cvijić called around 1910 the majority of the Slavic population in Macedonia “Macedonian Slavs” (being between Serbs and Bulgarians) in addition to pure Bulgarians. In any case, divine punishment soon followed, in October 1915, when, under military pressure from the Central Powers from the west and Bulgaria from the east, the Serbian Government decided to leave Serbia with the main army and some civilians and retreat to Greece via Kosovo and Albania („Albanian Golghota“). Years of occupation and terror against civilians followed, and when the country was liberated in the fall of 1918, Serbia effectively ceased to exist, as Yugoslavia emerged in its place.

Fifth, in the end and after the Great War, a common Yugoslavia was needed only by the defeated (Austro-Hungarian) Croats and Slovenes, but not by the Serbs, and especially not by those from Serbia. The Croats, through Yugoslavia, saved as much of Dalmatia as they could from Italian claims at the end of the war based on the Treaty of London from April 1915 (the treaty between the Entente and Italy). Thus, the Austro-Hungarian cowardly egg called “Yugoslavism” was sent to Serbia from Zagreb right before the end of the war that had already been won for the Serbs, and the regent Alexander Karađorđević (born in Cetinje, Montenegro) accepted it in an extremely illegitimate procedural manner for the sake of fulfilling his psychomegalomaniacal claims to be the king of a greater Yugoslavia (“Kingdom of Alexandria”), which ideologically propagated at all levels “integral Yugoslavism” of “three tribes of the same name”. Precisely for these “integralist” reasons, in both greater Yugoslavias (“Kingdom of Alexandria” and Broz’s “Titoslavia”), the issue of mass crimes of genocide against the population of the occupied Kingdom of Serbia by the Austro-Hungarian soldiers was never officially raised, at least in terms of the ethnicity of the occupying executioners. Of course, for simple political reasons, because a huge number of those executioners in blue uniforms came from the Yugoslav territories of Austria-Hungary, including ethnic Serbs, too. Let us recall that original Josip Broz, born in Kumrovec, Croatia, in 1892 (not the other one called Tito – Secretary of the Communist Party of Yugoslavia!), served in one such occupation-execution unit (the Croatian Devil’s Division). In Šumarice, Kragujevac, in Central Serbia, there is a so-called “Czechoslovak” cemetery where the remains of Slovaks who served in blue uniforms but refused to shoot Serbian civilians are located. In retaliation, other Austro-Hungarian soldiers shot their Slovak comrades. So far, there is no known case of Austro-Hungarian soldiers of Yugoslav origin refusing to shoot Serbian civilians or burn Serbian houses in occupied Serbia, as the Slovaks did in Kragujevac.

Finally, out of all the Yugoslavias, a national referendum was never organized for any of them, i.e., the people never asked themselves whether or not they wanted to live with the others in the same state. And all those others were different from the Serbs from Serbia, including ethnic Serbs from the territory of Austria-Hungary. We should never forget that before the “unification”, the Serbians (all citizens of Serbia) never lived in the same state with the Austro-Hungarian Yugoslavs, nor did they associate much with them on any basis. And vice versa. Both had no historical experience in any kind of coexistence and knew each other very little. Especially the Serbian Serbs and the Catholic Croats and Slovenes. The Orthodox Serbs from Serbia were not very familiar either with the Orthodox Serbs from Bosnia-Herzegovina and the Triune Kingdom or with their Muslims and Catholics. However, unlike the Orthodox Serbs from Serbia, the Austro-Hungarian and Ottoman Orthodox Serbs were much more familiar with their Muslim and Catholic compatriots (Croats and Slovenes) and knew them much better than the Serbs from the Kingdom of Serbia. In this context, the Serbs knew the “Macedonian Slavs” and even the Bulgarians from Bulgaria much better than their Yugoslav “brothers” from Austria-Hungary. Not to mention the Serbs and Albanians in Kosovo or the Serbs and Hungarians in Vojvodina (Southern Hungary till 1918). One illustrative example: a huge number of Serbian family surnames from pre-war Austria-Hungary do not exist in Serbia, nor do they end with the suffix -ić, unlike the surnames of Serbs from Serbia. Such is the example of Gavrilo Princip (the assassin of Austro-Hungarian Archduke Franz Ferdinand and his wife, Sofia, in Sarajevo on June 28th, 1914), whose surname is absolutely Latinized, and there are rumors that his real baptismal name was not Gavrilo but Gabriel. Tesla should also be mentioned. Nikola Tesla’s (famous Serbian inventor from Austria-Hungary) ancestors moved from Western Serbia to Austria (Habsburg Monarchy, today Croatia) as Orthodox Serbs with a surname ending in -ić (Draganić). However, in Austria, the surname was completely changed to Tesla, but these same Teslas did not convert to Catholicism or change their ethnic identity (to become Croats). Nikola’s father himself was a Serbian Orthodox priest (there are several explanations for why the surname was changed, but they are irrelevant to this text). By the way, the name of Tesla’s mother, Georgina, is absolutely rare among Orthodox Serbs in Serbia, even though it is on the official list of „Serbian“ female names by the Serbian Orthodox Church. The surnames Princip or Tesla never existed in Serbia, which does not automatically mean that they are not ethnic Serbs, but they are not from Serbia, i.e., the country that “unified” in 1918 with the Austro-Hungarian Yugoslavs. Fascinatingly, the high school student Gavrilo Princip had never been to Serbia, and Nikola Tesla had only been to it once (in Belgrade). Dragutin Dimitrijević Apis (an ethnic Vlach), who was the main architect of the assassination in Sarajevo in June 1914, had not crossed the Drina River by then. For information on the great ethnocultural differences, or rather the ethnographic contrasts, of the Yugoslavs in the common state, see Tihomir Đ. Đorđević, Our National Life (Наш народни живот, interwar edition in three volumes), and on the characterology of the Yugoslavs, see Vladimir Dvorniković (interwar edition). By the way, the vast majority of Serbs from Serbia, including those from Hungarian Vojvodina, used the Ekavian dialect as their mother tongue in 1918, while the Serbs across the Drina River and the Croats used the Ijekavian dialect, which was, as it is today, quite Croatized in the area of ​​the Triune Kingdom. Until the creation of Yugoslavia, the Latin script was not used in Serbia, but only Vuk’s distilled Cyrillic script. However, for the sake of brotherhood and unity with the Austro-Hungarian Yugoslavs, after the December 1st Act of 1918, the Latin script (imported from the Yugoslav part of Austria-Hungary) was given equal status with Cyrillic, and today it has undisputed primacy in Serbia.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex-University Professor

Research Fellow at Centre for Geostrategic Studies

Belgrade, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs; sotirovic1967@gmail.com

Thomas Hobbes e la sua filosofia politica_di Vladislav Sotirovic

Thomas Hobbes e la sua filosofia politica

Fondamenti storici, filosofici e sociali del pensiero politico di Thomas Hobbes

Con le sue opinioni nella storia della filosofia politica, il teorico politico inglese Thomas Hobbes (1588-1679) divenne un rappresentante classico della scuola dell’empirismo inglese. Costruì un sistema politico completo basato sulla tesi fondamentale che nel mondo reale esistono solo corpi materiali individuali. Con questa visione, Hobbes iniziò una guerra contro i pregiudizi del realismo medievale, per il quale i concetti erano la vera realtà, mentre le cose erano semplicemente un loro derivato. È importante notare che Hobbes credeva che esistessero tre tipi di corpi individuali: 1) corpi naturali (cioè corpi della natura stessa che non dipendono dall’uomo e dalle sue attività); 2) L’uomo (sia un corpo della natura che il creatore di un corpo artificiale, cioè innaturale); e 3) Lo Stato (un corpo artificiale come prodotto delle attività dell’uomo).

L’opera più importante di Hobbes nel campo delle scienze politiche è Leviathan (1651) [titolo completo e originale: Leviathan or the matter, form and authority of government, Londra], in cui espone le sue opinioni filosofiche sul terzo corpo, cioè lo Stato, ovviamente nel contesto dell’epoca in cui visse e di cui fu testimone. In breve, in quest’opera Hobbes elaborò la visione secondo cui lo stato naturale della vita del genere umano è una guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes). Secondo lui, questa visione è seguita da una legge naturale che porta al superamento di tale stato e alla creazione dello Stato (cioè dell’organizzazione politica) attraverso un contratto sociale tra i cittadini e il governo, ma anche un contratto che riconosce infine il potere indivisibile e illimitato del sovrano (re) nella politica (organizzazione statale) per la protezione dei cittadini e dei loro diritti. In altre parole, i cittadini rinunciano volontariamente a una (gran parte) della loro libertà naturale, che trasferiscono allo Stato allo scopo di proteggersi dai nemici esterni e interni. Si tratterebbe di una forma politica di “fuga dalla libertà” volontaria e contrattuale, magistralmente decifrata dal filosofo tedesco Erich Fromm (1900-1980) nella sua opera omonima Escape from Freedom (1941), utilizzando l’esempio della società tedesca durante l’era del nazionalsocialismo.

Le basi sociali e storiche del pensiero politico di Hobbes erano le frequenti guerre civili in Inghilterra, in cui il re Carlo I Stuart (1625-1649) perse sia la corona che la testa (che fu tagliata con un’ascia), la nascita di due correnti politiche nel Parlamento inglese, che in seguito divennero partiti: i Tories (conservatori) e i Whigs (liberali), nonché la proclamazione del Commonwealth (cioè una repubblica, o “stato sociale”, 1649-1660) ma con il dittatore Oliver Cromwell (1599-1658), che dal 1653 portò il titolo di “Protettore” (“Protettore d’Inghilterra, Scozia e Irlanda”). A quel tempo, lo sviluppo capitalista inglese e persino quello coloniale-imperialista richiedevano la protezione di uno Stato estremamente forte e onnipotente sotto forma di monarchia, cioè di potere reale assolutistico.

Fondamentalmente, Thomas Hobbes non criticava l’attuale sistema socio-politico, ma cercava piuttosto di consolidarlo e rafforzarlo il più possibile affinché l’intero Stato con i suoi cittadini potesse funzionare nel miglior modo possibile ed essere il più efficiente possibile, a vantaggio di tutti i cittadini che prima stipulavano un contratto sulle relazioni bilaterali tra loro e poi con lo Stato. Anche da una prospettiva europea (guerre civili tra protestanti e cattolici), dato che in tutta l’Europa occidentale prevaleva un clima di paura e insicurezza personale, Hobbes desiderava la pace, la sicurezza e la protezione della proprietà privata, tanto che a tal fine divenne un convinto statalista, ovvero un sostenitore del potere statale più forte possibile sui singoli cittadini.

Nel tardo Rinascimento europeo e nel primo periodo moderno, il rafforzamento del potere monarchico attraverso lo sviluppo dell’assolutismo monarchico illuminato (dispotismo) era espressione della necessità di unità sociale e statale e di funzionalità armoniosa al fine di evitare l’anarchia politica medievale, il politeismo e l’impotenza. Quando si enfatizza l’assolutismo monarchico, generalmente non è a causa dell’illusione dei diritti divini del sovrano, ma a causa della convinzione pratica che una forte unità politica possa essere raggiunta solo nel quadro di un monarchismo assolutista illuminato. Pertanto, quando Hobbes sostiene l’assolutismo centralista del re, non lo fa perché crede nei diritti divini dei re o nel carattere divino del principio di legittimità, ma perché ritiene che la coesione della società e l’unità nazionale possano essere raggiunte principalmente in questo modo. Hobbes crede nell’egoismo naturale dell’individuo, e una conseguenza naturale di questa convinzione era l’idea che solo un’autorità centrale forte e illimitata (assolutista/dispotica) di un monarca fosse in grado di frenare e superare le forze centripete che portano alla disintegrazione della comunità sociale e alla dissoluzione dello Stato.

Leviatano (1651) – sistema politico (Stato) secondo lo Stato contrattuale

Va notato che il punto di partenza della filosofia politica di Thomas Hobbes è lo stesso di tutti gli altri rappresentanti della cosiddetta scuola del “diritto naturale e del contratto sociale”. Hobbes, come molti altri della stessa scuola, riduce l’individuo all’ordine della natura e e lo stato civile allo stato di un contratto tra cittadini e stato, ma che è formato da soggetti che, proprio in virtù del contratto con lo stato (monarca), dovrebbero diventare cittadini, liberandosi così dalla posizione e dal ruolo di sudditi medievali senza legge (cioè coloro che avevano solo obblighi nei confronti del governo ma nessun diritto in relazione allo stesso governo), almeno secondo la filosofia politica liberale.

Per Hobbes, la base della natura umana è l’egoismo e non l’altruismo, così come il bisogno di vita comunitaria, ma non come una sorta di impulso alla vita comunitaria (come negli animali selvatici che vivono in branchi), bensì un bisogno dettato da un interesse puramente egoistico. In altre parole, la società politica organizzata sotto forma di Stato nasce come risultato della paura di alcuni individui verso altri, e non come risultato di una qualche inclinazione naturale di alcuni individui verso altri. Pertanto, lo Stato è un’organizzazione socio-politica imposta come prodotto di una visione razionale della vita, cioè della sopravvivenza, della comunità umana al fine di preservare gli interessi individuali, compresa la nuda vita. In altre parole, Hobbes negava la felicità e il piacere come elementi dello stato o dell’ordine naturale. Al contrario, per lui lo stato naturale è pericoloso per l’esistenza umana perché è animalisticamente crudele e omicida. Uno stato in cui tutti combattono contro tutti. In un ordine naturale che opera secondo le leggi (animali) della natura (il diritto del più forte), la base delle relazioni interpersonali è la guerra basata sulla forza e sull’inganno.

La successiva caratteristica importante dell’ordine naturale è l’assenza di proprietà delle cose e dei beni nel senso dell’assenza di una chiara demarcazione di ciò che è di chi. In altre parole, tutto appartiene a tutti, e ciò che è di chi dipende, almeno per un certo periodo, dalla forza, dalla rapina e dalla coercizione sugli altri. Per Hobbes, tutti gli esseri umani sono uguali sia fisicamente che intellettualmente, e tutti hanno diritto a tutto, sforzandosi di preservare questo diritto naturale. Tuttavia, poiché allo stesso tempo si sforzano di ottenere il potere o almeno il dominio sugli altri, inevitabilmente si verifica una guerra di tutti contro tutti, così che la vita umana diventa insopportabile. I più forti si sforzano di diventare ancora più forti e influenti, mentre i più deboli si sforzano di trovare protezione dai più forti per sopravvivere. Da un lato, l’uomo si sforza di preservare la sua libertà naturale, ma dall’altro lato, di ottenere il potere sugli altri. Per Hobbes, questo è il dettame dell’istinto di autoconservazione (libertà + dominio). La razza umana ha lo stesso impulso per tutte le cose e, quindi, tutte le persone vogliono le stesse cose. Pertanto, tutte le persone sono una fonte costante di pericolo, insicurezza e paura per gli altri nella brutale lotta per la sopravvivenza. Pertanto, l’esistenza umana si riduce a una guerra di tutti contro tutti (l’uomo è un lupo per l’uomo).

Per Hobbes, la legge naturale fondamentale è quindi la legge dell’egoismo, che induce l’individuo umano a preservare se stesso con perdite minime e guadagni massimi a spese degli altri. La legge naturale (ius naturale) è quindi l’istinto di autoconservazione, cioè la libertà per tutti di usare la propria forza e abilità per preservare la propria esistenza. Tuttavia, il significato fondamentale dell’esistenza dell’individuo umano è la ricerca della sicurezza. Pertanto, per Hobbes, solo l’interesse, e non l’altruismo (l’inclinazione dell’uomo verso l’uomo), è il motivo naturale fondamentale nella ricerca di una via d’uscita dallo stato di natura perché sta diventando insopportabile. In altre parole, la libertà naturale sta diventando un peso sempre più gravoso sulle spalle dell’uomo che deve essere sopportato.

Hobbes si oppose agli insegnamenti di Aristotele e Grotius secondo cui l’uomo stesso ha originariamente un impulso ad associarsi, cioè un istinto sociale. Contrariamente a entrambi, Hobbes ritiene che l’uomo sia originariamente un essere completamente egoista e possieda un solo impulso, quello di autoconservazione. Questo impulso spinge l’uomo a realizzare i propri bisogni, a cogliere il più possibile da ciò che la natura stessa mette a sua disposizione e, in accordo con questo impulso, ad espandere la sfera del proprio potere individuale il più possibile e il più lontano possibile. Tuttavia, secondo la logica stessa delle cose, in questa sua intenzione l’uomo incontra la resistenza di altre persone guidate dallo stesso impulso naturale (innato), cioè dalle stesse aspirazioni, e così tra i membri della razza umana sorgono competizione, lotta e guerra, che minacciano l’esistenza fisica delle persone. Pertanto, se l’uomo vive in uno stato di natura, si trova di fronte alla realtà della guerra di tutti contro tutti, cioè una guerra causata naturalmente dal bisogno e dalla forza dell’individuo e una guerra in cui l’eventuale mancanza di forza fisica, cioè di superiorità, è sostituita dall’astuzia e dall’inganno secondo il principio che il fine giustifica i mezzi.

Lo stato di natura non permette alla ragione umana di fare nulla che possa in qualche modo mettere fisicamente in pericolo la propria vita, né di trascurare ciò che può meglio preservarla. Hobbes riconosce che la natura umana è tale da essere sempre in conflitto con varie passioni e pulsioni, tra cui predomina il desiderio di potere. Tuttavia, usando la ragione, l’uomo realizza nella pratica le leggi naturali, tra cui l’aspirazione fondamentale alla pace (personalità umana = conflitto tra passioni e ragione). Le persone, seguendo la ragione e le leggi naturali che spingono l’uomo a preservare e garantire la pace con tutti i mezzi disponibili, concludono tra loro un contratto o un accordo socialmente vantaggioso. Sulla base di tale contratto, le persone appartenenti alla stessa comunità che vivono nello stesso spazio abitativo si uniscono con l’obiettivo di formare una comunità più forte con forze congiunte sulla base di un’armonia generale, che alla fine si trasforma in una forma di statualità che garantirebbe loro pace e sicurezza. Pertanto, l’organizzazione politica ha due obiettivi fondamentali, ovvero funzioni: la difesa della comunità dai nemici esterni e la conservazione dell’ordine, della pace e della sicurezza all’interno della comunità stessa a livello interno. Così, uno Stato (dal greco polis) viene creato sulla base di un contratto, e la politica sarebbe definita come l’arte di governare uno Stato allo scopo di realizzare efficacemente le sue due funzioni fondamentali.

Tale contratto (di formazione dello Stato) impedisce le guerre all’interno della stessa comunità (socio-politica) se il contratto viene rispettato, il che è conforme alla legge naturale. Il contratto impone a ciascun individuo della comunità un gran numero di obblighi e doveri oltre ai diritti, il cui adempimento è necessario per la conservazione della pace, dell’ordine e della sicurezza. Pertanto, un individuo, membro di una comunità socio-politica, perde necessariamente una parte importante della sua libertà, che trasferisce allo Stato per il proprio benessere e la conservazione della propria esistenza. A questo proposito, va notato che la legge o l’effetto dello sviluppo della civiltà e del progresso del genere umano nel contesto storico è che con lo sviluppo della civiltà l’uomo perde sempre più le sue libertà naturali e viceversa.

Thomas Hobbes riteneva che le leggi naturali fossero, in realtà, leggi morali. Uno dei principi morali fondamentali per il funzionamento efficiente e giusto del sistema socio-politico, cioè i contratti, è che non si dovrebbe fare agli altri ciò che non si vorrebbe fosse fatto a sé stessi dagli altri. Le leggi morali sono eterne e quindi immutabili e quindi universali per tutti i membri di una comunità, quindi tutti gli individui si sforzano di armonizzare il loro comportamento verso gli altri in conformità con tali leggi morali. Tuttavia, nello stato di natura, queste leggi morali sono impotenti poiché non obbligano le persone a comportarsi in conformità con esse, ma solo fino a quando non vengono create opportunità reali affinché tutte le altre persone siano governate da esse. Infine, tali condizioni e opportunità sono create da un contratto che porta alla creazione e all’organizzazione funzionale dello Stato.

Transizione dallo stato di natura allo stato contrattuale di statualità

Secondo Hobbes, la legge appare abbandonando lo stato di natura e passando allo stato contrattuale di statualità. La statualità è l’istituzione che consente la creazione o la definizione della proprietà privata tra i membri della comunità secondo il principio del “mio”/“tuo”. Lo Stato, in quanto istituzione, è quindi obbligato a rispettare la proprietà altrui. A differenza dello stato contrattuale (civiltà), nello stato di natura (barbarie) non esisteva alcuna sicurezza reciproca né alcun garante di tale sicurezza. Creando lo Stato/la statualità come istituzione, l’uomo ha rinunciato ai diritti di cui godeva nello stato di natura. Nello stato di statualità, l’uomo aderisce ai contratti perché questo è l’unico modo per garantire la pace e, quindi, la sicurezza personale. Così, l’uomo passa ad adempiere agli obblighi morali perché contribuiscono alla conservazione della sicurezza personale.

Tuttavia, come sostiene Hobbes, il semplice contratto/accordo tra i membri di una comunità non è sufficiente per l’esistenza e il funzionamento di uno stato. Ciò richiede, oltre al contratto, una completa unità interna. In altre parole, per formare una volontà unificata del popolo, esso deve cessare di vivere come individui indipendenti e separati, cioè in qualche modo deve “affogare” nelle correnti generali della comunità statale e quindi rinunciare a una parte essenziale della propria indipendenza, individualismo e libertà naturale. Ora Hobbes passa al punto principale della sua filosofia politica, che ha un proprio specifico contesto storico, ovvero il tempo in cui Hobbes visse, sostenendo che gli individui non dovrebbero conservare né volontà né diritti per sé stessi perché tutto il potere dovrebbe passare allo Stato come istituzione generale e superiore. Hobbes essenzialmente esige che gli individui in una comunità statale siano sudditi dello Stato e non cittadini dello stesso. Pertanto, i sudditi devono obbedire ai comandamenti/alle leggi dello Stato perché solo così possono distinguere il bene dal male. Questo trasferimento di tutti i diritti e poteri individuali agli organi statali porta alla formazione della sovranità (statale) (suma potestas/sumum imperium).

In questo modo, secondo Hobbes, gli individui sono legati da un doppio contratto/accordo:

1) Un contratto in base al quale gli individui si associano tra loro; e

2) Un contratto in base al quale, come collettività sociale (individui associati), si legano a un’autorità statale alla quale cedono tutto il potere con un obbligo assoluto e incondizionato e una pratica di sottomissione ad essa (nel periodo storico specifico di Hobbes, ciò significava in particolare l’autorità reale assolutista).

La principale conseguenza diretta di questo doppio contratto è che dalla pluralità degli individui si forma un’unica entità sotto l’egida dell’autorità statale. Hobbes chiamò Leviatano questa autorità statale, ovvero l’autorità monarchica assolutista sui sudditi che ha il sostegno della chiesa. Si tratta di un mostro biblico o di un dio mortale che, nell’illustrazione di Hobbes, tiene in una mano il pastorale vescovile e nell’altra la spada, ovvero gli attributi del potere spirituale e temporale. Per Hobbes, lo Stato non è né una creazione divina né soprannaturale. L’uomo è l’opera razionale e più sublime della natura, e lo Stato-Leviatano è la creazione umana più potente. Lo Stato stesso è un corpo artificiale rispetto all’uomo, che è un corpo naturale. L’anima dello Stato è l’autorità suprema, le sue articolazioni sono gli organi giudiziari ed esecutivi, i nervi sono le ricompense e le punizioni, la memoria sono i consiglieri, la mente è la giustizia e le leggi, la salute è la pace civile, la malattia è la ribellione e la morte è la guerra civile.

L’uomo ha creato lo Stato basandosi sulla voce della ragione. Secondo Hobbes, lo Stato è un prodotto artificiale di una mossa razionale della razza umana e non un fatto naturale, come credevano molti filosofi prima di lui, come ad esempio Aristotele. Secondo Hobbes, lo Stato esercita la sovranità assoluta in modo tale che gli individui, cioè i sudditi, sono alienati nello Stato stesso, cioè rinunciano al loro diritto e alla loro condizione naturali. In altre parole, per il fatto stesso di aver concluso un accordo per sottomettersi al potere statale assoluto che hanno scelto, gli individui rinunciano ai loro diritti, che alienano trasferendoli al sovrano. Il rapporto dell’individuo con lo Stato assume la forma di un’alienazione politica dell’uomo nel sovrano, invece che dell’alienazione medievale in Dio.

Il governo e le sue forme

Hobbes riteneva che il suo sistema teorico di governo potesse essere applicato nella pratica a tutte le forme di potere statale. Nello specifico, per lui esistevano tre forme di potere statale nella loro forma pura: la monarchia (che lui preferiva), l’aristocrazia e la democrazia. Egli ammetteva anche l’istituzione di un parlamento, ma a condizione che il potere del monarca fosse forte e illimitato. La funzione di tale potere monarchico è quella di abolire lo “stato naturale” del genere umano, cioè la guerra generale di tutti contro tutti, con la sua autorità globale e il suo potere totale, e garantire così la pace e la sicurezza individuale per tutti i membri della comunità socio-politica, cioè lo Stato. La libertà come forma fondamentale di democrazia porta alla ribellione, all’anarchia e al disordine. Hobbes ritiene inoltre che il potere supremo del monarca debba essere principalmente di carattere sovrano, il che per lui significava specificamente che non doveva essere subordinato ad alcuna autorità esterna (dominio), soggetto ad alcuna legge al di fuori della legge della monarchia, sia essa naturale o ecclesiastica.

Tuttavia, in ultima analisi, il potere monarchico, almeno in teoria, non era totalmente illimitato, poiché il diritto all’esistenza era per lui l’unico diritto che consentiva una limitazione del potere supremo, cioè la sottomissione obbligatoria al sovrano. Questo perché il fondamento del potere statale in qualsiasi forma era basato sulla sopravvivenza esistenziale e sull’autoconservazione. Questa forma può essere in linea di principio monarchica, aristocratica o democratica, ma in nessun modo mista, cioè con la divisione del potere tra singoli organi. In ogni caso, il potere deve essere esclusivamente nelle mani dell’organo a cui è stato affidato. In questo caso, Hobbes nega il principio fondamentale del potere democratico moderno, che è la divisione del potere in legislativo (parlamento), esecutivo (governo) e giudiziario (organi giudiziari).

Va notato che Thomas Hobbes era un acerrimo oppositore della rivoluzione, ritenendo che l’artigianato e il commercio, e quindi, nelle sue condizioni socio-politiche, la produzione capitalistica in ascesa, avrebbero prosperato nelle condizioni di un’amministrazione statale onnipotente in cui tutti i disaccordi e le lotte politiche sarebbero stati eliminati. Egli credeva che tutto ciò che contribuisce alla vita comune delle persone sia buono e che tutto ciò che aiuta a mantenere una forte organizzazione statale debba essere sostenuto. Al di fuori dello Stato regnano la passione, la guerra, la paura e la brutalità (cioè lo stato di natura), mentre nella organizzazione statale regnano la ragione, la pace, la bellezza e la socievolezza (cioè la civiltà).

L’oggetto della cura dell’amministrazione statale (monarchia assoluta) deve essere la ricchezza dei cittadini (cioè dei sudditi) creata dai prodotti della terra e dell’acqua (mare), nonché dal lavoro e dalla parsimonia. Il dovere dello Stato è quello di garantire il benessere del popolo. Ipoteticamente, gli interessi del monarca dovrebbero essere identificati con quelli dei suoi sudditi affinché lo Stato funzioni in modo ottimale.

Osservazioni sintetiche

La dottrina di Thomas Hobbes sul potere onnipotente del monarca assolutista illuminato è il prodotto di un’epoca in cui vi era una forte necessità di organizzare uno Stato centralizzato e assolutista (centripeto) che potesse, soprattutto, resistere con successo all’universalismo papale, ma anche servire lo sviluppo del capitalismo e la limitazione degli elementi feudali (centrifughi). Da un punto di vista puramente economico, la monarchia assolutista di quel tempo e del secolo successivo corrispondeva agli interessi della borghesia capitalista e ai suoi sforzi per creare un grande mercato economico interno senza tasse regionali-feudali e imposte sulle vendite. In questo modo, d’altra parte, si sarebbe automaticamente creata l’unità nazionale come garante del funzionamento dell’economia all’interno del quadro nazionale (uno Stato unico).

Hobbes riteneva che il terribile stato di guerra naturale di tutti contro tutti potesse essere superato perché, oltre alle passioni, nell’uomo esiste anche la ragione, che insegna alle persone a cercare mezzi migliori e più sicuri per la loro vita biologica, materiale, economica e generale rispetto a quelli che portano alla guerra di tutti contro tutti. In altre parole, per garantire la pace sociale e la sicurezza individuale, ogni individuo nella società deve rinunciare al diritto incondizionato che possiede nello stato di natura. In definitiva, l’uomo lo fa perché lo impone il suo istinto di autoconservazione. Con questa rinuncia, l’uomo rinuncia e partecipa alla sua libertà naturale, cioè alla libertà data dalla legge naturale, perché l’intera comunità sociale si sottomette al contratto generale per vivere in una comunità politica-Stato. Sebbene tutti gli individui accettino tale contratto/accordo, lo fanno in linea di principio per ragioni puramente egoistiche, ma la ragione impone loro di farlo e quindi di obbedire a certe virtù fondamentali senza le quali la sopravvivenza dello Stato sarebbe impossibile (fedeltà, gratitudine, gentilezza, indulgenza, ecc.). Al di fuori del contratto statale, cioè dello Stato, ci sono affetti, guerra, paura, povertà, sporcizia, solitudine, barbarie, ecc. A differenza dello stato di natura (cioè lo stato della giungla, dell’inciviltà e della barbarie, ma anche della totale libertà in senso banale), lo stato è caratterizzato da ragione, pace, sicurezza, ricchezza, lusso, scienza, arte, ecc., ma con la condizione di una drastica restrizione e persino abolizione delle libertà naturali.

Solo con la formazione di un’organizzazione statale nasce la distinzione tra giusto e sbagliato, virtù e vizio, bene e male. Per Hobbes, la conclusione di un contratto di formazione dello Stato tra i membri di una comunità sociale può essere tacita, cioè informale. In ogni caso, la conclusione di un contratto di Stato per Hobbes è di importanza storica perché separa la preistoria dalla storia stessa. In altre parole, come per molti altri ricercatori della storia dell’umanità, il passaggio dallo stato di giungla (anti-civiltà) allo stato di statualità è anche il passaggio allo sviluppo della civiltà e alla storia in generale. Da un lato, Hobbes ha compreso abbastanza correttamente la natura dello stato di natura originario, ma non è riuscito a spiegare la nascita dello stato al di fuori del quadro del contratto sociale.

Ciò che è importante notare nella teoria del contratto di Hobbes è che egli credeva che, stipulando un contratto sociale-statale, gli individui che lo stipulavano trasferissero automaticamente tutto il loro potere e i loro diritti all’amministrazione statale, cioè al monarca assolutista. Lo Stato diventa onnipotente, dispotico e assolutista e, quindi, assomiglia al mitico mostro biblico Leviatano. Il trasferimento contrattuale del potere dall’individuo allo Stato deve essere incondizionato e, quindi, anche il potere statale stesso deve essere incondizionato. Per essere tale, il potere deve essere nelle mani di un solo uomo, ovvero il monarca assolutista che è sia l’unico amministratore che il giudice supremo. Hobbes derivò quindi dalla sua teoria del contratto la necessità della monarchia assoluta come unica forma di amministrazione statale che corrisponde pienamente alle intenzioni del contratto sociale stesso. La monarchia assoluta presenta anche altri vantaggi rispetto ad altre forme di organizzazione politica che la rendono la migliore forma di governo. Così, ad esempio, in una monarchia assoluta il potere può essere abusato da una sola persona, in un’aristocrazia da diverse famiglie e in una democrazia da molti (qui Hobbes non distingue tra la possibile gravità dell’abuso e della corruzione). Inoltre, in una monarchia assoluta, le lotte tra partiti sono più facilmente neutralizzabili e, nel caso ideale di dispotismo totale, le lotte tra partiti e politiche non esistono perché c’è una completa unità tra società, Stato e politica sotto il governo di una sola persona. Anche i segreti di Stato sono più facili da mantenere nelle monarchie assolute.

Un monarca assoluto deve anche avere un potere assoluto, cioè un diritto assoluto in tutte le relazioni politico-giuridiche e morali dello Stato (“Lo Stato sono io!”). Il monarca (nel caso di Hobbes, il re) è colui che ha sia la prima che l’ultima parola in tutte le questioni ecclesiastiche, religiose e morali. Pertanto, il monarca determina come Dio deve essere adorato; altrimenti, ciò che sarebbe adorabile per una persona sarebbe blasfemo per un’altra e viceversa. In questo modo, la società all’interno dello stesso Stato sarebbe divisa in fazioni ostili e si scatenerebbe una lotta tra queste fazioni su questioni religiose (come, ad esempio, il Sacro Romano Impero durante le guerre di religione del XVI e XVII secolo). In altre parole, Thomas Hobbes era un grande oppositore di qualsiasi tolleranza religiosa all’interno della stessa organizzazione politica. Per lui, è un atto rivoluzionario inaccettabile che qualcuno si opponga alla religione valida e unica consentita sulla base delle proprie convinzioni religiose private, perché in questo modo viene messa in discussione la sopravvivenza stessa dello Stato e il suo normale funzionamento. Pertanto, ciò che è generalmente buono e ciò che è cattivo per la società e lo Stato è deciso solo dal monarca. La coscienza morale consiste nell’obbedienza al monarca.

Thomas Hobbes, tuttavia, in seguito ammise alcune limitazioni all’assolutismo reale e ritenne che ogni potere fosse giusto se serviva il popolo e che questo potesse essere in ultima analisi anche una repubblica (Commonwealth), ma guidata da una figura di fatto assolutista (ad esempio Oliver Cromwell). La teoria dello Stato di Hobbes passò dall’interpretazione teologica medievale a quella antropologica dell’origine e dei fondamenti dello Stato. L’insegnamento di Hobbes sull’emergere dell’organizzazione statale basata sui contratti e sulla comprensione che la vita sarebbe stata migliore e più sicura nello Stato era contrario alle interpretazioni teologiche medievali e alla comprensione dello Stato, che identificavano gli obiettivi della classe feudale dei grandi proprietari terrieri con gli obiettivi divini. Molti filosofi hanno visto la teoria dello Stato di Hobbes come la dottrina dello Stato totalitario moderno. Tuttavia, la filosofia politica di Hobbes è essenzialmente individualistica e razionalistica.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex professore universitario

Ricercatore presso il Centro di studi geostrategici

Belgrado, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

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Thomas Hobbes and his political philosophy

Historical, philosophical, and social foundations of Thomas Hobbes’ political thought

With his views within the history of political philosophy, the English political theorist Thomas Hobbes (1588–1679) became a classic representative of the school of English empiricism. He built a comprehensive political science system based on the basic thesis that in the real world, there are only individual material bodies. With this view, Hobbes began a war against the prejudices of medieval realism, for which concepts were the true reality, while things were merely derived from them. It is important to note that Hobbes believed that there were three types of individual bodies: 1) Natural bodies (i.e. bodies of nature itself that do not depend on man and his activities); 2) Man (both a body of nature and the creator of an artificial, i.e. unnatural, body); and 3) The State (an artificial body as a product of man’s activities).

Hobbes’s most important political science work is Leviathan (1651) [full and original title: Leviathan or the matter, form and authority of government, London] in which he elaborates his philosophical views on the third body, i.e., the state, of course, in the context of the time in which he lived and witnessed. In short, in this work, Hobbes elaborated on the view that the natural state of life of the human race is a war of all against all (bellum omnium contra omnes). According to him, this view is followed by a natural law that leads to the overcoming of such a state and the creation of the state (i.e. political organization) through a social contract between citizens and the government, but also a contract that finally recognizes the indivisible and unlimited power of the sovereign (king) in the polity (state organization) for the protection of citizens and their rights. In other words, citizens voluntarily give up a (large) part of their natural freedom, which they transfer to the state for the purpose of protecting themselves from external and internal enemies. This would be a political form of voluntary and contractual “escape from freedom” that was masterfully deciphered by the German philosopher Erich Fromm (1900–1980) in his eponymous work Escape from Freedom (1941), using the example of German society during the era of National Socialism.

The social and historical foundations of Hobbes’s political thought were the frequent civil wars in England, in which King Charles I Stuart (1625–1649) lost both his crown and his head (which was cut off with an axe), the emergence of two political currents in the Parliament of England, in fact later parties – the Tories (conservatives) and the Whigs (liberals), as well as the proclamation of the Commonwealth (i.e., a republic, or “welfare state”, 1649–1660) but with the dictator Oliver Cromwell (1599–1658), who from 1653 bore the title of “Protector” (“Protector of England, Scotland and Ireland”). At that time, English capitalist and even colonial-imperialist development required protection from an extremely strong and all-powerful state in the form of a monarchy, i.e., royal absolutist power.

Basically, Thomas Hobbes did not criticize the current socio-political system, but rather tried to consolidate it and strengthen it as much as possible so that the entire state with its citizens could function as well as possible and be as efficient as possible, which would be for the benefit of all citizens who first enter into a contract on bilateral relations among themselves and then with the state. Even from a European perspective (civil wars between Protestants and Catholics), given that an atmosphere of fear and personal insecurity prevailed throughout Western Europe, Hobbes desired peace, security, and the protection of private property, so that to this end he became a pronounced statist, i.e., a supporter of the strongest possible state power over individual citizens.

In the late European Renaissance and early modern period, the strengthening of monarchical power through the development of enlightened monarchical absolutism (despotism) was an expression of the need for social and state unity and harmonious functionality in order to avoid medieval political anarchy, polytheism, and powerlessness. When monarchical absolutism is emphasized, it is generally not because of the illusion of the divine rights of the ruler, but because of the practical conviction that strong political unity can only be achieved within the framework of enlightened absolutist monarchism. Thus, when Hobbes supports the centralist absolutism of the king, he does not do so because he believes in the divine rights of kings or in the divine character of the principle of legitimacy, but because he believes that the cohesion of society and national unity can primarily be achieved in this way. Hobbes believes in the natural egoism of the individual, and a natural consequence of this belief was the view that only a strong and unlimited (absolutist/despotic) central authority of a monarch is capable of restraining and overcoming the centripetal forces that lead to the disintegration of the social community and the dissolution of the state.

Leviathan (1651) – political system (state) according to the contractual state

It should be noted that the starting point of Thomas Hobbes’ political philosophy is the same as that of all other representatives of the so-called “natural law and social contract” school. Hobbes, like many others from the same school, reduces the individual man to the order in nature, and the civil state to the state of a contract between citizens and the state, but which is formed by subjects who, by the very contract with the state (monarch), should become citizens, thus freeing themselves from the position and role of medieval lawless subjects (i.e. those who had only obligations to the government but no rights in relation to the same government) at least according to the liberal political philosophy.

For Hobbes, the basis of human nature is egoism and not altruism, as well as the need for communal life, but not as some kind of drive for communal life (as in wild animals that live in packs), but a need out of purely egoistic interest. In other words, organized political society in the form of a state arises as a result of the fear of some individuals of others, and not as a result of some natural inclination of some individuals towards others. Therefore, the state is an imposed socio-political organization as a product of a rational view of life, i.e., survival, of the human community in order to preserve individual interests, including bare lives. In other words, Hobbes denied happiness and pleasure as elements of the natural state or order. On the contrary, for him, the natural state is dangerous for human existence because it is animalistically cruel and murderous. A state in which everyone wars against everyone. In a natural order that operates according to the (animal) laws of nature (the right of the stronger), the basis of inter-living relations is war based on force and deception.

The next important characteristic of the natural order is the absence of ownership of things and possessions in the sense of the absence of a clear demarcation of what is whose. In other words, everything belongs to everyone, and what is whose depends, at least for a while, on force, robbery, and coercion over others. For Hobbes, all human beings are equal both physically and intellectually, and everyone has a right to everything, striving to preserve this natural right. However, since at the same time they strive to achieve power or at least dominance over others, a war of all against all inevitably occurs, so that human life becomes unbearable. The stronger strive to become even stronger and more influential, and the weaker strive to find protection from the stronger in order to survive. On the one hand, man strives to preserve his natural freedom, but on the other hand, to gain power over others. For Hobbes, this is the dictate of the instinct for self-preservation (freedom + dominance). The human race has the same drive for all things, and therefore, all people want the same things. Therefore, all people are a constant source of danger, insecurity, and fear for others in the brutal drive for survival. Therefore, human existence is reduced to a war of all against all (man is a wolf to man).

For Hobbes, the fundamental natural law is therefore the law of egoism, which directs the human individual to preserve himself with minimal losses and maximum gains at the expense of others. Natural law (ius naturale) is, therefore, the instinct for self-preservation, i.e., the freedom for everyone to use their own strength and skill to preserve their existence. However, the fundamental meaning of the existence of the human individual is the search for security. Therefore, for Hobbes, only interest, and not altruism (the inclination of man to man), is the fundamental natural motive in the search for a way out of the state of nature because it is becoming unbearable. In other words, natural freedom is becoming an increasingly heavy burden on human shoulders that must be endured.

Hobbes opposed the teachings of Aristotle and Grotius that man himself originally has an urge to associate, i.e., a social instinct. Contrary to both of them, Hobbes believes that man is originally a completely egoistic being and possesses only one urge, which is the urge for self-preservation. This urge drives man to realize his needs, to seize as much as possible from what nature itself puts at his disposal and, in accordance with this urge, to expand the sphere of his individual power as much and as far as possible. However, according to the very logic of things, in this intention of his, man encounters resistance from other people who are guided by the same natural (innate) urge, i.e., aspirations, and thus competition, struggle, and war arise between members of the human race, which threaten the physical existence of people. Therefore, if man lives in a state of nature, he is confronted with the reality of the war of all against all, i.e. a war that is naturally caused by the need and strength of the individual and a war in which the eventual lack of physical strength, i.e. superiority, is replaced by cunning and deception according to the principle that the end justifies the means.

The state of nature does not allow human reason to do anything that can in any way physically endanger his own life, as well as to neglect what can best preserve it. Hobbes acknowledges that human nature is such that he is always in conflict with various passions and drives, among which the desire for power is predominant. However, by using reason, man realizes in practice natural laws, among which the basic aspiration for peace is (human personality = conflict of passions and reason). People, following reason and natural laws that strive for man to preserve and ensure peace by all available means, conclude a socially beneficial contract or agreement among themselves. On the basis of such a contract, people within the same living community living in the same living space unite with the aim of forming a stronger community with joint forces on the basis of general harmony, which ultimately turns into a form of statehood that would ensure peace and security for them. Thus, political organization has two basic goals, i.e., functions: the defense of the community from external enemies and the preservation of order, peace, and security within the community itself on the internal level. Thus, a state (Greek polis) is created on the basis of a contract, and politics would be defined as the art of running a state for the purpose of effectively realizing its two basic functions.

Such a (state-forming) contract prevents wars within the same (socio-political) community if the contract is fulfilled, which is in accordance with natural law. The contract imposes on each individual of the community a large number of obligations and duties in addition to rights, the fulfillment of which is necessary for the preservation of peace, order, and security. Thus, an individual, a member of a socio-political community, necessarily loses an important part of his freedom, which he transfers to the state for the sake of his own security and preservation of existence. Here, it should be noted that the law or effect of the development of civilization and the progress of the human race in the historical context is that with the development of civilization, man increasingly loses his natural freedoms and vice versa.

Thomas Hobbes believed that natural laws are, in fact, moral laws. One of the basic moral principles for the efficient and just functioning of the socio-political system, i.e., contracts, is that one should not do to others what one does not want to be done to oneself by others. Moral laws are eternal and therefore unchangeable and therefore universal for all members of a community, so all individuals strive to harmonize their behavior towards others in accordance with such moral laws. However, in the state of nature, these moral laws are powerless since they do not oblige people to behave in accordance with them, but only until real opportunities are created for all other people to be governed by them. Finally, such conditions and opportunities are created by a contract that leads to the creation and functional organization of the state.

Transition from the state of nature to the contractual state of statehood

According to Hobbes, law appears by leaving the state of nature and moving to the contractual state of statehood. Statehood is the institution that enables the creation or definition of private property between members of the community according to the principle of “mine”/“yours”. The state, as an institution, therefore, is obliged to respect the property of others. Unlike the contractual state (civilization), in the state of nature (savagery), there was no reciprocal security or guarantor of that security. By creating the state/statehood as an institution, man renounced those rights that he/she enjoyed in the state of nature. In the state of statehood, man adheres to contracts because this is the only way to ensure peace and, therefore, personal security. Thus, man shifts to fulfilling moral obligations because they contribute to the preservation of personal security.

However, as Hobbes argues, the mere contract/agreement between the members of a community is not sufficient for a state to exist and function. This requires, in addition to the contract, complete internal unity. In other words, in order to form a unified will of people, they must cease to live as independent and separate individuals, i.e., in some way they must “drown” into the general currents of the state community and thus renounce an essential part of their independence, individualism, and natural freedom. Now Hobbes moves on to the main point of his political philosophy, which has its own specific historical background, namely the time in which Hobbes lived, arguing that individuals should retain neither will nor right for themselves because all power should pass to the state as a general and superior institution. Hobbes essentially demands that individuals in a state community be subjects of the state and not citizens of it. Therefore, subjects must obey the commandments/laws of the state because only then can they distinguish good from evil. This transfer of all individual rights and powers to state bodies leads to the formation of (state) sovereignty (suma potestas/sumum imperium).

In this way, according to Hobbes, individuals are connected by a double contract/agreement:

1) A contract according to which individuals associate with each other; and

2) A contract by which, as a social collective (associated individuals), they connect themselves with a state authority to which they surrender all power with an absolute and unconditional obligation and practice of submission to it (in Hobbes’s specific historical time, this specifically meant absolutist royal authority).

The main direct consequence of this double contract is that a single entity is formed from the plurality of individuals under the auspices of state authority. This state authority, or royal absolutist authority over subjects that has support in the church, Hobbes called Leviathan. It is a biblical monster or mortal God who, in Hobbes’s illustration, holds a bishop’s crosier in one hand and a sword in the other, i.e., attributes of spiritual and worldly power. For Hobbes, the state is neither a divine nor a supernatural creation. Man is the rational and most sublime work of nature, and the state-Leviathan is the most powerful human creation. The state itself is an artificial body compared to man, who is a natural body. The soul of the state is the supreme authority, its joints are the judicial and executive organs, the nerves are rewards and punishments, memory is the counselors, the mind is justice and laws, health is civil peace, illness is rebellion, and death is civil war.

Man created the state based on the voice of reason. According to Hobbes, the state is an artificial product of a rational move of the human race and not a natural fact, as many philosophers before him believed, such as, for instance, Aristotle. According to Hobbes, the state exercises absolute sovereignty in such a way that individuals, i.e., subjects, are alienated in the state itself, that is, they renounce their natural right and condition. In other words, by the very fact that individuals have concluded an agreement to submit to the absolute state power they have chosen, they renounce their rights, which they alienate by transferring them to the sovereign. The relationship of the individual to the state is in the form of political alienation of man in the sovereign, instead of the medieval alienation in God.

Government and its forms

Hobbes believed that his theoretical system of government could be applied in practice to all forms of state power. Specifically, for him, there were three forms of state power in their pure form: Monarchy (which he preferred); Aristocracy; and Democracy. He also allowed the establishment of parliament, but under the condition of a strong and unlimited monarch’s power. The function of such a monarch’s power is to abolish the “natural state” of the human race, i.e., the general war of all against all, with its comprehensive authority and total power, and thus ensure peace and individual security for all members of the socio-political community, i.e., the state. Freedom as the basic form of democracy leads to rebellion, anarchy, and disorder. Hobbes further believes that the monarch’s supreme power must be primarily of a sovereign character, which for him specifically meant that it should not be subordinated to any external authority (domination), subject to any law outside the law of the monarchy, whether natural or ecclesiastical.

However, in the final analysis, monarchical power, at least theoretically, was not totally unlimited, since the right to exist was for him the only right that allowed for a limitation of supreme power, i.e., obligatory submission to the sovereign. This is because the foundation of state power in any form was laid on the basis of existential survival and self-preservation. This form can in principle be monarchical, aristocratic, or democratic, but in no way mixed, i.e., the division of power between individual organs. In any case, power must be exclusively in the hands of the organ to which it is handed over. In this case, Hobbes denies the basic principle of modern democratic power, which is the division of power into legislative (parliament), executive (government), and judicial (judicial organs).

It should be noted that Thomas Hobbes was a bitter opponent of the revolution, believing that crafts and trade, and therefore, in his socio-political conditions, the rising capitalist production, would flourish under the conditions of an all-powerful state administration in which all disagreements and political struggles would be eliminated. He believed that everything that contributes to the common life of people is good and that everything that helps to maintain a strong state organization should be supported. Outside the state, passion, war, fear, and brutality reign (i.e., the state of nature), while reason, peace, beauty, and sociability reign in the state organization (i.e., civilization).

The object of the care of the state administration (absolute monarchy) must be the wealth of the citizens (i.e., subjects) created by the products of the land and water (sea), as well as work and thrift. The duty of the state is to ensure the well-being of the people. Hypothetically, the interests of the monarch should be identified with the interests of his subjects for the state to function optimally.

Synthetic remarks

Thomas Hobbes’s doctrine of the omnipotent power of the enlightened absolutist monarch is a product of a time when there was a strong need to organize a centralized and absolutist state (centripetal) organization that could, above all, successfully resist papal universalism but also serve the development of capitalism and the limitation of feudal (centrifugal) elements. From a purely economic point of view, the absolutist monarchy at that time and in the following century corresponded to the interests of the capitalist bourgeoisie and its efforts to create a large internal economic market without regional-feudal taxes and sales taxes. In this way, on the other hand, national unity would automatically be created as a guarantor of the functioning of the economy within the national framework (a single state).

Hobbes believed that the terrible natural state of war of all against all could be overcome because, in addition to passions, there is also reason in man, which teaches people to seek better and safer means for their biological, material, economic, and general life than those that lead to war of all against all. In other words, in order to ensure social peace and individual security, each individual in society must renounce the unconditional right that he/she possesses in the state of nature. Ultimately, man does this because his/her instinct for self-preservation dictates it. By this renunciation, man renounces and partakes of his natural freedom, i.e., the freedom given by natural law, because the entire social community submits to the general contract to live in a political community-state. Although all individuals accept such a contract/agreement, they do so in principle for purely egoistic reasons, but reason dictates that they do so and therefore obey certain basic virtues without which the survival of the state would be impossible (fidelity, gratitude, kindness, indulgence, etc.). Outside the state contract, i.e., the state, there are affects, war, fear, poverty, filth, loneliness, barbarism, etc. Unlike the state of nature (i.e., the state of the jungle, uncivilization and barbarism, but also total freedom in the banal sense), statehood is characterized by reason, peace, security, wealth, luxury, science, art, etc., but with the condition of drastic restriction and even abolition of natural freedoms.

Only with the formation of a state organization does the distinction between right and wrong, virtue and vice, good and evil arise. For Hobbes, the conclusion of a state-forming contract among members of a social community can be tacit, that is, informal. In any case, the conclusion of a state contract for Hobbes is of historical importance because it separates pre-history from history itself. In other words, as for many other researchers of the history of mankind, the transition from the state of the jungle (anti-civilization) to the state of statehood is also the transition to civilizational development and history in general. On the one hand, Hobbes quite correctly understood the nature of the original state of nature, but he could not explain the emergence of the state outside the framework of the social contract.

What is important to note about Hobbes’s theory of contract is that he believed that by concluding a social-state contract, the individuals who concluded it automatically transfer all their power and their rights to the state administration, i.e., the absolutist monarch. The state becomes omnipotent, despotic, and absolutist, and therefore, resembles the mythical biblical monster Leviathan. The contractual transfer of power from the individual to the state must be unconditional, and therefore, the state power itself must be unconditional. To be such, power must be in the hands of only one man, and that is the absolutist monarch who is both the sole administrator and the supreme judge. Thus, Hobbes derived from his contract theory the necessity of absolute monarchy as the only form of state administration that fully corresponds to the intentions of the social contract itself. Absolute monarchy also has other advantages over other forms of political organization that make it the best form of government. Thus, for example, in an absolute monarchy, power can be abused by only one person, in an aristocracy by several families, and in a democracy by many (here Hobbes does not distinguish between the possible depths of abuse and corruption). Furthermore, in an absolute monarchy, party struggles are more easily neutralized, and in the ideal case of total despotism, party and political struggles do not exist because there is a complete unity of society, state, and politics under the rule of one person. State secrets are also easier to keep in absolute monarchies.

An absolute monarch must also have absolute power, i.e., absolute right in all political-legal and moral relations in the state (“The state, that is me”!). The monarch (in Hobbes’ case, the king) is the one who has both the first and the last word in all ecclesiastical, religious, and moral matters. Thus, the monarch determines how God is to be worshipped; otherwise, what would be worshipable to one person would be blasphemous to another, and vice versa. Thus, society within the same state would be divided into hostile parties and would wage a struggle between these parties on religious issues (like, for instance, the Holy Roman Empire during the religious wars in the 16th and 17th centuries). In other words, Thomas Hobbes was a great opponent of any religious tolerance within the same political organization. For him, it is an unacceptable revolutionary act for someone to oppose the valid and only permitted religion based on their private religious convictions, because in this way, the very survival of the state as well as its normal functioning is called into question. Therefore, what is generally good and what is bad for society and the state is decided only by the monarch. Moral conscience consists in obedience to the monarch.

Thomas Hobbes, nevertheless, later allowed for limitations on royal absolutism, and believed that every power was just if it served the people, and that this could ultimately be even a republic (Commonwealth), but headed by an in fact absolutist figure (e.g., Oliver Cromwell). Hobbes’s theory of statehood turned from the medieval theological to the anthropological interpretation of the origin and foundations of the state. Hobbes’s teaching on the emergence of state organization based on contracts and the understanding that life would be better and safer in the state was contrary to medieval theological interpretations and understandings of the state, which identified the goals of the feudal class of large landowners with divine goals. Many philosophers have seen Hobbes’ theory of the state as the doctrine of the modern totalitarian state. However, Hobbes’s political philosophy is essentially individualistic and rationalistic.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex-University Professor

Research Fellow at Centre for Geostrategic Studies

Belgrade, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com

Le rivoluzioni in Russia nel 1917: febbraio e ottobre_di Vladislav Sotirovic

Le rivoluzioni in Russia nel 1917: febbraio e ottobre

La Russia nella Grande Guerra

Entrambe le rivoluzioni del 1917 in Russia, la cosiddetta rivoluzione di febbraio e la cosiddetta rivoluzione di ottobre, ebbero luogo durante la prima guerra mondiale (la Grande Guerra), quando la Russia combatté contro le potenze centrali e i loro alleati come membro a pieno titolo delle potenze dell’Intesa insieme a Francia e Gran Bretagna e ai loro alleati (cioè membri associati), tra cui il Regno di Serbia, per il quale la Russia zarista entrò in guerra in modo altruistico e sacrificale, anche se nell’estate del 1914 non era sufficientemente preparata per la guerra contro le potenze centrali, soprattutto in termini puramente militari. Tuttavia, nell’agosto 1914, a San Pietroburgo, prevalsero ragioni morali e storico-culturali piuttosto che ragioni puramente militari e politiche, dato che la Russia, ovvero lo zar Nicola II, decise di difendere a tutti i costi l’indipendenza della Serbia contro l’imperialismo pangermanico e la politica di Berlino del Drang nach Osten (spinta verso est attraverso i Balcani fino a Bassora e al Golfo Persico).

Sebbene la Russia entrò con riluttanza nella Grande Guerra nel 1914, lo fece con grande entusiasmo e fiducia nella vittoria finale. Tuttavia, subito dopo i primi successi militari, divenne chiaro che l’esercito russo non era in grado di affrontare efficacemente l’esercito del Secondo Reich tedesco, che all’epoca era la forza militare terrestre più forte d’Europa. I primi giorni di entusiasmo bellico nell’esercito russo cominciarono a svanire dopo la pesante sconfitta di Tannenberg nell’estate del 1914, durante il primo mese dell’offensiva tedesca sul fronte orientale (la cosiddetta seconda battaglia di Tannenberg o Grünwald, 23-30 agosto 1914).

In Russia, a quel tempo, solo i bolscevichi si opposero risolutamente alla guerra e furono accusati dalle autorità della Russia zarista e dai patrioti russi di essere mercenari tedeschi. Pertanto, cinque deputati bolscevichi della Duma (il parlamento russo) furono esiliati in Siberia dalle autorità zariste. Il leader dei bolscevichi, Vladimir Ilyich Lenin (1870-1924), vide nella sconfitta militare della Russia l’unico e più sicuro modo per raggiungere gli obiettivi rivoluzionari dei bolscevichi, che lottavano con fervore per la distruzione della Russia zarista con ogni mezzo necessario.

Rivoluzione di febbraio/marzo

Man mano che la guerra si protraeva, divenne chiaro che più le ostilità duravano, meno il governo zarista russo era in grado di porre fine alla guerra a proprio favore. C’era anche la possibilità che il governo zarista firmasse una pace separata con le potenze centrali, dato che il fronte occidentale non si era mosso e che si stava combattendo una guerra di trincea stazionaria senza risultati significativi per entrambe le parti. In questo contesto, la Russia riteneva che gli alleati occidentali (Francia e Gran Bretagna con tutte le loro ricche colonie d’oltremare) non fossero pienamente disposti a sfondare il fronte occidentale, lasciando così la Russia in una posizione difficile sul fronte orientale. Qualcosa di simile accadde nella seconda guerra mondiale. Vale a dire, solo quando J. V. Stalin, dopo le vittoriose battaglie dell’Armata Rossa contro l’esercito tedesco nel 1943 (Stalingrado, Kursk), minacciò di avviare negoziati con i tedeschi con la possibilità di firmare una pace separata con Berlino, a meno che gli Alleati occidentali non avessero lanciato un’invasione terrestre della Germania, aprendo così il fronte occidentale. Questo stesso fronte, concordato alla Conferenza di Teheran nell’autunno del 1943, fu finalmente aperto il 6 giugno 1944 con lo sbarco degli Alleati in Normandia, Francia (D-Day).

Oltre a quanto sopra, l’operazione di Gallipoli del 1915 da parte dei membri occidentali dell’Intesa fallì e le potenze centrali invasero la Serbia nell’autunno dello stesso anno, creando in tal modo un collegamento diretto con l’Impero ottomano attraverso la Serbia e la Bulgaria. In ogni caso, il governo zarista fu spiacevolmente sorpreso dalla rivoluzione del marzo (febbraio, secondo il vecchio calendario) 1917, così come lo furono i suoi oppositori. Lo zar Nicola II (1868-1918), costretto ad abdicare il 15 marzo, fu rovesciato dal potere da contadini affamati, da un’aristocrazia disillusa e insoddisfatta e da un esercito ribelle. Il potere a San Pietroburgo fu trasferito a un governo provvisorio il cui compito era quello di governare il paese fino all’adozione di una nuova costituzione da parte dell’Assemblea costituente e, sulla base di essa, alla formazione di un governo legale. Il primo governo provvisorio non voleva far uscire la Russia dalla guerra e quindi aveva il sostegno degli Alleati occidentali, ma allo stesso tempo, d’altra parte, cadde perché non riuscì a porre fine alla guerra, che nel 1917 si stava svolgendo in modo sfavorevole per la Russia.

A quel tempo, la pace (cioè il ritiro della Russia dalla guerra) e la ridistribuzione della terra (cioè la riforma agraria) erano strettamente collegate. Va sottolineato che a quel tempo la Russia aveva pagato un prezzo enorme in termini di vittime umane a causa della sua impreparazione alla guerra e della sua incapacità di condurre una guerra moderna lunga ed estenuante, a differenza, ad esempio, della Germania. A metà del 1917, più di 15 milioni di persone erano state mobilitate in Russia. Circa 1,7 milioni di persone erano scomparse sul campo di battaglia, 4,9 milioni erano state ferite e 2,4 milioni erano state catturate. Da un lato, durante la guerra, la Russia era superiore all’Impero ottomano, alla Bulgaria e all’Austria-Ungheria, ma si rivelò una parte inferiore sul campo di battaglia principale contro il suo principale nemico, la Germania. Se la Russia si fosse ritirata dalla guerra a qualsiasi condizione, i soldati, cioè per lo più contadini in uniforme, avrebbero chiesto che venisse loro data più terra da coltivare. Se ai contadini fosse stata data la terra come parte della riforma agraria in tempo di guerra, i soldati-contadini avrebbero disertato per prendere la loro parte. Allo stesso tempo, il governo provvisorio russo dovette combattere contro nuove forme di governo: i soviet (consigli). I soviet più influenti e famosi si trovavano a Mosca e San Pietroburgo, ma altri sorsero in tutta la Russia dopo la Rivoluzione di marzo.

Le manifestazioni contro la guerra dell’aprile 1917 portarono alla caduta del primo governo provvisorio e alle dimissioni del ministro degli Esteri Milyukov (1859-1943). Tuttavia, la Russia continuò il suo sforzo bellico e i sovietici sostennero sempre più i bolscevichi, che erano favorevoli al ritiro della Russia dalla guerra, il che indubbiamente andava a vantaggio delle potenze centrali e in particolare della Germania. V. I. Lenin, che viveva all’estero dal 1900, tornò dalla Svizzera in un treno blindato con l’aiuto dei tedeschi in aprile e espose le sue richieste di una rivoluzione socialista e le sue opinioni sul socialismo nelle Tesi di aprile.

Chiedendo la pace e un graduale trasferimento del potere dal governo provvisorio ai soviet, i manifestanti nel giugno 1917 dimostrarono che, da un lato, l’influenza dei bolscevichi stava crescendo e, dall’altro, il sostegno al governo provvisorio stava rapidamente diminuendo. Nonostante il sostegno dei socialisti moderati (menscevichi e socialisti rivoluzionari), il governo provvisorio fu risolutamente osteggiato dai bolscevichi, guidati da Lenin. Dal 16 al 18 luglio 1917 a San Pietroburgo scoppiarono manifestazioni armate di operai e soldati, durante le quali i manifestanti chiesero che tutto il potere fosse trasferito ai soviet e tentarono di prendere il potere, ma il governo provvisorio represse questa ribellione. Il governo provvisorio accusò ufficialmente V. I. Lenin di essere un agente tedesco, di essere finanziato dalla Germania e di voler organizzare una rivoluzione per prendere il potere in modo illegittimo e poi concludere una pace separata con le potenze centrali a danno della Russia, facendo così uscire la Russia dalla guerra, il che avrebbe permesso alla Germania di trasferire tutti i suoi eserciti dall’est al fronte occidentale contro i francesi e gli inglesi, dando ai tedeschi un vantaggio militare cruciale sul fronte occidentale, che avrebbe probabilmente portato alla fine della guerra a favore della Germania.

Dopo il fallimento delle manifestazioni di luglio e un colpo di Stato di piazza a San Pietroburgo, Lenin fu costretto a fuggire in Finlandia (che all’epoca era di fatto separata dalla Russia), e Alexander Kerensky (1881-1970) divenne primo ministro il 22 luglio 1917 e tentò di ristabilire l’ordine nella capitale. Kerensky stesso ebbe un ruolo importante nell’attuazione delle politiche di tutti i governi provvisori della rivoluzione del 1917. Fu ministro nei primi due governi provvisori, primo ministro da luglio in poi e, dopo la repressione di una rivolta militare in settembre, divenne comandante in capo dell’esercito. Tuttavia, l’incapacità di Kerensky di risolvere i principali problemi del Paese aprì la strada a Lenin e ai suoi bolscevichi per prendere il potere nel novembre 1917 (Rivoluzione di ottobre/novembre). Lo stesso Kerenskij commise un errore fondamentale nel settembre 1917 che, più tardi, nel novembre dello stesso anno, facilitò ulteriormente il percorso dei bolscevichi verso il potere. Infatti, il generale L. G. Kornilov (1870-1918), comandante in capo del governo di Alexander Kerenskij, marciò con le sue truppe su San Pietroburgo nell’agosto 1917. Kerenskij percepì questa azione militare come un tentativo di colpo di Stato contro di lui e il governo provvisorio e, per opporsi ai golpisti, si rivolse ai bolscevichi di Lenin per ottenere assistenza armata. Questa manovra politica indicava chiaramente che Kerenskij non era in grado di superare i problemi e le sfide cruciali del momento con il solo governo provvisorio, e che doveva persino fare affidamento sui bolscevichi, che riuscirono a sfruttare questa manovra poco dopo per i loro obiettivi politici nella Rivoluzione d’Ottobre.

Rivoluzione di ottobre/novembre

V. I. Lenin tornò segretamente dalla Finlandia (così come dalla Svizzera in aprile) il 7 novembre1917 (25 ottobre secondo il calendario giuliano) a San Pietroburgo, dove organizzò una rivolta armata in cui i soldati e gli operai ribelli sotto la guida dei bolscevichi rovesciarono il governo Kerenskij e compirono un cambiamento rivoluzionario del potere e, come si scoprì in seguito, un cambiamento dell’intero sistema socio-politico dopo la guerra civile che seguì. Il Palazzo d’Inverno dello zar fu conquistato dai bolscevichi il 7 novembre, quasi senza spargimento di sangue, mentre A. Kerensky fuggiva e gli altri membri del governo provvisorio venivano arrestati. Ora i bolscevichi dovevano combattere per consolidare il loro potere contro i reazionari filo-zaristi (“bianchi”) e gli eserciti invasori occidentali. Durante la guerra civile che seguì tra i “rossi” e i “bianchi”, i bolscevichi riuscirono a usare la propaganda per presentarsi come combattenti per la salvaguardia dell’indipendenza e dell’integrità della Russia contro gli occupanti stranieri (occidentali) (gli americani, ad esempio, avevano occupato Vladivostok nell’agosto 1918 e l’area circostante fu mantenuta fino alla primavera del 1920, ecc.

Durante la Rivoluzione di ottobre/novembre, i lavoratori speravano che la nuova Russia sarebbe stata governata dai soviet, ma il corso degli eventi prese molto rapidamente una direzione diversa. Va notato che i contadini non parteciparono alla rivoluzione, né Lenin fece alcun tentativo cruciale durante la rivoluzione a San Pietroburgo per animare i contadini e attirarli dalla parte dei bolscevichi. La rivoluzione era marxista, e i contadini non erano visti di buon occhio dal marxismo, dato che tutta l’attenzione era concentrata sulla classe operaia (urbana-industriale) dei produttori. In molti casi i contadini erano addirittura etichettati come un elemento conservatore-reazionario. Tuttavia, il problema fondamentale dei contadini era che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione russa, ben l’80%, e senza di loro la vittoria nella guerra civile era praticamente impossibile.

A causa della base rivoluzionaria-politica molto limitata, dato che nel novembre 1917 c’erano poco meno di 300.000 bolscevichi in tutta la Russia, Lenin e i suoi compagni dovettero affrontare una forte opposizione su tutti i fronti. Al fine di espandere la base rivoluzionaria subito dopo la rivoluzione a San Pietroburgo, quando i risultati della rivoluzione dovevano essere difesi sotto la minaccia di una grave guerra civile, Lenin promise alle grandi masse popolari due cose:

1) la pace (cioè l’uscita della Russia dalla guerra in condizioni estremamente sfavorevoli dal punto di vista degli interessi nazionali) e

2) la distribuzione della terra ai contadini, che all’epoca costituivano l’80% della popolazione (cioè una riforma agraria che allo stesso tempo avrebbe provocato una contro-reazione di opposizione da parte dell’aristocrazia e dei grandi proprietari terrieri ai quali sarebbe stata confiscata la terra per distribuirla ai contadini).

I bolscevichi, per ragioni puramente politiche e non ideologiche, attuò una riforma agraria, cioè una nuova politica fondiaria, che adottò dai socialisti rivoluzionari, dato che la rivoluzione doveva essere difesa a tutti i costi. Naturalmente, sulla base dei principi del programma marxista, la terra fu nazionalizzata e collettivizzata (aziende agricole statali e collettive) poco dopo il successo della rivoluzione difensiva durante la guerra civile, cosicché alla fine i contadini furono ingannati. Tuttavia, nell’anno rivoluzionario del 1917 e negli anni successivi della guerra civile, i contadini consideravano la terra acquisita come propria.

Durante la guerra civile russa (1918-1920), il grano e alcuni altri prodotti alimentari furono requisiti con la forza dalle autorità bolsceviche per sfamare i soldati dell’Armata Rossa al fronte e la popolazione urbana nelle retrovie. Tuttavia, in risposta a questa politica, i contadini cominciarono a seminare meno grano, il che portò alla carestia e alle malattie. Alla fine, lo stesso Lenin fu costretto a cedere e, subito dopo la guerra civile, nel 1921, introdusse la NEP (Nuova Politica Economica), che favoriva i contadini, poiché si basava in parte sull’economia di mercato. L’obiettivo politico di questa politica economica, almeno per un certo periodo, era quello di non mettere i contadini contro la nuova Russia sovietica, che il 30 dicembre 1922 divenne l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, l’URSS.

Durante la rivoluzione bolscevica e la guerra civile (1917-1920), c’erano sostenitori di una guerra rivoluzionaria per accelerare lo sviluppo del socialismo su basi marxiste in Europa. Ciò significava in particolare esportare la rivoluzione bolscevica oltre i confini della Russia sovietica. Lenin stesso voleva prima consolidare il potere rivoluzionario bolscevico in Russia e quindi sosteneva la firma di una pace separata con le potenze centrali che avrebbe portato la Russia fuori dalla guerra e facilitato la posizione dei bolscevichi nella lotta contro la reazione zarista “bianca”. In quel periodo rivoluzionario, alcuni bolscevichi sostenevano l’abolizione del denaro, che doveva essere distrutto, e l’introduzione immediata di un’economia socialista, mentre i contadini volevano che il nuovo governo li lasciasse in pace e li lasciasse tenere le terre appena acquisite nell’ambito della riforma agraria. Tuttavia, la resistenza più feroce al governo bolscevico fu opposta dai sostenitori del sistema zarista, noti come “Guardie Bianche”.

Il trattato di Brest-Litovsk del 1918

Con la firma di una pace separata a Brest-Litovsk il 3 marzo 1918 con le potenze centrali (Germania, Austria-Ungheria, Bulgaria e Impero ottomano), V. I. Lenin pose fine alla guerra con il principale nemico della Russia, la Germania, ma il prezzo della pace era troppo alto per la Russia. Dopo la vittoria della Rivoluzione bolscevica dell’ottobre/novembre 1917, il governo sovietico adottò immediatamente misure diplomatiche per garantire che la Russia sovietica si ritirasse dalla Grande Guerra e creare così condizioni favorevoli al consolidamento del nuovo governo bolscevico e alla ricostruzione economica del Paese. L’8 novembre 1917, il governo emanò il Decreto sulla pace, in cui si rivolgeva a tutte le parti in guerra con un appello a concludere una pace generale senza annessioni e contributi, sul principio dello status quo ante bellum. In questo modo, la mappa geopolitica dell’Europa non sarebbe cambiata, cioè sarebbe rimasta la stessa di prima della guerra. Questa proposta di pace era del tutto adeguata alla Russia, dato che a quel tempo i territori baltici della Russia a ovest erano già occupati dalla Germania e, se la guerra fosse continuata, c’era il pericolo reale che le potenze centrali occupassero presto la Bielorussia e l’Ucraina.

Le potenze dell’Intesa respinsero la proposta di Lenin e offrirono alla Russia sovietica fondi e assistenza per prolungare la guerra, considerando che il ritiro della Russia dalla guerra avrebbe dato un grande vantaggio alle potenze centrali, anche se gli Stati Uniti erano entrati in guerra nell’aprile 1917. Tuttavia, Lenin respinse risolutamente questa proposta dell’Intesa, sostenendo che l’ulteriore partecipazione della Russia alla guerra l’avrebbe trasformata in un agente dell’imperialismo anglo-francese. Tuttavia, le cose andarono più facilmente con le potenze centrali, perché la Germania era essenzialmente interessata al ritiro della Russia dalla guerra. Così, la Russia sovietica firmò un armistizio con le potenze centrali il 15 dicembre 1917 a Brest-Litovsk e il 22 dicembre iniziarono i negoziati finali per la firma di un trattato di pace separato tra le potenze centrali e la Russia sovietica. A quel punto, la Russia aveva perso un vasto territorio a ovest, dall’Estonia al Mar Nero, e le truppe tedesche avevano sfondato sul fiume Dnieper. Kiev fu occupata all’inizio di gennaio del 1918. Il 18 gennaio 1918, una delegazione delle potenze centrali chiese alla Russia di rinunciare a tutti i territori occupati a ovest come condizione per la firma della pace. Contemporaneamente a questi negoziati, il governo controrivoluzionario ucraino, protetto dalla Germania, avviò dei negoziati e il 9 febbraio 1918 concluse una pace separata con le potenze centrali, che ora chiedevano in modo intransigente e con un ultimatum che Mosca accettasse i termini dettati per la pace. Il capo della delegazione negoziale della Russia sovietica, Leon Trotsky (vero nome Lev Davidovich Bronstein, 1879-1940), contrariamente alle istruzioni di Lenin, interruppe i negoziati il 10 febbraio con una dichiarazione di rifiuto di firmare il trattato di pace, annunciò la fine della guerra e la smobilitazione dell’esercito russo.

L’esercito tedesco decise di approfittare della nuova situazione sul fronte orientale e il 18 febbraio 1918 lanciò un’offensiva lungo l’intera linea del fronte. Il governo sovietico dovette quindi richiedere la ripresa dei negoziati e la pace fu finalmente firmata il 3 marzo, ma a condizioni ancora più difficili di quelle rifiutate da Trotsky. In particolare, con il trattato di Brest-Litovsk, la Russia sovietica rinunciò alla Polonia, alla Lituania e alla Curlandia (le regioni occidentali della Livonia/Lettonia) e riconobbe l’indipendenza dell’Ucraina, dell’Estonia, della Livonia/Lettonia e della Finlandia. Queste aree dovevano essere evacuate immediatamente. La Russia dovette cedere Ardahan, Kars e Batumi all’Impero ottomano. Le truppe tedesche e austro-ungariche occuparono anche parte del territorio russo oltre il confine stabilito dal trattato di pace (insieme all’Ucraina) fino a Rostov sul Don a sud e Narva a nord. Il trattato di Brest-Litovsk ebbe vita breve, poiché la Germania capitolò l’11 novembre e il governo sovietico annullò il trattato due giorni dopo. Tuttavia, la firma di questo trattato diede inizio alla guerra civile russa, poiché i bolscevichi furono dichiarati traditori e agenti tedeschi dai reazionari zaristi.

La guerra civile russa, che durò dal 1918 alla fine del 1920, divise il paese tra i sostenitori della rivoluzione bolscevica e del loro governo e i loro oppositori, che sostenevano l’ex regime zarista. Dopo la firma del trattato di Brest-Litovsk, le forze dell’Intesa entrarono in Russia per impedire ai tedeschi di occupare i centri chiave. Dopo la capitolazione tedesca nel novembre 1918, le truppe alleate rimasero in Russia per aiutare i Bianchi a combattere il peso della guerra civile. Lenin sfruttò questa situazione a fini propagandistici per presentare il governo sovietico come combattente contro l’occupazione straniera e per l’indipendenza russa. I bolscevichi, che avevano sciolto l’esercito zarista, dato la terra ai contadini e chiesto una pace separata, dovettero creare rapidamente una nuova forza militare per opporsi ai Bianchi e agli Alleati. Fu così che nacque l’Armata Rossa bolscevica, di cui Trotsky fu il principale artefice. I soldati dell’Armata Rossa dovettero combattere contro i “Verdi” (anarchici), i polacchi e i dissidenti in tutta la Russia, da San Pietroburgo a Vladivostok. Nell’Estremo Oriente russo combatterono contro le invasioni americane e giapponesi. Durante la guerra civile russa, il 17 luglio 1918 i bolscevichi giustiziarono tutti i membri della dinastia zarista dei Romanov per motivi politici e di sicurezza. Alla fine della guerra civile, i bolscevichi con la loro Armata Rossa vinsero.

La nuova Russia sovietica post-rivoluzionaria

Dopo il trattato di Brest-Litovsk e la fine della guerra civile, la Russia sovietica bolscevica dovette accontentarsi di un territorio più piccolo rispetto al vecchio Impero russo. Le zone di confine a ovest – Finlandia, Estonia, Livonia/Lettonia, Lituania, parti della Bielorussia e dell’Ucraina, Polonia e Bessarabia/Moldavia – furono perse, almeno per un certo periodo. Tuttavia, nelle tre repubbliche indipendenti della Transcaucasia – Georgia, Armenia e Azerbaigian – la strada verso il potere era aperta per i bolscevichi dopo l’evacuazione degli inglesi dalla Transcaucasia nel dicembre 1919. Grazie all’intervento dell’Armata Rossa, la Transcaucasia tornò ai confini della Russia nell’aprile 1921.

Il primo grande problema che il nuovo governo sovietico dovette affrontare dopo la vittoria nella guerra civile fu la carestia che imperversò durante l’inverno del 1921/1922 e causò circa 5 milioni di vittime. Fu anche la ragione principale del crollo dell’economia russa nel 1921. Alla fine del 1920, le Guardie Bianche furono completamente sconfitte e gli Alleati si ritirarono dalla Russia. I sette anni di guerra dal 1914 alla fine del 1920 portarono la Russia in uno stato di vero caos. L’insoddisfazione della popolazione era causata dall’inflazione, dalla carenza di cibo e combustibile, ma anche dalle misure autocratiche sempre più severe delle nuove autorità sovietiche, introdotte per superare le minacce interne ed esterne che incombevano sul giovane Stato sovietico. Nel 1921 Lenin introdusse la Nuova Politica Economica (NEP) per incoraggiare la ripresa economica ma anche per placare i contadini, consentendo così un’economia di mercato limitata e una produzione più libera. Il periodo della NEP fu anche un periodo di significativa libertà, che si espresse anche nelle arti.

Il problema della successione di Lenin rimaneva. Lenin stesso preferiva Trotsky come suo successore, ma alla fine Joseph Stalin (1879-1953) si rivelò il politico più capace di prendere il potere dopo la morte di Lenin nel 1924, in seguito a una malattia nel 1922. Fu quindi formato un triumvirato per governare il paese: Zinoviev (1883-1936), Kamenev (1883-1936) e Stalin. Lenin non si fidava di Stalin, il cui principale rivale per il potere era Trotsky. Grazie ad abili manovre politiche e al controllo dell’apparato del partito, Stalin riuscì ad eliminare Trotsky, ad assumere la guida sia del partito che dello Stato e infine a instaurare una dittatura personale e un culto della personalità. La seconda metà degli anni ’30 fu il periodo delle purghe politiche di Stalin, quando la Rivoluzione di ottobre/novembre divorò i suoi figli, tranne Stalin.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex professore universitario

Ricercatore presso il Centro di studi geostrategici

Belgrado, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com

Le rivoluzioni in Russia nel 1917: febbraio e ottobre

Revolutions in Russia in 1917: February and October

Russia in the Great War

Both revolutions of 1917 in Russia, the so-called February and the so-called October, took place during World War I (the Great War) when Russia fought against the Central Powers and their allies as a full member of the Entente powers together with France and Great Britain and their allies (i.e. associated members), including the Kingdom of Serbia, for which Tsarist Russia selflessly and self-sacrificing entered the war, even though in the summer of 1914 it was not sufficiently prepared for war against the Central Powers, especially in terms of purely military parameters. However, in August 1914, in St. Petersburg, moral and cultural-historical reasons prevailed rather than purely military-political ones, given that Russia, i.e., its Tsar Nicholas II, decided to defend Serbia’s independence at all costs against Pan-German imperialism and Berlin’s policy of Drang nach Osten (driving through the Balkans to Basra and the Persian Gulf).

Although Russia reluctantly entered the Great War in 1914, it entered it with great enthusiasm and faith in a final victory. However, soon after the initial military successes, it became clear that the Russian army was unable to effectively confront the army of the Second German Reich, which was then the strongest military land force in Europe. The first days of war enthusiasm in the Russian army began to disappear after the heavy defeat at Tannenberg in the summer of 1914, during the first month of the German offensive on the Eastern Front (the so-called Second Battle of Tannenberg or Grünwald, August 23rd–30th, 1914).

In Russia at that time, only the Bolsheviks resolutely opposed the war, and they were accused by the authorities of Tsarist Russia and Russian patriots of being German mercenaries. Therefore, five Bolshevik deputies in the Duma (Russian parliament) were exiled to Siberia by the Tsarist authorities. The leader of the Bolsheviks, Vladimir Ilyich Lenin (1870‒1924), saw in the military defeat of Russia the only and surest way to achieve the revolutionary goals of the Bolsheviks, who were fighting fervently for the destruction of Tsarist Russia by any means necessary.

February/March Revolution

It became clear as the war dragged on that the longer the hostilities lasted, the less capable the Tsarist Russian government was of bringing the war to an end in its favor. There was also the possibility that the Tsarist government would sign a separate peace with the Central Powers, given that the Western Front had not moved and that a stationary trench war was being waged without any major results for either side. In this context, Russia believed that the Western Allies (France and Britain with all their rich overseas colonies) were not fully willing to break through the Western Front, thus leaving Russia in a difficult position on the Eastern Front. Something similar happened in World War II. Namely, only when J. V. Stalin, after the successful battles of the Red Army against the German army in 1943 (Stalingrad, Kursk), threatened to begin negotiations with the Germans with the possibility of signing a separate peace with Berlin unless the Western Allies launched a ground invasion of Germany, thus opening the Western Front. This same front, agreed upon at the Tehran Conference in the fall of 1943, was finally opened on June 6th, 1944, with the Allied landings in Normandy, France (D-Day).

In addition to the above, the Gallipoli Operation of 1915 by the Western members of the Entente failed, and the Central Powers overran Serbia in the autumn of that year making at such a way a direct connection with the Ottoman Empire via Serbia and Bulgaria. In any case, the Tsarist government was unpleasantly surprised by the revolution in March (February, according to the old calendar) 1917, as were its opponents. Tsar Nicholas II (1868–1918), who was forced to abdicate on March 15th, was overthrown from power by hungry peasants, a disillusioned and dissatisfied aristocracy, and a rebel army. Power in St. Petersburg was transferred to a provisional government whose task was to govern the country until a new constitution could be adopted by the Constituent Assembly, and based on it, a legal government would be formed. The first provisional government did not want to take Russia out of the war and therefore had the support of the Western Allies, but at the same time, on the other hand, it fell because it failed to end the war, which in 1917 was unfolding unfavorably for Russia.

At that time, peace (i.e., Russia’s withdrawal from the war) and land redistribution (i.e., agrarian reform) were in the closest connection. It must be emphasized that by that time, Russia had paid a huge price in human casualties due to its unpreparedness for war and its inability to wage a long and exhausting modern war, unlike, for example, Germany. By mid-1917, more than 15 million people had been mobilized in Russia. About 1.7 million people had disappeared on the battlefield, 4.9 million were wounded, and 2.4 million were captured. On the one hand, during the war, Russia was superior to the Ottoman Empire, Bulgaria, and Austria-Hungary, but it proved to be an inferior side on the main battlefield against its main enemy, Germany. If Russia had withdrawn from the war under any conditions, the soldiers, i.e., mostly peasants in uniform, would demand that they be given more land to cultivate. If peasants were given land as part of the wartime agrarian reform, the soldier-peasants would desert to take their share. At the same time, the Russian provisional government had to fight against new forms of governing – ​​the soviets (councils). The most influential and famous soviets were located in Moscow and St. Petersburg, but others sprang up throughout Russia after the March Revolution.

The April 1917 demonstrations against the war led to the fall of the first provisional government and the resignation of Foreign Minister Milyukov (1859–1943). However, Russia continued its war effort, and the soviets increasingly supported the Bolsheviks, who were in favor of Russia’s withdrawal from the war, which undoubtedly suited the Central Powers and especially Germany. V. I. Lenin, who had lived abroad since 1900, returned from Switzerland in an armored train with the help of the Germans in April and set out his demands for a socialist revolution and his views on socialism in the April Theses.

Demanding peace and a gradual transfer of power from the provisional government to the soviets, the demonstrators in June 1917 showed that, on the one hand, the influence of the Bolsheviks was growing, and on the other hand, support for the provisional government was rapidly declining. Despite the support of moderate socialists (Mensheviks and social revolutionaries), the provisional government was resolutely opposed by the Bolsheviks, led by Lenin. Armed demonstrations of workers and soldiers broke out in St. Petersburg on July 16th‒18th, 1917, when the demonstrators demanded all power from the soviets and tried to seize power, but the provisional government suppressed this rebellion. The provisional government officially accused V. I. Lenin of being a German agent, of being financed by Germany, and of aiming to stage a revolution in order to seize power illegitimately and then conclude a separate peace with the Central Powers to the detriment of Russia, thus taking Russia out of the war, which would allow Germany to transfer all of its armies in the east to the Western Front against the French and British, which would give the Germans a crucial military advantage on the Western Front, which would likely lead to the end of the war in Germany’s favor.

After the failed July demonstrations and a street coup in St. Petersburg, Lenin was forced to flee to Finland (which was then effectively separated from Russia), and Alexander Kerensky (1881–1970) became Prime Minister on July 22nd, 1917, and attempted to restore order in the capital. Kerensky himself played an important role in implementing the policies of all the provisional governments of the revolutionary 1917. He was a minister in the first two provisional governments, Prime Minister from July onwards, and after the suppression of a military uprising in September, he became Commander-in-Chief of the Army. However, Kerensky’s failure to resolve the country’s major problems paved the way for Lenin and his Bolsheviks to seize power in November 1917 (October/November Revolution). Kerensky himself made a cardinal mistake in September 1917 that, later in November, further facilitated the Bolsheviks’ path to power. Namely, General L. G. Kornilov (1870–1918), commander-in-chief in the government of Alexander Kerensky, marched with his troops on St. Petersburg in August 1917. Kerensky actually perceived this military action as an attempted coup against him and the Provisional Government, and in order to oppose the putschists, he turned to Lenin’s Bolsheviks for armed assistance. This political maneuver clearly indicated that Kerensky was unable to overcome the crucial problems and challenges at the given moment with the Provisional Government alone, and he even had to rely on the Bolsheviks, who were able to exploit this maneuver somewhat later for their political goals in the October Revolution.

October/November Revolution

V. I. Lenin secretly returned from Finland (as well as from Switzerland in April) on November 7th, 1917 (October 25th according to the Julian calendar) to St. Petersburg, where he organized an armed uprising in which the rebel soldiers and workers under the leadership of the Bolsheviks overthrew the Kerensky government and carried out a revolutionary change of power and, as it later turned out, a change of the entire socio-political system after the civil war that followed. The Tsar’s Winter Palace was captured by the Bolsheviks on November 7th, almost bloodlessly, while A. Kerensky fled, and the other members of the Provisional Government were arrested. Now the Bolsheviks were left to fight to consolidate their power against the pro-tsarist reactionaries (“Whites”) and the Western invading armies. During the ensuing civil war between the “Reds” and “Whites”, the Bolsheviks managed to use propaganda to present themselves as fighters for preserving the independence and integrity of Russia against the foreign (Western) occupiers (the Americans, for example, had occupied Vladivostok in August 1918 and the area around was kept till spring 1920, etc.).

During the October/November Revolution, the workers hoped that the new Russia would be ruled by the soviets, but the course of events very quickly took a different course. It should be noted that the peasantry did not participate in the revolution, nor did Lenin make any crucial attempts during the revolution in St. Petersburg to animate the peasants and attract them to the side of the Bolsheviks. The revolution was Marxist, and the peasantry was not viewed very favorably in Marxism, given that all attention was focused on the working (urban-industrial) class of producers. The peasantry was even labeled in many cases as a conservative-reactionary element. However, the basic problem with the peasantry was that the peasants constituted the overwhelming majority of the population of Russia, as much as 80%, and without them, victory in the civil war was practically impossible.

Due to the very limited revolutionary-political base, given that in November 1917 there were slightly less than 300,000 Bolsheviks in all of Russia, Lenin and his comrades faced great opposition on all fronts. In order to expand the revolutionary base immediately after the revolution in St. Petersburg, when the achievements of the revolution had to be defended under the threat of a severe civil war, Lenin promised the broad masses of the people two things:

1) Peace (i.e., Russia’s exit from the war under extremely unfavorable conditions from the point of view of national interests), and

2) The distribution of land to the peasants, who at that time constituted 80% of the population (i.e., an agrarian reform that at the same time would provoke an oppositional counter-reaction of the aristocracy and large landowners from whom the land was to be confiscated for distribution to the peasants).

The Bolsheviks, for purely political reasons, but not ideological ones, implemented an agrarian reform, i.e., a new land policy, which they adopted from the social revolutionaries, given that the revolution had to be defended at all costs. Of course, based on Marxist program principles, the land was nationalized and collectivized (state farms and collective farms) shortly after the successful defense revolution during the civil war, so that in the end, the peasants were cheated. However, in the revolutionary year of 1917 and in the following years of the civil war, the peasants considered the acquired land their own.

During the Russian Civil War (1918‒1920), grain and some other food products were forcibly requisitioned by the Bolshevik authorities in order to feed the Red Army soldiers at the military front and the urban population in the background. However, in response to this policy, the peasants began to sow less grain, which led to famine and disease. Finally, Lenin himself was forced to give in, and immediately after the Civil War, in 1921, he introduced the NEP – the New Economic Policy, which was in favor of the peasants, since it was based partly on a market economy. The political goal of this economic policy, at least for a while, was not to turn the peasants against the new Soviet Russia, which on December 30th, 1922, became the Union of Soviet Socialist Republics – the USSR.

During the Bolshevik Revolution and the Civil War (1917–1920), there were supporters of a revolutionary war in order to accelerate the development of socialism on Marxist foundations in Europe. This specifically meant exporting the Bolshevik revolution beyond the borders of Soviet Russia. Lenin himself wanted to first consolidate Bolshevik revolutionary power in Russia and therefore advocated signing a separate peace with the Central Powers that would take Russia out of the war and make the Bolsheviks’ position easier in the fight against the “white” tsarist reaction. At that revolutionary time, some Bolsheviks advocated the abolition of money, which should be destroyed, as well as the overnight introduction of a socialist economy, while the peasants wanted the new government to leave them alone and their newly acquired land within the framework of agrarian reform. However, the fiercest resistance to the Bolshevik government was provided by supporters of the tsarist system known as the “White Guards”.

The Treaty of Brest-Litovsk in 1918

By signing a separate peace in Brest-Litovsk on March 3rd, 1918, with the Central Powers (Germany, Austria-Hungary, Bulgaria, and the Ottoman Empire), V. I. Lenin ended the war with Russia’s main enemy, Germany, but the price of peace was too high for Russia. After the victory of the October/November Bolshevik Revolution in 1917, the Soviet government immediately took diplomatic measures to ensure that Soviet Russia would withdraw from the Great War and thus create favorable conditions for the consolidation of the new Bolshevik government and the economic reconstruction of the country. On November 8th, 1917, the government issued the Decree on Peace, in which it addressed all warring parties with an appeal to conclude a general peace without annexations and contributions on the principle of status quo ante bellum. Thus, the geopolitical map of Europe would not change, i.e., it would remain the same as before the war. This peace proposal was entirely suitable for Russia, given that at that time the Baltic territories of Russia in the west were already occupied by Germany, and if the war were to continue, there was a real danger that the Central Powers would soon occupy Belarus and Ukraine.

The Entente powers rejected Lenin’s proposal and offered Soviet Russia funds and assistance to prolong the war, considering that Russia’s withdrawal from the war would give a great advantage to the Central Powers, even though the United States had entered the war in April 1917. However, Lenin resolutely rejected this Entente proposal, arguing that Russia’s further participation in the war would turn it into an agent of Anglo-French imperialism. However, things went more easily with the Central Powers, because Germany was essentially interested in Russia’s withdrawal from the war. Thus, Soviet Russia signed an armistice with the Central Powers on December 15th, 1917, in Brest-Litovsk, and on December 22nd, final negotiations began for the signing of a separate peace treaty between the Central Powers and Soviet Russia. By then, Russia had lost a huge territory in the west from Estonia to the Black Sea, and German troops had broken out on the Dnieper River. Kiev was occupied in early January 1918. On January 18th, 1918, a delegation of the Central Powers demanded that Russia renounce all occupied territories in the west as a condition for signing a peace. Simultaneously with these negotiations, the Ukrainian counter-revolutionary government, which was patronized by Germany, began negotiations and on February 9th, 1918, concluded a separate peace with the Central Powers, which now uncompromisingly and ultimatum-wise demanded that Moscow accept the dictated terms for peace. The head of the negotiating team of Soviet Russia, Leon Trotsky (real name Lev Davidovich Bronstein, 1879–1940), contrary to Lenin’s instructions, broke off the negotiations on February 10th, with a declaration of refusal to sign the peace treaty, announced the end of the war, and the demobilization of the Russian army.

The German army decided to take advantage of the new situation on the Eastern Front, and on February 18th, 1918, the Germans launched an offensive along the entire front line. The Soviet government, therefore, had to request the renewal of negotiations, and peace was finally signed on March 3rd, but now under even more difficult conditions than those rejected by Trotsky. Specifically, with the Treaty of Brest-Litovsk, Soviet Russia renounced Poland, Lithuania, and Courland (the western regions of Livland/Latvia), and recognized the independence of Ukraine, Estonia, Livland/Latvia, and Finland. These areas had to be evacuated immediately. Russia had to hand over Ardahan, Kars, and Batumi to the Ottoman Empire. German and Austro-Hungarian troops also occupied part of Russian territory beyond the border stipulated by the peace treaty (along with Ukraine) as far as Rostov-on-Don in the south and Narva in the north. The Treaty of Brest-Litovsk was short-lived, as Germany capitulated on November 11th, and the Soviet government annulled the treaty two days later. However, the signing of this treaty initiated the Russian Civil War, as the Bolsheviks were declared traitors and German agents by the tsarist reactionaries.

The Russian Civil War, which lasted from 1918 to the end of 1920, divided the country into supporters of the Bolshevik revolution and their government and their opponents, who supported the former tsarist regime. After the signing of the Treaty of Brest-Litovsk, the Entente forces entered Russia to prevent the Germans from occupying key centers. After the German capitulation in November 1918, Allied troops remained in Russia to help the Whites fight the burden of the civil war. Lenin used this for propaganda purposes to present the Soviet government as fighting against foreign occupation and for Russian independence. The Bolsheviks, who had disbanded the tsarist army, given land to the peasants, and demanded a separate peace, had to quickly create their new military force to oppose the Whites and the Allies. Thus was created the Bolshevik Red Army, for which Trotsky was the most deserving. The Red Army soldiers had to fight with the “Greens” (anarchists), Poles, and dissidents throughout Russia from St. Petersburg to Vladivostok. In the Russian Far East, they fought against the American and Japanese invasions. During the Russian Civil War, the Bolsheviks on July 17th, 1918 executed all members of the Romanov tsarist dynasty for political and security reasons. At the end of the civil war, the Bolsheviks with their Red Army won.

The New Post-Revolutionary Soviet Russia

After the Treaty of Brest-Litovsk and the end of the Civil War, Bolshevik Soviet Russia had to be satisfied with a smaller territory than the old Russian Empire. The borderlands in the west – Finland, Estonia, Livland/Latvia, Lithuania, parts of Belarus and Ukraine, Poland, and Bessarabia/Moldova – were lost, at least for a time. However, in the three independent Transcaucasian republics – Georgia, Armenia, and Azerbaijan – the path to power was open for the Bolsheviks after the evacuation of the British from Transcaucasia in December 1919. Thanks to the intervention of the Red Army, Transcaucasia returned to the borders of Russia in April 1921.

The first major problem that the new Soviet government had to face after the victory in the civil war was the famine that raged during the winter of 1921/1922 and claimed about 5 million lives. It was also the main reason for the collapse of the Russian economy in 1921. By the end of 1920, the White Guards were completely defeated, and the Allies withdrew from Russia. The seven years of war from 1914 to the end of 1920 brought Russia into a state of true chaos. The people’s dissatisfaction was caused by inflation, food and fuel shortages, but also by the increasingly harsh autocratic measures of the new Soviet authorities, which were introduced to overcome the internal and external threats that threatened the young Soviet state. In 1921, Lenin introduced the New Economic Policy (NEP) to encourage economic recovery but also to appease the peasants, thus allowing a limited market economy and freer production. The NEP period was also a period of significant freedom, which was also expressed in the arts.

The problem of the succession of Lenin remained. Lenin himself favored Trotsky as his successor, but in the end, Joseph Stalin (1879–1953) proved to be the most capable politician to seize power after Lenin’s death in 1924, following an illness in 1922. A triumvirate was then formed to rule the country: Zinoviev (1883–1936), Kamenev (1883–1936), and Stalin. Lenin did not trust Stalin, whose main rival for power was Trotsky. Through skillful political maneuvering and control of the party machinery, Stalin managed to eliminate Trotsky, take over leadership of both the party and the state, and finally establish a personal dictatorship and a cult of personality. The period of the second half of the 1930s was the time of Stalin’s political purges when the October/November Revolution ate its children except Stalin.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex-University Professor

Research Fellow at Centre for Geostrategic Studies

Belgrade, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com

I termini “teoria” e “dottrina” nelle scienze politiche_di Vladislav Sotirovic

I termini “teoria” e “dottrina” nelle scienze politiche

Le scienze politiche (politologia/politologia) sono una disciplina scientifica generale che studia la politica. Il termine “politica” era spesso definito come l’arte di governare lo Stato (dal greco antico polis – città-Stato), ma nel corso della storia è stato inteso e trattato in modo diverso come materia di studio. Inizialmente, la scienza politica come materia di studio era solo una parte della storia generale del pensiero filosofico, ma in seguito è diventata gradualmente indipendente sotto forma di storia delle dottrine politiche, storia della filosofia politica o filosofia sociale, pensiero filosofico statale e/o giuridico, e persino come storia delle teorie giuridiche, dato che l’arte di gestire uno Stato e i suoi cittadini si basa in gran parte sull’applicazione, l’interpretazione, la realizzazione e il rispetto delle norme giuridiche ufficiali (nonché sull’applicazione della legislazione giuridica non scritta ma tradizionale e delle sue norme socio-morali sulla base delle quali un determinato ambiente sociale ha vissuto e risolto le sue relazioni interpersonali per secoli).

Il termine “filosofia” nel suo significato è sufficientemente elaborato e conosciuto e si riduce essenzialmente all’“amore per la saggezza”, cioè alla conoscenza o alla conoscenza generale (scienza) dell’uomo, cioè della sua esistenza in questo mondo o nell’altro, nonché del mondo che lo circonda, compresa una vasta gamma di fenomeni sociali e naturali che influenzano l’esistenza dell’uomo. Tuttavia, il significato dei termini “teoria” e “dottrina” rimane in molti casi specifici di ricerca, almeno per quanto riguarda le scienze politiche, indefinito o, nella maggior parte dei casi, definito in modo poco chiaro o non accettato a livello generale (globale).

Il termine “teoria” ha origini greche antiche e, in senso generale, rappresenta una conoscenza generalmente accettata come tale. Tuttavia, tale conoscenza appare anche nella pratica in almeno tre forme:

1. Conoscenza teorica che non è (o non deve essere) direttamente correlata all’applicazione nella pratica;

2. Conoscenza scientifica, ovvero conoscenza ottenuta attraverso sistemi ufficiali di verifica e prova scientifica, e che come tale diventa formalmente provata e “generalmente riconosciuta” come conoscenza accurata (provata) (ovvero conoscenza del funzionamento di un determinato fenomeno);

3. Significato ipotetico (cioè un’affermazione che non è stata ancora provata, cioè “generalmente riconosciuta”, ma che è ampiamente applicata nella pratica così com’è).

A differenza del termine ‘teoria’, il termine “dottrina” in scienze politiche è generalmente prevalente tra i teorici e gli scrittori occidentali, ma soprattutto francesi, che si occupano di storia delle scienze economiche. Tuttavia, lo stesso termine “dottrina” nelle scienze politiche può assumere un significato completamente diverso in contesti diversi, ad esempio in riferimento alle azioni di politica estera delineate da uno Stato (ad esempio, la “Dottrina Bush” del 2001, che proclamava la politica “America First”). In ogni caso, i teorici francesi ritengono che nella storia della filosofia (politica ed economica) si debbano distinguere due tipi di pensiero:

1. Conoscenze scientifiche e leggi accuratamente stabilite e ufficialmente adottate (nel senso stretto del termine – provate) relative a un determinato fenomeno che è oggetto di un determinato studio – “teoria”;

2. Opinioni, comprensioni, interpretazioni o punti di vista di determinate persone che non sono ufficialmente stabiliti come “teorie scientifiche”, ma sono utilizzati come una sorta di direttiva per azioni politiche specifiche – “dottrina” o ‘ipotesi’, che sono più o meno istruzioni pratiche per un’azione specifica, ma non conoscenze scientificamente riconosciute ufficialmente come verità provata o sviluppo provato di un fenomeno (“teoria”).

Tuttavia, il termine “dottrina” è di origine latina e deriva dalle parole doceo, docere, doctus (insegnare, essere insegnato, conoscere). Tuttavia, questo termine latino ha originariamente diversi significati, come ad esempio:

1. Conoscenza teorica che non ha ancora ricevuto conferma scientifica ufficiale come verificata, cioè conoscenza provata nella vita pratica (questo punto è praticamente identico al punto 3 della suddetta presentazione del significato del termine “teoria”);

2. Conoscenza che è essenzialmente considerata vera, ma che in senso pratico è legata all’azione (politica o economica), cioè conoscenza che non è puramente teorica. In questo caso, è importante notare che la conoscenza teorica è considerata un fatto provato, mentre la dottrina implica una sorta di istruzioni per l’azione pratica o, in politica, un ordine di eseguire un determinato compito pratico al fine di risolvere un problema pratico.

3. Conoscenza scientifica, che coincide praticamente con i punti 1 e 2 della suddetta presentazione del significato del termine “teoria”.

Tuttavia, nella pratica della ricerca scientifica nelle scienze politiche, giuridiche ed economiche, “teoria” significa conoscenza comprovata (scientifica), mentre il termine “dottrina” si riferisce a conoscenze ancora non comprovate da un punto di vista puramente scientifico – ipotesi che, in sostanza, non devono essere necessariamente errate, ma che nella pratica non sono ancora state formalmente dimostrate come scientificamente corrette, cioè vere. Nelle scienze politiche, il termine “teoria” è usato nel senso più ampio del termine per indicare la conoscenza in senso generale: quindi, come conoscenza che è stata scientificamente verificata, ma anche come conoscenza che è ancora sotto forma di opinione ipotetica non provata o conoscenza che è fondamentalmente diretta all’attività pratica di un certo gruppo di persone.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex professore universitario

Ricercatore presso il Centro di studi geostrategici

Belgrado, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com

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The Terms “Theory” and “Doctrine” in Political Science

Political science (politology/politologia) is a general scientific discipline of politics. The term “politics” was most often defined as the art of managing the state (ancient Greek polis – city-state), but it was understood and treated differently as a subject over the course of history. Initially, political science as a subject was only part of the general history of philosophical thought, but later it gradually became independent in the form of the history of political doctrines, the history of political philosophy or social philosophy, state and/or legal philosophical thought, and even as the history of legal theories, given that the art of managing a state and its citizens is largely based on the application, interpretation, realization, and respect for official legal norms (as well as on the application of unwritten but traditional legal legislation and its socio-moral norms based on which a certain social environment has lived and resolved its interpersonal relations for centuries).

The term “philosophy” in its meaning is sufficiently elaborated and known and essentially boils down to “love of wisdom”, i.e., knowledge or general knowledge (science) about man, i.e., his existence either in this world or the next, as well as the world around him, including a wide range of social and natural phenomena that influence man’s existence. However, the meaning of the terms “theory” and “doctrine” remains in many specific research cases, at least as far as political science is concerned, undefined or, in most cases, unclearly defined or not accepted at some general (global) level.

The term “theory” is of ancient Greek origin and, in a general sense, represents knowledge that is generally accepted as such. However, such knowledge also appears in practice in at least three forms:

1. Theoretical knowledge that is not (or does not need to be) directly related to application in practice;

2. Scientific knowledge, i.e., knowledge obtained through official systems of scientific verification and proof, and which as such becomes formally proven and “generally recognized” as accurate (proven) knowledge (i.e., knowledge of the functioning of a certain phenomenon);

3. Hypothetical meaning (i.e., a statement that has not yet been proven, i.e., “generally recognized”, but is widely applied in practice as it is).

In contrast to the term “theory”, the term “doctrine” in political science is generally prevalent among Western, but especially French, theorists and writers who deal with the history of economic science. However, the same term “doctrine” in political science can mean a completely different context in terms of, for example, the outlined foreign policy actions of a state (e.g., the “Bush Doctrine” of 2001, which proclaimed the “America First” policy). In any case, French theorists believe that in the history of (political and economic) philosophy, two types of thought should be distinguished:

  1. Accurately established and officially adopted (in the strict sense of the word – proven) scientific knowledge and laws relating to a certain phenomenon that is the object of a certain study – “theory”;

2.  Views, understandings, interpretations, or opinions of certain persons that are not officially established as “scientific theories” but are used as a kind of directive for specific political actions – “doctrine” or “hypotheses”, which are more or less practical instructions for a specific action but not officially scientifically recognized knowledge of proven truth or proven development of phenomenon (“theory”).

Nevertheless, the term “doctrine” is of Latin origin and comes from the words doceo, docere, doctus (to teach, to be taught, to know). However, this Latin term originally has several meanings, such as:

1. Theoretical knowledge that has not yet received official scientific confirmation as verified, i.e., proven knowledge in practical life (this item is practically identical to point 3 from the above-mentioned presentation of the meaning of the term “theory”);

2. Knowledge that is essentially considered true, but is in a practical sense related to action (political or economic), i.e., knowledge that is not purely theoretical. In this case, it is important to note that theoretical knowledge is considered proven facts, while doctrine implies some kind of instructions for practical action or, in politics, an order to perform a certain practical task in order to solve a practical problem.

3. Scientific knowledge, which practically coincides with points 1 and 2 from the above-mentioned presentation of the meaning of the term “theory”.

However, in the practice of scientific research in political, legal, and economic sciences, “theory” means proven (scientific) knowledge, while the term “doctrine” refers to still unproven knowledge from a purely scientific point of view – assumptions, which in essence do not have to be incorrect but in practice have not yet been formally proven as scientifically correct, i.e. true. In political science, the term “theory” is used in the broadest sense of the word for knowledge in a general sense: therefore, as knowledge that has been scientifically verified, but also as knowledge that is still in the form of use as an unproven hypothetical opinion or knowledge that is basically directed at the practical activity of a certain group of people.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex-University Professor

Research Fellow at Centre for Geostrategic Studies

Belgrade, Serbia

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Il trattato di Santo Stefano del 1878 e gli albanesi_di Vladislav Sotirovic

Il trattato di Santo Stefano del 1878 e gli albanesi

La politica europea dopo il 1871

Dopo la guerra franco-prussiana del 1870-1871, nei decenni successivi la politica europea fu caratterizzata da un periodo di intenso riarmo, che avrebbe portato allo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914. Nel frattempo, sia in Europa che nelle sue colonie d’oltremare scoppiarono diverse crisi internazionali che avrebbero potuto portare l’Europa alla Grande Guerra anche prima dell’estate del 1914.

Innanzitutto, il pericolo di una nuova guerra franco-tedesca incombeva sull’Europa perché la Francia perseguiva una politica revanscista nei confronti della Germania unita, e la questione dei territori dell’Alsazia e della Lorena era cruciale in quel contesto. Con queste due province, che nel 1871 appartenevano alla Germania, la Francia aveva perso le sue due aree economiche più sviluppate. La popolazione di entrambe queste zone chiedeva di essere restituita alla Francia, anche se la loro lingua madre era il tedesco, ma manifestava una coscienza nazionale francese.

Il secondo e ancora più pericoloso punto di crisi in Europa era rappresentato dai Balcani, ovvero le province ottomane abitate da popolazioni cristiane che, in molti casi, vivevano mescolate ai musulmani locali. Mentre i cristiani lottavano per la liberazione nazionale e la separazione dall’Impero ottomano, allo stesso tempo i musulmani locali, indipendentemente dall’appartenenza etnolinguistica, lottavano per preservare l’Impero ottomano come loro Stato nazionale. Ciò era particolarmente evidente nel caso dei musulmani in Bosnia-Erzegovina e dei musulmani albanesi in Albania e nei paesi circostanti.

Il declino del potere e dell’autorità ottomani e la lotta dei popoli cristiani balcanici per la liberazione dal secolare dominio turco-musulmano sollevarono la questione del futuro destino dei possedimenti ottomani in Europa, cioè nei Balcani. Tutte le principali potenze europee lottarono per ottenere influenza nei Balcani (compreso il Regno Unito, tradizionalmente preoccupato dei propri possedimenti coloniali d’oltremare), ma con obiettivi diversi, tra cui solo la Russia sosteneva l’idea di formare Stati nazionali dei popoli cristiani nei Balcani al posto dell’Impero Ottomano, che in tal caso avrebbe perso tutti i suoi possedimenti europei.

La prima grande crisi nei Balcani scoppiò nel 1875-1878 con lo scoppio di una grande rivolta cristiana in Erzegovina, che si estese rapidamente alla Bosnia e alla Bulgaria. Dopo l’intervento militare fallito della Serbia nel 1876-1877 contro l’Impero ottomano, che sosteneva gli insorti serbi in Bosnia-Erzegovina, nel 1877 la Russia entrò in guerra a fianco degli insorti balcanici e della Serbia e nel 1878 spezzò la resistenza turca sul Danubio e nella Bulgaria settentrionale, aprendo così la strada verso Istanbul. [1]

La “Bulgaria di Santo Stefano”

Dopo la vittoria militare russa sull’Impero ottomano nella guerra russo-ottomana del 1877-1878, il 3 marzo 1878 fu firmato il trattato di Santo Stefano tra questi due Stati. Secondo il trattato, una Grande Bulgaria di Santo Stefano, sotto la diretta protezione della Russia, doveva essere istituita all’interno dei confini dell’Impero Ottomano (di fatto, come uno Stato nello Stato). Tuttavia, l’idea della “Bulgaria di Santo Stefano” influenzò direttamente tre nazioni balcaniche: serbi, greci e albanesi, poiché alcuni dei loro territori etnici e storici dovevano diventare parte di una Grande Bulgaria sotto la protezione russa.

La “Bulgaria di Santo Stefano” era stata progettata dalle autorità russe per coprire il territorio dal Danubio al Mar Egeo e dall’attuale Albania al Mar Nero, compresa tutta la Macedonia geografica-storica, l’attuale Serbia orientale e l’attuale Albania sud-orientale. Di conseguenza, la nazione albanese che viveva nell’attuale Albania sud-orientale e nella Macedonia occidentale sarebbe entrata a far parte di una Grande Bulgaria governata dalle autorità russe.[2]

È caratteristico sia del Trattato di Santo Stefano del 1878 che del Congresso di Berlino del 1878 il fatto che essi concepivano che parti dei territori balcanici popolati da albanesi fossero cedute agli altri Stati balcanici secondo il principio dei diritti etnici e storici. Tuttavia, ciò non significa che gli albanesi etnici fossero la maggioranza in questi territori, e questo era proprio il motivo per cui sia la Russia che l’Europa li consegnarono ai vicini albanesi. Il restante spazio etnico albanese (l’Albania, in cui gli albanesi etnici costituivano la netta maggioranza della popolazione) sarebbe rimasto entro i confini dell’Impero Ottomano, ma senza alcuno “status speciale”, ovvero diritti autonomi e privilegi etnico-politici.

Lo stesso governo ottomano era troppo debole per proteggere i territori popolati da albanesi, costituiti per oltre l’80% da popolazione musulmana, che mostrava un alto grado di lealtà politica e ideologica nei confronti del Sultano e della Sublime Porta di Istanbul. Ciononostante, le decisioni del Trattato di Santo Stefano del 1878 portarono all’organizzazione di un sistema di autodifesa albanese da parte della leadership politica (musulmana), che considerava uno status autonomo dell’Albania, simile a quello della Serbia, della Moldavia e della Valacchia, come l’unica garanzia per un’amministrazione giustificabile degli albanesi in futuro.

Il Trattato di Santo Stefano del 1878 e la ridefinizione dei confini dei Balcani ottomani

Il Trattato di Santo Stefano assegnò alla Bulgaria slava le seguenti terre popolate dagli albanesi: il distretto di Korçë e l’area di Debar. Secondo lo stesso trattato, al Montenegro furono concessi diversi comuni nell’attuale Albania settentrionale e le zone di Bar e Ulcinj (oggi in Montenegro). Il confine tra l’Albania ottomana e il Montenegro fu fissato sul fiume Bojana e sul lago Scodra (i confini sono rimasti invariati fino ad oggi). Tuttavia, un rappresentante ufficiale del Principato del Montenegro, Radonjić, chiese ad Adrianopoli (Edirne) che la città di Scutari fosse inclusa nel Montenegro allargato.[3]

Tuttavia, ciò che all’epoca era considerato esattamente l’Albania e gli albanesi come identità etnica non era chiaro a nessuno in Europa. Il motivo principale era il fatto che i censimenti ufficiali ottomani erano diventati una fonte piuttosto inaffidabile per risolvere tali problemi, poiché si basavano più sull’identità religiosa che sulla stretta appartenenza etnico-nazionale (cioè etnico-linguistica). In pratica, tutta la popolazione islamica ottomana, che fosse albanese, bosniaca o turca, era classificata in un’unica categoria: i musulmani (come nazione di Allah). Le differenze nazionali/etniche non erano affatto indicate nei censimenti ottomani, poiché veniva presa in considerazione solo l’appartenenza religiosa (sistema confessionale “millet”).

Tuttavia, nonostante la mancanza di statistiche ufficiali, è possibile ricostruire la dispersione dell’etnia albanese in quel periodo utilizzando altre fonti storiche. Una di queste fonti è una relazione alle autorità austro-ungariche sui confini settentrionali della lingua albanese, redatta dal console austro-ungarico F. Lippich a metà del 1877, durante la Grande Crisi Orientale e la guerra russo-ottomana del 1877-1878. Secondo questa relazione, il confine linguistico settentrionale degli albanesi si estende dalla città di Bar, sul litorale adriatico montenegrino, verso il lago di Scutari, poi attraverso due regioni montenegrine, Kolašin e Vasojevićs, quindi verso il fiume Ibar e la città di Novi Pazar nel Sanjak (Raška) fino alla zona del fiume Morava meridionale nell’attuale Serbia. Il confine linguistico albanese era fissato a est e sud-est intorno al lago di Ochrid, alle città di Bitola (Monastir) e Debar e al corso superiore del fiume Vardar.[4] Tuttavia, in molte di queste zone, la lingua albanese era parlata insieme alle lingue slave come sono oggi, il serbo, il montenegrino e il macedone. In secondo luogo, nella maggior parte di queste “zone di confine di lingua albanese”, gli albanesi linguistici non costituivano la maggioranza etnica, come nel caso, ad esempio, della regione storica del Kosovo e della Metochia, dove a quel tempo i serbi etnolinguistici erano ancora in maggioranza aritmetica rispetto alla popolazione.

Tuttavia, è certo che il trattato di Santo Stefano del 1878 provocò il nazionalismo albanese e forgiò il movimento di rinascita nazionale albanese. Il germe del movimento nazionale albanese crebbe dal 1840 fino al periodo della Grande Crisi Orientale del 1875-1878, quando i primi requisiti per l’istituzione di scuole di lingua albanese e la conservazione della lingua nazionale furono richiesti dai funzionari pubblici albanesi dell’Impero Ottomano (Naum Panajot Bredi, Engel Mashi, Josiph Kripsi, John Skiroj, Hieronim de Rada, Vincenzo Dorsa, ecc.).

Tuttavia, la rinascita nazionale albanese ricevette un nuovo impulso durante la crisi balcanica del 1862, al tempo di una nuova guerra tra Montenegro e Impero Ottomano, quando diversi membri del cosiddetto “gruppo di Scutari” (Zef Ljubani, Pashko Vasa e altri) propagarono la rivolta delle tribù dell’Albania settentrionale nella regione di Mirditë contro le pretese territoriali montenegrine sulle aree popolate dagli albanesi. Si opposero anche alle autorità ottomane, poiché potevano contare sul sostegno dell’imperatore francese Napoleone III (1852-1870). In caso di esito positivo della ribellione, nei Balcani sarebbe stato creato il principato indipendente e unito dell’Albania. Esso avrebbe compreso tutti i territori popolati da albanesi nei Balcani, anche quelli in cui gli albanesi linguistici erano una minoranza etnica.

Il principale ideologo albanese dell’epoca era Zef Jubani, nato a Scutari nel 1818, il quale sosteneva che la popolazione albanese fosse già diventata una nazione a quel tempo. [5] Il suo obiettivo politico principale era la creazione di una provincia autonoma e unita dell’Albania all’interno dell’Impero Ottomano. Altri, come Thimi Mitko e Spiro Dineja, erano favorevoli alla separazione dell’Albania dall’Impero Ottomano e alla creazione di uno Stato confederato albanese-greco simile all’Austria-Ungheria (dal 1867). Durante la Grande Crisi Orientale del 1875-1878, la rivolta albanese a Mirditë nel 1876-1877, guidata dai patrioti albanesi di Scutari, aveva come obiettivo politico finale la creazione di un’Albania autonoma all’interno dell’Impero Ottomano. I leader della rivolta visitarono la corte montenegrina per ottenere il sostegno finanziario del principe montenegrino Nikola I (1860-1910; re dal 1910 al 1918). Tale sostegno fu promesso al capo della delegazione albanese, Preng Dochi. È importante sottolineare che il principe montenegrino dichiarò in questa occasione che il Montenegro non aveva alcuna aspirazione territoriale nei confronti dei territori “albanesi”, qualunque cosa ciò significasse in quel momento. Allo stesso tempo, il diplomatico russo a Scutari, Ivan Jastrebov, sottolineò che l’Europa si trovava ad affrontare la “questione albanese”.

Durante la Grande Crisi Orientale, i capi tribù albanesi dell’Albania meridionale e dell’Epiro settentrionale, sotto la presidenza di un importante signore feudale albanese musulmano, Abdul-beg Frashëri, convocarono nel 1877 una riunione nazionale nella città di Jannina (Ioannina) quando chiesero alla Sublime Porta di Istanbul di riconoscere una nazionalità albanese separata e quindi di concedere loro il diritto di formare una provincia autonoma albanese (vilayet) all’interno dell’Impero Ottomano. Chiesero inoltre che tutti i funzionari di tale vilayet albanese fossero di origine etnica albanese (ma solo musulmani), che fossero aperte scuole di lingua albanese e, infine, che fossero creati tribunali di lingua albanese. Il memorandum con tali richieste fu inviato alla Sublime Porta, ma questa suprema istituzione governativa ottomana rifiutò di soddisfare qualsiasi di queste richieste nazionali albanesi.

La reazione albanese al Trattato di Santo Stefano del 1878

La pubblicazione degli articoli del Trattato di Santo Stefano del 1878 causò grande agitazione e insoddisfazione tra il popolo albanese. [6] Da quel momento in poi, il precedente movimento albanese che mirava solo al miglioramento delle condizioni sociali degli albanesi che vivevano nell’Impero Ottomano si trasformò in un movimento nazionale albanese (ma in sostanza era radicato nella tradizione islamica e nel dogmatismo politico) che richiedeva la creazione di una provincia politicamente autonoma dell’Albania all’interno dell’Impero Ottomano o la creazione di uno Stato nazionale albanese indipendente (basato sulla tradizione islamica). [7]

Soprattutto l’Albania nord-orientale e orientale conobbe massicci disordini e proteste contro il trattato di Santo Stefano, rivolte alle grandi potenze europee.[8] Così, nell’aprile 1878, gli albanesi della città di Debar inviarono un telegramma agli ambasciatori britannico e austro-ungarico presso l’Impero Ottomano, Layard e Zichy, rispettivamente, per protestare contro l’annessione della regione di Debar al nuovo principato bulgaro di Santo Stefano. Nel telegramma si sottolineava che gli abitanti di Debar erano albanesi, non bulgari. Inoltre, secondo il memorandum di protesta, il distretto di Debar comprendeva 220.000 musulmani e 10.000 cristiani, tutti presumibilmente di etnia albanese. [9] Infine, si chiedeva alle grandi potenze europee di non consentire alla Bulgaria (cristiana ortodossa) di annettere la regione di Debar, che avrebbe invece dovuto rimanere nell’Impero ottomano (come Stato “nazionale” di tutti i musulmani albanesi). [10]

Analogamente agli albanesi di Debar, i loro compatrioti della città di Scutari e dell’Albania nord-occidentale chiesero alle autorità austro-ungariche di impedire l’inclusione dei territori “albanesi” nel Montenegro (la cui indipendenza era stata riconosciuta dal Congresso di Berlino nel 1878). [11] Gli albanesi di diversi distretti del Kosovo-Metochia (Prizren, Đakovica, Peć) protestarono in un memorandum inviato a Vienna contro la spartizione delle “loro” terre tra Serbia e Montenegro. [12] L’8 maggio 1878, quando “…oggi abbiamo appreso dai giornali che il governo ottomano, incapace di resistere alle pressioni della Russia, è stato costretto ad accettare la nostra annessione da parte dei montenegrini…”. una protesta della popolazione albanese di Scutari, Podgorica, Spuž, Žabljak, Tivat, Ulcinj, Gruda, Kelmend, Hot e Kastrat fu indirizzata all’ambasciatore di Francia a Istanbul contro l’annessione delle terre “albanesi” da parte del Principato del Montenegro. [13]

Il popolo albanese dell’Albania settentrionale e del Kosovo-Metochia, sia musulmano che cattolico, iniziò a organizzare propri distaccamenti di autodifesa (una milizia territoriale) e comitati locali contro l’incorporazione di questi territori nella Serbia o nel Montenegro. Un altro compito di questi numerosi comitati era quello di aiutare i “rifugiati” albanesi provenienti dalle zone già conquistate dai serbi e dai montenegrini, secondo il Trattato di Santo Stefano. [14] Così, ad esempio, il 26 giugno 1878 da Priština fu inviata una protesta di 6.200 emigranti albanesi, presumibilmente “espulsi” dai distretti di Niš, Leskovac, Prokuplje e Kuršumlija, indirizzata al Congresso di Berlino del 1878 contro gli omicidi di massa e gli stupri commessi dall’esercito serbo e dalle unità militari bulgare. [15] Tuttavia, la maggior parte di questi “rifugiati” albanesi lasciò volontariamente questi territori perché, in quanto musulmani, non voleva vivere in uno Stato cristiano, né in Bulgaria né in Serbia, dopo il Trattato di Santo Stefano. Lo stesso accadde dopo il Congresso di Berlino del 1878, con un numero enorme di musulmani della Bosnia-Erzegovina che emigrarono nell’Impero Ottomano ancora prima che l’esercito austro-ungarico raggiungesse le loro case senza alcuna intenzione di espellerli.

In sostanza, tali proteste ufficiali da parte degli albanesi erano più che altro un modo per fare propaganda e non rispecchiavano la realtà sul campo, almeno non nella misura presentata. Il fatto era, come già detto, che la maggior parte dei “rifugiati” albanesi (musulmani) aveva in realtà lasciato volontariamente quelle terre assegnate dal trattato russo-ottomano di Santo Stefano alla Grande Bulgaria (o successivamente alla Serbia dal Congresso di Berlino) perché i musulmani non possono, in linea di principio, vivere sotto un governo non musulmano, cioè il governo degli “infedeli”. Semplicemente, i musulmani non potevano sopravvivere in un paese in cui non detenevano il potere politico e non controllavano l’ordine sociale e la vita.

Il Congresso di Berlino del 1878

La pace russo-turca di Santo Stefano, firmata il 3 marzo 1878, annunciò la nascita di un grande Stato bulgaro sotto il patrocinio e l’influenza della Russia, sebbene formalmente nell’ambito dell’Impero ottomano. In altre parole, questo trattato di pace avrebbe garantito la supremazia della Russia sia nei Balcani orientali che sugli stretti (Bosforo e Dardanelli). Pertanto, al fine di impedire la cruciale influenza russa nei Balcani orientali e negli stretti, le grandi potenze dell’Europa occidentale (su iniziativa formale della Germania di Bismarck) organizzarono il Congresso di Berlino, che durò un mese dal 15 giugno al 15 luglio 1878, e durante il quale cercarono di appianare le loro reciproche controversie e quindi di agire congiuntamente contro la Russia. L’obiettivo principale del Congresso di Berlino era una revisione totale del Trattato di pace di San Stefano a scapito della Russia e al fine di preservare il più possibile i possedimenti dell’Impero ottomano in Europa.

Il risultato principale del Congresso di Berlino fu che la Russia fu costretta a ridurre notevolmente le sue richieste nei Balcani. Così, l’Austria-Ungheria ottenne il diritto di occupare la Bosnia-Erzegovina, la Gran Bretagna ottenne Cipro, mentre la Germania rafforzò la sua influenza nei Balcani e successivamente in tutto l’Impero Ottomano realizzando la sua politica imperiale di penetrazione verso est (Drang nach Osten). La Serbia, la Romania e il Montenegro ottennero l’indipendenza formale e l’espansione territoriale, così come la Grecia, mentre sul territorio del popolo bulgaro si formarono due Bulgarie a scapito del progetto russo di una Grande Bulgaria da Santo Stefano. Per quanto riguarda gli albanesi, essi non ottennero di fatto nulla, nonostante avessero chiesto la tutela dei loro diritti nazionali su determinati territori. Anzi, il leader e ospite del Congresso di Berlino, Otto von Bismarck, affermò che l’Europa non aveva mai sentito parlare del popolo albanese. Il Congresso di Berlino fu l’ultimo grande incontro internazionale a cui parteciparono solo statisti europei.[16] In ogni caso, anche dopo il 1878, i Balcani rimasero al centro della crisi in Europa fino alla prima guerra mondiale.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex professore universitario

Ricercatore presso il Centro di studi geostrategici

Belgrado, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

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sotirovic1967@gmail.com

RIFERIMENTI E NOTE FINALI:

[1] Mitchel Beazley (ed.), Ilustrovana enciklopedija Istorija, Vol. 2, 1984, 190 (titolo originale: The Joy of Knowledge Encyclopaedia, 1976).

[2] Parliamentary Papers, serie “Accounts and Papers”, Vol. LXXXIII, Turchia, № 22, Londra, 1878, 10.

[3] “Articolo № 1” del Trattato di pace di San Stefano in Documenti parlamentari, serie “Conti e documenti”, Vol. LXXXIII, Turchia, № 22, Londra, 1878, 9−10; Sumner B. H., Russia and the Balkans, 1870−1880, Oxford, 1937, 410−415.

[4] Haus-Hof-und Staatsarchiv, Politisches Archiv, XII/256, Türkei IV, Lippich F., “Denkschrift über Albanien”, Vienna, 20 giugno 1877, 8-9.

[5] Secondo M. Jevtić, gli albanesi non erano ancora una nazione nel senso moderno europeo del termine all’epoca, né lo sono ancora oggi, poiché il quadro principale dell’identità nazionale albanese era ed è principalmente l’Islam, una religione che non riconosce l’esistenza di alcuna identità etnico-linguistica tra i musulmani, considerati un’unica “nazione” (confessionale). [Јевтић М., Албанско питање и религија, Београд: Центар за проучавање религије и верску толеранцију, 2011; Јевtić M., „Исламска суштина албанског сецесионизма и културно наслеђе Срба“, Национални интерест, Vol. 17, No. 2, 2013, 238]. Sulla tradizione islamica e la dottrina politica, cfr. [Itzkowitz N., Ottoman Empire and Islamic Tradition, Chicago−Londra: The University of Chicago Press, 1980].

[6] Archives du Ministère des Affaires Etrangères, Parigi, «Ceccaldi a Waddington, 27 aprile 1878», n. 213, Turchia, Corrispondenza politica dei consoli, Scutari, 1878-1879, Vol. XXI.

[7] Sulla forte divisione confessionale-politica e persino sulle guerre religiose tra gli albanesi più tardi nel 1915, si veda [Pollo S., Puto A., Histoire d’Albania des origines á nos jours, Roanne, 1974, 183−186; Јевтић М., Проблеми политикологије религије, Београд: Центар за проучавање религије и верску толеранцију, 2012, 159−161].

[8] Il concetto accademico di grande potenza è definito come uno Stato «considerato tra i più potenti in un sistema statale gerarchico. I criteri che definiscono una grande potenza sono oggetto di controversia, ma spesso se ne identificano quattro. (1) Le grandi potenze sono al primo posto tra le potenze militari, hanno la capacità di mantenere la propria sicurezza e, potenzialmente, di influenzare altre potenze. (2) Sono Stati economicamente potenti… (3) Hanno sfere di interesse globali e non solo regionali. (4) Adottano una politica estera “progressista” e hanno un impatto reale, e non solo potenziale, sugli affari internazionali” [Heywood A., Global Politics, New York−Londra: Palgrave Macmillan, 2011, 7].

[9] Il numero di abitanti del distretto di Debar è stato drasticamente esagerato. Gli albanesi non erano gli unici abitanti del distretto.

[10] Parliamentary Papers, serie “Accounts and Papers”, “Layard to Salisbury, Therapia, 4 maggio 1878, Vol. LXXXIII, Turchia, № 41, Londra, 1878, 60-61; Archivi del Ministero degli Affari Esteri, Parigi, “Ceccaldi a Waddington, Scutari, 4 maggio 1878”, n. 214, Turchia, Corrispondenza politica dei consoli, Scutari, 1878-1879, vol. XXI.

[11] Novotny A., Österreich, die Türkei und das Balkan-problem im Jahre des Berliner Kongresses, Graz−Colonia, 1957, 246.

[12] Ibid, 37, 247−253; Parliamentary Papers, serie “Accounts and Papers”, 1878, Vol. LXXXI, Turchia, № 45, Londra, 1878, 35−36.

[13] Archives du Ministère des Affaires Etrangères, Parigi, Ambasciata francese presso la Sublime Porta, Turchia, Vol. 417, 51−54, Supplemento alla Relazione № 96 (originale in francese); Pollo S., Pulaha S., (a cura di), Pagine della rinascita nazionale albanese, 1878-1912, Tirana, 1978, 12-13.

[14] Documenti parlamentari, serie “Conti e documenti”, “Green a Salisbury, 3 maggio 1878”, Vol. LXXXIII, Turchia, n. 40, Londra, 1878, 60; Archives du Ministère des Affaires Etrangères, Parigi, “Ceccaldi a Waddington, Scutari, 4 maggio 1878”, n. 214, Turchia, Correspondance politique des consuls, Scutari, 1878-1879, Vol. XXI; Ibid, copia del telegramma firmato dal principe montenegrino Nikola I Petrović-Njegoš, Cetinje, 5 giugno 1878, come allegato n. 1 a Dèpêche, 9 giugno 1878, n. 218.

[15] Politisches Archiv des Auswartigen Amtes, Bonn, Turchia 129, Vol. 2, Gli atti del Congresso di Berlino, 2, 1878, documento n. 110 (telegramma); Pollo S, Pulaha S., (a cura di), La Lega albanese di Prizren, 1878-1881. Documents, Vol. I, Tirana, 1878, 73−74.

[16] Mitchel Beazley (ed.), Ilustrovana enciklopedija Istorija, Vol. 2, 1984, 190 (titolo originale: The Joy of Knowledge Encyclopaedia, 1976).

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Il Pakistan come conseguenza della divisione dell’India britannica nel 1947_di Vladislav Sotirovic

Il Pakistan come conseguenza della divisione dell’India britannica nel 1947

Il Pakistan come paese

Il Pakistan è un paese situato nella parte nord-occidentale del subcontinente indiano. Confina con l’Iran a ovest, l’Afghanistan a nord-ovest, la Cina a nord-est e l’India a est, con sbocco diretto sul Mar Arabico.

Dal punto di vista fisico, il Pakistan è separato dal resto dell’Asia a nord dalle catene montuose dell’Hindu Kush, del Karakorum e dell’Himalaya. Altre catene montuose scendono sul lato occidentale del Pakistan fino al Mar Arabico. Sotto di esse si trova la lunga e ampia valle del fiume Indo. La provincia della Frontiera Nord-Occidentale comprende il Passo Khyber, molto alto e strategicamente importante. Verso sud si trova l’altopiano del Punjab. È irrigato dagli affluenti del fiume Indo, dove si coltiva il grano. Tuttavia, a est si trova il deserto del Thar. È importante sottolineare che tra il deserto del Sind, che copre parte del delta dell’Indo, e il Baluchistan nelle colline occidentali, ci sono grandi riserve di gas naturale e, in una certa misura, di petrolio, che si trova anche nel Punjab.

Il Pakistan ha un’economia prevalentemente agricola. I principali prodotti di esportazione sono il cotone grezzo e lavorato, i tessuti di cotone e il riso. Altri prodotti agricoli includono la canna da zucchero, il grano e il mais. Anche l’allevamento del bestiame è importante. Il settore tessile è una parte importante dell’industria pakistana e contribuisce in modo sostanziale alle esportazioni del Paese. Altre industrie includono quella chimica, la produzione di cemento, i fertilizzanti e la trasformazione alimentare.

Popolazione

Gli abitanti del Pakistan sono per circa l’88% musulmani pakistani, mentre circa l’11% sono indiani (hindi). Tra tutti gli altri gruppi etnici, i baluchistani sono i più numerosi. Il Baluchistan, come provincia, è la meno popolata. Con la divisione dell’India britannica nel 1947 in Pakistan e India, il Pakistan ha ricevuto una popolazione prevalentemente musulmana e un numero maggiore di indiani, e viceversa. Nel periodo dal 1947 al 1950, lo scambio di popolazione tra Pakistan e India, compresa la pulizia etnica, ha raggiunto la scala di diversi milioni di abitanti in entrambe le direzioni. In Pakistan, la lingua ufficiale è l’urdu (la variante musulmana della lingua hindi), che nel 1972 ha sostituito l’inglese come lingua ufficiale. Tuttavia, sono in uso diverse altre lingue locali/regionali. Nel 1970, l’80% degli abitanti del Pakistan era analfabeta, il che causava una carenza di personale professionale e istruito, particolarmente sentita nell’amministrazione e nell’economia.

Per garantire un’istruzione più completa e ridurre l’analfabetismo, nel settembre 1972 furono nazionalizzati 176 college privati. All’epoca in Pakistan c’erano tre università. Circa il 15% della popolazione viveva nelle città, mentre c’erano 10 città con oltre 100.000 abitanti. La capitale del Pakistan era Rawalpindi dal 1959, mentre oggi è Islamabad. Fino al 1959, la città più grande del Pakistan era Karachi. Oggi il Pakistan ha una popolazione di 251 milioni di abitanti su una superficie di 881.913 km². Il PIL è di 373 miliardi di dollari, mentre il PIL pro capite è di quasi 1500 dollari.

Organizzazione dello Stato

Con la divisione della colonia britannica dell’India (britannica) in due Stati, India e Pakistan, il 15 agosto 1947, il Pakistan ottenne lo status di dominio e, secondo la costituzione del 29 febbraio 1956, divenne una repubblica – la Repubblica Islamica del Pakistan, composta da due unità federali: Pakistan occidentale e Pakistan orientale.

Con il colpo di Stato militare dell’ottobre 1958, la costituzione fu abolita e ne fu adottata una nuova nel marzo 1962. Questa nuova costituzione prevedeva un sistema di governo federale, un sistema di governo presidenziale (il presidente deve essere musulmano ed è eletto per 5 anni), un’Assemblea Nazionale di 156 deputati (78 deputati provenienti da ciascuna delle due unità federali) e due capitali: Islamabad nel Pakistan occidentale (sede del governo centrale) e Dhaka nel Pakistan orientale (sede dell’Assemblea Nazionale). Tuttavia, la costituzione del 1962 fu abrogata il 25 marzo 1969 e ripristinata solo parzialmente il 4 aprile 1969.

Una svolta nella storia del Pakistan fu la separazione del Pakistan orientale dal Pakistan occidentale nel dicembre 1971, quando il Pakistan orientale si dichiarò Stato indipendente con il nome di Bangladesh. Pertanto, il nuovo Stato del Pakistan comprendeva solo il territorio dell’ex Pakistan occidentale. Nel gennaio 1972, il Pakistan uscì dal Commonwealth britannico.

Storia moderna del Pakistan fino alla divisione del 1947

Il Pakistan è un paese che è stato sottoposto al controllo coloniale britannico nella prima metà del XIX secolo, quando entrò a far parte della (Grande) India britannica. È interessante notare che il suo nome deriva dalla parola “pak” (ritualmente puro) in lingua urdu. In altre parole, significa “Terra dei puri”. Tuttavia, è anche l’acronimo dei suoi popoli più importanti: punjabi, afghani, kashmiri, sindhi e baluchi.

All’inizio del XX secolo, ci furono solo alcuni tentativi di indipendenza. Uno dei motivi era che le popolazioni che vivevano nel nord, nel Punjab e nel Kashmir, avevano tratto grandi benefici dal Raj britannico e occupavano posizioni importanti nell’amministrazione e nell’esercito dell’India britannica. Fu tra le minoranze musulmane più svantaggiate dell’India centro-settentrionale che cominciò a formarsi un’identità culturale e politica musulmana, principalmente grazie a diversi riformatori e organizzazioni come la Lega Musulmana, un partito fondato il 30 dicembre 1906 a Dacca. In origine, il partito lottava per una rappresentanza musulmana separata a tutti i livelli di governo. Il partito sosteneva di rappresentare le lamentele e le richieste dell’intera comunità musulmana all’interno dell’India britannica.

Sotto la guida del suo leader, Jinnah, la Lega Musulmana avanzò diverse richieste per ottenere maggiori diritti per i musulmani indiani in un vasto paese come l’India britannica, dove all’epoca i musulmani rappresentavano circa un quarto della popolazione totale. Tuttavia, questa richiesta politica divenne ancora più urgente con il crescente slancio del Congresso Nazionale Indiano (INC) guidato da M. Gandhi, che rese inevitabile l’autogoverno o addirittura l’indipendenza sotto un governo dominato dagli indù durante gli anni ’30. Nei primi decenni della sua esistenza, la Lega Musulmana perseguì il duplice obiettivo di ottenere maggiori diritti di autogoverno dal potere coloniale britannico e di ottenere maggiori diritti per i musulmani all’interno di tale sistema britannico. Per raggiungere il primo obiettivo, la Lega Musulmana collaborò con l’INC, con cui si alleò nel Patto di Lucknow del dicembre 1916. Tuttavia, la Lega fu in gran parte inefficace negli anni ’20, quando dichiarò di avere circa 1.000 membri in tutta l’India britannica. Ciò portò a un decennio, negli anni ’30, di una revisione importante degli obiettivi politici della Lega Musulmana e dell’organizzazione stessa, al fine di attrarre la disparata comunità musulmana.

Nel 1930, la Lega tenne la sua conferenza annuale per chiedere, per la prima volta, uno Stato musulmano separato nella parte occidentale dell’India britannica. Questa richiesta fu gradualmente accettata, in particolare dopo il risultato catastrofico ottenuto dalla Lega Musulmana nelle elezioni del 1937, quando conquistò solo 104 dei 489 seggi musulmani. Pertanto, il suo leader, Jinnah, cercò di ampliare la sua base popolare. Il 23 marzo 1940, la richiesta di uno Stato musulmano separato fu accettata come politica ufficiale del partito per gli anni a venire. Fu conosciuta come la Risoluzione del Pakistan o la Risoluzione di Lahore, che, di fatto, avvertiva che se le condizioni dei musulmani, specialmente nelle aree con una minoranza musulmana, non fossero migliorate, i musulmani avrebbero rivendicato Stati separati come loro patria. L’idea stessa di Stati musulmani separati si riferiva alle province occidentali dell’India britannica e del Bengala orientale. Nel 1944 la Lega Musulmana contava oltre 2.000.000 di membri. Nelle elezioni del 1945-1946 la Lega ottenne il 75% dei voti musulmani. Pertanto, la Lega Musulmana ottenne un mandato popolare per la creazione di uno Stato musulmano separato nelle regioni occidentali dell’India britannica. Questo obiettivo fu finalmente raggiunto con la creazione del Pakistan indipendente il 15 agosto 1947. Tuttavia, inizialmente dominante nella politica pakistana, dopo la morte del leader del partito, Jinnah, la Lega Musulmana mancava di una forza integrativa e nel decennio successivo si dissolse rapidamente in vari gruppi.

Tutti i paesi dell’Asia meridionale sono stati turbati dalla posizione speciale delle minoranze e dei gruppi regionali. Il tentativo del governo indiano di promuovere l’hindi si è presto scontrato con le richieste di una nuova struttura degli stati basata su criteri linguistici e, a partire dagli anni ’50, i confini degli stati sono stati ridisegnati. Tuttavia, il sentimento linguistico è rimasto forte, soprattutto nell’India meridionale, nello stato di Madras, che è stato ribattezzato Tamil Nadu. Prima del 1947, il Pakistan faceva parte dell’India britannica, ma in seguito al ritiro britannico dal subcontinente indiano nel 1947, il Pakistan fu creato come Stato separato, comprendente il territorio a nord-est e nord-ovest dell’ex India britannica, in cui la popolazione era prevalentemente musulmana. In Pakistan, le richieste linguistiche e regionali furono inizialmente respinte e le province separate del Pakistan occidentale furono fuse in un’unica unità. Tuttavia, le lealtà regionali costrinsero nel 1970 a un ritorno alle vecchie province, che rappresentavano le regioni linguistiche. Nel Pakistan orientale, la forza della cultura bengalese e le lamentele contro l’élite dominante del Pakistan occidentale alimentarono la richiesta di autonomia e, successivamente, di indipendenza.

La divisione del 1947

Poiché non fu possibile raggiungere un accordo su una forma unificata di indipendenza, fu necessario prendere una decisione sulla divisione del subcontinente indiano. Le aree del nord-ovest a maggioranza musulmana furono autorizzate a scegliere la separazione e la formazione di un nuovo Stato, il Pakistan. Le province dell’India britannica interessate votarono tramite i loro rappresentanti eletti o con un plebiscito. I governanti dei principati dell’India britannica scelsero se unirsi allo Stato indipendente dell’India o, laddove i loro confini coincidevano con la nuova linea di divisione, al Pakistan. Il Punjab e il Bengala furono divisi separatamente. L’indipendenza arrivò in India e Pakistan nell’agosto 1947, in Birmania nel gennaio 1948 e a Ceylon nel febbraio 1948.

In India, fin dall’inizio ci furono molti problemi. La maggior parte del subcontinente indiano desiderava rimanere unita sotto la guida di Nehru e del Congresso Nazionale Indiano. Tuttavia, la situazione esplosiva e l’impossibilità di raggiungere un accordo tra il Congresso e la Lega Musulmana guidata da Jinnah costrinsero il viceré Lord Mountbatten a intervenire e il 14 agosto 1947 il subcontinente fu diviso e nacque il nuovo Stato del Pakistan (composto fisicamente da due parti). Gli Stati principeschi (oltre 500) furono lasciati alle decisioni individuali dei loro governanti, che potevano, in effetti, unirsi all’India o al Pakistan se i loro confini coincidevano con le nuove linee di divisione.

Sia per l’India che per il Pakistan, la prima questione era la delimitazione delle frontiere tra i nuovi Stati. Tuttavia, questa questione riguardava in particolare le province del Punjab e del Bengala, dove le popolazioni erano così mescolate che la divisione sembrava l’unica soluzione praticabile (come in Bosnia-Erzegovina negli anni ’90). Ma la delimitazione dei confini attraversava aree che nel Punjab erano occupate da ricchi terreni agricoli popolati da sikh, musulmani e indù come vicini.

Ciononostante, la divisione dell’India britannica portò ben presto a violenti scontri tra indù e musulmani, seguiti da rivolte comunitarie, e iniziò un esodo in entrambe le direzioni, con i musulmani che si spostavano verso ovest e i sikh e gli indù verso est, causando la morte di oltre un milione di persone. Circa 7,5 milioni di rifugiati musulmani fuggirono dall’India verso entrambe le parti del Pakistan, mentre circa 10 milioni di indù e sikh lasciarono il Pakistan per l’India. La divisione del Bengala produsse risultati simili. Complessivamente, circa 500.000 persone persero la vita. Muhammad Ali Jinnah, presidente della Lega Musulmana, divenne il primo governatore generale (presidente) del Pakistan. Il nuovo Stato era composto dalle province occidentali del Baluchistan, del Sind, del Punjab e della Frontiera Nord-Occidentale (nota anche come Pakistan occidentale). Separata dal territorio indiano era la metà orientale del Bengala, che apparteneva anch’essa al Pakistan appena proclamato indipendente (noto come Pakistan orientale).

Oltre al reinsediamento dei rifugiati, i governi dovettero integrare gli oltre 500 stati principeschi. La maggior parte dei principi fu persuasa ad aderire prontamente all’India o al Pakistan. Hyderabad resistette e fu assorbita solo dopo l’intervento delle forze di sicurezza (polizia). Anche il sovrano del Kashmir esitò, e ne seguì un’invasione da parte delle tribù della Provincia della Frontiera Nord-Occidentale pakistana. Il Maharaja aderì quindi all’India, previa consultazione popolare del popolo del Kashmir, ma il Pakistan sostenne gli invasori tribali. La situazione fu stabilizzata solo grazie alla mediazione dell’ONU nel 1949.

Il nuovo Stato del Pakistan dovette affrontare fin dall’inizio numerosi problemi. Il più immediato fu la massiccia migrazione (circa 17,5 milioni di persone) causata dalla divisione dell’India britannica in uno Stato indù e uno musulmano. Inoltre, il Pakistan contestò i propri confini, entrando in competizione con l’India per il controllo del Kashmir. Questo scontro ha portato a relazioni ostili con l’India fino ad oggi e allo scoppio di tre guerre indo-pakistane. Inoltre, il Pakistan ha sofferto anche delle tensioni tra la maggioranza della popolazione che viveva nel Pakistan orientale e le cariche importanti nel governo, nell’amministrazione e nell’esercito occupate da funzionari provenienti dal Pakistan occidentale, più ricco e con un livello di istruzione più elevato. Questi problemi sono stati aggravati dalla totale mancanza di una tradizione o di una storia come Stato unico e unitario. Da un lato, il Pakistan orientale (o Bengala orientale) era relativamente omogeneo, ma dall’altro lato, il Pakistan occidentale era composto da regioni con economie ed etnie molto diverse e con diversi gradi di osservanza religiosa. Alcune tribù della Frontiera Nord-Occidentale osservavano devotamente l’Islam e avevano una storia di autonomia all’interno dell’ex sistema coloniale britannico. Esse erano in contrasto con l’élite più laica del Punjab, che era stata ben integrata nell’amministrazione coloniale britannica.

Una storia contemporanea del Pakistan dalla Partizione del 1947 fino all’11 settembre

Il problema di trovare un compromesso che creasse un’entità vitale, integrata e costituzionale ha tormentato il Pakistan durante la sua esistenza. Il Pakistan continuò ad essere formalmente governato dal Government of India Act del 1935 fino al 1956. La costituzione liberale del Paese fu osteggiata dai musulmani fondamentalisti e nel 1951 il primo ministro Liaqat Ali Khan fu assassinato da un fondamentalista afghano. Nel 1954 fu dichiarato lo stato di emergenza e nel 1956 fu adottata una nuova costituzione. Tuttavia, il nuovo assetto politico non riuscì a stabilizzare il Paese in modo sufficiente da impedire il colpo di Stato militare del 1958, guidato da Ayub Khan. Si trattò di un tentativo di adottare un sistema multipartitico, ma fallì e, di conseguenza, Ayub Khan impose la legge marziale nel 1958. Egli, infatti, abolì la democrazia recentemente instaurata senza incontrare molta resistenza e elaborò una seconda costituzione nel 1962.

D’altra parte, il decennio di potere di Ayub Khan produsse una crescita economica, seguita però da risentimento politico, poiché le due parti dello Stato pakistano erano fisicamente separate da mille chilometri di territorio della Repubblica indiana, indipendente e ostile. Le accuse dei bengalesi del Pakistan orientale contro la quota sproporzionata del Pakistan occidentale nelle risorse dello Stato portarono alla richiesta di autonomia regionale da parte della Lega Awami, guidata da Mujibur Rahman. Ciononostante, nella successiva guerra civile del 1971, i dissidenti bengalesi sconfissero l’esercito pakistano, con l’aiuto dell’India. Ciò portò alla creazione del nuovo Stato del Bangladesh nello stesso anno.

Nel 1965 il Pakistan tentò di infiltrare truppe nel Kashmir. Nei combattimenti che ne seguirono, l’India ottenne alcuni successi, ma nell’accordo raggiunto in seguito a Tashkent sotto l’egida sovietica, entrambi i paesi concordarono di tornare allo status quo. La sua precipitazione in una guerra costosa e infruttuosa con l’India per il Kashmir nel 1965 e le crescenti difficoltà economiche in Pakistan portarono infine alle sue dimissioni nel 1969. Le relazioni tra Pakistan e India continuarono tuttavia a essere tese e peggiorarono rapidamente nel 1971, quando il presidente militare pakistano Yahya Khan represse crudelmente le richieste di autonomia del Pakistan orientale (Bengala orientale, poi Bangladesh), che portarono 10 milioni di rifugiati a varcare il confine con l’India.

Nel 1970 furono organizzate le prime elezioni democratiche generali, che portarono al potere in Pakistan Zulfikar Ali Bhutto, leader del Partito Popolare Pakistano. Tuttavia, queste elezioni furono vinte dalla Lega Awami nel Pakistan orientale. Pertanto, l’establishment politico del Pakistan occidentale, guidato da Yahya Khan, rifiutò di cedere il potere e inviò truppe militari per assicurarsi il controllo del Pakistan orientale. Questa azione causò una breve ma estremamente violenta guerra civile e portò, dopo l’intervento militare indiano nel dicembre 1971, che sostenne la guerriglia del Bangladesh con potenti forze militari, che sconfissero l’esercito pakistano in due settimane, all’indipendenza del Pakistan orientale come Bangladesh. Zulfikar Bhutto, nuovo presidente dal 1971, creò un regime populista e socialista. Il suo programma di nazionalizzazione, opere pubbliche e indipendenza dall’aiuto finanziario degli Stati Uniti non riuscì a superare gli effetti negativi dello shock petrolifero del 1973, portando il Pakistan in una crisi economica. Introdusse riforme costituzionali, sociali ed economiche, ma nel 1977 fu deposto da un colpo di Stato militare guidato da Zia-ul-Haq e successivamente giustiziato.

Zia-ul-Haq migliorò le relazioni del Pakistan con gli Stati Uniti dopo l’invasione sovietica del vicino Afghanistan nel 1979, quando il Pakistan arrivò ad ospitare fino a tre milioni di rifugiati afghani, seguiti da basi per i guerriglieri afghani. L’assistenza militare e civile degli Stati Uniti portò a un’elevata crescita economica negli anni ’80. Tuttavia, Zia-ul-Haq morì in un incidente aereo nel 1988. Il suo successore, Ishaq Khan, supervisionò la transizione verso la democrazia, con le elezioni del 1988 vinte dalla figlia di Zulfikar Ali Bhutto, Benazir Bhutto. Lei non riuscì a stabilire il controllo sul Paese e fu destituita da Khan nel 1990 con l’accusa di corruzione. Tuttavia, fu rieletta nel 1993, ma ancora una volta faticò a mantenere il controllo in un Paese afflitto dalla criminalità, dal traffico internazionale di droga e dalla crescente assertività di alcune province pakistane (Baluchistan e Sind) e tribù (Provincia della Frontiera Nord-Occidentale).

Benazir Bhutto fu nuovamente destituita dal presidente Leghari con l’accusa formale di corruzione e cattiva amministrazione nel 1996 e fu infine sostituita da Mian Muhammad Nawaz Sharif (leader dell’Alleanza Democratica Islamica) nel 1997, che procedette a rafforzare la sua posizione modificando la costituzione, che limitava il potere del primo ministro (PM). Tuttavia, anche lui si scontrò con la magistratura, che cercò di conciliare con le sue politiche. Alla fine, nel 1999, cercò di introdurre la legge islamica in Pakistan, ma questo tentativo portò a manifestazioni diffuse, mentre allo stesso tempo il deterioramento della situazione economica aveva già eroso il sostegno popolare a Sharif, anche a causa della sua posizione filo-occidentale durante la prima guerra del Golfo/Desert Storm, 1990-1991. Il suo ordine all’esercito di ritirare le forze dal Kashmir e il licenziamento di Musharraf portarono a un colpo di Stato militare riuscito, guidato dallo stesso Musharraf, che sospese la costituzione, mise le istituzioni politiche e giudiziarie pakistane sotto il controllo militare e cercò di stabilizzare l’economia per placare i creditori internazionali. Dopo aver stabilito il controllo, il regime di Musharraf divenne più liberale. Tuttavia, solo dopo l’11 settembre 2001 il suo regime è stato accolto favorevolmente nell’arena internazionale occidentale. Il suo deciso sostegno alla guerra al terrorismo degli Stati Uniti ha portato grandi vantaggi in termini di politica estera e gli ha permesso di ottenere i tanto necessari prestiti internazionali occidentali. Tuttavia, la sua posizione filo-statunitense è stata criticata da molti fondamentalisti e radicali islamici in Pakistan, tanto da costringerlo a moderare la sua posizione nei confronti dei gruppi islamici radicali in Kashmir. Nel 1998, il Pakistan ha effettuato una serie di test nucleari sotterranei in risposta a un programma simile del principale nemico regionale, l’India.

La situazione politica in Pakistan è rimasta turbolenta, con violenze interetniche a Karachi, seguite da problemi economici nazionali. L’espansione industriale pakistana ha privilegiato il settore privato e i beni di consumo. Ciononostante, la disoccupazione è aumentata più rapidamente della nuova produzione e fino al 70% della popolazione dipende ancora dall’agricoltura. Sia il governo indiano che quello pakistano hanno posto maggiore enfasi sul miglioramento dei raccolti. Sebbene il tasso di crescita rimanga lento, sia l’India che il Pakistan sono riusciti a raggiungere l’autosufficienza alimentare. Tuttavia, circa il 40% della popolazione rurale rimane denutrita a causa del reddito molto basso.

Infine, dal 1947 al 1971, ci sono state tre guerre tra Pakistan e India: la prima (1947-1948), la seconda (1-23 settembre 1965) e la terza (3-16 dicembre 1971). Queste guerre indo-pakistane furono il risultato di questioni irrisolte, ma soprattutto territoriali, tra Pakistan e India, emerse dopo la divisione britannica del subcontinente indiano, ovvero dell’India britannica, nell’agosto 1947 tra questi due Stati. Come conseguenza della terza guerra, il Pakistan perse i suoi territori orientali, sui quali fu formato il nuovo Stato del Bangladesh. Dopo la guerra, l’equilibrio generale di potere nel subcontinente indiano cambiò a favore dell’India. L’India migliorò anche la sua posizione strategica e geopolitica. Tuttavia, la regione del Kashmir è rimasta fino ad oggi motivo di discordia tra Pakistan e India.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex professore universitario

Ricercatore presso il Centro di studi geostrategici

Belgrado, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com

La Russia e l’Occidente collettivo: la politica globale della Guerra Fredda 1.0/2.0_di Vladislav Sotirovic

La Russia e l’Occidente collettivo: la politica globale della Guerra Fredda 1.0/2.0

La Russia come fenice nella politica globale

Dopo la fine dell’Unione Sovietica nel 1991, la Russia è diventata un’area di studio e di interesse meno popolare rispetto a prima della fine della Guerra Fredda (1949-1991). In Occidente si credeva che dopo il 1991 la Russia fosse semplicemente “finita”, poiché Mosca non era più la capitale di una grande potenza (l’URSS) che aveva avuto un’influenza importante nella politica globale e nelle relazioni internazionali dopo la seconda guerra mondiale. In altre parole, i politici occidentali pensavano che dopo il 1991 la Russia sarebbe rimasta irrilevante sia come potenza economica che politica nella politica globale e, quindi, ad esempio, molti programmi di studio universitari sulla Russia negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale furono cancellati o ridimensionati con la motivazione che lo studio della Russia non era più importante per le relazioni internazionali (IR) e la sicurezza globale.

Tuttavia, tutti coloro che condividevano l’opinione che la Russia fosse “irrilevante” nella politica globale e nelle relazioni internazionali dalla fine della Guerra Fredda si sono resi conto, almeno a partire dalla guerra russo-georgiana del 2008[1], del loro fatale errore di valutazione. La Russia è “tornata” e, di conseguenza, Washington e Bruxelles hanno dichiarato una nuova guerra fredda (2.0) alla Russia nel 2008[2], poiché hanno chiaramente compreso che la Russia è tornata ad essere una grande potenza militare, economica e politica. In altre parole, l’Occidente collettivo, in particolare (e guidato dagli) Stati Uniti, ha compiuto un esperimento critico provocando la Russia sulla scena internazionale e ha ricevuto una risposta molto chiara. Il secondo fatale esperimento di sfida alla Russia è stato compiuto sul suolo dell’Ucraina (sovietica) Ucraina dal 2014 al 2022, quando la Russia rinata dopo la Guerra Fredda 1.0 ha accettato il “guanto bianco” lanciatole nel febbraio 2022, avviando un’operazione militare speciale (SMO) contro il regime politico neonazista russofobico di Kiev, sostenuto direttamente a livello politico, logistico, finanziario e militare dal Collettivo Occidentale sin dalla coppa EuroMaidan del 2014.

La Russia, in quanto paese dotato di enormi risorse energetiche, energia nucleare, persone istruite e di talento, non può semplicemente essere ignorata nella politica globale dal Collettivo Occidentale, come è stato fatto negli anni dal 1991 al 2008. Ciò è diventato vero soprattutto dal momento che dal 2008 la Russia persegue attivamente i propri interessi nazionali e la propria politica di sicurezza vicino ai propri confini (all’interno dello spazio dell’ex Unione Sovietica). Tuttavia, era del tutto errato credere che la Russia del dopoguerra fredda sarebbe stata un avversario del “Nuovo Ordine Mondiale” americano, poiché la Russia rinata dopo il 2000 dimostra chiaramente di essere una potenza globale eurasiatica rispettosa, con interessi nazionali e aspirazioni proprie che devono essere riconosciuti e rispettati. Ciò è stato finalmente dimostrato dall’inizio dell’operazione militare speciale russa nel territorio dell’Ucraina orientale (sovietica) popolato da russofoni nel febbraio 2022. Questa operazione, allo stesso tempo, ha chiaramente dimostrato all’Occidente globale che la Russia è tornata (dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica) a essere una delle principali potenze globali nella politica mondiale e, quindi, la sua influenza nelle relazioni internazionali non può più essere ignorata.

La trasformazione della Russia post-sovietica in una grande potenza

È una legge storica che ogni Stato cambi con il tempo. Tuttavia, solo pochi Stati hanno vissuto un cambiamento così drammatico in un breve periodo di tempo come quello che ha vissuto la Russia negli ultimi 30 anni. In altre parole, la Russia è cambiata come Stato, nazione e potenza militare, seguita dalla sua posizione fluttuante nella politica globale e nelle relazioni internazionali. Dal 1991 ad oggi, la Russia ha trasformato pacificamente e rapidamente il suo intero sistema politico ed economico, il che è un esempio relativamente raro nella storia. Quando l’URSS si è dissolta nel 1991, la Russia è rimasta una delle sue 15 repubbliche costituenti, che hanno proclamato l’indipendenza e sono state costrette a ridefinire sostanzialmente il loro ruolo nella politica globale. Gli anni ’90 sono stati molto dolorosi per la posizione della Russia nelle relazioni internazionali, poiché la politica estera del Paese era, di fatto, supervisionata e diretta da Washington e Bruxelles, come ha chiaramente dimostrato, ad esempio, l’aggressione della NATO alla Serbia e al Montenegro nel 1999, ma dal 2008 la politica estera della Russia è tornata ad essere indipendente, riportando gradualmente il Paese nel club delle grandi potenze.

L’importanza dell’influenza della Russia nel mondo nell’arena della politica globale si basa sul fatto fondamentale che la Russia è uno degli attori internazionali più forti che determinano l’agenda politica globale. Ciò significa che la Russia è tornata a far parte del club delle grandi potenze, poiché «uno Stato grande potenza è uno Stato considerato tra i più potenti in un sistema statale gerarchico». [3] La Russia, a questo proposito, soddisfa sicuramente i criteri accademici convenzionalmente accettati che definiscono una grande potenza:

1. Uno Stato grande potenza è al primo posto per capacità militare.

2. Uno Stato grande potenza ha la capacità di mantenere la propria sicurezza e di influenzare il comportamento degli altri Stati.

3. Una grande potenza è economicamente potente, anche se questa è una condizione necessaria ma non sufficiente per far parte del club delle grandi potenze (i casi del Giappone o della Germania sono la migliore illustrazione di questa affermazione).

4. Una grande potenza ha sfere di interesse e di azione nazionali globali e non solo regionali.

5. Uno Stato grande potenza attua una politica estera “proattiva” e, pertanto, ha un’influenza reale, ma non solo potenziale, sulle relazioni internazionali e sulla politica globale (mondiale).[4]

6. Una grande potenza è uno Stato (almeno secondo il concetto del XVIII secolo) che non potrebbe essere conquistato nemmeno dalla forza combinata di altre grandi potenze. [5]

La Russia appartiene sicuramente oggi al club delle potenze globali chiave che dispongono di potenti armi nucleari, di un’economia in crescita e di capacità economiche prospettiche, essendo uno dei membri leader dei BRICS. Tuttavia, ciò che è più importante e che la differenzia dagli altri è che la Russia possiede risorse naturali quasi infinite (molte delle quali probabilmente non sono ancora state scoperte). Ad esempio, nel settembre 2025, il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che la Russia dispone di riserve di carbone per i prossimi mille anni. Da un punto di vista geopolitico, la Russia occupa il segmento cruciale dell’Heartland, la parte geopolitica focale del mondo.[6] La Russia, con la sua ricca storia e le sue tradizioni nazionali, è oggi in procinto di definire il suo nuovo ruolo politico nel secolo attuale. Dietro le politiche della Russia c’è una strategia comprensibile basata su una visione solida del mondo contemporaneo e sulla protezione degli interessi nazionali russi.

I sei fattori del potere russo nelle relazioni internazionali

La storia contemporanea della Russia inizia dopo lo scioglimento dell’URSS da parte di Mikhail Gorbachev (in base all’accordo con Ronald Reagan a Reykjavík nell’ottobre 1986), [7] che ha segnato allo stesso tempo l’inizio del tumulto politico ed economico degli anni ’90, quando la Russia sotto Boris Eltsin e i suoi liberali filo-occidentali era uno Stato fantoccio dell’Occidente collettivo. Tuttavia, il Paese è gradualmente uscito dal periodo di instabilità a partire dal 2000, principalmente grazie alla combinazione di sei fattori, che la nuova amministrazione del presidente Vladimir Putin ha sapientemente sfruttato al massimo:

1. Risorse minerarie sostanziali, in particolare petrolio, gas e carbone.

2. Significativo potere militare, basato sul secondo potenziale nucleare più grande al mondo.

3. Segmento della popolazione relativamente istruito e produttivo.

4. Una base scientifica e tecnologica di alta qualità che è sopravvissuta in diversi settori industriali.

5. Membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, del G8 e del G20.

6. Importante influenza politica ed economica sul territorio dell’ex Unione Sovietica.

Si prevede che la Russia rimarrà in futuro uno degli attori internazionali più importanti e influenti, insieme agli Stati Uniti, all’Unione Europea, alla Cina e alle culture islamiche in ascesa, in particolare l’Iran e la Turchia. Le risorse naturali e le capacità della Russia potrebbero consentirle di seguire una linea indipendente in materia di politica estera e interessi nazionali di sicurezza, sia nelle regioni post-sovietiche che in alcune aree chiave del mondo: Europa orientale, Asia centrale e Medio Oriente. È prevedibile, tuttavia, che gli interessi di Mosca entreranno inevitabilmente in conflitto con quelli di altri attori importanti, in particolare gli Stati Uniti e i loro clienti europei. È certo che l’ordine mondiale nelle relazioni internazionali continuerà a funzionare secondo la Teoria dei Sistemi Mondiali: una variante dello strutturalismo che concettualizza l’ordine mondiale come strutturato in 1) un nucleo ricco e sviluppato, 2) una periferia povera e sottosviluppata e 3) una serie di Stati intermedi o semi-periferici. La Russia migliorerà la propria posizione all’interno del primo gruppo (quello dominante), che comprende tutte le grandi potenze che, si spera (dopo la riunione del 2025 dell’Organizzazione di cooperazione di Shanghai, SCO), governeranno le relazioni internazionali e la politica globale secondo il principio dell’equilibrio di potere, che si riferisce a un meccanismo in base al quale le grandi potenze collaborano tra loro per mantenere i propri interessi contro le minacce di coloro che cercano il dominio sistemico.

Perché studiare e rispettare la Russia?

Ci sono almeno quattro ragioni fondamentali e importantissime per studiare e rispettare l’importanza della Russia nella politica globale e nelle relazioni internazionali odierne:

1. Posizione geopolitica e dimensioni del Paese: la Russia è il Paese più grande del mondo, con una superficie di oltre 17 milioni di km² e 11 fusi orari. La Russia confina con il Mar Baltico a ovest, il Mar Nero e il Mar Caspio (in realtà un lago) a sud, l’Oceano Artico a nord e l’Oceano Pacifico a est. La Russia è un Paese sia europeo che asiatico, che di fatto occupa una posizione geopolitica cruciale nel mondo: il cuore del Heartland. La Russia confina con sei Stati membri della NATO (Polonia, Norvegia, Lituania, Estonia, Finlandia e Lettonia), si affaccia su un settimo Stato attraverso il Mar Nero (Turchia) ed è separata geograficamente dagli Stati Uniti (anch’essi membri della NATO) solo dallo stretto di Bering, largo 85,30 km. La Russia confina con 16 Stati riconosciuti a livello internazionale, il numero più alto di vicini che un Paese possa avere al mondo. Il fattore geopolitico della Russia può essere compreso in breve se si considera che tutto ciò che accade sul territorio dell’Eurasia, dall’Europa centrale al Giappone, influisce in una certa misura sulla Russia e, quindi, Mosca deve reagire in qualche modo.[8]

2. Potenza regionale: la Russia è sicuramente una potenza regionale all’interno del perimetro dell’Heartland, che si sforza di realizzare i propri interessi politici, economici, nazionali e di sicurezza. Dopo il 2000, la Russia è riuscita a sviluppare politiche indipendenti nei confronti di altri Stati, compresi i membri della NATO e dell’UE. I “problemi” con la Russia nella politica globale e nelle relazioni internazionali sono iniziati quando, a partire dal 2008, la politica estera russa non ha più corrisposto, in molti segmenti, agli interessi strategici degli Stati Uniti e dei suoi clienti europei e di altri clienti della NATO e dell’UE. Con grande insoddisfazione di Washington e Bruxelles, la Russia mantiene relazioni amichevoli con i tre principali nemici e concorrenti degli Stati Uniti: Corea del Nord, Cina e Iran. La questione più “problematica” della politica estera russa nella regione per Washington è il fatto che Mosca continui i suoi sforzi per costruire coalizioni economiche e politiche multistatali con i paesi vicini, tra cui la superpotenza cinese, seguita dalle potenze emergenti dell’Iran e dell’India. Russia, Cina e India sono già membri del blocco internazionale BRICS, insieme al Brasile e al Sudafrica come fondatori, seguiti dai nuovi Stati membri.[9] Nel 2008 l’Occidente collettivo ha finalmente riconosciuto la rivendicazione della Russia di avere “interessi privilegiati” nei territori post-sovietici, ad eccezione dei paesi che avevano già aderito all’UE e alla NATO (gli Stati baltici).[10]

3. Potere militare: nonostante la totale insoddisfazione del Pentagono e di Bruxelles, la Russia, anche durante le pesanti sanzioni economiche, finanziarie e di altro tipo introdotte dal Collettivo occidentale dal 2022, rimane uno Stato militare molto forte con una crescita economica stabile, una capacità militare e nucleare rispettabile e un potenziale in via di sviluppo che la mantiene come una delle grandi potenze (anzi, una superpotenza) nella politica globale. È abbastanza comprensibile che anche dopo la Guerra Fredda 1.0, quando il puro imperialismo americano ha trovato la sua piena espressione almeno fino al 2008, Mosca continui con la sua politica di sicurezza basata sulla priorità di avere forti capacità militari. Storicamente, per le autorità russe è abbastanza chiaro che dopo la fondazione della NATO nel 1949, la sopravvivenza, l’indipendenza e la sovranità della Russia dipendevano solo dalla sua potenza militare, in particolare da quella nucleare. [11] La Russia (all’epoca URSS) ha iniziato a produrre armi nucleari nel 1949, quando gli Stati Uniti hanno creato il loro blocco militare imperialista di Stati fantoccio occidentali, e ha raggiunto la parità nucleare con gli Stati Uniti all’inizio degli anni ’70. Oggi la Russia mantiene un arsenale nucleare e sistemi di lancio paragonabili a quelli degli Stati Uniti.[12] Purtroppo, a causa della politica di aperto gangsterismo degli Stati Uniti nelle relazioni internazionali dopo la fine della Guerra Fredda 1.0, le cosiddette democrazie liberali occidentali (l’UE e la NATO) sono ancora nemiche sia della sicurezza della Russia che di quella globale e, pertanto, uno dei compiti più importanti per il prossimo futuro nella politica globale deve essere la creazione di nuove politiche affidabili di sicurezza comune basate sulla giustizia, la democrazia e l’amicizia – una sorta di politica globale multilaterale o almeno relazioni internazionali fondate sulla forma dell’equilibrio di potere tra le grandi potenze.

4. Potere economico: la Russia rimane una potenza economica globale con un indice di crescita economica superiore a quello di molti paesi occidentali, con una popolazione di circa 142 milioni di abitanti, che la rende uno dei dieci Stati più popolosi al mondo. Il suo PIL annuo colloca la Russia tra le prime dieci economie mondiali. Nel 2007, il settore privato, con 5 milioni di imprese private, ha contribuito per il 65% al PIL russo. Sebbene sia possibile un rallentamento economico, è molto probabile che la Russia continui la sua crescita economica nel prossimo futuro, indipendentemente dalle dure sanzioni economiche e di altro tipo imposte dall’Occidente collettivo dal 2022 in poi. La principale fonte di reddito (80%) è lo sfruttamento delle risorse naturali (e la loro vendita sul mercato mondiale), seguito da una vasta gamma di industrie diverse. Le esportazioni russe più importanti di risorse naturali sono petrolio, gas, carbone, legname e metalli. Dobbiamo tenere presente che, ad esempio, la Russia possiede il 23% della superficie forestale totale mondiale[13] ed è all’ottavo posto al mondo per riserve di petrolio (il primo è il Venezuela). Dopo il 2000, la Russia è diventata anche uno dei maggiori fornitori mondiali di energia e uno dei primi tre esportatori di armi. Il potenziale potere economico della Russia deriva dal fatto che questo paese possiede vaste riserve di risorse naturali sul suo territorio, ad esempio il 30% delle riserve mondiali di gas. Il paese è abbastanza vicino alle riserve di gas e petrolio dell’Artico, una fonte di energia grande ma ancora inesplorata, che probabilmente in futuro sarà sfruttata principalmente dalla Russia. Non è così difficile affermare che le risorse energetiche saranno la causa principale dei conflitti nelle relazioni internazionali.

Realtà attuale delle relazioni russo-occidentali nelle relazioni internazionali

Le questioni relative alla natura dei sistemi politici ed economici della Russia e alla politica russa dopo il 2000 sono di fondamentale importanza per comprendere il suo ruolo sia in Eurasia che nel mondo (BRICS+) e per valutare le prospettive di affrontare alcune delle sfide centrali per la sicurezza regionale e globale. I responsabili politici dell’Occidente collettivo hanno compreso questa verità solo dopo l’intervento militare della Russia nel Caucaso nell’agosto 2008, che aveva lo scopo di dimostrare chiaramente che l’ulteriore incorporazione di aree di particolare interesse per Mosca nella zona di influenza occidentale era del tutto inaccettabile. Ciò che gli stessi responsabili politici occidentali hanno anche compreso è che questo intervento era una chiara risposta alla proclamazione di “indipendenza” del Kosovo, sostenuta dall’Occidente, nel febbraio dello stesso anno.

La Russia è un soggetto politico di primo piano, una forte potenza economica e militare, un ricco produttore e fornitore di energia, un attore estremamente importante nella politica globale, che sta ancora costruendo la sua posizione nell’era post-guerra fredda 1.0 (che, in realtà, è già l’era della guerra fredda 2.0). La Russia è e continuerà ad essere per un lungo periodo di tempo uno degli attori cruciali nelle relazioni internazionali e uno dei più importanti decisori nella politica globale. Tuttavia, fino al 2022, la geopolitica post-guerra fredda 1.0 della Russia è stata costretta ad adeguarsi al comportamento della NATO. [14] Tuttavia, dal febbraio 2022, quando è iniziata l’operazione militare speciale della Russia contro l’imperialismo collettivo russofobico occidentale sul territorio dell’Ucraina sovietica (grande), la NATO e il resto dell’Occidente collettivo sono costretti ad adeguare la loro politica sulla scena globale al comportamento russo.

Dichiarazione di non responsabilità personale: L’autore scrive per questa pubblicazione a titolo personale, senza rappresentare alcuna persona o organizzazione se non le proprie opinioni personali. Nulla di quanto scritto dall’autore deve essere confuso con le opinioni editoriali o le posizioni ufficiali di qualsiasi altro mezzo di comunicazione o istituzione.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex professore universitario

Ricercatore presso il Centro Studi Geostrategici

Belgrado, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com

Note finali:

[1] Su questa guerra, almeno dal punto di vista occidentale, si veda [Roger E. Kanet (ed.), Russian Foreign Policy in the 21st Century, New York: Palgrave Macmillan, 2011, 101−178].

[2] Edward Lucas, The New Cold War: Putin’s Russia and the Threat to the West, Londra‒New York: Palgrave Macmillan, 2008.

[3] Andrew Heywood, Global Politics, New York: Palgrave Macmillan, 2011, 7.

[4] Sulla politica mondiale, cfr. [Jeffrey Haynes et al, World Politics, New York: Routledge, 2013].

[5] Richard W. Mansbach, Karsten L. Taylor, Introduction to Global Politics, Second Edition, Londra-New York: Routledge, 2012, 578.

[6] Per quanto riguarda la geografia e la storia, si veda [Halford John Mackinder, “The Geographical Pivot of History”, The Geographical Journal, 23, 1904, 421−437; Pascal Venier, „The Geographical Pivot of History and Early 20th Century Geopolitical Culture“, Geographical Journal, 170 (4), 2004, 330−336].

[7] Per quanto riguarda le relazioni tra R. Reagan e M. Gorbaciov, si veda [Jack F. Matlock Jr., Reagan and Gorbachev: How the Cold War Ended, New York, Random House, 2005].

[8] Per quanto riguarda l’Eurasia e le grandi potenze, si veda [Roger E. Kanet, Maria Raquel Freire (a cura di), Key Players and Regional Dynamics in Eurasia: The Return of the Great Game, Basingstoke, Regno Unito: Palgrave Macmillan, 2010].

[9] BRICS è un acronimo utilizzato per la prima volta dalla società di investimento Goldman Sachs nel 2003 (come BRIC). Considerando il loro rapido sviluppo economico, Goldman Sachs ha previsto che entro il 2050 queste economie saranno più ricche delle attuali potenze economiche mondiali.

[10] Per quanto riguarda la politica estera della Russia nel XXI secolo dal punto di vista occidentale, si veda [Robert Legvold (a cura di), Russian Foreign Policy in the 21st Century and the Shadow of the Past, New York: Columbia University Press, 2007; Roger E. Kanet (a cura di), Russian Foreign Policy in the 21st Century, New York: Palgrave Macmillan, 2011].

[11] Su questo tema, si veda [Richard Pipes, Survival is not Enough: Soviet Realities and America’s Future, New York: Simon & Schuster, 1984].

[12] Robert Legvold, “The Russian File: How to Move Toward a Strategic Partnership”, Foreign Affairs, luglio/agosto 2009, 78−93.

[13] World Resource Institute: www.globalforestwatch.org/english/russia (2009).

[14] Sulla geopolitica della Russia dopo la Guerra Fredda 1.0, si veda [Срђан Перишић, Нова геополитика Русије, Београд: Медија центар „Одбрана“, 2015]. Sulla nuova Guerra Fredda 2.0, si veda [Robert Legvold, Return to Cold War, Cambridge, Regno Unito−Malden, MA: Polity Press, 2016].

Russia and the Collective West: The Global Politics of the Cold War 1.0/2.0

Russia as the phoenix in global politics

After the end of the Soviet Union in 1991, Russia became a less popular area of study and dealing with in comparison to before the end of the Cold War (1949‒1991). In the West, it was believed that after 1991, Russia was simply “finished” as Moscow was no longer the capital of a great power state (of the USSR) which had an important influence in global politics and international relations after WWII. In other words, the Western policymakers thought that after 1991, Russia would remain irrelevant as both economic and political power in global politics, and, therefore, for instance, many universities’ studies programs on Russia in the USA and Western Europe were either canceled or downsized under the explanation that studying Russia was no longer important for international relations (IR) and global security.   

However, all of those who shared an opinion that Russia was “irrelevant” in global politics and international relations since the end of the Cold War realized at least from the 2008 Russo-Georgian War[1] onward their fatal mistake of judgment. Russia is “back,” and subsequently, Washington and Brussels declared a new Cold War (2.0) on Russia in 2008[2] as they clearly understood that Russia is back as a military, economic, and political great power. In other words, the Collective West, especially (and led by) the USA, made a critical experiment of provoking Russia on the international stage, and they received a very clear answer. The second fatal experiment of challenging Russia was on the soil of the (Soviet) Ukraine from 2014 to 2022, when reborn post-Cold War 1.0 Russia accepted the thrown “white glove” in February 2022 by launching a Special Military Operation (SMO) against the Russofrenic neo-Nazi political regime in Kiev, directly politically, logistically, financially, and militarily supported by the Collective West since the 2014 EuroMaidan’s cup.   

Russia, as a country with tremendous energy resources, nuclear power, educated and talented people, simply cannot be ignored in global politics by the Collective West, as was the practice in the years from 1991 to 2008. It became true especially from the very point of fact that Russia has been actively since 2008 pursuing its own national interests and security policy near its borders (within the space of the ex-USSR). Nevertheless, it became totally wrong to believe that the post-Cold War Russia was going to be an adversary to the American “New World Order”, as reborn Russia after 2000 clearly shows to be a respectful Eurasian global power with national interests and aspirations of her own to be both acknowledged and respected. It was finally proven by the start of the Russian Special Military Operation on the territory of Eastern (Soviet) Ukraine populated by the Russian speakers in February 2022. This operation, at the same time, clearly showed the Global West that Russia once again (after the dissolution of the Soviet Union) became a member of the top global powers in global politics and, therefore, its influence in IR cannot be ignored anymore.      

Transformation of post-Soviet Russia into a Great Power

It is a historical law that each state changes with time. However, only a few states experience such dramatic change during the short period of time as Russia has over the last 30+ years. In other words, Russia has changed as a state, nation, and military power, followed by its fluctuating position in global politics and international relations. From 1991 to today, Russia has transformed peacefully and rapidly its entire political and economic system, which is a relatively rare example in history. When the USSR dissolved in 1991, Russia was left to be one of its 15 constituent republics, which proclaimed independence forced to substantially redefine its role in global politics. The 1990s were very painful for Russia’s position in international relations as the country’s foreign policy was, in fact, supervised and directed by Washington and Brussels as the case of NATO aggression on Serbia and Montenegro in 1999, for instance, clearly showed but since 2008 Russia’s foreign policy once again became an independent and gradually returning the country to the club of the Great Powers.  

The importance of Russia´s influence in the world in the arena of global politics is based on the fundamental fact that Russia is one of the strongest international actors that is determining the global political agenda. It means that Russia is once again a member of the Great Power club as „a great power state is a state deemed to rank amongst the most powerful in a hierarchical state-system“.[3] Russia, in this respect, surely fits the conventionally accepted academic criteria that define a Great Power:

  1. A Great Power state is in the first rank of military capacity.
  2. A Great Power state has the capacity to maintain its own security and to influence other states on how to behave.
  3. A Great Power state is economically powerful, although this is a necessary but not a sufficient condition for membership in the Great Power club (the cases of Japan or Germany are the best illustrations of this claim).
  4. A Great Power state has global but not only regional spheres of national interest and action.
  5. A Great Power state is running a „forward“ foreign policy and, therefore, it has a real but not only potential influence on international relations and global (world) politics.[4]
  6. A Great Power is a state (at least according to the 18th-century concept) that could not be conquered even by the combined might of other Great Powers.[5]

Russia surely belongs today to the club of key global powers having powerful nuclear weapons, a growing economy, and prospective economic capacities, being one of the leading BRICS members. However, what is most important and different to others, Russia possesses almost endless natural resources (many of them are probably still even not discovered). For instance, in September 2025, the Russian President Vladimir Putin stated that Russia has reserves of coal for the next one thousand years. From a geopolitical viewpoint, Russia is occupying the crucial segment of the Heartland – the focal geopolitical part of the world.[6] Russia, with its rich history and national traditions, is today in the process of defining its new political role in the current century. Behind Russia’s policies, there is a comprehensible strategy based on a firm vision of the contemporary world and the protection of the Russian national interests.  

The six factors of Russian power in IR

A contemporary history of Russia starts after the dissolution of the USSR by Mikhail Gorbachev (according to the agreement with Ronald Reagan in Reykjavík in October 1986),[7] which marked at the same time the beginning of the political and economic turmoil in the 1990s, when Russia under Boris Yeltsin and his pro-Western liberals was a puppet state of the Collective West. However, the country gradually emerged from the period of instability since 2000 mainly due to the well-combined six factors, which a new administration of President Vladimir Putin skilfully exploited to the full extent:

  1. Substantial mineral resources, particularly of oil, gas, and coal.
  2. Significant military power, based on the second greatest nuclear potential in the world.
  3. Relatively well-educated, productive segment of the population.
  4. A high-quality scientific and technological base that survived in several industries.
  5. Permanent membership in the UNSC, the G8, and the G20.
  6. Important political and economic influence on the territory of the former Soviet Union.                                

It is predicted that Russia will remain in the future as one of the focal and strongest international actors on the same or above level of influence, together with the US, EU, China, and rising Islamic cultures, especially Iran and Turkey. Russia’s natural resources and capabilities may allow it to follow an independent line in foreign policy and security national interests, both in the post-Soviet regions and in some key areas of the world: Eastern Europe, Central Asia, and the Middle East. Predictably, however, Moscow’s interests will inevitably clash with those of other major actors – especially the US and its European clients. That is for sure that world order in international relations is going to continue to function according to World Systems Theory: a variant of structuralism that conceptualizes world order as being structured into 1) A rich and developed core, 2) Poor and underdeveloped periphery, and 3) A number of intermediary or semi-peripheral states. Russia is going to improve its own position within the first (leading) group, which includes all Great Powers who are hopefully (after the 2025 meeting of the Shangai Cooperation Organization-SCO) going to govern international relations and global politics according to the principle of Balance of Power which refers to a mechanism whereby Great Power’s states collaborate with each other in order to maintain their interests against threats from those who would seek systemic dominance.

Why study and respect Russia?

There are at least four focal and most important reasons for both studying and respecting Russia’s importance in global politics and international relations today:

  1. Geopolitical position and the size of the country: Russia is the largest country in the world, stretching over 17 million sq. km and covering 11 time zones. Russia borders the Baltic Sea in the west, the Black Sea and Caspian Sea (in fact, the lake) in the south, the Arctic Ocean in the north, and the Pacific Ocean in the east. Russia is both a European and Asian country, which, in fact, occupies the crucial geopolitical position in the world – the core of the Heartland. Russia shares borders with six NATO member states (Poland, Norway, Lithuania, Estonia, Finland, and Latvia), faces a seventh one across the Black Sea (Turkey), and is geographically separated by only 85,30 km wide Bering Strait from the USA (also a member of NATO). Russia borders 16 internationally recognized states, which is the largest number of neighbors that one country has in the world. A geopolitical factor of Russia can be shortly understood if we know that anything that is happening on the territory of Eurasia from Central Europe to Japan is affecting to a certain extent Russia and, therefore, Moscow has to react by some means to that.[8]
  2. Regional power: Russia is surely a regional power within the perimeter of Heartland, which is striving to realize its own political, economic, national, and security interests. Russia, after 2000, succeeded in developing its own independent policies toward other states, including NATO and the EU’s members. The “problems” with Russia in global politics and international relations started when, since 2008, Russia’s foreign policy did not in many segments correspond with the strategic interests of the USA and its European and other clients of NATO and the EU. To the full level of dissatisfaction by Washington and Brussels, Russia maintains friendly relations with the three main American enemies and competitors – North Korea, China, and Iran. The most “problematic” issue of Russian foreign policy in the region for Washington is the fact that Moscow is continuing its efforts to build multi-state economic and political coalitions with neighboring countries, including super-powerful China, followed by rising powers of Iran and India. Russia, China, and India are already members of the international bloc, the BRICS, together with Brazil and South Africa as founders, followed by newly accepted member states.[9] The Collective West finally 2008 recognized Russia’s claim to have “privileged interests” within the post-Soviet territories, except in those countries that joined the EU and NATO before (the Baltic States).[10]       
  3. Military power: With the total dissatisfaction by the Pentagon and Brussels, Russia still even during overwhelming economic, financial, and other sanctions by the Collective West introduced since 2022, remains a very strong military state with stable economic growth, respectful military and nuclear capacity, and developing potentials which are keeping it as one of the Great Powers (even a Super Power) in global politics. It is quite understandable that even after Cold War 1.0, when bare American imperialism received its full expression at least till 2008, Moscow continues with its security policy based on the priority of having strong military capacities. Historically, for the Russian authorities is quite clear that after NATO’s establishment in 1949, Russia’s survival, independence, and sovereignty depended only on its military power, especially the nuclear one.[11] Russia (at that time the USSR) started to produce nuclear weapons in 1949 when the US created its imperialistic military bloc of Western puppet states and reached nuclear parity with the US at the beginning of the 1970s. Russia is today maintaining a nuclear arsenal and delivery systems that are comparable to the arsenal of the US.[12] Unfortunately, due to the US’ policy of open gangsterism in international relations after the end of the Cold War 1.0, the so-called Western liberal democracies (the EU and NATO) are still an enemy to both Russia’s and global security and, therefore, one of the most important tasks for the near future in global politics has to be the creation of new reliable policies of common security based on justice, democracy, and friendship – a kind of multilateral global politics or at least the international relations founded on the form of the balancing power among the Great Powers.  
  4. Economic power: Russia remains a global economic power with a growing economy index higher than many Western countries, having a population of some 142 million, which makes it one of the ten most populous states in the world. Her GDP per annum is selecting Russia among the world’s top 10 economies. In 2007, the private sector, with 5 million private enterprises, contributed 65% of Russia’s GDP. Although an economic slowdown is possible, Russia is most likely to continue with its economic growth in the near future, regardless of the harsh economic and other sanctions imposed by the Collective West since 2022 onward. The main source of revenue (80%) is the exploitation of natural resources (and selling them to the world market), followed by a wide range of different industries. The most important Russian export of natural resources is oil, gas, coal, timber, and metals. We have to keep in mind that, for instance, Russia has 23% of the total world’s forested land[13] and is in the 8th place in the world according to the oil reserves (the first is Venezuela). After 2000, Russia became as well as one of the biggest world’s energy suppliers and the exporter of weapons (among the top 3). The potential economic power of Russia comes from the fact that this country possesses vast reserves of natural resources on its territory, for example, 30% of global gas reserves. The country is quite near to the Arctic’s gas and oil reserves, a large but still unexplored source of energy, which is probably going to be mainly under Russian exploitation in the future. It is not so difficult to claim that energy resources are going to be the focal reason for the conflicts in international relations.        

Current reality of Russo-Western relations in IR

Questions about the nature of Russia’s political and economic systems and Russia’s policy after 2000 are of crucial importance in understanding its place in both Eurasia and the world (BRICS+), and assessing the prospects for dealing with some of the focal challenges to regional and global security. The policymakers of the Collective West understood this truth only after Russia’s military intervention in the Caucasus in August 2008, which was intended to clearly demonstrate that further incorporation of areas of special interest to Moscow into the Western client zone was totally unacceptable. What the same Western policymakers also understood was that this intervention was a clear counterpunch to Western-sponsored Kosovo’s proclamation of “independence” in February of the same year. 

Russia is a leading political subject, a strong economic and military power, a rich energy producer and supplier, an extremely important player in global politics, which is still building its position in the post-Cold War 1.0 era (that, in fact, is already the era of the Cold War 2.0). Russia is and is going to be for a long period of time in the future both one of the crucial players in international relations and one of the most important decision-makers in global politics. However, up to 2022, Russia’s post-Cold War 1.0 geopolitics was forced to be accommodated to the behavior of NATO.[14] Nevertheless, since February 2022, when the SMO of Russia started, in fact, against the Collective Western Russofrenic imperialism, on the territory of the Soviet (Greater) Ukraine, NATO and the rest of the Collective West are forced to accommodate their politics on the global arena to the Russian behaviour.

Personal disclaimer: The author writes for this publication in a private capacity, which is unrepresentative of anyone or any organization except for his own personal views. Nothing written by the author should ever be conflated with the editorial views or official positions of any other media outlet or institution. 

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex-University Professor

Research Fellow at Centre for Geostrategic Studies

Belgrade, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com


Endnotes:

[1] On this war, at least from the Western perspective, see in [Roger E. Kanet (ed.), Russian Foreign Policy in the 21st Century, New York: Palgrave Macmillan, 2011, 101−178].

[2] Edward Lucas, The New Cold War: Putin’s Russia and the Threat to the West, London‒New York: Palgrave Macmillan, 2008.

[3] Andrew Heywood, Global Politics, New York: Palgrave Macmillan, 2011, 7.

[4] About world politics, see in [Jeffrey Haynes et al, World Politics, New York: Routledge, 2013].

[5] Richard W. Mansbach, Karsten L. Taylor, Introduction to Global Politics, Second Edition, London−New York: Routledge, 2012, 578.

[6] About geography and history, see in [Halford John Mackinder, “The Geographical Pivot of History”, The Geographical Journal, 23, 1904, 421−437; Pascal Venier, „The Geographical Pivot of History and Early 20th Century Geopolitical Culture“, Geographical Journal, 170 (4), 2004, 330−336].

[7] About R. Reagan and M. Gorbachev’s relations, see in [Jack F. Matlock Jr., Reagan and Gorbachev: How the Cold War Ended, New York, Random House, 2005].

[8] On Eurasia and Great Powers, see in [Roger E. Kanet, Maria Raquel Freire (eds.), Key Players and Regional Dynamics in Eurasia: The Return of the Great Game, Basingstoke, UK: Palgrave Macmillan, 2010].

[9] The BRICS is an acronym first used by the investment firm Goldman Sachs in 2003 (as the BRIC). Taking their rapid economic development, Goldman Sachs predicted that these economies are going to be wealthier by 2050 than the world’s current economic powers.

[10] About the foreign policy of Russia in the 21st century from the Western perspective, see in [Robert Legvold (ed.), Russian Foreign Policy in the 21st Century and the Shadow of the Past, New York: Columbia University Press, 2007; Roger E. Kanet (ed.), Russian Foreign Policy in the 21st Century, New York: Palgrave Macmillan, 2011].

[11] About this issue, see in [Richard Pipes, Survival is not Enough: Soviet Realities and America’s Future, New York: Simon & Schuster, 1984].

[12] Robert Legvold, “The Russian File: How to Move Toward a Strategic Partnership”, Foreign Affairs, July/August 2009, 78−93.

[13] World Resource Institute: www.globalforestwatch.org/english/russia (2009).

[14] About the post-Cold War 1.0 geopolitics of Russia, see in [Срђан Перишић, Нова геополитика Русије, Београд: Медија центар „Одбрана“, 2015]. About the new Cold War 2.0, see in [Robert Legvold, Return to Cold War, Cambridge, UK−Malden, MA: Polity Press, 2016].

Sull’identità ucraina: l’Ucraina come zona cuscinetto, di Vladislav Sotirovic

Sull’identità ucraina: l’Ucraina come zona cuscinetto

Una comunità immaginaria

L’Ucraina è un territorio dell’Europa orientale che originariamente faceva parte della parte occidentale dell’Impero russo e della parte orientale del Regno di Polonia nella metà del XVII secolo (divisione secondo il Trattato di pace di Andrusovo del 1667). Oggi è uno Stato indipendente e una nazione etnico-linguistica separata, tipico esempio del modello teorico di Benedict Anderson di “comunità immaginata”, un’idea auto-costruita di identità etnica e linguistico-culturale artificiale [vedi Benedict Anderson, Imagined Communities, Londra-New York: Verso, 1983]. Prima del 2014, l’Ucraina contava circa 46 milioni di abitanti, di cui, secondo i dati ufficiali, circa il 77% si dichiarava ucraino.

Ciononostante, molti russi non considerano gli ucraini o i bielorussi/la Bielorussia come “stranieri”, ma piuttosto come rami regionali della nazionalità russa. È un dato di fatto che, a differenza del caso russo, l’identità nazionale della Bielorussia o degli ucraini non è mai stata fissata in modo definitivo, ma è sempre stata in costante evoluzione e trasformazione [sulla costruzione dell’identità ucraina, cfr. Karina V. Korostelina, Constructing the Narratives of Identity and Power: Self-Imagination in a Young Ukrainian Nation, Lanham, Maryland: Lexington Books, 2014].

Il processo di autocostruzione dell’identità degli ucraini dopo il 1991 è fondamentalmente orientato nei confronti dei due vicini più potenti dell’Ucraina: la Polonia e la Russia. In altre parole, l’identità ucraina in fase di costruzione (come quella montenegrina o bielorussa) può solo affermare che gli ucraini non sono né polacchi né russi, ma ciò che sono realmente è oggetto di un ampio dibattito e non è ancora chiaro. Pertanto, l’esistenza di uno Stato indipendente dell’Ucraina, nominalmente uno Stato nazionale degli ucraini, è davvero molto dubbia da entrambi i punti di vista: storico ed etnolinguistico.

Autodeterminazione nazionale

Il principio della cosiddetta “autodeterminazione nazionale” divenne popolare nell’Europa centro-orientale, orientale e sud-orientale con la proclamazione dei “Quattordici punti” di Woodrow Wilson l’8 gennaio 1918. Tuttavia, come concetto, il principio era vivo fin dalla Rivoluzione francese, se non addirittura prima. La stessa Rivoluzione francese sosteneva il principio dell’autodeterminazione nazionale, già utilizzato nella pratica dalla Rivoluzione americana (iniziata nel 1776), seguita dalla guerra d’indipendenza americana (terminata nel 1783) contro il Regno Unito come potenza coloniale. In breve, il concetto si basa sul principio che la fonte di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione. Pertanto, l’idea di un plebiscito fu introdotta come sostegno politico all’indipendenza o all’annessione di determinati territori. Ad esempio, la Francia organizzò un plebiscito per giustificare l’annessione territoriale di Avignone, della Savoia e di Nizza negli anni Novanta del Settecento. Lo stesso principio fu utilizzato per l’unificazione italiana e tedesca nella seconda metà del XIX secolo o per la dissoluzione dell’Impero ottomano in Europa da parte degli Stati balcanici nel 1912-1913.

Il nuovo ordine politico europeo dopo la prima guerra mondiale fu stabilito secondo il principio dell’autodeterminazione nazionale, con una ridefinizione fondamentale dei territori dell’Europa centro-orientale e sud-orientale. Emersero nuovi Stati nazionali, alcuni dei quali furono ampliati con l’inclusione dei cittadini dei paesi confinanti. Proprio sulla base di questo principio furono distrutti quattro imperi: quello tedesco, quello ottomano, quello russo e quello austro-ungarico.

Tuttavia, lo stesso principio di autodeterminazione nazionale non fu applicato a tutte le nazioni europee per diversi motivi. Uno di questi era che alcune nazioni oggi conosciute non erano riconosciute come tali, almeno non dalle potenze vincitrici dell’Intesa. Questo era, infatti, il caso degli ucraini, o meglio, di quegli ucraini rimasti al di fuori dei confini dell’URSS. Quegli ucraini trans-sovietici furono tra i perdenti del sistema di Versailles dopo il 1918. Mentre a un gran numero di nazioni più piccole (rispetto agli ucraini), dalla Finlandia ai Balcani, fu concessa l’indipendenza statale (ad esempio, gli Stati baltici) o l’inclusione in uno Stato nazionale unito (ad esempio, la Grande Romania), agli ucraini fu negata.

A differenza di molte altre nazioni europee, negli anni 1917-1920 furono create diverse entità politiche ucraine (unità statali o federali), sia dai tedeschi che dai bolscevichi. I tedeschi crearono uno Stato ucraino formalmente indipendente nel 1918, mentre i bolscevichi istituirono non solo un’Ucraina sovietica come entità politica all’interno dello Stato bolscevico (in seguito URSS).

Ad essere onesti, ci furono diversi motivi fondamentali per cui i vincitori occidentali non crearono un’Ucraina indipendente dopo la prima guerra mondiale: 1) Poteva essere considerata una vittoria politica tedesca sull’ex fronte orientale; 2) Il paese poteva essere governato da nazionalisti vicini al concetto tedesco di Mittel Europa e, quindi, l’Ucraina poteva diventare uno Stato cliente della Germania; 3) Un’Ucraina indipendente sarebbe stata anti-polacca e antisemita; 4) Un’Ucraina indipendente avrebbe potuto inclinarsi verso il lato sovietico per la questione della creazione di una Grande Ucraina; 5) Molti occidentali non riconoscevano una nazione ucraina indipendente come gruppo etnico-linguistico separato; e 6) L’Ucraina come entità federale esisteva già all’interno dello Stato sovietico.

Pertanto, per tutte le ragioni cruciali sopra menzionate, le potenze vincitrici dopo la prima guerra mondiale decisero di non sostenere la creazione di uno Stato ucraino indipendente come Stato nazionale degli “ucraini” applicando il principio dell’autodeterminazione nazionale. Inoltre, applicando i diritti storici, nel 1923 le potenze dell’Intesa restituirono alla Polonia la Galizia e alcuni altri territori considerati dai nazionalisti ucraini come l’Ucraina “occidentale”. Gli ucraini all’interno della Polonia non ottennero alcuna autonomia nazionale (a differenza del caso dell’Ucraina sovietica) proprio perché non erano stati riconosciuti come nazione separata, cioè come gruppo etnolinguistico.

Ucraina?

Il termine slavo Ucraina, ad esempio, nel caso serbo-croato Krajina, significa in lingua inglese Borderland, ovvero un territorio provinciale situato al confine tra almeno due entità politiche: in questo particolare caso storico, tra il Regno di Polonia e il Granducato di Lituania come Repubblica delle Due Nazioni (1569-1795), da un lato, e l’Impero russo, dall’altro. Va notato che, secondo l’Unione di Lublin del 1569 tra Polonia e Lituania, il territorio ucraino precedentemente appartenente alla Lituania passò alla Polonia.

Un termine storico tedesco per indicare l’Ucraina sarebbe mark, termine che indica la zona di confine dello Stato esistente fin dai tempi del Regno/Impero franco di Carlo Magno. Il termine è utilizzato principalmente a partire dal Trattato (Tregua) di Andrusovo (Andrussovo) del 1667 tra la Polonia-Lituania e la Russia. In altre parole, l’Ucraina e gli ucraini come identità storico-culturale oggettiva e naturale non sono mai esistiti, in quanto considerati solo un territorio geografico-politico tra due altre entità storico-naturali (Polonia [-Lituania] e Russia). Tutte le menzioni (quasi) storiografiche di questa terra e del suo popolo come Ucraina/ucraini riferite al periodo precedente alla metà del XVII secolo sono scientificamente errate, ma nella maggior parte dei casi sono di ispirazione politica e colorite per presentarli come qualcosa di fondamentalmente diverso dal processo storico di genesi etnica dei russi [ad esempio: Alfredas Bumblauskas, Genutė Kirkienė, Feliksas Šabuldo (sudarytojai), Ukraina: Lietuvos epocha, 1320−1569, Vilnius: Mokslo ir enciklopedijų leidybos centras, 2010].

Il ruolo del Vaticano e dell’Atto di Unione

È stato il Vaticano cattolico romano a promuovere il processo di creazione della “comunità immaginaria” dell’identità nazionale “ucraina” con il preciso scopo politico di separare la popolazione di questo territorio di confine dall’Impero russo ortodosso. Lo stesso identico comportamento fu tenuto dall’Austria-Ungheria, cliente del Vaticano, nei confronti dell’identità nazionale della popolazione bosniaco-erzegovina quando questa provincia fu amministrata da Vienna-Budapest dal 1878 al 1918, poiché fu il governo austro-ungarico a creare un’identità etnolinguistica totalmente artificiale e molto nuova, quella dei “bosniaci”, proprio per non essere i serbi (ortodossi) (che all’epoca costituivano una forte maggioranza della popolazione provinciale) [Лазо М. Костић, Наука утврђује народност Б-Х муслимана, Србиње−Нови Сад: Добрица књига, 2000].

La creazione di un’identità nazionale ucraina etnico-linguistica artificiale e, successivamente, di una nazionalità separata faceva parte di un più ampio progetto politico-confessionale del Vaticano nella lotta storica della Chiesa cattolica romana contro il cristianesimo ortodosso orientale (lo “scisma orientale”) e le sue chiese, nel quadro della tradizionale politica di proselitismo del Papa volta alla riconversione degli “infedeli”. Uno degli strumenti di riconversione soft di maggior successo utilizzati dal Vaticano fu quello di costringere una parte della popolazione ortodossa a firmare con la Chiesa cattolica romana l’Atto di Unione, riconoscendo in tal modo il potere supremo del Papa e il dogma del filioque (“e dal Figlio” – lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio).

Pertanto, gli ex credenti ortodossi che ora sono diventati fratelli uniati o credenti greco-ortodossi sono diventati, in gran numero, cattolici romani puri e hanno anche cambiato la loro identità etnolinguistica originaria (di epoca ortodossa). Ciò è molto chiaro, ad esempio, nel caso dei serbi ortodossi nella zona di Zhumberak in Croazia, che da serbi etnici (ortodossi) sono diventati credenti greco-ortodossi, poi cattolici romani e infine croati etnici (cattolici romani). Qualcosa di simile è accaduto nel caso dell’Ucraina.

L’Unione di Brest del 1596

Il 9 ottobre 1596 il Vaticano annunciò l’Unione di Brest con una parte della popolazione ortodossa all’interno dei confini del Commonwealth lituano-polacco cattolico romano (oggi Ucraina) [Arūnas Gumuliauskas, Lietuvos istorija: Įvykiai ir datos, Šiauliai: Šiaures Lietuva, 2009, 44; Didysis istorijos atlasas mokyklai: Nuo pasaulio ir Lietuvos priešistorės iki naujausiųjų laikų, Vilnius: Leidykla Briedis, (senza anno di pubblicazione) 108]. La questione cruciale, tuttavia, è che oggi gli uniati e i cattolici romani dell’Ucraina sono fortemente anti-russi e animati da sentimenti nazionalisti ucraini. Fondamentalmente, sia l’identità etnico-linguistica che quella nazionale dell’Ucraina e della Bielorussia odierne sono storicamente fondate sulla politica anti-ortodossa del Vaticano nel territorio dell’ex Confederazione polacco-lituana, che era in sostanza una costruzione politica anti-russa.

La storiografia lituana che scrive dell’Unione ecclesiastica di Brest del 1596 lo conferma chiaramente:

“… la Chiesa cattolica penetrò sempre più fortemente nella zona della Chiesa ortodossa, dando nuovo slancio all’idea, cara fin dai tempi di Jogaila e Vytautas e formulata nei principi dell’Unione di Firenze del 1439, ma mai messa in atto: la subordinazione della Chiesa ortodossa del Granducato di Lituania al dominio del Papa” [Zigmantas Kiaupa et al, The History of Lithuania Before 1795, Vilnius: Lithuanian Institute of History, 2000, 288].

In altre parole, i governanti del Granducato di Lituania cattolico romano (GDL) fin dal momento del battesimo della Lituania nel 1387-1413 da parte del Vaticano avevano un piano per cattolicizzare tutti i credenti ortodossi del GDL, tra i quali la stragrande maggioranza era costituita da slavi. Di conseguenza, i rapporti con Mosca divennero molto ostili, poiché la Russia accettò il ruolo di protettrice dei credenti e della fede ortodossa e, pertanto, l’Unione ecclesiastica di Brest del 1596 fu considerata un atto criminale da Roma e dal suo cliente, la Repubblica delle Due Nazioni (Polonia-Lituania).

Una zona cuscinetto

Oggi è assolutamente chiaro che la parte più filo-occidentale e russofoba dell’Ucraina è proprio l’Ucraina occidentale, le terre che storicamente erano sotto il dominio dell’ex Confederazione polacco-lituana cattolica romana e dell’ex monarchia asburgica. È evidente, ad esempio, dai risultati delle elezioni presidenziali del 2010 che le regioni filo-occidentali hanno votato per J. Tymoshenko, mentre quelle filo-russe hanno votato per V. Yanukovych. È un riflesso del dilemma identitario post-sovietico dell’Ucraina tra “Europa” ed “Eurasia”, un dilemma comune a tutte le nazioni dell’Europa centro-orientale e orientale, che storicamente hanno svolto il ruolo di zona cuscinetto tra il progetto tedesco della Mittel Europa e il progetto russo di unità e reciprocità panslavica.

In generale, i territori occidentali dell’attuale Ucraina sono popolati principalmente da cattolici romani, ortodossi orientali e uniati. Questa parte dell’Ucraina è prevalentemente nazionalista e filo-occidentale (di fatto filo-tedesca). Al contrario, l’Ucraina orientale è, in sostanza, russofona e di conseguenza «tende a cercare relazioni più strette con la Russia» [John S. Dryzek, Leslie Templeman Holmes, Post-Communist Democratization: Political Discourses Across Thirteen Countries, Cambridge−New York: Cambridge University Press, 2002, 114].

Dalla prima guerra mondiale ad oggi, i tedeschi sono stati i principali sostenitori della creazione dello Stato nazionale ucraino per diverse ragioni geopolitiche ed economiche. Di conseguenza, diversi tipi di nazionalisti ucraini si sono schierati con le autorità tedesche. Ad esempio, mentre le potenze vincitrici dell’Intesa dopo il 1918, sostenute da Polonia, Jugoslavia, Romania o Cecoslovacchia, attuavano la politica di conservazione del sistema di Versailles, i tedeschi durante il periodo tra le due guerre si opponevano e combattevano contro di esso. È da questo punto di vista che si spiega perché i nazionalisti ucraini accettarono la politica nazista di un “Nuovo Ordine Europeo” in cui una Grande Ucraina potesse esistere in qualche forma politica, di fatto come zona cuscinetto [Frank Golczewski, “The Nazi ‘New European Order’ and the Reactions of Ukrainians”, Henry Huttenbach e Francesco Privitera (a cura di), Self-Determination: From Versailles to Dayton. Its Historical Legacy, Longo Editore Ravenna, 1999, 82‒83]. Infine, ancora oggi, il principale sostenitore e sponsor dell’Ucraina nel suo conflitto con la Russia è proprio la Germania. Tuttavia, dobbiamo tenere presente che dopo il 1991 la Russia ha lasciato almeno 25 milioni di persone di etnia russa al di fuori dei confini della Federazione Russa, un numero enorme delle quali nell’Ucraina post-sovietica [per ulteriori informazioni, cfr. Ruth Petrie (a cura di), The Fall of Communism and the Rise of Nationalism, The Index Reader, Londra‒Washington: Cassell, 1997].

Dichiarazione personale: L’autore scrive per questa pubblicazione a titolo personale e non rappresenta nessuno né alcuna organizzazione, se non le sue opinioni personali. Nulla di quanto scritto dall’autore deve essere confuso con le opinioni editoriali o le posizioni ufficiali di qualsiasi altro mezzo di comunicazione o istituzione.

Dr. Vladislav B. Sotirović

Ex professore universitario

Ricercatore presso il Centro di studi geostrategici

Belgrado, Serbia

www.geostrategy.rs

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© Vladislav B. Sotirović 2025

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Il Kosovo nel (1981-1989):Una secessione silenziosa dalla Serbia e dalla Jugoslavia_ di Vladislav Sotirovic

Kosovo (1981-1989):

Una secessione silenziosa dalla Serbia e dalla Jugoslavia

Prefazione

Il periodo degli anni ’80 nella Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia fu caratterizzato da un governo federale impotente a Belgrado, con tutte e sei le repubbliche che esercitavano la propria politica autonoma e mostravano scarso interesse per gli interessi comuni jugoslavi. La popolazione non albanese della provincia meridionale serba del Kosovo e Metochia (KosMet, in inglese conosciuta solo come Kosovo) si trovava in una posizione isolata, senza una reale protezione politica e fisica. Va ricordato che dal 1974 al 1989 gli albanesi detenevano il potere politico-amministrativo totale nella provincia, che da un lato godeva di uno status formale di autonomia all’interno della Serbia, ma di fatto era indipendente sia dalle autorità repubblicane serbe che dal governo federale jugoslavo.

Proteste dei serbi e dei montenegrini

Nella pratica politica quotidiana, le autorità serbe comunicavano direttamente con i funzionari provinciali locali (di fatto il governo), che ignoravano le lamentele dei non albanesi, in particolare dei serbi e dei montenegrini. Gli attacchi contro serbi e montenegrini divennero sempre più frequenti e violenti, tanto che la popolazione, insicura, cominciò ad abbandonare la provincia a un ritmo costante. Ad esempio, dopo che le autorità repubblicane avevano ignorato numerose denunce, i contadini dei villaggi serbi di Batuse, Klina e Kosovo Polje (non di Pristina) decisero di trasferirsi collettivamente il 20 giugno 1986 dal KosMet alla Serbia centrale per non finire sotto l’amministrazione albanese. Tuttavia, immediatamente, Adem Vlasi, che all’epoca era segretario del partito comunista al potere per il KosMet (Savez Komunista Jugoslavije = Unione dei comunisti jugoslavi), cioè senza alcuna carica ufficiale, arrivò sul posto e fermò il convoglio diretto verso la Serbia centrale. La sua spiegazione del problema fu più che eloquente:

«Potete andarvene, ma uno alla volta, non tutti insieme!»

Allo stesso tempo, il presidente della Presidenza (governo) della Repubblica Socialista di Serbia, Ivan Stambolić (1986-1987), non poté fare assolutamente nulla, se non essere informato che persone indignate e amareggiate stavano tornando al loro “campo di concentramento” nel villaggio di Batuse, Klina e Kosovo Polje. Era davvero triste vedere la sua impotenza nel Paese di cui era il capo. Più tardi, quando Slobodan Milošević prese il potere in Serbia nel 1989, nessuno si preoccupò di ricordare questa scena paradigmatica come possibile spiegazione (se non necessariamente giustificazione) delle misure che prese riguardo agli affari del KosMet, che probabilmente sarebbero state prese in qualsiasi Stato democratico (occidentale) per proteggere i propri cittadini dal terrore inflitto da altri.

Una delegazione non ufficiale serbo-montenegrina giunse dal KosMet a Belgrado e fu autorizzata a parlare all’Assemblea federale, presieduta dal macedone Lazar Mojsov. La scena più toccante si verificò quando una donna di mezza età si alzò davanti al microfono e chiese piangendo:

«Nessuno si cura di noi nel KosMet, nessuno si cura di noi a Belgrado! A chi apparteniamo?!».

Tuttavia, sia il governo federale che quello repubblicano serbo non poterono fare nulla, vincolati dalle costituzioni jugoslava e serba. Il successivo presidente della Serbia, Ivan Stambolić (1936-2000/1986-1987) (che promosse il suo uomo di fiducia, Slobodan Milošević, alla carica di segretario del partito), si recò a Priština (centro amministrativo del KosMet) per cercare di calmare la situazione, ma invano. Iniziarono manifestazioni di massa, con serbi e montenegrini del KosMet che si radunavano sul prato davanti al palazzo del Consiglio comunale di Belgrado (proprio di fronte all’Assemblea federale), chiedendo udienza e aiuto. Ma i funzionari di Belgrado si limitarono a interventi formali nei confronti dei loro omologhi ufficiali del KosMet (di fatto, gli albanesi di etnia albanese). Questi sforzi inutili finirono come previsto: in un vicolo cieco. Poi accadde qualcosa che avrebbe deciso il destino immediato della Jugoslavia e della Serbia. Qualcosa che si sarebbe rivelato fatale sia per la Jugoslavia di Tito che per la Serbia.

Slobodan Milošević in Kosovo (aprile 1987)

Gli abitanti serbi di un villaggio del KosMet chiamato Zubin Potok (in italiano “ruscello di Zuba”) invitarono le massime autorità serbe a fargli visita nell’aprile 1987, per poter denunciare direttamente la loro situazione. Tuttavia, Ivan Stambolić, per qualche motivo, scelse S. Milošević al posto suo. A quel tempo, S. Milošević non ricopriva alcuna carica ufficiale in Serbia (era solo il presidente dell’Unione dei comunisti serbi), proprio come l’albanese Azem Vlasi nel KosMet. Probabilmente Ivan Stambolić aveva semplicemente paura di presentarsi di persona davanti a persone furibonde alle quali avrebbe pronunciato le solite parole di propaganda vuota sulla “fratellanza e l’unità” tipiche della Jugoslavia titista. Tuttavia, sapeva bene che i serbi arrabbiati richiedono molto più di un vuoto vocabolario politico.

I comunisti locali organizzarono una riunione a porte chiuse (faccia a faccia) nel municipio per “discutere la questione”. Tuttavia, naturalmente, la presenza del capo provinciale, Azem Vlasi, era inevitabile sul posto. Era in corso una lunga discussione quando si udirono grida dall’esterno che chiedevano a S. Milošević di uscire. Quando apparve davanti alla folla, che attendeva con ansia i risultati dell’incontro, vide la polizia (di etnia albanese) respingere la gente impaziente (serba). Poi qualcuno (serbo) gridò le parole fatali: “Siamo stati picchiati!”. E S. Milošević esclamò una frase altrettanto fatale, che sarebbe diventata il punto di riferimento della sua carriera:

“Nessuno può picchiarvi!”.

Il lungo incontro non portò a conclusioni immediate, ma questo incidente segnò la svolta nella carriera politica e nel destino di S. Milošević. Se dovessimo paragonarlo a un evento storico, forse il parallelo migliore sarebbe quello della mitologia cristiana, il momento in cui Giovanni Battista battezzò Gesù nel fiume Giordano, con lo Spirito Santo che scendeva dal cielo e entrava nel suo corpo. Secondo alcune interpretazioni, in particolare quelle gnostiche, fu allora che Gesù di Nazareth divenne divino, trasformandosi da uno dei tanti predicatori presenti in Palestina e dintorni in un profeta e Messia. Fantasia religiosa a parte, è ben possibile che Gesù abbia preso coscienza della sua “missione sulla Terra” e abbia iniziato la sua breve ma prolifica liturgia in Galilea.[1] Tuttavia, questo episodio gli fece capire che la questione KosMet, il vero problema del momento, rappresentava un’opportunità promettente su cui basare la sua carriera politica. E lui colse questa opportunità con tutto se stesso. Nel bene e nel male, comunque.

La politica di S. Milošević per l’unificazione della Serbia

Il suo obiettivo immediato era quello di togliere al KosMet la copertura di provincia intoccabile, dotata di tutti i diritti di uno Stato indipendente, tranne il diritto di secessione. La decisione non era facile da realizzare, sia dal punto di vista pratico che ideologico. È saggezza tradizionale che non si privi mai qualcuno dei diritti, dei privilegi, ecc. già posseduti, senza motivi validi.[2] Conoscendo la mentalità bellicosa della popolazione albanese del KosMet (originariamente montanari dell’Alta Albania), non ci si poteva aspettare un accordo molto razionale. La popolazione giovane, sovraffollata, disoccupata e insoddisfatta sotto ogni aspetto, sottoposta fin dalla prima giovinezza al lavaggio del cervello con mantra come “l’odio dei serbi”, ecc., era come un animale selvaggio da domare. E il cane era già stato sguinzagliato: il movimento secessionista.

Gli slogan secessionisti albanesi come “Repubblica del Kosovo” erano già nell’aria (anche in forma modesta fin dalle prime manifestazioni anti-jugoslave degli albanesi del Kosovo nel 1968). D’altra parte, gli attivisti locali non albanesi erano in movimento. Frequenti erano le visite ai funzionari provinciali locali, con richieste di migliori condizioni di vita per i serbi e tutti gli altri non albanesi nel KosMet. Come previsto, si rivelarono inutili, poiché i leader albanesi locali e provinciali (al potere) sapevano di possedere diritti legali, compreso quello di ignorare tutto ciò che non gradivano.

Furono pianificati e realizzati movimenti più massicci, con i serbi del KosMet che organizzarono grandi raduni fuori dalla provincia (nella Serbia centrale e settentrionale, cioè nella provincia autonoma della Vojvodina), con l’approvazione tacita e il sostegno dei leader del partito di Belgrado attorno a S. Milošević. Coloro che criticavano le sue promesse politiche, definite “facili promesse”, furono incautamente allontanati dalla scena politica (e quindi dal partito) serba. Lo stesso Ivan Stambolić fu rovesciato durante l’ottava riunione del partito nel 1987, tenutasi a Belgrado. Si dimise dalla carica di presidente e si ritirò nel settore bancario.[3] Il primo obiettivo politico di Milošević era lo status della Vojvodina come provincia autonoma, controparte serba settentrionale del Kosovo e Metochia, come territorio separatista della Serbia settentrionale. Se la provincia autonoma separatista del KosMet fosse stata abolita solo da un punto di vista politico-amministrativo (e non culturale-etnico-linguistico), ciò avrebbe colpito la Vojvodina separatista a favore dell’unificazione della Serbia, sebbene questa regione multietnica non fosse fonte di disordini e problemi in misura pari al KosMet.[4] La massiccia manifestazione tenutasi a Novi Sad nell’ottobre 1988 (capoluogo della Vojvodina), in cui i serbi del KosMet ottennero il sostegno di gran parte della popolazione locale, portò al rovesciamento del Comitato provinciale del partito e all’affermazione dell’influenza decisiva di S. Milošević (la “Rivoluzione dello yogurt”). Una manifestazione simile era stata programmata in Slovenia, ma fu vietata all’ultimo momento dalle autorità slovene (le autorità croate bloccarono il transito attraverso la Croazia dalla Serbia alla Slovenia), con grande costernazione della popolazione serba, sia sostenitrice che non sostenitrice di Milošević. Alla fine, S. Milošević riuscì a far approvare legalmente dall’Assemblea popolare serba (il Parlamento) l’abolizione di parti essenziali (politiche) delle autonomie provinciali sia del KosMet che della Vojvodina e lo smantellamento delle loro Assemblee. La Serbia tornò ad essere uno Stato unico e compatto. Almeno così sembrava a S. Milošević e ai suoi sostenitori.

La Serbia nella Jugoslavia titista

Il background ideologico della riunificazione della Serbia da parte della cerchia attorno a S. Milošević come Stato si basava sulla “teoria della cospirazione”, ovvero la politica serbofobica delle autorità jugoslave dalla fine della seconda guerra mondiale. Ciononostante, la Serbia era stata divisa dalla Costituzione federale jugoslava (dal 1945 al 1989) in tre parti per indebolirla, in quanto repubblica più grande, più popolata e più forte della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Demagogia a parte, questa divisione non era un esempio splendido di logica politica. Concedendo alla Vojvodina e al KosMet lo status di unità confederate, la Costituzione federale jugoslava lasciava la cosiddetta Serbia centrale in una situazione vaga, per non dire incredibile. La Serbia era un elemento costitutivo della federazione jugoslava, ma lo erano anche le sue due province separatamente. I parlamentari di queste ultime avevano il diritto di prendere decisioni riguardanti gli affari delle loro province, ma anche della Repubblica di Serbia nel suo complesso. Allo stesso tempo, i parlamentari della Serbia centrale potevano influenzare gli affari della Serbia centrale solo indirettamente, ma non quelli provinciali. Le province autonome avevano una propria assemblea. Pertanto, la Serbia non era divisa in tre parti equivalenti, ma aveva una struttura sia verticale che orizzontale, in cui non era possibile stabilire una gerarchia. Fu principalmente per questo motivo che lo slogan dell’epoca, «Oh, Serbia delle tre parti, tornerai ad essere un tutto unico!», guadagnò molta popolarità, non solo nei quartieri di Milošević.[5] Era opinione diffusa, a torto o a ragione, che tale divisione fosse parte di una cospirazione politico-nazionale delle altre repubbliche jugoslave contro la Serbia.

La stessa logica si rivelò operativa nel caso dell’ormai famoso Memorandum dell’Accademia Serba delle Scienze e delle Arti (SANU)[6] del 1986. I principali autori erano Vasilije Krestić, Antonije Isaković, Mihailo Marković, Kosta Mihailović, con il sostegno di Dobrica Ćosić (scrittore) e diversi altri accademici della SANU. Questo Memorandum non è mai stato accettato come documento ufficiale della SANU (era infatti incompiuto quando fu rivelato illegalmente al pubblico dai servizi segreti jugoslavi), ma è stato successivamente utilizzato come testimone chiave del presunto nazionalismo serbo (o di una cospirazione contro il resto della Jugoslavia e gli jugoslavi). In realtà, però, il Memorandum affrontava la situazione reale della Serbia in Jugoslavia, sostenendo che la Serbia era stata relegata in una posizione di inferiorità, in particolare in ambito economico. La logica tacita alla base di tale atteggiamento era la sensazione che le altre repubbliche ritenessero la Serbia troppo dominante e volessero quindi sopprimerla sotto ogni aspetto. In un certo senso, questa logica era vera e comprensibile. (Era la quintessenza, tra l’altro, della strategia britannica nei confronti dell’Europa continentale, che portò alle guerre napoleoniche e anche alla prima e alla seconda guerra mondiale). Lo slogan “Serbia debole – Jugoslavia forte!”, sebbene mai pronunciato pubblicamente, era nell’aria sin dalla fondazione del primo Stato comune jugoslavo, il 1° dicembre 1918.

La farsa del sistema educativo kosovaro

Quando entrarono in vigore le restrizioni all’autonomia delle province, la lotta tra il governo centrale di Belgrado (Serbia) e il governo provinciale di Pristina (Kosovo) acquisì nuovo slancio. Una delle prime misure adottate da Belgrado fu la soppressione della propaganda educativa filo-gran-albanese, che aveva portato a un odio viscerale nei confronti dei giovani albanesi del Kosovo, alimentato dai programmi scolastici filo-albanesi (importati persino dalla vicina Albania) e anti-serbi. La risposta immediata dei leader albanesi del Kosovo fu il ritiro delle scuole e dell’Università di Pristina dagli edifici ufficiali. Le lezioni si tenevano in case private e l’immagine complessiva suggeriva intenzionalmente uno stato di occupazione straniera, soprattutto per i media occidentali.

Un episodio di quel periodo rende bene l’idea della natura del conflitto. Gli alunni delle scuole primarie e secondarie frequentavano le lezioni negli stessi edifici, indipendentemente dalla loro etnia. Poiché i bambini non albanesi erano una piccola minoranza in molte scuole comuni[7], si sentivano a disagio nell’ambiente albanese, che non si mescolava con il resto degli alunni. Qualsiasi incidente poteva facilmente degenerare in qualcosa di grave, e le autorità di Belgrado decisero che gli alunni albanesi e non albanesi non potevano frequentare le stesse scuole contemporaneamente. La reazione degli albanesi locali fu davvero sorprendente. Dichiararono che le autorità serbe avevano intenzione di avvelenare i bambini albanesi depositando una polvere letale nelle scuole (il “veleno etnico-discriminatorio”, come lo chiamavano ironicamente i serbi). Una volta dato l’annuncio, gli alunni albanesi furono radunati e trasferiti negli ospedali vicini, dove i pazienti erano stati evacuati appositamente. Giornalisti, telecamere, ecc. furono invitati a testimoniare questo attacco contro bambini innocenti, che giacevano nei loro letti d’ospedale, quasi morti. Quando le telecamere lasciarono gli ospedali, ai bambini fu ordinato di alzarsi e tornare a casa.

I media pubblici serbi hanno dato molte interpretazioni dei veri obiettivi di questa e altre simili messinscene. Oltre alle motivazioni propagandistiche, sono state avanzate alcune interpretazioni più serie. Una di queste è stata quella di un alto ufficiale dell’esercito, secondo il quale l’intera messinscena era in realtà una prova generale per la situazione reale prevista di una ribellione armata e per la preparazione delle istituzioni mediche ad accogliere e curare i ribelli feriti. Una volta terminato il disastro di un solo giorno, la polvere mortale ha improvvisamente perso il suo potere e gli innocenti bambini albanesi sono tornati alle loro lezioni.

La farsa dello “sciopero della fame”

La farsa successiva, tuttavia, è stata molto più grave e politicamente pericolosa. I leader politici albanesi del Kosovo (Azem Vlasi in testa) organizzarono uno sciopero nella prospera (anche dal punto di vista europeo) miniera di carbone nero di “Stari Trg”,[8] vicino a Kosovska Mitrovica. I minatori albanesi scesero nei pozzi e si rifiutarono di uscire “fino a quando il Kosovo non sarà diventato una repubblica” (all’interno della Jugoslavia), annunciando uno “sciopero della fame” (etnico-politico). Le squadre mediche reagirono rapidamente, furono invitati i giornalisti, ecc. (tutto il necessario per lo spettacolo mediatico, anche all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale). Azem Vlasi, che avevamo incontrato in precedenza (di fatto un leader degli albanesi del Kosovo), si affrettò a scendere nei pozzi e ad annunciare il suo sostegno morale ai patrioti albanesi del Kosovo, ecc. La situazione è durata diversi giorni, fino a quando il governo di Belgrado ha inviato un’unità speciale di polizia che ha tirato fuori i minatori dalle loro “posizioni di sciopero”. Tuttavia, le squadre mediche erano pronte all’uscita e hanno fornito delle bende per gli occhi ai poveri minatori, privati della luce e messi in pericolo dall’oscurità, ecc. È stato sorprendente vedere minatori in condizioni evidentemente buone, che non erano preparati allo scenario e che hanno rifiutato di prendere le misure precauzionali offerte dal personale medico sul posto.

Dopo questo incidente, la situazione sulla scena politica serba si è ulteriormente aggravata. I serbi insoddisfatti della loro posizione nazionale in Jugoslavia, in particolare per quanto riguarda il KosMet, si sono riuniti davanti al palazzo dell’Assemblea federale jugoslava a Belgrado, in una protesta risoluta. Dopo qualche tempo, S. Milošević è apparso all’ingresso e si è rivolto alla folla. Ha parlato degli attuali affari del KosMet e dello sciopero dei minatori, promettendo di portare in tribunale tutti i politici (albanesi del Kosovo) coinvolti nel complotto contro lo Stato serbo. Era un chiaro riferimento ad Azem Vlasi. Continuando sulla stessa linea, S. Milošević fece dimenticare ai lavoratori presenti (parte della folla) le loro lamentele e richieste originarie. In realtà, ciò che S. Milošević fece in quella situazione fu esattamente ciò che i leader albanesi del Kosovo avevano fatto per decenni: trasformare la reale insoddisfazione sociale ed economica della provincia sovrappopolata in odio etnico, accusando i serbi e il governo centrale di Belgrado di tutti i problemi della provincia. Lo stesso è stato fatto in Croazia solo pochi anni dopo, quando le nuove autorità “democratiche” croate, guidate dal dottor Franjo Tuđman e dal suo partito nazionalista, l’Unione Democratica Croata (HDZ), hanno attribuito ai serbi la responsabilità di tutti i problemi della Croazia. Tuttavia, tutte queste manovre politiche si sono rivelate vincenti.

La farsa del processo per “alto tradimento”

La cosa fondamentale era che S. Milošević aveva mantenuto la promessa fatta alla folla di centinaia di migliaia di persone. Il leader politico albanese del Kosovo, Azem Vlasi, fu arrestato e accusato di “alto tradimento” contro l’integrità territoriale della Repubblica di Serbia. Non poteva desiderare di meglio: da apparatchik del partito comunista era diventato l’eroe nazionale (albanese del Kosovo). Mentre era in attesa di processo, in tutta la KosMet cominciarono a circolare canzoni su di lui. Quest’ultimo si è tenuto dopo un anno, a Kosovska Mitrovica, nella parte settentrionale del KosMet abitata dalla maggioranza dei serbi. Il giudice era un albanese che, dopo un lungo processo, ha assolto l’imputato. L’intera farsa è stata una beffa fin dall’inizio. L’obiettivo di S. Milošević era quello di eliminare un nemico politico pericoloso e popolare dalla scena politica sia del KosMet che del resto della Serbia. Ma il risultato fu, come prevedibile, controproducente. Azem Vlasi fu trasformato in un martire nazionale kosovaro, perseguitato dai malvagi serbi. L’intera vicenda mise in luce tutta l’incompetenza politica di S. Milošević, che alla fine avrebbe potuto costare alla Serbia la sua stessa esistenza. All’epoca di questi eventi, il boicottaggio kosovaro della Serbia e delle sue istituzioni era già quasi totale. La gente comune, soprattutto i giovani, smise di comunicare con i non albanesi, in particolare con i serbi della Serbia centrale. Si rifiutavano di parlare con i giornalisti di Belgrado, voltavano le spalle alle telecamere, ecc. L’odio era quasi palpabile nell’aria. La situazione divenne surreale, con la realtà che non corrispondeva affatto a quella ufficiale e amministrativa. C’era un bisogno urgente di risolvere questa situazione surreale. La soluzione arrivò in due fasi. Il primo fu la disintegrazione della Jugoslavia. Il secondo, la guerra del Kosovo del 1998-1999.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex professore universitario

Ricercatore presso il Centro di studi geostrategici

Belgrado, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com

Riferimenti

[1] Un paragone più banale potrebbe essere quello con la visita del presidente degli Stati Uniti Robert Kennedy nei sobborghi poveri di New Orleans, quando vide con i propri occhi la miseria dei suoi compatrioti neri (afroamericani).

[2] È questa la logica secondo cui si preferisce sottopagare i dipendenti piuttosto che pagarli troppo.

[3] Prima delle elezioni generali del 2000, è stato rapito e ucciso sulla montagna Fruška Gora, vicino a Novi Sad.

[4] Va sottolineato che una consistente minoranza ungherese vive lì da secoli. Nel 1945, quando furono liberati dall’occupazione tedesca, gli ungheresi erano quasi numerosi quanto gli albanesi nel KosMet.

[5] Oj Srbijo iz tri dela,

ponovo ćeš biti cela!

[6] Srpska Akademija Nauka i Umetnosti (SANU).

[7] Si noti che la percentuale di bambini albanesi superava di gran lunga la media dell’intera popolazione del KosMet, poiché la distribuzione per età favorisce ancora di più i giovani albanesi.

[8] La piazza vecchia (mercato), in serbo.

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