Il debito pubblico è bellissimo!-di Davide Gionco

Riceviamo e pubblichiamo. Gran parte del problema risiede nel moltiplicatore e soprattutto nel grado di indipendenza, sovranità e potenza di un paese che non è determinato soltanto dal controllo della moneta e dalla gestione del risparmio nazionale_Giuseppe Germinario

Il debito pubblico è bellissimo!

di Davide Gionco

In un precedente articolo ci siamo occupati del debito buono e del debito cattivo.
Un debito è generalmente buono quando è sostenibile dal debitore, diventando uno strumento per investimenti produttivi, per la realizzazione di cose utili per il debitore.
Un debito è sempre cattivo quando non è sostenibile dal debitore. In tal caso può generare debiti a catena nella società, creando grave danno (si pensi ai debiti subprime della Lehman Brothers che portarono alla crisi economica del 2008). Oppure il debito insolvibile viene perpetuato nel tempo, trasformandosi in un meccanismo di schiavitù nei confronti di persone, classi sociali o interi popoli.

Nel presente articolo vogliamo occuparci specificamente del debito pubblico.
Come per il debito privato, anche il debito pubblico è una cosa molto utile alla nazione che lo emette, naturalmente.
Possiamo dire che il debito pubblico è bellissimo. A patto che, naturalmente, sia sostenibile.

Quali sono le funzioni utili del debito pubblico sostenibile?

 

Il debito pubblico è uno strumento di risparmio
La prima funzione è consentire ai risparmiatori di investire in modo sicuro, al riparo dei rischi della borsa e della speculazione finanziaria. La Costituzione della Repubblica Italiana cita testualmente “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del risparmio popolare…”
Quale modo migliore di garantire il risparmio dei cittadini che quello di garantire la restituzione del capitale, con un tasso di interesse stabilito? Lo Stato è a tutti gli effetti una cassa di risparmio pubblica, alla quale i cittadini affidano i propri risparmi e la quale garantisce che vengano restituiti con gli interessi, al tempo pattuito. Mentre nelle banche private questo avviene scrivendo sui libri della banche l’importo versato dal cittadino, nella banca pubblica questo avviene consegnando al cittadino un certificato di deposito, denominato titolo di stato.
Ma non solo questo. Il tasso di interesse riconosciuto sui titoli di stato diventa inevitabilmente un punto di riferimento per tutti gli altri investimenti finanziari.
Se lo Stato garantisce il 3% di interessi sui titoli, chi mai andrebbe ad investire i propri risparmi in azioni in borsa, il cui rendimento viene stimato al massimo al 2%.
Nello stesso tempo se i titoli di stato garantiscono un rendimento netto del 2%, un imprenditore riterrà conveniente investire i propri fondi nella propria azienda in cui si prospetti un rendimento dell’investimento del 3-4%. Ed una banca
Il fatto che lo Stato possa emettere titoli ad un tasso di interesse determinato risponde appieno a quanto richiesto dall’art. 47 della Costituzione.

Il debito pubblico mette in circolazione i capitali a vantaggio degli investimenti pubblici
Una seconda funzione del debito pubblico è mettere in circolazione i capitali dei risparmiatori, che diversamente resterebbero immobili e improduttivi o che verrebbero investiti su mercati esteri.
Questa funzione era particolarmente importante prima del 1971, quando vigeva ancora il gold standard, ovvero quando la quantità di denaro che poteva essere emessa era limitata dalla quantità d’oro delle riserve della banca centrale. In questa situazione tenere delle banconote ferme nella cassaforte era uno “spreco”, in quanto quel denaro avrebbe potuto essere usato per degli investimenti, consentendo di produrre beni e servizi utili, che non sarebbero stati prodotti se quei soldi fossero stati conservati inoperosi nei forzieri.
Un caso storico esemplare è l’unico caso che si ricordi in cui uno stato ha pagato tutto il proprio debito pubblico. Nel 1584 la Repubblica di Venezia decise di estinguere il proprio debito pubblico, con l’obiettivo di risparmiare l’oneroso pagamento degli interessi, che ammontavano al 16% annuo.
Contrariamente alle aspettative del provveditore sopra i beni comunali Zuan Francesco Priuli, i risultati dell’estinzione del debito pubblico furono molto diversi da quelli attesi: i ricchi commercianti veneziani, non avendo più un luogo sicuro “pubblico” in cui investire i propri risparmi, si indirizzarono verso le banche private o verso titoli pubblici emessi in altri stati del tempo (Ducati di Ferrara, Mantova, Modena, Milano; Repubblica di Genova o di Firenze). Se prima la liquidità prestata alla Serenissima veniva utilizzata per investimenti pubblici, come ad esempio la costruzione di navi da guerra per fare fronte all’avanzata dell’Impero Ottomano, ora la liquidità veniva investita secondo gli interessi di altri stati o delle banche private, che erano diversi dall’interesse pubblico.
Le conseguenze della riforma proposta dal Priuli furono il declino politico della Repubblica di Venezia, causa mancanza di investimenti pubblici.

Il debito pubblico consente di diminuire le tasse
Una terza funzione del debito pubblico, quella che il Priuli non aveva compreso, è consentire allo Stato di finanziare il proprio funzionamento raccogliendo meno tasse.
Prendiamo come esempio il bilancio previsionale dello Stato per il 2020, presentato prima della crisi del coronavirus, che ha evidentemente mandato all’aria ogni previsione.

La previsione per il 2020 era di fare fronte 660 miliardi di spesa pubblica avendo delle entrate pari a 536 miliardi di euro. Se avessimo dovuto finanziare tutto il bilancio del 2020 pagando le tasse, avremmo dovuto pagare ben (660-563 =) 124 miliardi di tasse in più sui 512 miliardi di tasse previste, pari al 24% di tasse in più che dovremmo in caso di assenza del debito pubblico.

La sostenibilità del debito pubblico
Da che mondo è mondo i grandi debiti non sono mai stati pagati. Quando il debito è grande, non è più un problema del debitore, ma dei creditori.
Già nel 1339 re Edoardo III d’Inghilterra dichiarò bancarotta e si rifiutò di rimborsare i prestiti che aveva ricevuto dai Bardi, banchieri fiorentini. Il fatto si ripeté molte volte nei secoli successivi, da parte dei vari re di Francia, di Spagna, d’Asburgo. Peraltro i banchieri che cosa avrebbero potuto fare? Armare un esercito e dichiarare guerra ai sovrani? In realtà a volte lo facevano, finanziando le guerre di nazioni avversarie dei loro debitori, ma non sempre la manovra finanziaria funzionava.

Questo vale anche per i grandi debiti privati. E’ noto che i grandi (?) imprenditori italiani (Debenedetti, Montezemolo, Lotito, Benetton, ecc.) abbiano facilità di accesso al credito, anche se sono già molto indebitati, mentre la difficoltà di accesso al credito è in genere un problema che riguarda le piccole e medie imprese o le famiglie. Tanto per fare un esempio, nel caso del fallimento del Monte dei Paschi di Siena, poi salvato con fondi pubblici, Sorgenia di Carlo Debenedetti era debitrice di ben 665 milioni di euro. Uno dei molti grandi debiti mai ripagati.

I grandi debiti possono quindi essere cancellati, con grande sventura dei creditori, oppure rinnovati in modo da renderli sostenibili e garantire quantomeno la rendita (gli interessi) ai creditori.

Il debito pubblico, trattandosi di un grande debito, non è quindi qualcosa destinato ad essere ripagato (anche ricordando la sfortunata decisione di Zuan Francesco Priuli del 1584), ma qualcosa destinato ad essere rinnovato. La sostenibilità del debito, quindi, non dipende dal suo importo, né dal rapporto fra i debito ed il prodotto interno lordo (PIL).
Non è un caso che i debiti pubblici più alti del mondo, come quello statunitense e quello giapponese, siano considerati unanimemente sostenibili e quotati con la “tripla A” dalle società di rating. Viceversa vi sono debiti pubblici molto bassi, come quello del Venezuela, che sono considerati a maggior rischio.

La solvibilità di un debito pubblico dipende dalla facilità di un paese di procurarsi il denaro necessario per rinnovare il debito ovvero di pagare gli interessi. In teoria uno stato deve anche essere in grado di rimborsare il capitale dei titoli che ha emesso, ma, statisticamente parlando, se il servizio di risparmio fornito è affidabile, sempre ci saranno degli investitori interessati ad acquistare le nuove emissioni di titoli. L’importante è garantire la possibilità di convertire i titoli in scadenza nel denaro versato per acquistarli, con l’aggiunta degli interessi.

Moneta sovrana e non sovrana
Ora, vi sono sostanzialmente due tipi di debito pubblico: il debito pubblico denominato in moneta non sovrana e il debito pubblico denominato in moneta sovrana.
Per “moneta sovrana” si intende una moneta di cui uno stato è in grado di controllare l’emissione ovvero di emettere nuova moneta nella quantità e nei tempi desiderati, senza vincoli. Uno stato con moneta sovrana non potrà mai restare a corto di moneta, al limite ne potrà stampare troppa.
Viceversa per “moneta non sovrana” si intende un mezzo di pagamento di cui lo stato non può disporre a proprio piacimento. Era ad esempio il caso di Edoardo III d’Inghilterra, che non aveva alcun modo di procurarsi i fiorini d’oro necessari per rimborsare i Bardi. Oppure è stato a più riprese il caso di paesi latinoamericani come l’Argentina, indebitati in dollari con le banche americane. Oppure di molte ex colonie francesi, indebitate in franchi CFA con le due banche centrali controllate dal governo francese, quindi in una valuta fuori dal controllo dei loro governi.
Ed è il caso dell’Italia, indebitata in euro, moneta emessa dalla BCE, fuori dal controllo del governo italiano.
Sono invece paesi a moneta sovrana i paesi in cui la banca centrale, che emette denaro, è controllata ufficialmente, o sostanzialmente, dal governo: Cina, USA, Giappone, Canada, Corea (del Nord e del Sud), Iran, Cuba, Svizzera, ecc.
In realtà vi sono anche delle situazioni “intermedie” in cui la banca centrale è “indipendente” dal potere politico, pur emettendo la moneta ufficiale dalle nazione in cui si trova, per cui non collabora pienamente con il governo nel garantire le emissioni di moneta ritenute politicamente necessarie.

Uno stato a moneta a sovrana, per intenderci, è uno stato ha la “macchina che stampa i soldi”, il quale sempre sarà in grado di stampare il denaro sufficiente a pagare gli interessi ed eventualmente i capitali in scadenza. Ed è risibile la contestazione di chi sostiene che “stampare denaro genera sempre inflazione”, in quanto il nuovo denaro stampato viene destinato a ripagare i risparmiatori (denaro che non destinato ad acquistare beni e servizi, ma a risparmiare) e in quanto un governo accorto sa regolare la spesa pubblica in modo da evitare eccessi di inflazione.

Se il debito pubblico non è espresso in moneta sovrana, diventa un “debito cattivo”, in quanto i creditori, pur non avendo l’interesse che venga tutto ripagato (perché ci vogliono guadagnare gli interessi per lungo tempo), avranno un forte potere contrattuale verso uno stato che si può finanziare solo tramite i creditori ed i contribuenti, senza poter stampare una propria moneta. E questo potere contrattuale lo utilizzeranno per trarre i massimi benefici per loro, naturalmente ai danni dei cittadini, che pagheranno più tasse, per garantire il pagamento di interessi più elevati.
In questo caso, come in quello del debito privato impagabile, il debito pubblico impagabile diventa un meccanismo permanente di sfruttamento, da parte dei creditori, nei confronti della nazione che lo detiene.

A dire il vero ci sono nazioni povere del mondo che hanno la necessità di indebitarsi in valuta estera per poter acquistare tecnologie e competenze estere di cui non dispongono. In questi casi deve valere sempre la stessa regola: il debito deve essere sostenibile, diversamente diventa uno strumento di imperialismo

 

E’ solo una scelta politica
Se il debito pubblico sia uno strumento utile ai cittadini, per le ragioni sopra espresse, oppure se sia un meccanismo di sfruttamento del popolo, dipende unicamente da due fattori: la denominazione del debito (in moneta sovrana o non sovrana) e dal controllo pubblico sulla banca centrale che la emette.
Si tratta di due scelte a costo zero, puramente politiche. Infatti un paese libero e democratico ha tutto il potere di scegliere se emettere titoli di stato nella propria valuta o se emetterli in una valuta fuori dal proprio controllo. Ed ha tutto il potere giuridico di stabilire il controllo pubblico della banca centrale, affinché stampi il denaro necessario a garantire la sostenibilità del debito.

Dopo di che, evidentemente, non tutti i paesi sono liberi e democratici. Un paese sotto il controllo di una potenza straniera (una colonia) emetterà debito in una valuta confacente agli interessi della potenza straniera, garantendole un potente meccanismo di controllo, come lo è il debito pubblico estero della maggior parte dei paesi del Terzo Mondo, costantemente impagabile, costantemente nelle mani di stati/banche dei paesi più ricchi del mondo.
Un paese che emette titoli di stato in euro, moneta emessa da una banca centrale di cui non ha il controllo, sarà sottoposto ad un meccanismo di potere da parte di chi controlla la BCE, che si imporrà sulle decisioni del Parlamento.

Si tratta solo di una decisione politica: se l’Italia desidera essere un paese libero e democratico, dove il debito pubblico è un servizio di risparmio per i cittadini, questo deve essere denominato in valuta nazionale e la Banca d’Italia deve essere posta sotto controllo pubblico (oggi non lo è). Diversamente l’Italia continuerà ad essere soggetta al potere di coloro che controllano la banca centrale che emette gli euro, la BCE, i quali sono sempre più ricchi, proprio mentre il popolo italiano è sempre più povero, secondo lo stesso meccanismo applicato da decenni ai paesi poveri del Terzo Mondo.
E’ quanto spiega Guido Grossi nel suo video Il furto del debito pubblico.

C’è anche chi sostiene che il problema lo si potrebbe risolvere imponendo il controllo pubblico degli “stati europei” sulla Banca Centrale Europea. Da punto di visto tecnico-economico si tratta certamente di una soluzione funzionale. Il problema, però, è la fattibilità politica. Si tratta di una decisione che dovrebbe essere presa all’unanimità da 27 governi, molti dei quali sottoposti ai ricatti ed alle infiltrazioni da parte dei poteri finanziari che controllano la stessa BCE e ne traggono profitto.
Le probabilità che una riforma del genere avvenga in pochi anni sono prossime allo zero, mentre gli effetti di impoverimento dell’Italia sono già in corso da anni e continuano pesantemente.
La via più percorribile, quindi, è che lo stato italiano cominci ad emettere titoli espressi in una valuta parallela all’euro, emettendo esso stesso questa valuta. In questo modo il debito pubblico ritornerebbe a svolgere la funzione “buona” di supporto al risparmio e cesserebbe di essere uno strumento di potere della finanza internazionale sull’Italia.

Lorenzo Castellani, L’ingranaggio del potere, _ a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Lorenzo Castellani, L’ingranaggio del potere, Liberilibri Macerata, pp. 240, € 17,00.

L’amministrazione, scriveva Weber, è quel “potere quotidiano” il quale, anche se quasi sempre non provvede con atti normativi primari, condiziona di più l’esistenza individuale (e collettiva). Ciò non è per lo più compreso dall’opinione pubblica – e dai soggetti che la guidano o almeno la condizionano come i media – i quali focalizzano l’attenzione sugli atti degli altri poteri (intesi à la Montesquieu): sul decreto-legge, sul D.P.C.M. (atto governativo) o sul mandato di cattura per il Sindaco o il Ministro.

Ne consegue che non è percepito come l’assetto del potere amministrativo – teoricamente servente di quelli governativo e, mediatamente, legislativo – condiziona la forma politica cioè l’assetto costituzionale. Questo libro parte da una considerazione diversa: che “Il principio di competenza ha eroso gli spazi e le responsabilità recati dal principio democratico; la tecnica e la politica si sono progressivamente sovrapposte; le comunità sono state spodestate da istituzioni lontane e burocratiche”; e prosegue “Come scrisse Carl Schmitt in Dialogo sul potere «anche il principe più assoluto deve fare affidamento su resoconti e informazioni ed è dipendente dai suoi consiglieri […] Davanti a ogni camera del potere diretto si forma un’anticamera di influssi e poteri indiretti, un accesso all’orecchio del potente, un corridoio verso la sua anima. Non c’è potere umano che non abbia questa anticamera e questo corridoio». Un’anticamera che, nel regime demo-burocratico moderno, la tecno-democrazia, è popolata da tecnici che talvolta eseguono meramente e talaltra desiderano oppure esercitano direttamente il potere”.

La tecnocrazia sia nella sua “branca” pubblica (la P.A.) sia in quella privata (che accede o influenza le funzioni pubbliche) fonda il proprio ruolo e potere sul “sapere specializzato” ossia sulla competenza “tecnica”; così la democrazia, fondandosi anche sulla competenza specialistica degli “esecutori-consiglieri” si trasforma in una tecno-democrazia, la quale da un lato si basa sulla legittimità del principio democratico, dall’altro sul possesso del sapere, cioè su un’aristocrazia non di spada, ma di penna. “La tesi di questo libro è, dunque, semplice: nelle società avanzate il principio aristocratico ha, nell’organizzazione del potere politico della società, un peso superiore rispetto a quanto comunemente si è portati a credere o ad ammettere… Questo principio aristocratico-gerarchico convive con il principio democratico-rappresentativo di cui, negli ultimi decenni, ha progressivamente eroso significativi spazi. Di conseguenza i poteri non elettivi, a carattere tecnico, oggi condizionano la vita dei cittadini e le scelte politiche allo stesso modo, se non fosse ancor di più, di quelli elettivi e rappresentativi”. Pertanto “lo sviluppo di questo potere parallelo, tuttavia, può essere compreso solo tenendo insieme i due demoni della vita politica moderna: lo Stato e il capitalismo”. Così “lo Stato-Leviatano e il capitalismo-Behemoth si corrompono a vicenda, ed in questo legame di reciproco clientelismo mirano a edificare uno stabile apparato di potere, un sistema di élites, che proprio per mantenere la sua stabilità tende a limitare la libertà di individui e comunità” e “l’osmosi tra burocrazia pubblica e grande capitalismo produce tecnocrazia, che non a caso sul piano storico si è sviluppata pienamente con l’avvento della società industriale, ma affonda le sue radici nello Stato moderno”.

Il saggio prosegue poi analizzando i vari aspetti del problema del nichilismo politico, la mentalità tecnocratica, la razionalità, spirito della politica e della burocrazia, le prospettive future. Tutti aspetti considerati con attenzione dall’autore ma non esaminati perché esulano dalla dimensione di una recensione. Ma su due punti è il caso di intervenire. Il primo è che tra le leggi (la regolarità della politica) c’è quella della classe politica (dell’aiutantato come scriveva Miglio), per cui non c’è governo senza “classe” politica. Talvolta non professionale, in altre si. Spesso riservata per nascita (in un ceto privilegiato); in altri casi dalla considerazione sociale (come per le democrazie classiche) e dall’elezione; in altri, come in molte “società idrauliche” favorita dalle mutilazioni sessuali (gli eunuchi in Cina, e nel tardo impero romano). Ma accanto a quella c’è il rapporto tra vertice e base, tra capo/i e governati, anch’esso necessario. Il problema, uno dei principali che si presentano all’uomo politico è come tener in equilibrio questi due “circuiti”. Perché a squilibrarli il rischio è che si mandi in rovina l’istituzione politica (e, spesso, la stessa comunità): come avvenne nel tardo impero romano d’occidente, la cui caduta fu co-determinata, o grandemente favorita dallo squilibrio a favore della “classe” burocratica. Dall’altro che la democrazia moderna è uno status mixtus: Schmitt la considerava tale sia per la compresenza di organi risalenti a principi politici diversi: democratico (per la nomina/elezione dei componenti dei maggiori organi di direzione politica); aristocratico (per il carattere del parlamento); monarchico (per il ruolo del capo dello Stato). E inoltre per l’equilibrio tra principi di forma politica e principi dello Stato borghese. Nell’analisi di Castellani si aggiunge la compresenza di elementi democratici e tecnocratici: un’altra antitesi da sussumere nella concezione dello Status mixtus, e da addizionare alle altre. Spesso identificata come opposizione tra politica ed economia (ma non è solo questo), specie in momenti d’emergenza come l’attuale. Resta comunque il fatto che negli stati di crisi il problema si presenta nella risposta al quis judicabit: cioè chi decide come superare la crisi?

E chi ha la forza di rispondere efficacemente è il (reale) sovrano. Che diventi poi legittimo è, come scrivevano Hauriou e Santi Romano, solo la durata a poterlo dire.

Teodoro Klitsche de la Grange

AFRICA 2021…come il 2020, di Bernard Lugan

In Africa, l’anno 2020 è finito come era iniziato, con diverse ampie aree di conflittualità:
– In Libia, paese tagliato in due entità, Tripolitania in Occidente e Cirenaica nell’est, Turchia attraverso il governo di Tripoli e L’Egitto, tramite il marescialloHaftar hanno la pistola ai piedi. Il maresciallo Haftar controlla i terminali petroliferi del Golfo di Syrtes che la Turchia vuole conquistare. Per l’Egitto sarebbe un casus belli e ha avvertito che, in questo caso, il suo esercito sarebbe intervenuto.
– Nella BSS (Sahelosaharan Band), la grande novità è una guerra aperta tra Daesh
il cui obiettivo è stabilire un califfato transetnico e transnazionale, e Aqmi che si è evoluto verso un etno-jihadismo territoriale.
– Nel corno, la principale la domanda è se l’Etiopia è sì o no alla vigilia di uno sviluppo di tipo jugoslavo, o al contrario in fase di ricomposizione attorno all’Oromo che emarginò l’Amhara e schiacciò il Tigrayans.
– In Africa centrale, dalla CAR alla regione del Lago Albert, il buco nero non è pronto per essere riempito. Quanto al Mozambico, il jihadismo sembra mettere radici nel gioco della
parte settentrionale del paese vicino alla Tanzania.

Alla fine del 2020, il conflitto “vecchio” cincischiava nel Sahara occidentale dove in agonia il Polisario ha tentato senza successo di tagliare la strada che collega il Senegal al
Mediterraneo, strada che attraversa il Sahara marocchino. Ora la domanda è se l’Algeria ha ancora interesse a sostenere a distanza di un braccio un Polisario, una sorta di testimone delle guerre del tempo della “guerra fredda” prima del 1990, e del quale alcuni degli ultimi
membri si sono uniti allo Stato islamico (Daesh), nemico mortale di Algeri.
Politicamente, l’anno 2020 ha visto tenere una serie di elezioni le quali, nella quasi totalità,
hanno solo consolidato e confermato i rapporti etnodemografici, grazie ai quali i più numerosi matematicamente sovrastano i meno numerosi. Tuttavia, questa etnomatematica elettorale è la chiave della questione politica africana.
Nel 2020, dieci anni dopo l’inizio dell’ondata disastrosa di “Primavera araba”, l’Africa
del Nord è tornata al punto di partenza, ovvero al suo principale problema, quello demografico.
Mentre le nascite procedono più veloci dello sviluppo, dall’Egitto al Marocco, i problemi sociali costituiscono tante bombe a orologeria. A questo si aggiungono problemi specifici. Così la questione delle acque del Nilo che ha creato una situazione quasi conflittuale tra l’Egitto e l’Etiopia, i disperati tentativi del “sistema” algerino di sopravvivere a se stesso.

Plus d’informations sur le blog de Bernard Lugan.

COMPITI PER IL PENSIERO, di Pierluigi Fagan

COMPITI PER IL PENSIERO. (Lungo, ma l’argomento è vasto e complicato). Da un paio di giorni, nei titoli dei giornali, gira l’annuncio che -causa COVID-, la Cina dovrebbe raggiungere il vertice della classifica mondiale dei Pil assoluti con cinque anni di anticipo, dal precedentemente previsto 2033 all’attualizzato 2028 (fonte: Centre for Economics and Business Research nel Rapporto rilasciato lo scorso 26.12).
La “Cina” è un vero e proprio caso cruciale della distorsione della nostra immagine di mondo. La Cina non gioca secondo le regole, la Cina performa meglio perché ha un governo autoritario, no performa meglio perché è “socialista”, la Cina non è una democrazia, forse addirittura ha lei diffuso il coronavirus apposta per mettere in difficoltà i suoi principali competitors. Tutti questi giudizi possono esser dati ed argomentati, ma non si capisce cosa c’entrino a commento del fatto in questione.
Il fatto in questione, che la Cina si avvia in tempi storici brevi a diventare la prima potenza economica del mondo (se tra otto o dodici anni mi pare l’ultimo dei problemi), è noto da anni solo che non è preso in consapevolezza obiettiva dalla nostra immagine di mondo. Due e molto semplici le ragioni: la prima è che sono 1,4 miliardi di persone, la seconda è che dagli anni ’80 hanno abbracciato i principi dell’economia moderna iniziando così una traiettoria che porta dal sottosviluppo all’ipersviluppo, come è accaduto a noi in tre secoli. Applichi la formula del successo moderno ad 1,4 mld di persone, ne viene fuori una ipergigante rossa, l’oggetto stellare di maggior massa dell’Universo (dopo le stelle a neutroni).
Tali ragioni obiettive e per altro abbastanza semplici da comprendere, portano due angosce a noi occidentali. La prima è che il mondo si va ad equalizzare per dimensioni, paesi più grandi –a parità (circa) di modo economico-, avranno volume economico più grande. Qui l’angoscia è soprattutto europea poiché l’Europa eredita una forma stato-nazionale che origina dal ‘500, quando per gli europei, il “mondo” era appunto il loro subcontinente. Quindi, il fenomeno storico stato-nazionale che comincia dalla Francia del ‘400, aveva a contesto i rapporti con l’Inghilterra e viceversa, la Spagna aveva a contesto di riferimento ciò che avveniva in Francia ed il Portogallo ciò che avveniva in Spagna. Così, il fenomeno stato-nazionale è andato avanti sino alla seconda metà del XIX secolo, quando sono arrivati gli ultimi Stato-nazione, l’Italia e la Germania. S’intenda, le forze che portarono allo Stato-nazione non riguardavano solo l’esterno ma come per tutti gli enti, la relazione tra le loro condizioni di possibilità interne (territorio e confini “naturali” che nel tempo hanno sedimentato lingue ed habitus più o meno comuni in una dato “popolo”, tipo lingua, tradizioni religiose, cultura materiale etc.) ed appunto l’esterno ovvero pari dinamiche per l’ente o gli enti vicini in competizione per risorse e territori. Infatti, la nascita dei primi Stato-nazione (F-I-S-P) fu -più o meno- sincronica in termini di tempo storico.
Così, nel 2035 rispetto anche al solo 2005, tra le prime dieci economie del mondo, irrompono i cinesi (1,4 miliardi), gli indiani (1,3 mld), l’Indonesia (0.270-0.300 mld), il Brasile (0.210-0.240 mld) e financo la Russia (0.150 mld) mentre Italia, Canada e Spagna escono dalla top ten ed USA, Giappone, Germania, UK e Francia scalano di qualche posizione. Ovviamente non è una legge meccanica (cioè “precisa” e quando le “leggi” non sono precise si chiamano “regole”), UK, Francia ed Italia non hanno popolazioni molto diverse per volume, ma performance economiche sì. Questo nuova regola del volume è inquietante per gli occidentali poiché -in prospettiva- dopo gli USA che hanno comunque la terza popolazione mondiale per volume, i campioni occidentali Germania-UK-Francia, sono solo al 19°-20°-21° posto per popolazione, ed in prospettiva perderanno posizioni per ragioni di curva demografica. In più è inquietante perché introduce un elemento di materialismo volgare che limita la nostra innata foga idealistica concettuale quasi che i concetti che riflettono il mondo, non debbano fare i conti con la sottostante consistenza di “numero-peso-misura”.
La seconda ragione obiettiva dice che i pesi delle potenze del mondo vanno a modificarsi in ragione del fatto che il modo economico moderno (che tu ti ostini a chiamare “capitalismo” infilandoti in una foreste di inestricabili aporie concettuali di cui “ma la Cina è capitalista o no?” è il più frequentato luogo comune del dibattito colto) ormai è applicato ovunque, una specialità che ha segnato la potenza occidentale degli ultimi tre-quattro secoli non è più una differenza. Per “modo economico moderno” intendiamo la formula: IDEE (scienza e tecnica) + ENERGIA e MATERIA + CAPITALI + ATTIVITA’ ECONOMIA (produzione e commercio) + MERCATO, con alcune varianti di interpretazione e peso, ma nella sostanza con partitura sostanzialmente simile. Poi c’è il rapporto tra economia e politica ma questo è un altro tema. Se quindi, non c’è più una vantaggio comparato di modo, allora il peso volumetrico del Paese-economia, farà la differenza.
Ma poi l’angoscia aumenta perché si va scoprendo anche un’altra legge naturale assai semplice e volgare ovvero che essere all’inizio o alla fine del ciclo di sviluppo, fa la differenza. All’inizio è tutto molto semplice, serve tutto, c’è domanda potenziale che traina senza problemi. Alla fine, non sai più cosa inventarti per trainare il fatto economico. Hai già fatto la rivoluzione energetica, meccanica, elettrica, chimica, dopo la guerra euro-mondiale dei trenta anni hai ricostruito quello che ti eri buttato giù da solo, hai inventato il consumismo, ma negli ultimi decenni hai inventato solo il digitale e cominciato ad applicare la tecno-scienza al biologico. Per carità, strade interessanti ma non del volume ed intensità economica della quadruplice rivoluzione a cavallo tra XIX-XX secolo o della ripresa post bellica. Pensi di tenere in piedi la tua complessa società del “benessere per il maggior numero” con le app? Auguri!
Ecco dunque che improvvisamente (“improvvisamente” perché la tua idm era impostata per leggere altre cose del mondo ed i segnali obiettivi, del tutto concreti e palesi, non sei stato in grado di leggerli per tempo) scopri che sei diventato un peso medio in un mondo di pesi massimi, che tali pesi massimi diventeranno demograficamente sempre più voluminosi e tu sempre meno, che non ti protegge più alcuna specialità competitiva, che sei alla fine del ciclo di sviluppo ed arranchi ad inventarti cose che ti ridiano la potenza della giovinezza mentre la megafauna demografica ha davanti a sé decenni di case, auto, strade, porti, aeroporti, televisioni, telefoni e computer da poter produrre per saziare la fame di benessere delle loro giovani e voluminose popolazioni.
In termini di geoeconomia poi, ti accorgi che 7+1 delle prime dieci posizioni del 2005 erano occidentali mentre nel 2035 saranno solo 4 ed il Giappone che prima potevi contare come del tutto “occidentale”, ora rischia di dover esser contato come asiatico. Su le prime 11 posizioni, 5 saranno asiatiche sempre che tu non voglia contare anche la Russia che stai ostracizzando e spingendo in tutti i modi lì dove non sembra ti convenga poi così tanto, così saranno 6, saranno un “sistema”, un sistema basato su un contesto che conterà il 60% della popolazione mondiale, che con un 20% di Africa farà l’80% del mondo. Quel mondo di cui solo un secolo fa eri un terzo. E che tu potrai continuare a contare USA-UK-Germania e Francia come appartenenti ad un unico sistema è anche molto dubbio. Poiché dalla geoeconomia alla geopolitica il passo è breve, ne dovresti dedurre la auto-evidenza del nuovo formato multipolare ed il problema del “con”-“dominio” sul mondo, ma l’argomento non ti piace e quindi fai finta di niente. Oppure sbraiti contro il Nuovo Ordine Mondiale perché hai letto o fai finta di aver letto qualche romanzo distopico che ti ha turbato.
Tutto questo dice già abbastanza cose da meritare una riflessione ponderata. Devi solo aggiungere altre tre cose. La prima è il tempo estremamente breve in cui questi potenti fenomeni si sono prodotti. Forse meno brevi di quanto tu ti sia accorto visto che non vedevi certe cose perché la polarizzazione dei tuoi occhiali non permetteva ai fotoni di quei fenomeni in atto di raggiungere la tua cornea e poi la tua corteccia prefrontale (La regione implicata nella interpretazione del mondo attorno, nella pianificazione dei comportamenti cognitivi complessi, nell’espressione della personalità, nella presa delle decisioni e nella condotta sociale). Inoltre, chi domina il tuo mondo, s’è votato al “buying time” (guadagnar tempo) perché non trovava soluzioni secondo lui “idonee” a risolvere la brutta equazione e quindi ha evitato si tematizzasse il tema. La seconda cosa è che è molto dubbio che il modo economico moderno nato in Europa da quattro secoli fa quando sul pianeta si era 650 milioni in tutto, possa funzionare in un mondo di 8-9 e passa miliardi di persone. A cominciare dal punto di vista ambientale. La terza è riflettere sul perché tu ti ostini a parlare soprattutto di economia, ma anche di società, politica e geopolitica con categorie e giudizi forgiati almeno due secoli fa, il pensiero riflette il suo tempo, cambia il tempo dovresti cambiare anche le forme del pensiero, o no?
Non ti sembra quindi opportuno e prioritario cominciar dal fare una riflessione su come rifletti? Se perdi la facoltà di comprendere il mondo, come potrai darti un futuro?

Il debito buono e il debito cattivo, di Davide Gionco

riceviamo e pubblichiamo_Giuseppe Germinario

Il debito buono e il debito cattivo

di Davide Gionco

L’antropologo David Graeber aveva dedicato un intero saggio (Debito. I primi 5000 anni) al ruolo del debito nella storia dell’umanità, dalle prime civiltà mesopotamiche di cui abbiamo notizia fino alla crisi della Lehman Brothers del 2008.
Il debito è il principale motore dell’economia e, probabilmente, anche della storia dell’umanità. Per fare un esempio, ci eravamo già occupati dell’importanza fondamentale dei prestiti delle banche estere nella storia dell’unificazione dell’Italia sotto la corona dei Savoia. Senza i debiti contratti dal Regno di Sardegna verso le banche, non ci sarebbero stati i fondi per finanziare le guerre di indipendenza ed il corso della storia d’Italia sarebbe stato differente da quello che conosciamo.
Senza il debito gran parte delle case in cui abitiamo non sarebbe stata costruita.
Ma è anche vero che senza il debito molti paesi del Terzo Mondo non sarebbero ridotti in povertà e probabilmente non ci sarebbero i flussi migratori dal Sud del mondo verso il Nord del mondo.
Ci sono persone rovinate dai debiti, ma anche persone che sui debiti hanno costruito la loro fortuna.

Quando un debito è “buono” e quando un debito è “cattivo”?

Il debito non è qualche cosa che esiste in natura, è qualche cosa che nasce dalle relazioni umane. Il concetto di debito, evidentemente, precede l’economia. Ogni volta che diamo la nostra parola promettendo qualche cosa, ci indebitiamo verso l’altra persona, nel senso che ci impegniamo a dare a quella persona quanto pattuito: un oggetto che possediamo, un po’ del nostro tempo e del nostro lavoro o il nostro amore eterno.

Il giudizio sulla bontà del debito lo si dà a partire dalle conseguenze sulla vita reale delle persone. Ho fatto bene a promettere amore eterno a quella persona? Che cosa ci ho guadagnato?
Ho fatto bene a farmi prestare del denaro per acquistare quel macchinario o per prendere casa in centro città?

Il debito economico, di per sé, è solo una registrazione contabile astratta, derivante da un contratto economico, l’impegno a restituire una certa somma denaro in cambio di un bene reale ricevuto (acquisto) o di un prestito ricevuto. Sono pezzi di carta, numeri su dei computers.
Se il debito contratto sia cosa buona o cattiva lo si può giudicare solo dalle conseguenze sulla vita reale delle persone. Non è corretto un approccio etico del tipo “mai indebitarsi”, perché senza indebitamento si fermerebbe il mondo.
Non si potrebbe, ad esempio, ordinare un’automobile: io sono debitore di 20 mila euro verso concessionario, ma il concessionario è debitore verso di me di un’automobile.
Non si potrebbe stipulare un contratto di affitto: io sono debitore mensilmente dell’importo dell’affitto, il proprietario è debitore verso di me nel concedere l’uso del suo appartamento per un mese.
Non si potrebbe stipulare un contratto di lavoro: io sono debitore di 21 giorni al mese del mio lavoro verso l’impresa che mi ha assunto, l’impresa è debitrice verso di me dello stipendio mensile.

Si potrebbe discutere dell’opportunità di indebitarsi prendendo del denaro in prestito, ad esempio da una banca. Se prendo in prestito un credito da 150 mila euro per l’acquisto della casa in cui vivo, che comporta l’esborso di una rata mensile di 400 euro ed il mio lavoro mi consente agevolmente di vivere e di pagare le rate del mutuo, il debito contratto è una cosa buona, in quanto mi consente di acquistare una casa in cui vivere, la quale ha un valore reale. In sostanza quel debito è stato lo strumento per barattare la mia capacità lavorativa con la casa che ho acquistato.
Ovviamente se la casa che ho acquistato non è stato un buon affare, nel senso che era in pessimo stato, da ristrutturare, in un quartiere pieno di criminalità e privo di servizi, non si è trattato di un buon affare. In questo caso, però, la colpa non è dello strumento-debito, ma del mio errore di scelta della casa da acquistare.

I problemi legati alla contrazione del debito li si hanno quando il debito risulta non sostenibile, per cui l’impegno di restituzione ci porta a doverci privare di cose vitali. Il debito inizia ad essere un problema se per mettere insieme i 400 euro al mese della rata del mutuo mi trovo obbligato a rinunciare alle spese non essenziali che costituiscono il mio benessere. Ma il debito diventa un vero problema (“cattivo”) quando per rimborsarlo devo privarmi di beni essenziali per la mima esistenza, quali la casa in cui vivere, i vestiti, il cibo e, magari, il debito impagabile mi precipita in una situazione umana che mi fa perdere anche gli affetti più cari.
Nell’antichità la mancata restituzione del debito poteva portare non solo alla perdita di tutti i propri beni, ma anche alla riduzione in schiavitù del debitore, con moglie e figli, fino a che, lavorando, non avessero restituito quanto dovuto. Oggi le conseguenze del non pagamento del debito non arrivato a questi livelli. Il tutto dipende da come la questione viene gestita a livello giuridico.

La questione centrale del debito è dunque la sostenibilità.
Quando il debito non è sostenibile, porta sempre il debitore a cadere in situazioni umanamente inaccettabili: povertà, anche estrema, e forme di schiavitù.
Per quanto riguarda il creditore, in alcuni casi subirà anch’esso delle conseguenze a causa del mancato rimborso, che gli comporterà come minimo delle perdite finanziarie (denaro prestato e non restituito), ma anche conseguenze più gravi se quel denaro prestato doveva a sua volta essere restituito ad altri. In questi casi l’insolvenza del debitore si propaga coinvolgendo la catena dei creditori.

Ci sono anche casi nei quali il creditore non teme il mancato rimborso, vuoi perché dispone di ampie riserve di ricchezza, vuoi perché dispone del diritto giuridico di creare dal nulla, a certe condizioni, il denaro che presta ai debitori.
Un caso classico è quello degli usurai, degli strozzini, i quali dispongono di molto denaro, che prestano ai debitori a condizioni particolarmente vantaggiose per il creditore e svantaggiose per il debitore, il quale non dispone di sufficiente potere contrattuale per esigere delle condizioni più accettabili.
Una persona che abbia assoluto bisogno di denaro per sopravvivere sarà sempre disposta ad accettare delle condizioni capestro ed anche a rivolgersi a prestatori che operano al di fuori dal quadro giuridico ovvero dalle tutele che la legge riconosce ai debitori nei confronti dei creditori. Sono situazioni in cui chi dispone del denaro da prestare ha il potere contrattuale di imporre condizioni legalmente e umanamente non accettabili. Ad esempio la condizione per cui se il debito non viene ripagato sono previsti danni fisici al debitore ed ai suoi famigliari.
Una situazione simile la si ha anche quando i prestatori sono le banche che operano (almeno dovrebbero farlo) dentro il quadro giuridico vigente. Se il debitore è un piccolo artigiano che ha bisogno di credito per pagare le troppe tasse impostegli dal Fisco, è molto probabile che anche la banca approfitti della situazione per quanto le è possibile, dato che quel debitore ha un basso potere contrattuale.
Se, invece, colui che chiede credito è una grande azienda di livello nazionale o internazionale, di cui magari la banca dispone della proprietà di quote ingenti del pacchetto azionario, state certi che le condizioni del credito saranno molto più agevolate, in quanto il debitore ha un forte potere contrattuale.

Da che mondo è mondo, i piccoli debiti sono sempre stati rimborsati o hanno a portato a situazioni di sfruttamento, mentre i grandi debiti sono sempre stati rinegoziati, rifinanziati, eventualmente scaricati su soggetti più deboli (piccoli risparmiatori, si pensi al caso dei Tango Bonds) o eventualmente scaricati nel calderone del debito pubblico (si pensi al caso del Monte dei Paschi di Siena).

Quando un debito a carico di soggetti deboli, a basso potere contrattuale, risulta impagabile ed il soggetto creditore non ha la necessità di essere rimborsato (perché non ha bisogno di denaro), il creditore userà il proprio potere contrattuale per trarre altri vantaggi economici, tentando di trasformare una momentanea situazione di insolvenza in una permanente e perpetua situazione di potere sul debitore, imponendo su di esso delle condizioni per il rinnovo del debito. Il debitore non avrà scelta, non essendo in grado di rimborsare il debito contratto
Il caso tipico è quello di molti paesi de Terzo Mondo, i quali hanno nei decenni passati ricevuto prestiti da parte del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale o da parte di gestori di grandi fondi di investimento internazionali. Quando il debito arrivato in scadenza non può essere rimborsato, i creditori lo rinnovano alle seguenti condizioni:
1) Che alla prossima scadenza il debito sia certamente non ripagabile, obiettivo che viene raggiunto imponendo tassi di interesse sufficientemente alti.
2) Che il debitore metta in atto delle azioni che consentiranno ai creditori di trarre altri tipi di profitti, azioni del tipo: privatizzazioni di servizi pubblici e concessioni esclusive su risorse naturali (minerarie, agricole, turistiche, ecc.)
In questo mondo il rapporto creditore-debitore cessa di essere un rapporto di cooperazione economica (caso del debito “buono” in cui il prestito porta sviluppo) e diventa un meccanismo di sfruttamento perenne da parte dei (pochi) creditori nei confronti dei (molti) debitori.

Il problema è noto fin dagli albori delle società umane. Se ne era già occupato intorno al 1’700 a.C. il re sumero di Lagash con la legge AMA-GI che affrancava tutti i debitori dai creditori, restituendo loro la libertà. Se ne erano già occupati gli antichi Israeliti, le cui leggi prevedevano ogni 50 anni il Giubileo ovvero la cancellazione di tutti i debiti. Se ne era occupato, nell’antica Repubblica di Roma, anche il tribuno della plebe Licinio Sextio, quando il meccanismo dei debiti era quello che consentiva ai ricchi patrizi di imporre costantemente i loro interessi sopra quelli dei poveri plebei.
Sarebbe bene che anche oggi ci si occupasse della questione in modo umano e intelligente, ricordandosi che il denaro prestato non è un valore in sé, mentre un valore in sé è la vita delle persone. La cancellazione dei debiti, a determinate condizioni, è una soluzione da prendere in considerazione, se questi sono diventati un meccanismo di sfruttamento di pochi nei confronti di molti, sapendo che quei pochi non hanno affatto bisogno di quel denaro per vivere.
Non stiamo parlando di “giustizia sociale”, ma stiamo parlando di umanità nei rapporti sociali, nei quali lo sfruttamento non deve mai essere consentito, neppure se il creditore ha delle ragioni giuridiche, in quanto il diritto alla vita delle persone è più importante (anche economicamente parlando) dei diritti dei creditori nei confronti dei debitori.

Abbiamo accennato sopra ai creditori che hanno il potere, a certe condizioni, di creare da nulla il denaro che prestano. Questo è il caso delle banche commerciali che, oggi, possono creare il denaro che prestano a fronte di certe garanzie presentate alla banca centrale e, naturalmente, a fronte di certe garanzie che il denaro prestato venga restituito. Se il denaro creato viene restituito, scompare dal bilancio, lasciando al prestatore solo gli utili, che sono gli interessi. Si tratta di un meccanismo simile a quello rappresentato dal comico Erminio Macario in un suo famoso sketch.
La cosa importante è che la restituzione del prestito sia garantita. O, se non è garantita in modo totale, che l’imposizione delle successive condizioni di rinnovo del debito (ad esempio lo sfruttamento a proprio vantaggio di risorse minerarie) consentano al prestatore di far rientrare i capitali prestati insieme a degli utili.

Questo meccanismo del debito perenne sta alla base delle maggiori forme di sfruttamento oggi esistenti nel Pianeta, sia nei confronti della fasce povere della popolazione (i ricchi sfruttano i poveri, dai tempi del re di Lagash ad oggi), sia nei confronti delle nazioni povere del mondo.

In questo articolo non ci siamo occupati delle questione relative al debito pubblico, ne parleremo in un prossimo articolo.

La risposta democratica alla dottrina Trump 2a parte, di Maya Kandel

La prima parte di questo sondaggio in due parti può essere trovata qui .

Trump ha aperto il più grande dibattito di politica estera negli Stati Uniti da decenni, dopo essere stato eletto nel 2016 sulla sua promessa di ridefinire il rapporto dell’America con il mondo. La sua risposta, “America First”, ha sfidato alcuni postulati dell’azione estera del paese e ha posto la questione del legame tra politica estera e politica interna al centro del dibattito democratico. Dopo una prima sezione dedicata alla  dottrina Trump , questa seconda sezione si concentra sulla visione, o più precisamente sulle visioni democratiche in politica estera: la dottrina Biden non esiste ancora, e si cristallizzerà solo sotto la prova di potere ed eventi dei prossimi anni. Ma è stato costruito da un’eredità di Trump che non negherà del tutto.

Ricostruisci dopo Trump

Il campo democratico condivide la diagnosi trumpiana di una crisi nella politica estera americana. La specificità del 2016, al di là di Trump, era legata alla specificità del momento per la politica estera, cristallizzando una doppia crisi, e in particolare una crisi interna di legittimità della politica estera: il fatto che gli americani non sostenessero più, e non capiva più l’azione esterna del Paese. Le élite democratiche specializzate in politica estera hanno visto questa crisi e hanno trascorso quattro anni cercando di trarne le conseguenze. 

Così va inteso lo slogan “  Build back better  ” della campagna Biden: ricostruire meglio e in modo diverso, come dopo un disastro naturale. La frase è il filo conduttore del nuovo consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan, che lo ha già assunto nel gennaio 2019. Non è un promemoria del truismo democratico che da tempo ripete che il potere esterno deve basarsi sul potere interno: l’ondata populista è passata da qui, ed è una riflessione sul 2016 e sul voto di Trump che lasciano i Democratici di oggi.

La dottrina Biden non esiste ancora e si cristallizzerà solo sotto la prova del potere e gli eventi dei prossimi anni. Ma si basa su un’eredità di Trump che non negherà del tutto.

MAYA KANDEL

Al centro della formula, portata dallo stesso Sullivan, troviamo questa  diagnosi  secondo la quale gli americani non sostengono più la politica estera perché sentono che non serve più i loro interessi: il che porta al secondo slogan del E ‘l’era Biden, già indossata da  Elizabeth Warren  durante le primarie, ovvero la volontà di fare “una politica estera per la borghesia” (americana, ovviamente). Questo è anche il titolo di un rapporto del think tank Carnegie, pubblicato a fine settembre ma frutto di un lavoro durato diversi anni lontano da Washington, per sondare gli americani nel “cuore del Paese” sulla loro visione e sulle loro aspettative. -politica estera visibile: questo rapporto, giustamente intitolato ”   Far funzionare la politica estera per la classe media  »Chiede di ripensare il ruolo internazionale del paese; tra i suoi coautori troviamo Jake Sullivan.

La nuova amministrazione democratica eredita altri elementi, grazie ancora a Trump, che lo ha reso possibile, proprio perché non era un esperto (eufemismo) e voleva scuotere il sistema, per mettere in discussione alcuni presupposti: esso È qui che troviamo l’altro slogan comune a entrambe le parti, la “fine delle guerre infinite” in Medio Oriente, un altro modo per porre fine al periodo successivo all’11 settembre 2001 (l’accelerazione degli annunci di ritiro – Afghanistan , Iraq, Somalia – dal momento che la sconfitta di Trump è adatta ai Democratici, che hanno protestato meno dei loro omologhi repubblicani). Vale anche la pena menzionare qui la messa in discussione del libero scambio su uno sfondo di critiche populiste sia da destra che da sinistra, considerando che la globalizzazioneavvantaggiavano le multinazionali e i loro profitti molto più degli interessi dei cittadini (anche se i consumatori potevano comprare a meno). Aggiunto alla fine del ruolo americano di “poliziotto del mondo”, già respinto da Obama con il pretesto di diminuire i mezzi, è infatti il ​​periodo del dopo Guerra Fredda che si chiude anche per i Democratici, con la comune constatazione del fallimento. del principio guida della politica estera americana dal 1990 che postulava l’idea che l’inclusione dei rivali nel sistema internazionale li avrebbe resi partner responsabili (anche, idealmente, democrazie liberali): Cina e Russia non sono diventate nessuno dei due, mentre la relativa potenza americana è diminuita di fronte all’ascesa dei paesi emergenti, a cominciare dalla Cina.di un “realismo” a lungo diffamato nell’intellighenzia di politica estera: ”   realismo con principi   ” nella dottrina Trump (una formula usata nella strategia di sicurezza nazionale del 2017), ”   realismo progressista   ” per la sinistra del partito democratico, il che suona in entrambi i casi come ammettere i limiti del potere americano.

La visione democratica differisce dalla dottrina Trump su due caratteristiche centrali: minacce e mezzi (il punto di partenza e il cuore della strategia). La prima divergenza strategica riguarda non solo la gerarchia delle minacce, ma anche più profondamente la loro natura. L’agenda democratica enfatizza le minacce globali e transnazionali, ampiamente ignorate dai repubblicani, e si colloca persino ai vertici come minaccia “esistenziale” – alla pari del comunismo durante la guerra fredda – non la Cina, ma il cambiamento climatico. La divergenza sui mezzi deriva principalmente da questa visione più ampia delle minacce, poiché la cooperazione internazionale diventa una condizione necessaria per affrontarle laddove l’amministrazione Trump aveva fatto dell’unilateralismo (o bilateralismo) il suo approccio unico alle relazioni internazionali. . Riscopre la tradizionale insistenza democratica sulla diplomazia e contro l’eccessiva militarizzazione della politica estera americana. Il multilateralismo nasce da questo per i Democratici, come metodo ma anche come principio, quello basato sulla convinzione che alleati e partner siano ancora il principale moltiplicatore di potere degli Stati Uniti sulla scena internazionale. Questa prospettiva non contraddice in alcun modo il fatto che un presidente americano abbia come priorità la difesa degli interessi americani, e non impedirà un approccio più nazionalista o patriottico alla definizione di questi stessi interessi; ma implica l’esistenza di una comunità internazionale, un’esistenza che il team di Trump aveva negato fin dall’inizio attraverso la voce del suo secondo segretario alla sicurezza nazionale, HR McMaster. Anche un simile approccio si opponela visione hobbesiana di uomo Trump affare , per i quali le relazioni internazionali non può essere un gioco a somma zero: i democratici ritengono che siamo in grado di proporre i propri interessi senza necessariamente danneggiare degli altri, anche spostandoli anche in avanti. Infine, Biden e la sua cerchia ristretta vogliono anche ricostruire una base bipartisan per la politica estera, al fine di garantire la stabilità dei principali orientamenti esterni del Paese: questo risponde a una preoccupazione di efficienza, ma anche al fatto che il principale  pericolo di polarizzazione  della politica estera è la perdita di fiducia dei partner di fronte alla cronica instabilità degli impegni internazionali degli Stati Uniti dalla fine della Guerra Fredda.

L’agenda democratica enfatizza le minacce globali e transnazionali, largamente ignorate dai repubblicani, e pone addirittura ai vertici come minaccia “esistenziale” – alla pari del comunismo durante la Guerra Fredda – non la Cina, ma il cambiamento climatico.

MAYA KANDEL

Ripoliticizzare la politica estera

Il filo conduttore del pensiero democratico, logica conseguenza della polarizzazione della politica estera americana, è quello della ripoliticizzazione della politica estera nel suo insieme, anche nella definizione degli interessi nazionali. Sullivan ha menzionato, nel suo articolo del 2019, uno scambio sintomatico con l’economista Jennifer Harris che gli ha chiesto perché la sua amministrazione seguisse comunque esattamente la stessa politica economica internazionale, quando la politica estera di Obama doveva essere una rottura con quella di Bush. Questa critica evoca il grilletto per la critica populista della politica estera (rifiuto di TINA,  There Is No Alternative, un altro nome del consenso neoliberista prevalente dagli anni ’80 fino alle sue recenti critiche), ricorda la necessità di studiare la base elettorale della politica estera, perché le questioni interne ed esterne sono intrecciate – ciò che i cittadini sanno. Si pone la necessità di ripensare la natura e il posto della politica economica internazionale al centro della strategia, argomento su cui hanno lavorato anche gli stessi Sullivan e Harris   in un articolo dal titolo originale premonitore ( Neoliberalism is done ), mettendo in discussione il postulati neoliberisti che hanno guidato la politica economica dall’era Reagan-Thatcher.

L’ ambizione di spazzare via quello che altri chiamano il “Washington consensus” sopravviverà ai vincoli politici americani? La domanda può essere posta, sia alla luce delle attuali condizioni politiche a Washington, sia per la molteplicità dei punti di vista democratici. Thomas Wright, analista presso la Brookings Institution di Washington, ha  proposto una dicotomia tra restaurazione o riforma come griglia per interpretare la politica estera di Biden, visto che il dibattito principale si svolge all’interno di circoli centristi, tra lealisti della linea Obama (restaurazione) e desiderio di diritti di inventario (riforma) . Siamo tentati di aggiungere “rivoluzione” per tener conto del peso dei progressisti della tendenza AOC-Sanders (i Warrenisti sono più dalla parte dei riformatori della griglia di Wright) nel dibattito di politica estera. Il fatto che la sinistra della sinistra democratica intenda influenzare il dibattito di politica estera è già un fatto nuovo che guida le scelte della prossima amministrazione. La differenza si giocherà, per il mondo come per gli americani, sulla politica economica internazionale, soprattutto sul commercio, in particolare nelle sue variazioni sulla tecnologia e sul clima. Con speronela questione cinese , come per la dottrina Trump – uno sprone che potrebbe diventare il motore o addirittura la principale continuità, a causa  delle condizioni politiche degli Stati Uniti contemporanei evidenziati dalle elezioni del 2020: una vittoria democratica molto netta a livello nazionale, ma una base elettorale trumpista consolidata e ampliata, risultante in termini politici da un equilibrio di potere quasi uguale, con forse il mantenimento di un Senato repubblicano (risposta dopo il 5 gennaio 2021 e risultati dei due secondi turni delle elezioni senatoriali in Georgia). Ma l’agenda molto ambiziosa di Biden deve passare attraverso la legislazione. Il suo margine di manovra dipenderà quindi in larga misura da questo “terzo turno” delle elezioni, i due senatori georgiani, che determineranno gli equilibri politici all’interno del Senato.

Se il suo margine di manovra fosse limitato a livello nazionale da un Senato repubblicano, Biden potrebbe essere spinto ad agire più a livello internazionale dove l’azione del Presidente è meno vincolata dal Congresso. Tuttavia, l’amministrazione dovrà fare i conti da un lato con i due poli di un partito repubblicano diviso tra tendenze trumpiste all’isolazionismo e fautori di un internazionalismo militarista ora anti-cinese, e dall’altro si scontrerà con le divisioni del Campo democratico sulla politica estera. La ricerca di un sostegno bipartisan potrebbe in particolare irrigidire la politica cinese dell’amministrazione Biden, con conseguenze per il posizionamento europeo e lo sviluppo delle relazioni transatlantiche .

L’agenda molto ambiziosa di Biden deve passare attraverso la legislazione. Il suo margine di manovra dipenderà quindi in larga misura da questo “terzo turno” delle elezioni, i due senatori georgiani, che determineranno gli equilibri politici all’interno del Senato.

MAYA KANDEL

Ridefinire la sicurezza nazionale: l’offensiva progressiva

La pandemia e l’anno 2020 hanno fatto luce sulla  portata dei movimenti  nati o decollati dall’inizio della presidenza Trump, e soprattutto hanno permesso la loro cristallizzazione in una mobilitazione di massa popolare dopo la diffusione dell’assassinio di George Floyd. Sono infatti la reclusione, la disoccupazione forzata e gli effetti della pandemia che non solo hanno alimentato la frustrazione, ma hanno anche permesso la consapevolezza e le manifestazioni massicce, insolite e storiche della popolazione americana. Le mobilitazioni riunite ben oltre gli attivisti di  Black Lives Matter , hanno illustrato i legami e le convergenze di questi movimenti (dal  Sunrise Movement  al  Working Families Party attraverso i  Justice Democrats e molti gruppi femministi, etnici, LGBTQA +, ecc.), e hanno mostrato la forza dei “nuovi attivisti” – per citare l’espressione  nell’eccellente libro di  Mathieu Magnaudeix, movimenti nati o che hanno ha acquisito uno slancio notevole durante i quattro anni di presidenza di Trump. Questi sviluppi hanno trasformato la candidatura di Biden, costringendo il candidato a coinvolgere da vicino i progressisti nello sviluppo del suo progetto, con la costituzione di gruppi di lavoro tra il suo team e quello di Sanders, e più in generale alla sua futura amministrazione, con il  reclutamento all’interno del suo stretto staff di personalità appartenenti a minoranze etnico-razziali. Senza la fine delle primarie e la rinuncia e il chiaro raduno di Sanders da marzo 2020, possiamo immaginare che il campo democratico non si sarebbe avvicinato alla campagna generale nello stesso stato, e probabilmente non avremmo conosciuto una tale collaborazione. durante la campagna tra le due ali nemiche. Questa trasformazione ha colpito per la prima volta il clima economico del  programma , incluso Biden, a metà luglio dal programma soprannominato  Sunrise Movement , che era molto critico nei confronti del piano Biden di pochi mesi fa.

La progressiva offensiva per realizzare un vero cambiamento sistemico si è manifestata anche in politica estera. Questo aspetto segna una rottura con i Democratici – un segno della fine dell’era post-Guerra Fredda – al di là anche della messa in discussione di ciò che aveva guidato l’atteggiamento della sinistra durante la Guerra Fredda almeno fino a «la guerra del Vietnam: l’accettazione di un accantonamento nella politica interna, lasciando agli esperti di strateghi la conduzione degli affari esteri a causa dell’imperativo imperativo di lottare contro l’Unione Sovietica; a quel tempo, la politica estera era destinata anche a servire le classi medie perché garantiva la crescita economica (che in genere era il caso all’epoca). Dopo il Vietnam, la sinistra di sinistra si è poi trovata in una posizione pacifista e antimilitarista, senza però investire in politica estera al di là dell’opposizione aperta. Dopo la Guerra Fredda, alcuni pacifisti storici, come il rappresentante Ron Dellums, si erano persino uniti ai sostenitori degli interventi umanitari, in particolare negli anni ’90 (Bosnia, Haiti). Nel 2016, Sanders stava ancora relativamente trascurando la politica estera. Le primarie democratiche del 2019, al contrario, sono state l’occasione per affascinanti dibattiti sulla definizione di a in particolare durante gli anni ’90 (Bosnia, Haiti). Nel 2016, Sanders stava ancora relativamente trascurando la politica estera. Le primarie democratiche del 2019, al contrario, sono state l’occasione per dibattiti affascinanti sulla definizione di a soprattutto durante gli anni ’90 (Bosnia, Haiti). Nel 2016, Sanders stava ancora relativamente trascurando la politica estera. Le primarie democratiche del 2019, al contrario, sono state l’occasione per dibattiti affascinanti sulla definizione di a politica estera di sinistra . Questo sviluppo è indicativo delle crescenti ambizioni e del peso dell’ala progressista nel dibattito sulle idee democratiche e della strategia, in particolare del gruppo  Justice Democrats , di esercitare influenza dall’interno del sistema. Dopo ulteriori vittorie progressiste alle primarie del 2020, la sconfitta a New York del rappresentante Elliot Engel (presidente della commissione per gli affari esteri della Camera) ha portato a una lettera di quasi  70 organizzazioni progressiste, di solito incentrato sulla politica interna, chiedendo alla presidenza di questa Commissione decisiva di tradurre le idee progressiste nella politica estera americana: “moderazione e realismo progressista”, rivalutazione degli strumenti di politica estera (diplomazia, interventi militari, sanzioni, ecc.) e ridefinizione degli obiettivi (lotta alla corruzione, tutela della biodiversità, trattamento di alleati e avversari, ecc.).

Le primarie democratiche del 2019, al contrario, sono state l’occasione per dibattiti affascinanti sulla definizione di una politica estera di sinistra. Questo sviluppo è indicativo delle crescenti ambizioni e del peso dell’ala progressista nel dibattito sulle idee democratiche e della strategia, in particolare del gruppo  Justice Democrats , di esercitare influenza dall’interno del sistema.

MAYA KANDEL

Alla sua nomina, Jake Sullivan ha annunciato di voler ampliare la definizione del concetto di “sicurezza nazionale” che determina gli obiettivi dell’azione internazionale del Paese. Lo sviluppo più interessante finora è la scelta di John Kerry come inviato speciale per il clima e, soprattutto, la  decisione  di dargli un seggio e quindi una voce nel Consiglio di sicurezza nazionale alla Casa Bianca. , al centro dello sviluppo della politica estera. Il segnale è chiaro ed è stato richiamato sia da  Kerry  che da  Sullivan durante le rispettive nomine: il cambiamento climatico deve essere integrato nel pensiero della sicurezza nazionale e la diplomazia climatica sarà al centro della politica estera. Se c’è un argomento in cui europei e americani dovrebbero essere alleati naturali, è quello del clima; questa considerazione del clima si può trovare anche su tutte le questioni di politica interna, dall’agricoltura ai trasporti e alle infrastrutture,     essendo l ‘” ambizione climatica ” apparentemente un criterio per il reclutamento nel team di Biden. È anche un argomento su cui la conversazione deve includere la Cina, e apre orizzonti emozionanti (chiariti qui da  Pierre Charbonnier), per trasformare il pensiero geopolitico e geoeconomico, anche per l’Europa che dovrebbe coglierlo. È qui che si gioca anche una parte dell’ambizione dell’amministrazione Biden.

Un aspetto cruciale – soprattutto per l’Europa – sarà sicuramente il ruolo di Janet Yellen, nominata alla carica di Segretario del Tesoro e che sarà responsabile come tale della diplomazia economica dell’amministrazione Biden. Il suo slogan sarà con tutta probabilità ereditato anche da Trump, che ha aggiornato i principi geoeconomici definiti da Edward Luttwak alla fine della Guerra Fredda: la sicurezza economica è sicurezza nazionale. Da questo punto di vista, la sicurezza economica ha la precedenza sulle alleanze geopolitiche, e non il contrario. Yellen giocherà anche un ruolo di primo piano nella politica cinese, dal momento che gli elementi più decisivi messi in campo dall’amministrazione Trump sono stati posti dal Tesoro (elenco di entità e sanzioni extraterritoriali in generale). fiscalità  nazionale e internazionale nel programma Biden. Avrà il controllo sul destino dei decreti e dei regolamenti messi in atto dall’amministrazione Trump dopo il voto sulla riforma fiscale da parte del Congresso repubblicano alla fine del 2017, in particolare per quanto riguarda la tassazione delle multinazionali. Il suo tandem con il nuovo capo del commercio della Casa Bianca, Katherine Tai, sarà sicuramente una parte fondamentale delle prossime relazioni transatlantiche.

Un aspetto cruciale – soprattutto per l’Europa – sarà sicuramente il ruolo di Janet Yellen, nominata alla carica di Segretario del Tesoro e che sarà responsabile come tale della diplomazia economica dell’amministrazione Biden.

MAYA KANDEL

Ripensare le relazioni internazionali nel XXI °  secolo: la sfida cinese, l’emergenza clima

La Cina  divide i Democratici  (come i Repubblicani), e questo anche all’interno del campo progressista: tra chi rifiuta una nuova guerra fredda ma intende lottare contro un asse autoritario internazionale, e chi preferisce concentrarsi sui temi della cooperazione e un disimpegno militare americano. Ci sono molti intorno a Biden, tuttavia, soprattutto nella comunità strategica, che vedono la sfida cinese alla superpotenza statunitense come la principale sfida per la politica estera degli Stati Uniti nel ventunesimo secolo   come l’unico modo per ricostruire una politica estera. solido e affidabile perchébipartisan . Alcuni vanno anche oltre, vedendo nella questione cinese il  modo migliore  per Biden, in caso di Senato repubblicano, di fare politica estera   politica interna: una forma di inversione dell’adagio del senatore Vandenberg ( politica si ferma al bordo dell’acqua, il che significava che l’interesse nazionale era superiore – e indipendente da – qualsiasi posizione politica interna e quindi di parte); La Cina, come unico punto di convergenza della politica interna, diventa così il pretesto per la politica interna (per il commercio, la tecnologia, le infrastrutture, ecc. Tutto sotto l’ombrello della concorrenza con la Cina). Ovviamente non sarebbe la prima volta nella storia americana che un evento esterno servisse da pretesto per la trasformazione interna, essendo numerosi gli esempi storici da Hamilton a Roosevelt e Reagan. Ma sarebbe anche un ritorno a una gestione “tecnocratica”, presumibilmente “politicamente neutrale” della politica estera e degli interessi nazionali – precisamente il cuore dell’attuale protesta.

In un  ottimo articolo elencando diversi lavori recenti, l’economista Adam Tooze ha ricordato che la fine del periodo post-Guerra Fredda ha chiuso anche il periodo in cui gli Stati Uniti credevano di poter considerare le sfere economiche e strategiche come separate artificialmente o indipendenti da una delle Un’altra: nella tesi di Fukuyama sulla fine della storia c’era proprio questa idea che la crescita economica grazie alla globalizzazione potesse essere “geopoliticamente neutra”. Si volta pagina su quella che non è mai stata una finzione basata sull’idea che la globalizzazione americana fosse, come l’egemonia americana, necessariamente “benevola”, e sull’euforia globalizzante legata alla fine del guerra fredda. Nella comunità strategica americana, è davvero la realtà e “l’enormità” (come la chiamava giustamente Fareed Zakaria ) del potere cinese che spiega la svolta strategica dell’era Trump, l’adozione di un atteggiamento ostile – molto più che la preoccupazione per il deficit commerciale o la scomparsa dei lavori non qualificati dei colletti blu del Rust Cintura. È così che dobbiamo intendere il rilancio del concetto di “geoeconomia”, che Luttwak  aveva avanzato  proprio alla fine della Guerra Fredda. Il Pentagono ne è consapevole da tempo e il legame tra sicurezza nazionale e sicurezza economica è onnipresente nella  Strategia di difesa 2018 . La questione della leadership tecnologica e del futuro di Internet è al centro di questo nuovo approccio.

Mentre i leader americani (ed europei) hanno appena ammesso il legame tra la globalizzazione delle democrazie di mercato guidata dalle amministrazioni Clinton e Bush e l’attuale regressione democratica nella stessa area euro-atlantica, il concorrente progetto cinese di Routes de La seta riguarda una parte crescente dell’umanità e il suo modello di governo tecno-autoritario viene esportato in tutto il mondo. Il risveglio americano è troppo tardi? Adam Tooze conclude sulla necessità di pensare e fare il passo successivo, immaginare una forma di rilassamento sullo sfondo di una nuova era segnata dalla consapevolezza della sfida esistenziale posta dall’Antropocene – la pandemia del 2020 è il segno che questa era è iniziato. La domanda quindi è se americani ed europei, che lì potrebbero svolgere un ruolo veramente geopolitico, si daranno i mezzi per diventare loro stessi quello che lui voleva dai cinesi: partner responsabili e competenti, impegnati a gestire – se non risolvere – i rischi e le sfide di questa nuova era.

La dottrina Trump, di Maya Kandel

La prima parte di un articolo tratto da “Le Grand Continent” su Trump e il prosieguo dello scontro politico negli Stati Uniti. Ho detto prosieguo, non ho parlato di eredità. Per il resto affidatevi agli ormai innumerevoli scritti e podcast del sito_Giuseppe Germinario

Trump è solo un sintomo di tendenze più profonde è probabilmente la frase che sentiamo più spesso su questo straordinario presidente. È corretto, se capiamo anche che è un sintomo di uno stadio avanzato, ma di cosa? Non è un presidente “normale”, al di là anche del carattere e dei suoi eccessi, nel senso dell’arrivo attraverso di lui dell’estrema destra alla Casa Bianca. Ma rappresenta effettivamente il risultato logico.di due sviluppi americani: quello del connubio tra politica e “spettacolo” mediatico, e quello del Partito Repubblicano per 40 anni, prodotto di una strategia teorizzata in particolare da Newt Gingrich per rilevare il Congresso negli anni ’80, e i cui segni distintivi sono un discorso sempre più disinibito “anti-sistema e anti-élite”.

La presidenza Trump rappresenta anche un momento specifico per la politica estera americana, di cui cristallizza una doppia crisi: crisi interna, perché la politica estera non è più sostenuta dal popolo americano, e in particolare dalle classi medie e popolari; crisi esterna, che è allo stesso tempo crisi di mezzi, credibilità e legittimità della politica estera, legata al relativo declino del potere e della capacità di influenza degli Stati Uniti. Questa crisi è germogliata dalla fine della Guerra Fredda, e qui va ricordato che lo slogan America First , che risale alla fine degli anni ’30, era già riapparso nel 1992 con la candidatura di Pat Buchanan, considerato il padre spirituale. Trumpismo. Ma Trump, dopo Bush e Obama, sta in qualche modo portando a compimento il processo. E la prima cosa da riconoscere è che ha provocato negli Stati Uniti il ​​più ampio dibattito sugli obiettivi, i mezzi e le finalità della politica estera degli ultimi decenni – dove Obama, di cui anche ambizione, non era riuscita. Nel 2016 ci siamo chiesti se la “moderazione strategica” di Obama, il suo desiderio di disimpegnarsi e rinnovare la leadership americana fosse un’eccezione, un semplice riequilibrio dopo l’eccessiva espansione degli anni di Bush, o una nuova tendenza nella politica estera americana: con Trump che segue Obama, abbiamo la conferma che c’è una forte tendenza al lavoro.

La prima cosa che dobbiamo riconoscere in Trump è che ha provocato negli Stati Uniti il ​​più ampio dibattito sugli obiettivi, i mezzi e le finalità della politica estera degli ultimi decenni – dove Obama, di cui era anche ambizione, non era riuscita.

MAYA KANDEL

Ciò solleva la questione della natura e della portata della rottura di Trump in politica estera, e in particolare del suo punto di riferimento: fine del periodo aperto dalla fine della Guerra Fredda, messa in discussione delle basi della Pax Americana. post-1945, o addirittura indietro nel diciannovesimo secolo politico e … il dibattito non è ancora risolto, e per tutto il suo mandato, le grandi linee guida sono state oggetto di intense lotte all’interno del amministrazione come tra la Casa Bianca e il Congresso. Analisi del processo decisionalefa luce su questa lotta costante tra il presidente populista e il “sistema”, definito come il gruppo formato dagli alti funzionari della pubblica amministrazione e dalle nomine politiche (più di 8.000), e più in generale dall’insieme della burocrazia e da altri istituzioni che partecipano alla politica estera, in primo luogo il Congresso. Tieni presente che la macchina della politica estera degli Stati Uniti è una nave di linea enorme e un cambio di direzione richiede tempo. Oltre a ciò, è anche necessario interessarsi alla battaglia delle idee, perché se Trump non è un intellettuale, è circondato da ideologi che hanno teorizzato per lui e hanno partecipato alla definizione di una nuova visione del mondo, ancora in gestazione.

Foto ritratto Donald Trump Kim Jong-un La dottrina Trump Trumpismo politica estera stile populismo populista Stati Uniti Era Trump Elezioni statunitensi Presidente Biden QAnon

Questa domanda è cruciale anche perché la ridefinizione del rapporto americano con il mondo è stata al centro della campagna di Trump nel 2016 e rimane centrale nelle preoccupazioni della sua base elettorale, sia che si tratti dell’apertura delle frontiere al mondo. immigrazione e commercio, questione delle alleanze o modalità dell’azione internazionale del Paese. Con l’idea che la politica estera non fosse più al servizio degli americani, che gli alleati come avversari stessero “approfittando” dell’America, con un fortissimo rifiuto dell’istituzione della politica estera, dei Democratici repubblicani e in particolare della neoconservatori, considerati colpevoli delle guerre costose e “infinite” (e infruttuose).

La ridefinizione del rapporto americano con il mondo è stata al centro della campagna di Trump nel 2016 e rimane al centro delle preoccupazioni della sua base elettorale, sia che si tratti dell’apertura delle frontiere all’immigrazione e al commercio, la questione delle alleanze, ovvero le modalità dell’azione internazionale del Paese.

MAYA KANDEL

L’idea di ridefinire una politica estera veramente al servizio degli americani, in particolare della classe media e operaia, di riconciliare la politica estera e quella interna, è presente anche su entrambi i lati dello spettro politico americano, e soprattutto ai suoi estremi, una base trumpista. come base progressista dei Democratici. L’evoluzione del contesto internazionale sotto il doppio effetto della globalizzazione e dei social network fa sì che la distinzione tra soggetti esterni ed interni appaia sempre più artificiosa: le grandi questioni internazionali sono largamente presenti nel dibattito pubblico, e gli argomenti sono di sempre più intrecciati. Si legge spesso, come nel 2016, che la politica estera non conta nelle elezioni: ma anche affrontata dal punto di vista della politica interna, questioni come la Cina, la Russia, il commercio o il clima rimangono soggetti internazionali, oggetto di politica estera. Infine, la polarizzazione si è estesa alla politica estera, comprese le questioni regionali, rendendo definitivamente obsoleto il classico adagio americano secondo cui “la politica si ferma in riva al mare” (la politica si ferma in riva al mare ), un detto rivelatore pronunciato dal senatore Vandenberg all’alba della Guerra Fredda: questo è anche ciò che oggi viene messo in discussione, e lo testimonia la polarizzazione della politica estera.

Ciò che colpisce di più alla fine del primo mandato di Trump, quando si guarda all’opinione americana, non è solo l’estrema polarizzazione, ma anche l’estrema stabilità del suo sostegno: qualunque cosa faccia o dica, Trump mantiene un base del 40% di parere favorevole; la sua popolarità tra l’elettorato repubblicano ha raggiunto il 90%, anche se nel 2020 risente della gestione della pandemia. Questa base elettorale del Trumpismo non scomparirà, anche se perde le elezioni. Ci costringe a mettere in discussione ciò che dice del Trumpismo, della sua visione del mondo in particolare e del suo peso nelle future ridefinizioni del Partito Repubblicano.

L’evoluzione del contesto internazionale sotto il duplice effetto della globalizzazione e dei social network fa sì che la distinzione tra soggetti esterni ed interni appaia sempre più artificiosa: le grandi questioni internazionali sono largamente presenti nel dibattito pubblico, e gli argomenti sono di sempre più intrecciati.

MAYA KANDEL

Trump e la fine del periodo post-guerra fredda

La presidenza di Donald Trump segna la fine dell’era post-Guerra Fredda. La politica estera americana di questo periodo potrebbe essere riassunta da un doppio paradigma. Il primo è quello della globalizzazione, che caratterizza un’evoluzione globale ma che designa anche la linea guida della dottrina Clinton di “estensione delle democrazie di mercato”, e più in generale la globalizzazione dell’ordine internazionale creato e sostenuto dagli Stati Uniti. all’indomani della seconda guerra mondiale, le cui istituzioni, norme e principi sembravano quindi poter essere estesi a tutto il globo con la caduta dell’Unione Sovietica e del blocco omonimo. Il secondo, dall’11 settembre 2001, è quella della “guerra mondiale al terrore” di Bush, portata avanti anche se con mezzi più discreti da Obama.

Foto ritratto Melania Donald Trump Regina Elisabetta II La dottrina Trump Trumpismo politica estera populismo stile populismo Stati Uniti Era Trump Elezioni statunitensi Presidente Biden QAnon

Trump voleva rivoluzionare la politica estera americana e questo desiderio di ridefinire il rapporto dell’America con il mondo era al centro delle sue promesse elettorali. Quattro anni dopo, sembra che il cambio di paradigma sia effettivamente avvenuto: la competizione strategica e più precisamente la rivalità “sistemica” con la Cina.ha sostituito la lotta al terrorismo come obiettivo principale della politica estera; la pagina sull’estensione delle democrazie di mercato è voltata. La sua presidenza ha sancito il rifiuto del principio guida della politica estera americana del dopoguerra fredda, secondo cui l’inclusione dei rivali nel sistema internazionale li renderebbe “partner responsabili” degli Stati Uniti: i documenti strategici degli Stati Uniti. L’amministrazione si apre sull’osservazione del fallimento di questa politica. Mettendo in discussione il multilateralismo e le sue istituzioni, l’America di Trump sembra trasformarsi in un “partner irresponsabile” che rifiuta questo ordine internazionale che aveva finora garantito,

L’era Trump sancisce il rifiuto del principio guida della politica estera americana del dopoguerra fredda, secondo cui l’inclusione dei rivali nel sistema internazionale li renderebbe “partner responsabili” degli Stati Uniti: i documenti strategici dell’amministrazione Trump aperta all’osservazione del fallimento di questa politica.

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Tuttavia, resta difficile definire il “trumpismo” in politica estera: mettere in discussione i principi guida della politica estera non significa tornare all’isolazionismo degli anni Trenta, o alla politica estera essenzialmente commerciale del XIX secolo. secolo. La difficoltà nell’interpretare la politica estera di Trump deriva dalle molteplici contraddizioni di questa politica su più temi, legati al caotico processo decisionale, oggetto di continue lotte, ma anche alla personalità del presidente; soprattutto il trumpismo, che qui caratterizza la mutazione del Partito Repubblicano sotto l’influenza della base elettorale di Trump, è ancora in gestazione, oggetto di lotte interne che si intensificheranno dopo le elezioni e di un vivace dibattito di idee, che non può prescindere dall’evoluzione demografica dell’America.

Trump non è un ideologo o un intellettuale ma ha istinti e ossessioni, e ha governato per la sua base elettorale, che fa luce sulle motivazioni interne di molte decisioni di politica estera, soprattutto in Medio Oriente. Soprattutto altri hanno teorizzato per lui, se sono ancora alla Casa Bianca dopo quattro anni, come Stephen Miller, Pete Navarro o Matt Pottinger, o sono stati solo un compagno di viaggio, come Steve Bannon o John Bolton. La longevità di Miller, Navarro e Pottinger dà già indicazioni sull’eredità: nazionalismo “giudeo-cristiano”, governance anti-global e anti-multilateralismo ( anti-immigration); politica commerciale anti-libero e anti-cinese; adottare una posizione dura contro la Cina. La   dichiarata “   nuova guerra fredda ” contro la Cina è stata avallata ai massimi livelli nell’ottobre 2018 con il discorso del vicepresidente Mike Pence: ma per farlo ci sono voluti la pandemia e l’approssimarsi delle elezioni per Trump. si è ripreso nel marzo 2020, approvando il consenso.

Ci sono voluti la pandemia e l’approssimarsi delle elezioni affinché Trump si radunasse nel marzo 2020 sulla dottrina della “nuova guerra fredda”, approvando il consenso.

MAYA KANDEL

Mirare e premiare i gruppi identificati ha portato ad alcune decisioni soprattutto su Israele, a causa del patto fatto tra Trump e gli evangelici nel 2016, ovvero il clima, con la scelta del “primato energetico” visualizzato come obiettivo strategico, sempre determinato in buona parte da un accordo concluso nel 2016 con i maggiori gruppi petroliferi. Alcune scelte di politica industriale e commerciale hanno soddisfatto anche le aspettative degli elettori chiave che hanno vinto Trump nella Rust Belt (Michigan, Pennsylvania), una regione più colpita dalle delocalizzazioni ma anche dall’abbandono del carbone. L’agenda anti-Obama risponde a un’ossessione personale di Trump, ma anche al movimento del Tea Party (di cui l’elezione di Trump è anche l’espressione di maggior successo), e ha portato alla distruzione metodica dell’eredità La politica estera di Obama (uscita dall’accordo di Parigi, accordo sul nucleare iraniano, apertura a Cuba e ovviamente denuncia immediata del TPP). Mentre alcuni elementi avrebbero potuto trovare il loro posto in un’amministrazione repubblicana più classica (Iran, clima), altri costituiscono una rottura e sono stati oggetto di un’aspra lotta, non sempre netta, tra la Casa Bianca e il Congresso in particolare. Ciò spiega la natura schizofrenica, anche la duplice politica estera che ha colpito principalmente l’Europa, o gli strumenti di politica estera: è stato il Congresso e in particolare il Senato repubblicano a difendere la NATO, ha aumentato la spesa degli Stati Uniti per la deterrenza sul fianco orientale dell’Europa, ha rafforzato la sua posizione nei confronti della Russia e ha protetto il bilancio della diplomazia dai ripetuti attacchi della Casa Bianca. altri costituiscono una rottura e sono stati oggetto di un’aspra lotta, non sempre netta, tra la Casa Bianca e il Congresso in particolare. Questo spiega la natura schizofrenica, anche la doppia politica estera che riguardava principalmente l’Europa, o gli strumenti di politica estera: era il Congresso e in particolare il Senato repubblicano a difendere la NATO, ha aumentato la spesa degli Stati Uniti per la deterrenza sul fianco orientale dell’Europa, ha rafforzato la sua posizione nei confronti della Russia e ha protetto il bilancio della diplomazia dai ripetuti attacchi della Casa Bianca. altri costituiscono una rottura e sono stati oggetto di un’aspra lotta, non sempre netta, in particolare tra la Casa Bianca e il Congresso. Questo spiega la natura schizofrenica, anche la doppia politica estera che riguardava principalmente l’Europa, o gli strumenti di politica estera: era il Congresso e in particolare il Senato repubblicano a difendere la NATO, ha aumentato la spesa degli Stati Uniti per la deterrenza sul fianco orientale dell’Europa, ha rafforzato la sua posizione nei confronti della Russia e ha protetto il bilancio della diplomazia dai ripetuti attacchi della Casa Bianca.

Queste contraddizioni illustrano la sostenibilità di diverse correnti di politica estera all’interno del Partito Repubblicano, anche se il partito si è schierato con Trump (hanno gli stessi elettori), segno di tensioni persistenti all’interno della nuova alleanza portata da Trump tra isolazionisti. e nazionalisti, a scapito degli interventisti assimilati ai neoconservatori e respinti dagli elettori trumpisti. Uno degli aspetti più commentati da accademici ed esperti è stata la “distruzione dell’ordine liberale internazionale”: illustra l’ascesa e il controllo della corrente sovranista sul Partito Repubblicano, simboleggiata da Bolton, un effimero compagno di viaggio. Trumpismo, che ha saputo usare Trump per portare avanti la sua personale crociata contro il governo mondiale.America Firstin una parola sarebbe nazionalismo (o nazional-populismo per evocare la circolazione transatlantica e l’importanza del contesto). Troviamo qui l’influenza di Bannon e Miller, ma anche del Claremont Institute, think tank sulla West Coast e fornitore ufficiale di idee al Trumpismo, che si è mobilitato molto presto alla candidatura di Trump, con Michael Anton, appunto. sulla politica estera. Altri si sono mobilitati, con obiettivi meno chiari (sintesi difficile) come l’Hudson, dove Pence ha tenuto il discorso di apertura delle ostilità sulla Cina nell’ottobre 2018 – ma ci sono voluti meno la pandemia e un’improvvisa scadenza elettorale ben avviato affinché Trump si mobiliti dietro il consenso tra agenzie della sua stessa amministrazione. Una “nuova guerra fredda” contro la Cina permette anche di mobilitare gli internazionalisti, compresi i primi e ancora neoconservatori. Tuttavia, sul piano della politica estera appunto, la sintesi intellettuale non è completata – e il dibattito non è risolto: permane una forte tensione tra la tentazione isolazionista, favorevole a un trinceramento degli Stati Uniti dietro i loro confini, e tendenza egemonica in cui la supremazia militare rimane essenziale.

Uno degli aspetti più commentati da accademici ed esperti è stata la “distruzione dell’ordine liberale internazionale”: illustra l’ascesa e la morsa della corrente sovranista sul partito repubblicano, simboleggiata da Bolton, un effimero compagno di viaggio. Trumpismo, che ha saputo usare Trump per portare avanti la sua personale crociata contro il governo mondiale.

MAYA KANDEL

Una nuova sintesi repubblicana: il ritorno degli isolazionisti

Il politologo americano Colin Dueck, specializzato nello studio della politica estera del Partito Repubblicano, ha dimostrato che ci sono tre principali correnti di politica estera all’interno del Partito Repubblicano. La prima corrente, dominante nelle élite del partito dal 1945, è la corrente internazionalista. Tutti i presidenti repubblicani, da Eisenhower a Trump, erano internazionalisti, favorevoli a un’attivista politica estera americana, che difendevano l’ordine internazionale stabilito dopo la seconda guerra mondiale e si affidavano soprattutto alle istituzioni internazionali e ad un sistema di alleanze tra Stati Uniti al centro e in posizione di leadership. Questa corrente è composta da realisti e neoconservatori, questi ultimi che hanno ottenuto l’ascesa con la presidenza Reagan.

La seconda corrente può essere definita isolazionista e ha dominato il Partito Repubblicano in particolare negli anni ’20 e ’30. È particolarmente contrario alle alleanze vincolanti e agli interventi militari non difensivi (si pensi, ad esempio, alla mancata ratifica del Trattato di Versailles nel 1919 e alla non partecipazione degli Stati Uniti alla Società delle Nazioni). Di ispirazione libertaria, è stata ancorata nel DNA americano sin dall’inizio ma è stata emarginata durante la Guerra Fredda a causa dell’imperativo di combattere il comunismo. È riemerso con forza alla fine della Guerra Fredda, con una pausa dopo gli attacchi del 2001, ed è rappresentato tra gli altri da Rand Paul (e suo padre Ron prima di lui), oggi uno dei convinti sostenitori di Trump. al Senato.

Questa corrente nazionalista ben rappresenta il punto di vista della politica estera del Tea Party, a favore di un alto livello di spesa militare e di un atteggiamento più aggressivo contro il terrorismo, come Trump.

MAYA KANDEL

Infine, la terza corrente è soprattutto nazionalista, e fino a quando Trump è rimasto poco rappresentato a livello di élite e nei think tank , un vuoto che il Claremont Institute è venuto a colmare, cui si sono aggiunti altri che si sono uniti al Trumpismo abbracciando la lotta contro la sfida cinese alla supremazia americana (Hudson). Questa corrente nazionalista ben rappresenta il punto di vista della politica estera del Tea Party, favorevole ad un alto livello di spesa militare e ad un atteggiamento più aggressivo contro il terrorismo, come Trump. I nazionalisti non sono né pacifisti né isolazionisti, ma sono davvero ostili agli interventi umanitari o di costruzione della nazione , agli aiuti esteri, alle istituzioni internazionali in generale e allel’idea di governance globale   : sono feroci difensori della sovranità americana.

Storicamente, i nazionalisti sono stati la spina dorsale del Partito Repubblicano sulle questioni internazionali, un gruppo il cui sostegno era indispensabile per qualsiasi intervento militare importante e duraturo. La loro alleanza con gli internazionalisti ha sostenuto l’attivismo americano durante la Guerra Fredda, così come nell’immediato periodo successivo all’11 settembre 2001. In tutto questo periodo, gli internazionalisti hanno dominato ei non interventisti sono stati emarginati. Ma Trump ha favorito l’emergere di una nuova alleanza tra non interventisti e nazionalisti, questa volta marginalizzando gli internazionalisti, identificati con i neoconservatori e quindi con le élite di partito in politica estera. È questa alleanza che non ha precedenti dagli anni ’30. Dopo quattro anni del presidente Trump, sembra aver prodotto una nuova postura se non una dottrina, articolata attorno a una politica estera soprattutto economico-legale (sanzioni), e una nuova guerra fredda almeno in campo commerciale e tecnologico con la Cina . L’ultimo libro di Colin Dueck è intitolato altroveAge of Iron: sul nazionalismo conservatore .

Trump ha favorito l’emergere di una nuova alleanza tra non interventisti e nazionalisti, questa volta emarginando internazionalisti, identificati con neoconservatori e quindi con élite di partito in politica estera.

MAYA KANDEL

Una politica estera “jacksoniana”: sovranità e bilateralismo

Molti osservatori insistono giustamente sugli elementi di continuità tra la politica estera di Trump e quella del suo predecessore democratico, Barack Obama, in particolare il duplice desiderio di disimpegnarsi dal Medio Oriente e di orientarsi verso l’Asia. A questo potremmo aggiungere il rifiuto di essere il “poliziotto del mondo”, cioè il garante dell’ordine internazionale, per Obama perché gli Stati Uniti non avrebbero più i mezzi, per Trump perché che non sarebbe più nel loro interesse: in entrambi i casi gli alleati sono chiamati a fare di più, gli avversari trovano nuove opportunità. Ma questi elementi non dovrebbero mascherare la vera rottura, il rifiuto del principio guida della politica estera americana del dopoguerra fredda, secondo cui l’inclusione dei rivali nell’architettura internazionale (istituzioni e regole) dovrebbe renderli “partner responsabili” degli Stati Uniti nella difesa della sicurezza e della prosperità globali (Cina all’OMC, Russia al G7). Ildocumenti  strategici dell’amministrazione Trump aperti sull’osservazione del fallimento di questo approccio. La sua amministrazione ritiene che questa architettura internazionale non sia più adatta all’attuale sistema internazionale e intende aggiornare i suoi elementi principali per adattarli al nuovo contesto, quello della rivalità americano-cinese: si tratta infatti di reinventare le istituzioni, alleanze e determinate regole, in particolare a livello commerciale e tecnologico.

Foto ritratto Donald Trump La dottrina Trump Trumpismo politica estera stile populismo populista Stati Uniti Era Trump Elezioni statunitensi Presidente Biden QAnon

Il “trumpismo” in politica estera è stato chiamato Jacksonian: nella tipologiadefinito dallo storico Walter Russell Mead, Jacksonism, in riferimento ad Andrew Jackson, un presidente populista e nazionalista che ha ampliato il voto popolare e accelerato la “pulizia etnica” dei nativi americani, descrive una politica estera basata su una ristretta ridefinizione degli interessi americani , sollevando soprattutto l’imperativo della sovranità, necessaria per preservare la libertà d’azione americana: la politica estera jacksoniana rifiuta ogni missione universale a favore della sola realpolitik. Il Jacksonismo della “dottrina Trump” si è tradotto in un assalto generalizzato al “globalismo” rispondendo soprattutto alle motivazioni interne della base elettorale trumpiana, rappresentati da americani che si considerano i perdenti della globalizzazione a vantaggio di una “élite globalizzata” vista come il nemico, anche come anti-americano. Si è manifestato attraverso gli attacchi sistematici contro le alleanze e le istituzioni internazionali – dalla NATO all’ONU, al G7 e all’OMC , il cui meccanismo di risoluzione delle controversie è stato reso de facto inoperante da Washington, o oggi contro l’OMS; o anche attraverso il ritiro definitivo dell’UNESCO o della Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite. Il tutto riflette questo assalto generalizzato a ciò che Trump e la sua base chiamano “globalismo” e al quale si oppongono al nazionalismo dell’America First line .

Il Jacksonismo della “dottrina Trump” si è risolto in un assalto generalizzato al “globalismo” rispondendo soprattutto alle motivazioni interne della base elettorale trumpiana, rappresentata dagli americani che si considerano i perdenti della globalizzazione a favore della una “élite globalizzata” considerata come il nemico, anche come anti-americano.

MAYA KANDEL

Gli americani erano soliti chiamarsi “multilateralisti quando possiamo, unilateralisti quando dobbiamo”. L’attuale rifiuto del multilateralismo riflette anche il relativo declino del potere americano, dovuto all’ascesa della Cina, molto visibile all’interno delle organizzazioni internazionali. Gli Stati Uniti erano multilateralisti, o perché erano abbastanza potenti perché la loro volontà si imponesse, o perché potevano permettersi un risultato meno ottimale, ma alla fine giustificato dall’imperativo superiore. per mantenere la stabilità egemonica. Questo margine di manovra è ormai scomparso e gli Stati Uniti sono unilateralisti soprattutto perché non sono più così potenti relativamente. Sono anche piuttosto “bilaterali”, per usare l’ analisi di David Haglund, gestione ottimale di un potere che ancora domina qualsiasi rapporto bilaterale.

Questa scelta è inseparabile dall’evoluzione ideologica del Partito Repubblicano in un partito sovranista, uno dei cui slogan è l’opposizione viscerale al governo mondiale in nome dell’indipendenza nazionale, della libertà di azione e legittimità unica della Costituzione degli Stati Uniti. Dagli anni ’90, in uno sviluppo quindi in gran parte antecedente a Trump, il Partito Repubblicano ha progressivamente adottato un’opposizione sistematica all’ONU ma anche più in generale alla diplomazia, al multilateralismo e ad ogni forma di accordo internazionale, opponendosi alla ratifica di quasi tutti i trattati. Pertanto, anche trattati come quello delle Nazioni Unite sul diritto del mare, o il trattato sui diritti delle persone disabili ( Disability Treaty), tuttavia un’iniziativa americana, non poteva essere ratificata dal Senato americano.

Dagli anni ’90, in uno sviluppo quindi in gran parte antecedente a Trump, il Partito Repubblicano ha progressivamente adottato un’opposizione sistematica all’ONU ma anche più in generale alla diplomazia, al multilateralismo e ad ogni forma di accordo internazionale, opponendosi alla ratifica di quasi tutti i trattati.

MAYA KANDEL

Dobbiamo tornare a un articolo pubblicato nel 2000 da John Bolton (allora vicepresidente del think tank American Enterprise Institute), che ha respinto il progetto di “governance mondiale” simbolo della “globalizzazione felice” degli anni ’90, rappresentato negli Stati Uniti dalla dottrina Clinton dell’espansione delle democrazie di mercato e dall’intervento umanitario sotto l’egida della ONU (o almeno NATO). Questo progetto multilateralista assimilato ai Democratici è denunciato dal Partito Repubblicano del dopo Guerra Fredda come una minaccia per la sovranità e la libertà di azione degli Stati Uniti. È in nome della difesa dell’identità americana che la governance mondiale e ciò che ne consegue – diritto internazionale, multilateralismo – sono qui considerati anti-americani. Questa frattura è ora ampiamente familiare, soprattutto perché si è diffusa in tutto il mondo, contrapponendo i nazional-populisti ai “globalisti”,

Il trumpismo è nazionalismo 

Il movimento conservatore, colonna portante intellettuale del Partito Repubblicano, ha cercato, dopo tre anni di presidenza Trump e l’avvicinarsi di una nuova scadenza elettorale, di “teorizzare gli istinti” di questo presidente straordinario, in accordo con la nuova base campagna elettorale, al fine di trattenere questi nuovi elettori che hanno portato al potere Trump e il Partito Repubblicano, sia il Presidente che il Congresso. Questa ”   teorizzazione inversa   ” del trumpismo in “conservatorismo nazionale” getta luce sull’evoluzione di questo nazional-populismo in stile americano, le cui risonanze sono numerose con i populismi europei e in particolare con la teorizzazione orbaniana della democrazia cristiana “illiberale”.. Ma questo revival nazionalista americano ha anche le sue specificità, legate alla storia degli Stati Uniti, alla costruzione della sua identità e del suo rapporto con il mondo. Il rifiuto della recente politica estera americana occupa infatti un posto centrale: ma la questione del ruolo degli Stati Uniti nel mondo è anche il punto più confuso di questo nuovo movimento, diviso tra poli ancora opposti – ma che potrebbe unirsi dietro lo scontro con la Cina. Soprattutto, è solo uno dei movimenti di idee che stanno combattendo per la base elettorale di Trump – e l’eredità del Trumpismo.

La questione del ruolo degli Stati Uniti nel mondo è anche il punto più confuso di questo nuovo movimento, diviso tra poli ancora opposti – ma che potrebbe unirsi dietro il confronto con la Cina.

MAYA KANDEL

Tra i conservatori nazionali troviamo una visione del mondo che mescola la lettura civilizzazionista di Samuel Huntington , il prisma dei “nazionalisti contro i globalisti” ripreso da Trump nei testi scritti da Stephen Miller, ma anche l’ossessione sovranista di lunga data di alcuni. Settori repubblicani e intellettuali come quelli del Claremont Institute, il cui principio fondante, ricordiamolo, è che è necessario “ripristinare i principi di fondazione del Paese”: la Costituzione americana è considerata come unica fonte di legittimità e di diritto, il che spiega anche perché l’Unione Europea figura a tal punto da eresia, nemico da distruggere. La politica estera di Mike Pompeo, vicino a Claremont, va quindi spesso intesa nelle sue due dimensioni, interna ed esterna, nel quadro di un doppio confronto, interno e globale: contro un’élite internazionalista favorevole alla governance mondiale e multilateralismo (“globalista”), ma anche multiculturalismo interno (“cosmopolita”); e contro chi vuole la fine dell’Occidente (Cina e Islam politico). Ma dove Pompeo (come Yoram Hazony, autore di The Virtue of Nationalism ) parla di ridefinire le alleanze in conformità con questi principi e di incoraggiare i nazionalisti di tutti i paesi, altri, come Tucker Carlson, vicino a Trump e conduttore di Fox News , il cui spettacolo è il secondo più visto a livello nazionale, difendere un autentico isolazionismo che vede nella politica estera la difesa dell’interesse americano ridefinito al minimo  : sicurezza territoriale, protezione delle frontiere, difesa delle aziende americane dalla concorrenza cinese; con questo in mente, non dobbiamo solo lasciare il Medio Oriente ma anche la Corea del Sud e l’Europa, l’idea di fare la guerra per difendere Taiwan non viene presa sul serio e la NATO è obsoleta (e “Perché non dovremmo essere amici della Russia”). In uno scambio con il presidente Trump, Tucker Carlson si è chiesto perché avrebbe dovuto mandare suo figlio a morire per il Montenegro, in occasione dell’ingresso di quel paese nella NATO; La risposta rivelatrice di Trump: “Mi pongo la stessa domanda”.

In uno scambio con il presidente Trump, Tucker Carlson si è chiesto perché avrebbe dovuto mandare suo figlio a morire per il Montenegro, in occasione dell’ingresso di quel paese nella NATO; La risposta rivelatrice di Trump: “Mi pongo la stessa domanda”.

MAYA KANDEL

Un “blocco nazionalista”, base elettorale del Trumpismo

Un fl nel 2019 think tank di sinistra Center for American Progress sullo sviluppo dell’opinione americana sulla politica estera ha indicato l’esistenza di un “blocco nazionalista” secondo l’opinione: un terzo degli elettori , il gruppo più numeroso individuato dallo studio, potrebbe essere definito un blocco nazionalista, definito dal desiderio di ritirarsi dal mondo e dall’adesione alle posizioni di Trump su immigrazione e commercio. Uno dei marker più importanti è stata la dimensione generazionale, evidenziata anche da altri studi., dimostrando che la maggior parte degli internazionalisti sono nella popolazione che invecchia, mentre la maggioranza degli under 40 pensa che gli Stati Uniti dovrebbero “stare alla larga dagli affari mondiali”. Senza giustificarli, i cambiamenti demografici fanno luce su queste posizioni segnate dalla paura. Secondo uno studiodal Pew Research Center nel 2017, la popolazione statunitense nata all’estero ha raggiunto i 44,4 milioni; la percentuale di immigrati residenti negli Stati Uniti era del 13,6% della popolazione, appena sotto il record del 1890 al 14,8%. Dal 1990 al 2007, la popolazione di immigrati clandestini è triplicata, raggiungendo i 12,2 milioni nel 2007. Attualmente è stimata in 10,5 milioni. Queste cifre sono vicine al livello storico più alto del 1890 e del 1910, due momenti che preludono alle febbri del nazionalismo, all’approvazione delle leggi sulle quote (1923 e 1924) e al periodo più isolazionista della politica estera americana (1920 e 1930).

Foto ritratto Donald Trump La dottrina Trump Trumpismo politica estera stile populismo populista Stati Uniti Era Trump Elezioni statunitensi Presidente Biden QAnon

Ci sono fondamentali che non cambieranno con o senza Trump: l’osservazione di un ordine internazionale che non serve più gli interessi americani e che necessita di essere riformato (dinamite, secondo Trump); la necessità di rinnovare il legame con la politica interna; il rifiuto degli interventi militari a meno che l’interesse nazionale non sia direttamente minacciato; una rivalutazione delle alleanze e degli alleati. Ma la politica estera è al centro del conservatorismo nazionale, mentre costituisce la grande debolezza di questo movimento, a causa della confusione che vi regna, e le questioni esistenziali che il suo sviluppo pone al Paese. Perché gli Stati Uniti sono sempre stati definiti dall’eccezionalità, dalla convinzione di avere un ruolo unico da svolgere nel mondo: e il disimpegno dal mondo presuppone anche una rinuncia, quella di una posizione egemonica internazionale. Non è certo che il Paese e le sue élite siano pronte: rifiutando l’eccezionalismo, gli Stati Uniti diventerebbero un Paese come un altro, una “potenza normale”. Questo punto interroga profondamente l’identità americana, la cui crisi èlegato a quello della politica estera e illumina il momento attuale negli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti sono sempre stati definiti dall’eccezionalità, dalla convinzione di avere un ruolo unico da svolgere al mondo: e il disimpegno dal mondo presuppone anche una rinuncia, quella di una posizione egemonica sulla scena internazionale.

MAYA KANDEL

Potere normale o potere egemonico: la questione dell’eccezionalismo

Per il Claremont Institute, come per i nazionalisti e gli isolazionisti che intendono tornare alle origini del Paese, è opportuno riallacciarsi a George Washington e al suo rifiuto delle “alleanze vincolanti”; oltre a ciò, si tratterebbe di tornare alla politica estera americana del I secolo, fondata sulla necessità di potere economico e quindi su una politica commerciale aggressiva, con l’obiettivo di difendere la base manifatturiera americana e l’occupazione, ma anche su un imperialismo economico a McKinley che mette il potere dello stato per il salvataggio di imprese americane, all’interno e all’estero – questo “imperialismo privato” strettamente americano, simboleggiata dalla politica asiatica nel XIX ° secolo , di United Fruitin America Latina fino alla seconda guerra mondiale – fino alle sanzioni extraterritoriali di oggi.

Ma non tutti vedono la politica internazionale come una semplice “competizione geoeconomica”. Così, il senatore Josh Hawley, il più giovane eletto al Senato, figura in ascesa e fedele trumpista – almeno finora – ha denunciato in un discorsorecente “l’ideologia globalista dominante in molti paesi europei, in particolare Germania e Francia di Emmanuel Macron”, ideologia designata come “progressismo transnazionale”, visione “post-sovranista” o “universalismo progressista”. Ribadendo che l’obiettivo della politica estera americana non è più quello di trasformare il mondo, ha sottolineato la fondazione del paese, “costruito e sviluppato dai lavoratori, le classi medie”, sostenendo un “ordine internazionale rispettoso del nostro carattere nazionale, che deve essere una nazione prima di tutto commerciale ”. Ora, “una nazione commerciale che necessita di accesso ai mercati in tutte le regioni del mondo”, ha concluso Hawley indicando che ciò era possibile solo “se nessuna regione è controllata o sviluppata da un’altra potenza”,

Questa enfasi geopolitica che evoca le teorie di McKinder sta facendo un netto ritorno nei testi dei think tank conservatori americani, molto interessati al “controllo dell’Eurasia”.

MAYA KANDEL

Questa frase richiama il documento strategico del 1992, il primo documento del Pentagono dopo la fine della guerra fredda di Dick Cheney e Paul Wolfowitz (due uomini che si troveranno nell’amministrazione di George W. Bush nel 2001), che ribadiva uno dei fondamenti dell’atteggiamento americano nei confronti del mondo, “per impedire l’emergere di una superpotenza rivale” in grado di dominare una regione del mondo. Questa enfasi geopolitica che evoca le teorie di McKinder sta facendo un marcato ritorno nei testi dei think tank conservatori americani, molto preoccupati per il “controllo dell’Eurasia”. Hawley ha concluso il suo discorso di fondazione con una strategia di contenimento, questa volta contro la Cina, la cui “volontà di dominare costituisce la più grave minaccia alla sicurezza per gli Stati Uniti in questo secolo”. Questo discorso è vicino a quello di Tom Cotton o Nikki Haley, altre figure emblematiche della giovane guardia repubblicana e contendenti alla successione di Trump. Questo approccio sta per imporsi da parte repubblicana e potrebbe riunire le diverse correnti descritte da Dueck. Consente inoltre di invocare l’eccezionalità, in un contesto sempre più marcato di confronto dei modelli con la Cina.

Gli Stati Uniti, potenza insulare: fine della centralità delle relazioni transatlantiche 

Walter Russell Mead era al momento della pubblicazione della strategia di difesa nazionale di Amministrazione nel 2018 Trump illuminante parallelo con il dibattito politico del Regno Unito agli inizi del XX ° secolo. Alla fine del XIX E secolo in Gran Bretagna, il dibattito strategico opposti, da una parte i partigiani di una strategia di “continentale” dando priorità alle alleanze e ad una stretta collaborazione con gli Stati europei principali, e del un altro i difensori di una strategia marittima ( la politica dell’acqua blu ), che voleva allontanarsi dall’Europa per abbracciare una strategia globale, utilizzando la posizione geografica e l’impero per massimizzare il potere britannico.

Negli Stati Uniti contemporanei, si dice che i “continentalisti” siano i sostenitori dello status quo , un’estensione della politica estera post-1945.

MAYA KANDEL

Negli Stati Uniti contemporanei, si dice che i “continentalisti” siano i sostenitori dello status quo , un’estensione della politica estera post-1945: vedono ancora il mondo atlantico, con la sua fitta rete istituzionale sviluppata all’interno degli alleati della Guerra Fredda, come il modello su cui si può e si deve costruire una società pacifica globale, e quindi difendere sempre una politica americana basata soprattutto sulla collaborazione occidentale. Ma l’amministrazione Trump sembra aver fatto la scelta di una “strategia marittima”, nel senso della blue water policy del dibattito britannico: come ai tempi della Pax Britannica, i sostenitori di questa strategia intendono accumulare potere e ricchezza promuovendo i loro interessi in tutto il mondo, vedendo in questo una ricetta migliore per il successo che nelle complicazioni europee e transatlantiche. Ricordiamo, per usare la metafora di Mead, che per gli inglesi dell’epoca una Gran Bretagna forte poteva allora intervenire se necessario in Europa per mantenere o ristabilire un equilibrio di potere, e garantire così una dominazione britannica globale. Questa visione informa molte decisioni della squadra al potere a Washington. L’amministrazione Trump, ad esempio, vede l’accordo di Parigi soprattutto come un ostacolo allo sfruttamento da parte degli Stati Uniti del proprio potenziale energetico. Sopprattuto, gli Stati Uniti si vedono in una competizione geopolitica globale con la Cina che non può essere vinta invocando il multilateralismo e il diritto internazionale. La “dottrina Trump” esprimerebbe queste scelte: Asia prima dell’Europa, “realismo” piuttosto che internazionalismo liberale, prosperità americana prima del multilateralismo e cooperazione internazionale.

Questa visione ha il pregio di avvicinare sia il focus del Pentagono, già da diversi anni, sulla sfida cinese, sia alcuni istinti dello stesso presidente. Un tale approccio non volta le spalle al campo occidentale e non rifiuta le relazioni transatlantiche, ma presuppone che sia il potere americano, e non le istituzioni transatlantiche, a consentire queste stesse istituzioni, e quindi l’Occidente. esistere. Le fasi della politica estera americana e le principali rotture sono sempre legate agli sviluppi nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa e più precisamente agli equilibri transatlantici. Si tratta quindi di un profondo cambiamento di status per le relazioni transatlantiche e forse, per quanto ci riguarda, la principale differenza tra la visione del mondo trumpista e la riflessione avviata da un campo democratico anche in piena riorganizzazione. Ma questo è solo uno dei campi di interrogazione aperti da Trump sulla politica estera. Fondamentale, per la base elettorale trumpista come per i progressisti del Partito Democratico, è anche l’idea di ridefinire una politica estera veramente al servizio degli americani, soprattutto delle classi medie e popolari, di conciliare politica estera e interna. Ma si tradurrebbe diversamente in una presidenza Biden, di cui restano da precisare i contorni e in particolare il posto di sinistra, anche se è presente anche la volontà di reinventare la politica estera e di trasformare il rapporto americano con il mondo. Fondamentale, per la base elettorale trumpista come per i progressisti del Partito Democratico, è anche l’idea di ridefinire una politica estera realmente al servizio degli americani, soprattutto della classe media e operaia, di conciliare politica estera e interna. Ma si tradurrebbe diversamente in una presidenza Biden, di cui restano da precisare i contorni e in particolare il posto della sinistra, anche se è presente anche la volontà di reinventare la politica estera e di trasformare il rapporto americano con il mondo. Fondamentale, per la base elettorale trumpista come per i progressisti del Partito Democratico, è anche l’idea di ridefinire una politica estera veramente al servizio degli americani, soprattutto delle classi medie e popolari, di conciliare politica estera e interna. Ma si tradurrebbe diversamente in una presidenza Biden, di cui restano da precisare i contorni e in particolare il posto di sinistra, anche se è presente anche la volontà di reinventare la politica estera e trasformare il rapporto americano con il mondo.

https://legrandcontinent.eu/fr/2020/10/23/la-doctrine-trump-1/

grazie Boris, di Giuseppe Masala

Accordo sulla Brexit fatto. Ora bisogna certamente lasciare il tempo di far leggere agli esperti le oltre 2000 pagine ma qualche considerazione preliminare può essere fatta sulla base di quanto letto sul Financial Times che è certamente un quotidiano britannico, ma altrettanto certamente era schierato con gli eurofili britannici.
Il punto dirimente per come la vedo io è che Londra ottiene una corte apposita che arbitri le controversie che si verificheranno in futuro. La Corte di Giustizia europea è tagliata fuori. Dunque la Gran Bretagna esce nettamente dal giogo europeo.
L’Europa si accontenta dell’uovo oggi lasciando perdere la gallina domani: niente dazi e contingentamento di merci, dunque non perde il ricco mercato britannico.
Dunque, uno a uno? Direi di no, la Eu ha accettato questo compromesso perchè nelle more del disastro economico in corso la perdita del mercato britannico sarebbe stato un danno devastante, in alcuni stati in particolare; Francia che ha uno dei suoi pochi segni positivi sulla bilancia commerciale proprio con la Gran Bretagna, Irlanda, che se perdesse il mercato inglese o muore di fame o osce dalla Ue, ma anche Italia e ovviamente Germania hanno molto da perdere, la Germania certo poteva resistere il colpo, ma all’Italia mancava solo questo per completare un disastro a livelli che è impossible anche immaginare la profondità. Bruxelles tutto sommato limita i danni immediati. Ma perde la speranza di tenere Londra come una sorta di protettorato a sovranità limitata.
In compenso i danni a lungo termine per la UE sono devastanti. Perde il primo esercito, la prima diplomazia, il primo mercato finanziario, la seconda economia della UE. Lascia inoltre a Londra la possibilità di maramaldeggiare diplomaticamente. E soprattutto è indicata la strada per l’uscita agli scontenti. Ora tutti sanno che si può e che la UE non è così forte da poter infliggere danni irreparabili né diplomatici, né economici. Grazie Boris!

FUTURO E PASSATO, di Teodoro Klitsche de la Grange

FUTURO E PASSATO

Da quando – diversi mesi – si è sentito il profumo dei soldi che – consenziente l’U.E. – dovrebbero arrivare in Italia, il dibattito pubblico è stato orientato: a) a decantare la bontà dell’Europa; b) la capacità del governo Conte per averli ottenuti; c) a pregustare il radioso futuro che le già celebrate misure del governo ci assicurerebbero

Ossia un racconto viziato da un eccesso di partigianeria (nonché da auto – ed etero – incensamento); partigianeria che si manifesta non tanto e non solo in quello che si dimentica ma ancor più in ciò che si vuole omettere.

Nel racconto suddetto vi sono asserti facilmente contestabili: quanto all’Europa, il cambiamento di marcia della stessa non è stato dovuto tanto alla solidarietà politica, fondamento del vivere in comunità (v. art. 2 della Costituzione italiana), quanto al trovarsi tutti – chi più e chi meno – in una crisi e nella necessità di superarla. Riguardo le misure del governo, sono in grande prevalenza orientate a indirizzare interventi e spese a favore di certe categorie piuttosto che di altre (specie le partite IVA), ed è evidente – a leggere la stampa, la differenza tra le toppe italiane e le misure tedesche – di converso indirizzate alle generalità dei cittadini – beneficiari (taglio dell’IVA; contributi alle imprese pari al 70% del fatturato perso nel 2020). Oltretutto favorendo – involontariamente – anche le cattive condotte (tanto sbandierate dalla sinistra). Ad esempio, se si riconosce come farebbe la Merkel un (parziale) contributo per la perdita del fatturato, questo significa che nulla va a chi non fattura (lavoro nero): tra i quali coloro che percepiscono reddito da attività illecite e financo criminali.

E in più è un incentivo a fatturare: chi non fattura – parafrasando una nota canzone – non ha il ristoro. Ma queste sono considerazioni che, nella loro ovvietà sono precluse a un governo che dalla burocrazia dallo stesso mantenuta ha appreso la pratica di complicare le cose semplici. Il che inizia dalla propaganda, e purtroppo finisce nella pratica.

Maggiore attenzione va data all’insistenza con la quale ci si riferisce a un futuro radioso, a un progetto salvifico di cui il governo avrebbe le chiavi.

Anche qua occorre confrontare quello che si esterna e ciò che si occulta.

Quanto al futuro è connaturale, in certo senso alla modernità e alle ideologie coeve, le quali hanno esaltato le magnifiche sorti e progressive delle società umane, almeno ove avessero adottato certe forme. Il massimo del tutto fu il comunismo che, presentandosi come la soluzione dell’enigma irrisolto della storia, avrebbe dovuto cambiare la natura umana, arrivando alla società senza classi, la cui somiglianza con il paese dei balocchi (o altre fantasie simili) era notevole. E, proprio per ciò, nessuno ne ha mai sentito l’odore.

Certo, avendo il senso del limite, una certa progettualità del futuro non guasta, anzi si accompagna ad ogni gruppo umano – e alle di esso classi dirigenti – che abbia volontà di decidere, nell’ambito del possibile, il proprio destino, ma occorre tener presente due caratteri che, nel caso italiano, rendono il discorso sul futuro radioso, assai poco credibile. Il primo è che le proposte del governo somigliano troppo all’operato vecchio, cominciando dai ritornelli stranoti e finendo con le realizzazioni: aumenti d’imposte, spese selettive, misure a formato di lobby, sprechi, ecc. ecc.

Gran parte dei quattrini che dovrebbero arrivare dall’Europa sarebbero destinati alla green economy e alla digitalizzazione, etichette che nascondono contenuti, in buona misura, avvolti nel mistero. In un paese connotato da una grande capacità di attrattiva turistica – colpita duramente dalla pandemia, il governo dovrebbe pensare, in primo luogo, ad aiutare questa e non progettare misteri, con etichette vaghe e “aperte”.

Ma è soprattutto i progettisti che rendono del tutto incredibili le proposte del governo. Non tanto i 5 Stelle, che sono dei novizi, quanto il PD – e accoliti – che nella seconda Repubblica hanno avuto tanto tempo per stare al governo e tutto il tempo per esercitare il potere: perché se i risultati sono stati quelli che ognuno può leggere – il più basso tasso di crescita (ora negativo) degli Stati dell’UE tra il 1994 ed oggi, quale credibilità può avere, per suonare la nuova musica, un’orchestra che da un quarto di secolo (almeno) strimpella lo stesso motivo, con pessimi risultati?

Perciò il richiamo al futuro ha una funzione mistificante precipua: non far ricordare il passato, e far credere che i soliti orchestrali possano suonare musica nuova, e soprattutto far dimenticare quella vecchia. Cioè quella che li ha fatti subissare di fischi dagli italiani.

Teodoro Klitsche de la Grange

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