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Perché l’espansione della NATO ha alimentato il conflitto con la Russia, di Post-Liberal Dispatch

Perché l’espansione della NATO ha alimentato il conflitto con la Russia

Scopri la realpolitik dietro la crescita della NATO, la reazione russa e gli errori strategici che hanno rimodellato l’equilibrio di potere in Europa (e innescato la guerra).

27 maggio
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Panoramic digital painting of a symbolic military standoff between NATO and Russia. On the left, a NATO soldier stands resolute with the NATO flag billowing behind him, facing a Russian soldier on the right, set against the Russian flag. Between them, a ravaged city burns in an inferno, its skyline consumed by fire and smoke. The visual embodies geopolitical tension, evoking the escalation of conflict linked to NATO’s eastward expansion.

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Sintesi

  • L’espansione della NATO dopo la Guerra Fredda fu una scommessa strategica (non una vittoria morale) presa senza fare i conti con la logica duratura della politica di equilibrio di potere.
  • La risposta della Russia all’avanzata della NATO verso est non è stata aberrante, bensì prevedibile: una classica reazione delle grandi potenze alla riduzione delle zone cuscinetto e all’erosione della loro influenza.
  • Gesti superficiali di inclusione mascheravano un’esclusione più profonda: a Mosca non è mai stato offerto un posto di vero potere all’interno dell’architettura di sicurezza occidentale.
  • La tragedia geopolitica dell’Ucraina non risiede nelle sue scelte ma nella sua geografia: è fatalmente stretta tra blocchi di sicurezza rivali con imperativi incompatibili.
  • I politici occidentali hanno scambiato il predominio temporaneo per ordine permanente, ignorando i vincoli geopolitici in favore dell’ambizione ideologica.
  • Il ritorno del conflitto in Europa sottolinea la verità fondamentale del realismo: la pace non si preserva con la virtù, ma con l’equilibrio, la moderazione e la chiarezza strategica.


La narrazione dell’espansione della NATO dopo la Guerra Fredda, spesso celebrata come un trionfo dei valori democratici liberali e il costante progresso di un ordine internazionale basato su regole, deve essere reinterpretata con un’analisi più acuta. Non fu il culmine naturale di un arco morale che si snodava verso la pace universale, ma una calcolata manovra strategica intrapresa nel mezzo di una profonda errata interpretazione della realtà sistemica. Non fu una storia di integrazione benevola ostacolata dall’intransigenza russa, né una progressione lineare verso un futuro cooperativo interrotta da una ricaduta autoritaria. Piuttosto, fu un momento in cui gli Stati Uniti, in quanto egemone incontrastato dell’ordine post-Guerra Fredda, scambiarono una fugace finestra di vantaggio unipolare per un riallineamento permanente della politica mondiale. Confusero opportunità con inevitabilità e, così facendo, confusero le proprie preferenze ideologiche con necessità strategiche. Il risultato non fu un superamento della politica di potenza, ma la sua mutazione e il suo ritorno in forme più volatili. L’espansione della NATO non fu un fallimento morale; Si è trattato di un’azione strategica intrapresa senza la dovuta considerazione del fondamentale principio realista dell’equilibrio, che governa il comportamento in un sistema internazionale anarchico. Aggirando questa logica, l’espansione ha gettato le basi per lo stesso scontro geopolitico che intendeva prevenire.

Nel quadro del realismo politico, il potere non è un bene discrezionale, ma la moneta di scambio essenziale per la sopravvivenza. Il sistema internazionale è definito dall’assenza di un’autorità centrale in grado di far rispettare le regole in modo imparziale: anarchia in senso strutturale. Questa condizione obbliga tutti gli Stati, indipendentemente dal tipo di regime, a dare priorità all’interesse nazionale, all’integrità territoriale e alla sicurezza rispetto all’allineamento ideologico. Gli Stati devono considerare gli altri non attraverso la lente dei valori condivisi, ma come potenziali minacce alla propria autonomia. In queste condizioni, la sicurezza non può essere data; deve essere assicurata, spesso a spese di attori rivali. L’avanzata della NATO nell’Europa centrale e orientale, vista da questa prospettiva, non è stata un atto benigno di allargamento dell’alleanza, ma un riposizionamento strategico che ha ristrutturato il panorama della sicurezza europea in modi che hanno inevitabilmente minato la profondità strategica russa. Ogni nuovo Stato membro ha avvicinato progressivamente l’infrastruttura militare della NATO ai confini russi, riducendo la zona cuscinetto geografica su cui Mosca aveva storicamente fatto affidamento per la difesa e la deterrenza. Nella logica della competizione tra grandi potenze, la prossimità geografica alle capacità di proiezione di forza rivali non è una preoccupazione astratta; è una vulnerabilità tangibile.

Le interpretazioni internazionaliste liberali che puntano a gesti di inclusione, come il Partenariato per la Pace o i forum consultivi con la Russia, non riescono a cogliere gli imperativi strutturali della politica di potenza. Queste iniziative erano diplomaticamente simboliche ma strategicamente superficiali. Da una prospettiva realista, la partecipazione al dialogo senza una corrispondente influenza nelle strutture decisionali fondamentali non costituisce un’integrazione significativa. La Russia, come ogni grande potenza storicamente significativa, ha capito che la vera sicurezza e il vero status derivano non da gesti retorici, ma da un’influenza tangibile, in particolare da un posto al tavolo delle trattative e da un diritto di veto sulle decisioni che riguardano interessi vitali. L’idea che la Russia potesse essere integrata nella NATO era più un artificio retorico che un piano strategico serio, fondamentalmente in contrasto con la logica istituzionale dell’alleanza. La coesione della NATO dipende da un confine chiaramente definito tra i membri (a cui è garantita la difesa reciproca) e i non membri (a cui non è garantita). Incorporare un ex rivale delle dimensioni della Russia avrebbe eroso proprio questo confine e compromesso la coerenza operativa della NATO. Pertanto, escludere la Russia era funzionalmente inevitabile. Tuttavia, agire in questo modo senza fornire un ruolo strategico compensativo avrebbe garantito un’eventuale opposizione.

Map of Europe showing when various Nato members joined the organisation, with the 12 founder members in dark red, countries that joined between 1950 and 1996 in a lighter red, those joining from 1997 to 2022 in dark pink and Sweden and Finland which have joined since 2022 in pale pink. Ukraine is one of three countries in the process of applying to join shown in yellow. Russia and other non members are in white.


Attribuire l’assertività geopolitica della Russia esclusivamente alla sua traiettoria autoritaria interna significa confondere la forma politica di uno Stato con il suo comportamento strategico. L’autoritarismo può influenzare il modo in cui uno Stato conduce la sua politica estera (la sua tolleranza al rischio, la sua legittimazione interna dei conflitti esterni), ma non determina perché uno Stato cerchi di modificare il suo ambiente esterno. Questa logica è radicata nella geografia, nella distribuzione del potere e nella percezione della minaccia. La riaffermazione dell’influenza della Russia nei suoi confini vicini non è stata una deviazione dalle norme di comportamento internazionale; è stata un’espressione classica della politica delle grandi potenze in risposta alla percepita erosione dell’isolamento strategico. L’incapacità dei leader occidentali di prevedere tale risposta non è dovuta a informazioni errate, ma a una visione del mondo che aveva prematuramente relegato la politica di potenza al passato. Non si è trattato semplicemente di un errore di calcolo strategico, ma di un errore epistemologico: un presupposto che le norme avessero sostituito gli interessi e che la storia avesse ceduto il passo all’istituzionalismo liberale. L’illusione che ne derivava, secondo cui la Russia avrebbe accettato indefinitamente uno status marginale e marginale, ignorava la natura ciclica dell’ordine internazionale. Le grandi potenze spesso praticano la pazienza strategica, ma raramente la capitolazione strategica.

In questo contesto, l’Ucraina non era semplicemente una nazione sovrana che esercitava la propria volontà democratica; era uno Stato cardine geopolitico, il cui allineamento aveva profonde implicazioni per l’equilibrio di potere regionale. La sua tragedia risiedeva nei rigidi vincoli imposti dalla sua geografia, situata tra un Occidente militarmente dominante e un Oriente in ripresa. Per l’Ucraina, il perseguimento dell’integrazione occidentale non era una scelta astratta; era una rottura strutturale. Il passaggio all’allineamento con la NATO e l’UE ha messo in discussione la percezione di lunga data della Russia dell’Ucraina come zona cuscinetto essenziale per la propria sicurezza e influenza. Sebbene il diritto dell’Ucraina di determinare le proprie alleanze sia indiscutibile in senso giuridico, le conseguenze geopolitiche di questa scelta erano del tutto prevedibili. La Russia non poteva tollerare un’Ucraina allineata all’Occidente senza subire una grave diminuzione della sua influenza regionale e un crollo della sua profondità strategica. L’annessione militare della Crimea e la destabilizzazione dell’Ucraina orientale non erano anomalie. Erano risposte da manuale da parte di una grande potenza che cercava di riaffermare il controllo su uno spazio strategico chiave. Brutalità e illegalità a parte, il comportamento ha aderito alla logica della necessità geopolitica.

3D topographic map showing historical invasion routes into Russia from Europe, the Middle East, and Central Asia. Arrows illustrate three common military invasion paths: through Eastern Europe via Poland and the Baltic states, through the Caucasus Mountains from the Middle East (notably Iraq), and through Central Asia via Kazakhstan. Key geographical features such as the Ural Mountains, Tien Shan Mountains, Caspian Sea, Black Sea, and Carpathian Mountains are labeled, with a southern-facing orientation. Major countries like Russia, Ukraine, Iran, China, and Turkey are marked, along with capital cities like Moscow and St. Petersburg.

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Il dibattito in corso, teso ad attribuire responsabilità morali (sia all’eccesso di potere occidentale che all’aggressione russa), oscura più di quanto riveli. Riduce complesse interazioni strategiche a questioni di colpa e legittimità, anziché concentrarsi sui meccanismi attraverso cui i dilemmi di sicurezza si aggravano. Nel realismo, la causalità è intesa in termini di struttura e comportamento, non di categorie morali. La guerra in Ucraina non è stata causata dalla malevolenza di un singolo attore, ma dall’intersezione di architetture di sicurezza incompatibili: la logica espansionistica di un ordine liberale sostenuto dalla potenza americana e la contro-mobilitazione di una grande potenza determinata a non essere messa da parte in modo permanente. Chiarire questa dinamica non assolve nessuna delle parti; consente una comprensione più precisa di come agiscono gli Stati quando sono costretti a scegliere tra adattamento e irrilevanza.

La lezione più profonda non è che la NATO avrebbe dovuto astenersi del tutto dall’espansione, ma che avrebbe dovuto farlo in un quadro che tenesse conto della perdurante rilevanza delle dinamiche di equilibrio di potere. L’inclusione strategica, la condivisione del potere o persino una sfera d’influenza negoziata avrebbero potuto preservare la coesione occidentale, disinnescando al contempo l’insicurezza russa. Invece, l’espansione è proseguita come se la sconfitta dell’Unione Sovietica avesse estinto la logica geopolitica dell’Eurasia. Questa arroganza, che scambiava il predominio per stabilità, ha fatto sì che la vecchia logica tornasse con rinnovata forza. Un sistema che marginalizza le grandi potenze non porta alla pace; genera resistenza. È stato proprio questo rifiuto di conciliare l’espansione occidentale con la necessità di un accomodamento sistemico a rendere lo scontro non solo possibile, ma probabile.

Il paradosso è chiaro. Nel suo tentativo di andare oltre i vincoli della competizione geopolitica, l’ordine internazionale liberale ha ravvivato proprio gli antagonismi che cercava di trascendere. La sua strategia di integrazione universale non è riuscita a riconoscere che potere, interessi e geografia governano ancora i termini dell’ordine. E ora, di fronte non solo a una Russia in ripresa ma anche a una Cina in sistematica ascesa, l’Occidente deve fare i conti ancora una volta con la fondamentale intuizione realista: ogni proiezione di potenza genera contropotere; ogni espansione invita a una contro-coalizione. In un sistema anarchico, la sicurezza è posizionale, non assoluta. La difesa di uno Stato è sempre la vulnerabilità di un altro. Questo non è cinismo; è consapevolezza strutturale. Il realismo non consiglia la disperazione; insiste sulla lucidità. La pace non è il prodotto della buona volontà, ma della moderazione, dell’equilibrio e dell’attenta gestione della rivalità. E quando questi elementi vengono trascurati (quando il potere viene esteso senza accomodamenti) il conflitto non è una sorpresa; è la correzione naturale del sistema.

Perché ci odiano, di Patrick J. Deneen

Questo semestre insegno uno dei miei corsi preferiti: “Liberalismo e conservatorismo”. La classe di questo semestre ha circa 50 studenti per ogni anno universitario. Ogni anno che insegno in questa classe, chiedo ai miei studenti di scrivere una breve “Autobiografia politica” che illustri la natura e le origini delle loro convinzioni politiche. È sempre un esercizio interessante, soprattutto per permettermi di conoscere un po’ i punti di vista e il background degli studenti della mia classe. Tuttavia, nel corso degli anni i risultati si sono rivelati inavvertitamente anche come una sorta di barometro di dove l’opinione pubblica dell’elite è di tendenza. La classe di quest’anno si è rivelata tra le più affascinanti di sempre.

Di solito traccio le loro convinzioni sul pratico, se non sempre completo, schema a quattro scatole che misura il liberalismo e il conservatorismo economico e sociale. Se l’asse verticale misura le convinzioni sociali, dalla più socialmente liberale nella parte inferiore della linea, alla più socialmente conservatrice nella parte superiore della linea; e l’asse orizzontale misura l'”interventismo” economico a sinistra (quello che noi americani chiamiamo “liberale”) e il “libertario” all’estrema destra della linea (quello che gli americani chiamano “conservatore”, ma quello che gli europei chiamano più precisamente “liberal ”!), possiamo dividere il territorio in quattro ideologie politiche abbastanza riconoscibili.

L’angolo in alto a destra rappresenta il vecchio fusionismo repubblicano, o quello che è stato chiamato “conservatore” per diversi decenni. La sua posizione è “socialmente conservatrice ed economicamente libertaria” – pensate a Ronald Reagan e alla Heritage Foundation. Elogia il “governo limitato”, credendo che il risultato di tasse basse e deregolamentazione sia il dinamismo economico, insieme allo spazio per la “società civile” per promuovere e sostenere istituzioni come la famiglia e la chiesa. Rimane una forza potente negli attuali impegni politici del Partito Repubblicano, nonostante la diffusa convinzione nei media che la destra sia interamente prigioniera del trumpismo.

L’angolo in basso a sinistra rappresenta l’attuale nucleo del Partito Democratico – AOC e Very Online Progressives. Socialmente liberale ed economicamente “interventista”, cerca insieme un ordine economico più eguale e un ordine sociale più libertario. Si impegna soprattutto per l’autonomia sessuale e identitaria, la libertà di espressione individuale e dalle istituzioni oppressive che presumibilmente beneficiano di una grande redistribuzione economica.

L’angolo in basso a destra rappresenta il libertarismo puro e genuino sia nella sfera economica che in quella sociale: pensa ad Ayn Rand. Questo blocco ideologico fa appello alle menti che desiderano un’etica coerente della libertà, la cancellazione di tutte le “linee” tracciate che differenziano le sfere dell’autonomia dalle sfere dell’autorità (ad esempio, l’assolutismo della libertà di parola). Sebbene attiri solo un gruppo relativamente piccolo di credenti impegnati, hanno un’influenza istituzionale e politica smisurata attraverso fonti di finanziamento come la Fondazione Koch e istituzioni come Cato. Questo blocco ha finanziato il blocco “fusionista” di destra superiore e, di conseguenza, ha mantenuto la sua agenda economica in prima linea nel Partito Repubblicano (tasse basse, regolamenti ridotti, con le ossa gettate ai conservatori sociali – come Anthony Kennedy) .

L’angolo in alto a sinistra è la casa di coloro che cercano moderazione sia nella sfera economica che sociale – si pensi ad Aristotele, Tommaso d’Aquino, il De Rerum Novarum di papa Leone XIII e l’intera Dottrina Sociale Cattolica. In termini meno elevati, si pensi a quelle figure politiche che sostengono un uso più coerente del potere statale per realizzare fini di ordine e stabilità sia nella sfera economica che in quella sociale, come Viktor Orbán. Tucker Carlson e JD Vance. Gli elettori in questo quadrante cercano un ordine politico e sociale che attinga ai vecchi temi economici della classe operaia una volta avanzati dalla sinistra, insieme a una priorità sull’uso del potere pubblico per rafforzare le istituzioni civiche e familiari apprezzate dalla destra. Questo quadrante è stato definito il “ Partito dello Stato” di Gladden Pappin del Postliberal Order: una combinazione di economia di sinistra e politica sociale di destra. Una scorciatoia tipicamente usata per descriverlo è “populismo”.

Questa divisione delle visioni politiche del mondo è stata resa alquanto famosa quando i risultati delle elezioni del 2016 sono stati tracciati in base all’identificazione degli elettori. Per gran parte del periodo successivo alla Guerra Fredda, l’elettorato americano è stato diviso tra il quadrante in basso a sinistra e in alto a destra, con i repubblicani che disegnavano alcuni libertari e i democratici che disegnavano conservatori sociali che sostenevano le politiche economiche della sinistra (in gran parte cattolici della classe operaia, un segmento dell’elettorato di cui Joe Biden rappresenta l’ultimo sussulto).

Nel 2016 si è verificato un cambiamento drammatico. Il numero degli elettori nel quadrante in alto a sinistra era in crescita da diversi anni, con un susseguirsi di candidati che tentavano di rimescolare l’elettorato: Buchanan, Perot, Santorum, Huckabee (gli ultimi due a cavallo dei due quadranti superiori). Ma ci sono voluti il ​​vero outsider – Donald Trump – così come la catastrofe economica del 2008, la debacle della guerra in Iraq e la disperazione culminante tra la classe operaia bianca ritratta in Hillbilly Elegy di Vance , per realizzare una trasformazione elettorale. Il risultato è stato sorprendente:

(Chiave: ogni punto rappresenta 10.000 voti per Repubblicani [rosso], Democratici [blu] o Altro [giallo])

Trump ha vinto perché ha attirato abbastanza elettori nel quadrante in alto a sinistra (che ora si inclina in modo decisamente repubblicano) mentre correva contro quasi tutti gli impegni del libertarismo. In effetti, l’elettorato del Partito Repubblicano allora, e probabilmente di più ora, si trova genuinamente a cavallo dei due quadranti superiori, la sua base della classe operaia più a sinistra (economica), le sue élite istituzionali ancora più legate all’ala economica libertaria. Trump è stato il primo candidato genuinamente “populista” nominato da un grande partito dopo William Jennings Bryan, e probabilmente l’unico presidente populista dopo Andrew Jackson. Ha chiesto l’uso del potere pubblico per intervenire sia nel mercato che nella sfera sociale. Economicamente, ha condotto una campagna sull’imposizione di tariffe, limitando la globalizzazione economica, limitando l’immigrazione, e ha tentato di utilizzare il pulpito prepotente e la politica fiscale per incoraggiare la crescita della produzione nazionale. Nel frattempo, ha orientato le “guerre culturali” verso posizioni più aggressivamente conservatrici, come tassare le dotazioni universitarie, vietare la CRT nel governo federale e promettere (e forse consegnare) giudici più socialmente conservatori.

Trump ha rivelato qualcosa che gli altri tre “quadranti” volevano oscurare: c’era un ampio segmento non (anche post)liberale dell’elettorato americano. La rivelazione di questo potente segmento – uno che potrebbe inclinare le elezioni per il prossimo futuro – ha causato il massiccio sconvolgimento a cui abbiamo assistito negli ultimi cinque anni. La reazione non è stata solo una normale opposizione politica, ma una denuncia a livello di Armageddon: la democrazia americana sta finendo! Il fascismo è arrivato! È ora di trasferirsi in Canada!

Questa reazione è venuta non solo dagli abitanti di un quadrante, ma anche dalle voci di tutti e tre i quadranti liberali. I progressisti sono diventati “manifestanti per lo più pacifici”. I vecchi neo-conservatori del quadrante in alto a destra, soddisfatti di se stessi con i loro trespoli forniti da finanziatori libertari, sbuffati e furiosi, hanno dichiarato “Mai Trump!” – e divenne Democratici. I libertari hanno speso più soldi creando centri universitari sempre più politicamente irrilevanti dedicati alla LIBERTÀ!!!

Ciò che questo momento della nostra politica ha rivelato soprattutto è che le presunte opposizioni politiche emerse dall’era della Guerra Fredda avevano in realtà più cose in comuneche no. Si erano spartiti la torta liberale. In particolare, i libertari non sorgono nel mondo reale: sono creati nei laboratori sotterranei del Cato Institute. Solo uno psicopatico, o Ayn ​​Rand (c’è una differenza?), crede che il miglior mondo possibile sia quello senza leggi, confini o figli. Per diventare politicamente rilevante, i suoi impegni principali sono stati divisi tra i partiti principali. I repubblicani divennero il partito del liberalismo economico. I Democratici divennero il partito del libertinismo sociale. Mentre una parte perdeva periodicamente, il liberalismo vinceva sempre. Tutto il nostro ordine sociale divenne più libertario. La liberalizzazione economica globalizzata e la normalizzazione del libertinismo sessuale sono cresciute costantemente e inesorabilmente insieme. La più grande esportazione d’America divenne l’ideologia libertaria.

Il risultato di questa trasformazione è oggi evidente: la biforcazione di classe che definisce il nostro divario politico. Le persone della classe operaia hanno costantemente perso terreno sul fronte economico mentre sperimentavano la devastazione nelle loro vite sociali. Secondo ogni misura nota nelle scienze sociali, essere un America non laureato (soprattutto se sei un uomo) significa essere destinato a disfunzioni economiche e sociali, una disfunzione che ora è diventata un’eredità generazionale. Nel frattempo, “la classe dei laptop” è fiorita, monopolizzando opportunità economiche che forniscono un cuscino finanziario per formare una vita familiare più sana sulla scia dello smantellamento delle istituzioni sociali più ampie. Quella che era stata un’utilità pubblica delle reti di supporto sociale come chiesa, comunità e famiglia allargata era stata privatizzata a beneficio esclusivo dei ricchi. Lo sforzo di “decentrare” la famiglia e disancorare le persone dai luoghi e dalla storia era un altro mezzo per mantenere il vantaggio di classe. Milioni indicibili, anzi, miliardi di dollari vengono ora spesi per far dimenticare a tutti che il quadrante in alto a sinistra sia mai esistito.


Il nostro piccolo progetto – The Postliberal Order – è un esercizio per ricordare alle persone non solo che esistono una tradizione e un elettorato non liberali, ma che è superiore all’esperienza disumanizzante, frammentante e deracinante del liberalismo. La nostra alternativa attinge dalla saggezza e dagli insegnamenti antichi dell’era classica e cristiana, saggezza che è stata esplicitamente rifiutata dagli architetti del liberalismo o neutralizzata dall’appropriazione liberale. Mentre il rimpasto politico odierno è nato in gran parte dal basso, le spiegazioni e le giustificazioni di questa alternativa politica hanno un pedigree decisamente nobile, un’eredità che ora viene articolata con forza da un numero crescente di filosofi, teologi, avvocati, giornalisti e intellettuali pubblici.

Come previsto, i nostri avversari sono una legione. Provengono da ogni quadrante del liberalismo regnante. I progressisti sono inorriditi. I liberali di destra sono fuori di sé. E i Libertari vogliono che tu sappia che siamo “ antiamericani.” Il loro scopo comune: il ripristino del vecchio “consenso” liberale. Se avranno successo, il risultato è certo: più o meno lo stesso. Se ti piaceva un ordine economico culminato nel 2008; un ordine sociale in cui il matrimonio ei figli diventano sempre più rari; e un ordine internazionale in cui l’America continua a perdere guerre e legittimità: stai facendo il tifo per quella restaurazione. Se è così, è quasi certo che sei un membro della classe liberale della nobiltà che trarrà vantaggio dallo smash-and-grab che sta avvenendo negli anni crepuscolari dell’impero liberale americano.

Quello che temono, soprattutto, è la perdita della narrativa: una volta che la vera natura della loro coalizione è stata “vista”, non può essere nascosta. Ed è stato visto soprattutto dai giovani che seguono da vicino gli anziani. Tra i giovani studenti più riflessivi e di tendenza conservatrice che incontro, c’è fame di discutere queste idee e di essere parte di un cambiamento più fondamentale per la nostra politica.

Le vecchie linee di battaglia sono ancora lì: vivono come zombi nel paesaggio istituzionale inaridito stabilito negli ultimi cinquant’anni. I liberali di destra sono stati particolarmente attivi, lavorando duramente per rinominare il loro vecchio programma con titoli più “populisti” e creando nuovi programmi per prevenire il costituzionalismo del bene comune – ma tutto al fine di mantenere il ” conservatorismo accovacciato difensivo ” al servizio del liberalismo in corso avanzare. Eppure, nonostante gli sforzi della retroguardia degli zombi del think tank e dei loro epigoni, quelle linee di battaglia stanno comunque cambiando.

Per tornare alle scoperte non scientifiche delle opinioni politiche dei miei studenti, quest’anno è stata un’ulteriore rivelazione. Per almeno gli ultimi vent’anni – sia nelle università cattoliche come Georgetown o Notre Dame, sia in una scuola laica come Princeton – la suddivisione delle mie classi è stata all’incirca un terzo in ogni quadrante “liberale”: progressista, libertario e liberale di destra. Senza dubbio ho tratto un numero non rappresentativo da quest’ultima categoria – repubblicani “fusionisti” – a causa della mia reputazione di professore conservatore. Ma quel crollo ha comportato le divisioni politiche della politica americana in quel periodo e le ambizioni degli studenti di appartenere a una di quelle “tribù” politiche rilevanti.

Quest’anno?

1/3 del vecchio fusionismo repubblicano (in alto a destra)

1/3 Progressismo (in basso a sinistra)

1/3 postliberali (in alto a sinistra)

E a malapena un libertario nella stanza.

Ecco perché ci odiano. L’impero liberale vuole che tu non veda dietro le quinte. Ma ce l’abbiamo, e non si nasconde una genuina alternativa che rivela le più profonde continuità tra i sapori del liberalismo. I loro soldati continuano a combattere la vecchia guerra, ignari che le linee di battaglia sono cambiate. Il futuro è postliberale e il fronte è andato avanti.

https://postliberalorder.substack.com/p/why-they-hate-us?fbclid=IwAR2UxtPGNQ4_NUvFd4Itwhv9G8HJXBFxqw350MyLX18gZ9AZPtG3mLtvek0