CINA-STATI UNITI: CAPIRE LA DOTTRINA RAIMONDO, di ALESSANDRO ARESU

Una intervista molto significativa ed illuminante, tutta concentrata sugli aspetti di potenza della politica economica statunitense, ma che ignora completamente i problemi di coesione interna determinati da queste scelte. La conferma di una élite autoreferenziale. Giuseppe Germinario

CINA-STATI UNITI: CAPIRE LA DOTTRINA RAIMONDO

Non c’è alcuna distensione nella guerra dei capitalismi politici tra Stati Uniti e Cina. Questa settimana, Gina Raimondo, segretario al Commercio, ha tenuto un discorso molto aggressivo in cui ha illustrato la sua dottrina sulla protezione della conoscenza e della tecnologia americana nello scontro con la Cina. l’idea di fondo è che questa sia «la più grande minaccia» che gli Stati Uniti abbiano mai affrontato. Da leggere per capire le ambizioni e i paradossi della nuova strategia statunitense.

AUTORE
ALESSANDRO ARESU

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© ERIC RISBERG/AP/SIPA

Ecco un discorso di grande rilievo per la comprensione del capitalismo politico degli Stati Uniti e delle sue sfide. Gina Raimondo, segretaria al Commercio degli Stati Uniti, e Jensen Huang, presidente e CEO di Nvidia, di cui si parla a lungo in questa intervista realizzata al Reagan National Defence Forum, saranno tra i protagonisti del mio libro sull’intelligenza artificiale, che sarà pubblicato nel 2024.

Anzitutto, un aspetto significativo di per sé è la presenza di Gina Raimondo al Reagan National Defense Forum, un appuntamento col motto «promoting peace through strength» ispirato all’eredità del presidente Reagan, e che nel 2023 festeggia il suo decennale. La stessa evoluzione del Reagan National Defense Forum in questi 10 anni è importante per comprendere l’evoluzione degli Stati Uniti: all’inizio popolato soprattutto da generali, esperti di strategia militare e aziende della base industriale della difesa, nel corso del tempo si è aperto sempre di più alla tecnologia, ospitando tra l’altro imprenditori come Jeff Bezos e Alex Karp di Palantir. Gina Raimondo, qui intervistata da Morgan Brennan (una delle presentatrici più famose di CNBC) è il primo segretario al Commercio a intervenire al Reagan National Defense Forum e, come dice lei stessa, non è certo l’ultimo.

La sua retorica offensiva mette in crisi qualsiasi idea di distensione tra Stati Uniti e Cina. Se da un lato sottolinea la necessità di mantenere aperti i canali di comunicazione tra i due Paesi, per evitare una pericolosa escalation, dall’altro ciò che conta è soprattutto proteggere la sicurezza nazionale americana, difendendosi dallo spionaggio e dall’acquisizione tecnologica cinese. Ma questa esigenza di protezione si scontra con un altro imperativo dell’economia americana: la libertà e l’indipendenza concesse alle aziende per innovare e cercare nuovi mercati. È su questa linea di faglia che si sviluppa la dottrina Raimondo, che l’autrice descrive dettagliatamente in questa intervista fondamentale per comprendere le nuove prospettive della guerra dei capitalismi politici.

Questa è la prima volta che un segretario al Commercio partecipa al Reagan National Defense Forum, una delle conferenze più importanti dell’anno in materia di difesa. Credo che la sua presenza qui evidenzi il crescente legame tra le politiche industriali, economiche e tecnologiche in materia di sicurezza nazionale. Pertanto, vorrei iniziare chiedendo perché il dipartimento del Commercio dovrebbe assumere una responsabilità più ampia nelle questioni di sicurezza nazionale.

È ampiamente riconosciuto che la capacità di difesa del nostro Paese va ben oltre gli armamenti militari come cannoni, missili, carri armati e droni. I progressi della tecnologia e dell’innovazione, così come la collaborazione con i nostri alleati, sono allo stesso titolo parte integrante della nostra difesa nazionale. In tutta franchezza, la nostra sicurezza nazionale dipende dalla nostra sicurezza economica. Una nazione non può essere considerata potente in materia di difesa se non possiede l’economia più competitiva del mondo e se non è leader in termini di innovazione.

Non è solo in patria che la nostra presenza è desiderata, ma anche all’estero. I nostri alleati di tutto il mondo ci cercano per scopi militari e di impiego in regioni come l’Indo-Pacifico e il Sud America. Ho avuto il piacere di unirmi al generale Richardson in una recente visita a Panama e l’anno prossimo mi recherò nelle Filippine con il comandante Aquilino. Nel frattempo, i nostri concorrenti, in particolare la Cina, continuano a fornire sostegno finanziario, infrastrutture e opportunità di lavoro. E se vogliamo vincere, dobbiamo farci vedere.  Infatti, sono stato felice di andare a Panama con il generale Richardson qualche mese fa. L’anno prossimo andrò nelle Filippine con il comandante Aquilino. La competizione sulla prosperità economica e sulle opportunità è importante tanto quanto la pura potenza militare, per proteggere la nostra sicurezza nazionale e mantenere il nostro posto nel mondo.

La visione espressa nei suoi interventi da Gina Raimondo torna spesso sulla sicurezza economica come fondamento della sicurezza nazionale. Ormai è chiaro a tutti che l’amministrazione Biden ha fornito grandi enfasi a concetti sempre presenti nel dibattito statunitense ma sottovalutati. Per esempio, ancora nel 2016 in War by other means: geoeconomics and statecraft, l’ambasciatore Robert Blackwill e Jennifer Harris, già special adviser del Presidente e senior director sull’economia internazionale nel National Security Council nell’amministrazione Biden, osservavano quanto l’arte della sicurezza economica fosse stata dimenticata nella politica estera recente degli Stati Uniti. Dopo Made in China 2025 e la sua risposta, viviamo ormai in un’epoca completamente diversa, dove il tema è piuttosto la presenza onnicomprensiva della sicurezza economica, che diviene anche, come nella riflessione di Raimondo, la «cassetta degli attrezzi» principale nella politica estera e nella politica di difesa, nel rapporto con gli alleati e con alcune aree contese nella grande sfida con Pechino.

È un riflesso di quanto il mondo sia cambiato o del fatto che la politica degli Stati Uniti avrebbe dovuto essere più aggressiva già da tempo per quanto riguarda questa intersezione?

È una domanda importante. Credo che la sicurezza nazionale si sia sempre basata sulla sicurezza economica. Detto questo, la tecnologia è più importante che mai per la nostra sicurezza nazionale e il dipartimento del Commercio è al centro della politica dell’amministrazione in materia di tecnologia e innovazione. Man mano che le forze armate statunitensi fanno sempre più affidamento sulla tecnologia – in settori quali intelligenza artificiale, spectrum strategy, supercomputing, cybersicurezza e semiconduttori – cresce l’importanza della tecnologia per la nostra sicurezza nazionale. Il dipartimento del Commercio, che gestisce la politica governativa sull’intelligenza artificiale, controlla le esportazioni e impedisce alla Cina e ad altri avversari di accedere alle tecnologie più avanzate del Paese. Inoltre, siamo a capo della politica governativa sulle tecnologie spectrum. Poiché la tecnologia si intreccia sempre più con la difesa nazionale, è fondamentale investire nella capacità dei semiconduttori e impedire alla Cina l’accesso alla tecnologia. Il dipartimento del Commercio guida questi sforzi: questo è più importante che mai perché la tecnologia è oggi più importante di quanto sia mai stata.

Come state istituzionalizzando questo ruolo di sicurezza nazionale? Come assicurate che queste politiche abbiano un impatto duraturo o almeno che stabiliscano le basi o un precedente per le discussioni, i dibattiti e gli approcci futuri tra le varie amministrazioni, indipendentemente dalle affiliazioni politiche?

Potrei essere il primo segretario al Commercio in questa posizione, ma di certo non sarò l’ultimo. Credo che il nostro approccio ai controlli sulle esportazioni non sia una tendenza passeggera. Abbiamo attuato una strategia innovativa e assertiva su questo tema. Nell’ottobre dello scorso anno, il Bureau of Industry and Security, guidato dal Sottosegretario Estevez, ha stabilito un regolamento senza precedenti: per la prima volta abbiamo negato alla Cina l’accesso a una serie di semiconduttori e apparecchiature.

Continueremo a procedere in questa direzione: stiamo costruendo un team. Ora lavorano per me persone che non lavoravano nel dipartimento del Commercio e che si occupavano semplicemente di semiconduttori. Stiamo aumentando la nostra capacità tecnica presso il BIS per quanto riguarda l’intelligenza artificiale. Penso quindi che stiamo rafforzando il dipartimento del Commercio per affrontare queste sfide, e penso che questo sforzo sia destinato a rimanere.

La visione di Raimondo porta nel concreto dell’attività di policy le riflessioni sull’allargamento della sicurezza nazionale sviluppate tra l’altro da Jake Sullivan e riprese da Le Grand Continent nella riflessione sulle fratture della guerra estesa. Va nel concreto perché mostra il ruolo che deve avere una burocrazia statale per perseguire obiettivi di politica industriale e sicurezza nazionale. Il dipartimento del Commercio degli Stati Uniti si trova da tempo al centro delle tensioni con la Cina, con una enorme produzione di attività regolatoria relativa in particolare ai controlli sulle esportazioni e con la sperimentazione di politica industriale del Chips and Science Act in particolare, ma in futuro anche con le attività sugli standard e su altri temi richiesti dalle politiche sull’intelligenza artificiale. Si tratta di compiti molto ampi e che richiedono competenze tecniche profonde. Qui Raimondo fa un’operazione allo stesso tempo di trasparenza e di debolezza. Trasparenza perché dice chiaramente che per avere questo nuovo ruolo, lo Stato deve avere più risorse e più soldi. Debolezza perché la rivendicazione di 100 persone che lavorano sui semiconduttori non sembra poi granché rispetto all’entità della sfida. E perché chiedere più risorse in questo modo genera un forte rischio: che agli annunci non seguano i fatti. Da un lato, è vero che forse l’unico punto di vero consenso della politica statunitense, al Congresso, è il contrasto con la Cina. Dall’altro lato, una cosa è andare contro la Cina negli annunci roboanti dei politici, un’altra è alimentare una burocrazia statale, fatto che in particolare tra i Repubblicani genera sempre resistenze. Non a caso Global Times, nel suo commento alle parole di Raimondo, ha notato il punto dei fondi federali.

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Per i membri del Congresso che sono qui presenti, dirò che il BIS ha lo stesso budget di dieci anni fa. Abbiamo il doppio delle richieste di licenza. Ricevo continuamente telefonate da membri del Congresso, democratici e repubblicani: perché non fate di più? Perché non state vigilando di più sull’intelligenza artificiale? Perché non controllate di più i semiconduttori? Sono d’accordo con voi. Ho un budget di 200 milioni di dollari, che è paragonabile al costo di qualche jet da combattimento. Se vogliamo seriamente proteggere gli Stati Uniti, dobbiamo finanziare questa operazione in modo adeguato per adempiere alle nostre necessarie responsabilità.

Lei ha parlato di controlli sulle esportazioni e proprio di recente avete introdotto nuove regole aggiornate per i controlli sulle esportazioni di chip. Perché si è reso necessario?

Non possiamo permettere alla Cina di ottenere questi chip. Punto. Ascoltate, ecco la cosa sorprendente: so che qui ci sono molti membri del settore privato e molti imprenditori. L’America è leader mondiale nell’intelligenza artificiale. Punto. L’America è leader mondiale nella progettazione di semiconduttori avanzati. Punto. Questo grazie al nostro settore privato. Perché abbiamo grandi innovatori. Ed è anche merito del nostro settore pubblico, che investe in questi campi.

Siamo un paio d’anni avanti alla Cina. Non possiamo permettere che ci raggiungano. Non possiamo permetterle di raggiungerci. Quindi negheremo loro la nostra tecnologia più avanzata. So che tra il pubblico ci sono amministratori delegati di aziende produttrici di chip che erano un po’ irritati quando l’ho fatto, perché stavano perdendo entrate: proprio come la vita, la protezione della nostra sicurezza nazionale è più importante delle entrate a breve termine. Ed è questo che faremo.

Il punto del rapporto tra pubblico e privato è centrale nel capitalismo politico americano e ancor più in questa fase storica, nella guerra dei chip. Da un lato, gli Stati Uniti contro la Cina, nei loro provvedimenti, fanno leva sulla loro grande forza nella filiera: aziende leader mondiali che operano su Electronic Design Automation, sul design dei chip, sui macchinari. Un primato che Raimondo apprezza e rivendica. Allo stesso tempo, a queste stesse aziende la sicurezza nazionale chiede un pesante sacrificio: quello del mercato cinese, che per la centralità della Cina nella manifattura e nell’assemblaggio dell’elettronica, ha un peso significativo. Anche se varia a seconda dei casi, il mercato cinese può pesare il 20-30% dei ricavi, ma molto di più come mercato di passaggio. La sicurezza nazionale è superiore ma ha questo vincolo.

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Vi dirò: questa roba – e con «questa roba» intendo supercomputer, tecnologia AI, chip per l’AI – nelle mani sbagliate è letale quanto qualsiasi arma che potremmo fornire. Perciò dobbiamo essere seri se vogliamo affrontare questa minaccia ed essere seri nell’applicazione della legge. L’altra cosa per cui abbiamo bisogno di risorse al dipartimento del Commercio è l’applicazione della legge. Ogni minuto di ogni giorno, la Cina si sveglia cercando di capire come aggirare i nostri controlli sulle esportazioni. Questo ci impone di rafforzare continuamente i nostri controlli e di aumentare gli sforzi di applicazione insieme ai nostri alleati, tra cui gli olandesi, i giapponesi e gli europei.

Il nostro approccio deve includere anche una strategia multilaterale simile a quella della Cocom durante la Guerra Fredda per combattere la minaccia rappresentata dalla Cina. Un approccio multilaterale ai controlli sulle esportazioni è essenziale per affrontare efficacemente questa sfida.

Il discorso di Raimondo, nel riferimento al multilateralismo dei controlli sulle esportazioni, fa anche un riferimento al COCOM e ai meccanismi della guerra fredda. Come ha dimostrato Hugo Meijer nei suoi studi fondamentali, tra cui in particolare «Trading with the Enemy», il caso del commercio con la Cina è comunque profondamente diverso. Ma è interessante considerare i vari riferimenti al multilateralismo e agli alleati nella dottrina di Gina Raimondo. I suoi discorsi menzionano in modo esplicito alcune delle principali «potenze» della filiera dei semiconduttori, il Giappone, la Corea del Sud, i Paesi Bassi e la Germania, per la presenza di alcune aziende chiave. A questi alleati si chiede una maggiore collaborazione e una sorta di «prova» della fedeltà agli Stati Uniti.

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Si è criticato il fatto che i controlli sulle esportazioni si siano spinti oltre il necessario. Si è anche criticato il fatto che non si siano spinti abbastanza in là. Che fatto influenzano il processo decisionale in materia? È ancora in fase di revisione? State pensando di cambiarlo o di adattarlo in tempo reale?

È difficile trovare un equilibrio. Alan [Davidson, Assistente segretario al Commercio per le Comunicazioni e l’Informazione dal 14 gennaio 2022] ed io discutiamo spesso di questo problema. Se si esagera con i controlli sulle esportazioni, si ostacolano i flussi di reddito delle imprese statunitensi, impedendo loro di innovare. Inoltre, è doppiamente problematico se queste misure vengono attuate senza i nostri alleati. A cosa serve limitare le entrate delle imprese americane se la Cina ottiene la stessa tecnologia dai tedeschi, dagli olandesi, dai giapponesi o dai coreani?

Se non riusciamo a tracciare una linea di demarcazione, la Cina può ottenere la nostra tecnologia e usarla per la simulazione nucleare o per qualsiasi altra cosa voglia. Le capacità tecnologiche delle forze di combattimento di oggi sono più grandi di quanto siano mai state. Ecco perché il commercio è così importante. Tuttavia, devo ammettere che non so se possiamo mai essere perfetti o se siamo già a quel punto. Per questo dico al mio team che dobbiamo mantenere un dialogo costante con l’industria. Manteniamo una conoscenza aggiornata della tecnologia attraverso un dialogo continuo con i nostri colleghi del Pentagono. Devo fare un grande applauso al segretario Austin, che è stato un partner straordinario per me. Dobbiamo solo essere fedeli e disciplinati nel nostro processo per essere certi di metterci costantemente alla prova: stiamo facendo abbastanza? Non stiamo facendo abbastanza? Inoltre, una delle cose che sto facendo al dipartimento del Commercio è quella di rafforzare la nostra capacità tecnica, in modo da conoscere la tecnologia come chiunque altro.

I produttori di chip cinesi stanno accumulando apparecchiature. Per averne la prova, basta guardare il nuovo smartphone di Huawei uscito un paio di mesi fa per capire che si stanno muovendo rapidamente in questo senso. Quanto velocemente potete contrastarli quando dovete adottare un approccio ponderato? State parlando con l’industria e avete un team che sta crescendo con un budget di 200 milioni di dollari. Ma c’è un limite alla vostra velocità?

L’evoluzione della natura della minaccia richiede un cambiamento corrispondente nel nostro approccio. In passato, il BIS si è basato sulla Entity list: Huawei, ad esempio, è un campione nazionale cinese, quindi è presente nella Entity list. Inoltre, è stato verificato che SMIC (Semiconductor Manufacturing International Corporation) e altre aziende cinesi sostengono l’esercito cinese e quindi sono anch’esse presenti nella lista. Tuttavia, il problema di questo approccio è che porta a un costante «acchiappa la talpa» in cui è vietato a vendere a un’azienda, quindi Huawei crea un’altra azienda.

Parlando di Huawei e SMIC, Raimondo ricorda che i controlli sulle esportazioni e le «liste» del dipartimento del Commercio e della sua fondamentale agenzia, il Bureau of Industry and Security, sono strumenti potenti, con effetti rilevanti sul mercato sulla base di esigenze di sicurezza nazionale, ma non sono onnipotenti. Le sanzioni e i controlli sulle esportazioni creano sempre incentivi per il loro aggiramento e, per quanto riguarda la Cina, per il rafforzamento di una filiera interna, con una «chiusura del cerchio» rispetto ai mercati di riferimento (smartphone, apparecchiature di telecomunicazione, data center, attività industriali e di automazione, automotive) dove la Cina ha un ruolo di primo piano. L’aggiramento avviene attraverso il dinamismo delle aziende che vengono colpite, come Huawei e SMIC: le aziende si collocano all’interno di un ecosistema dove «vengono fuori» ulteriori attori, ignoti alle liste nere, e che creano nuovi rapporti commerciali interni alla Cina ma anche nuove opportunità di mercato, fuori dalla sicurezza nazionale, per le aziende degli Stati Uniti. In sintesi: nessuna lista è onnipotente e autosufficiente.

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Il nostro obiettivo, come dimostrato il 7 ottobre, è quindi quello di implementare controlli a livello nazionale. Dobbiamo essere più intelligenti sulle tecnologie in cui siamo più avanti rispetto alla Cina. Sono in grado di fare cose molto dannose e noi vogliamo impedire all’intero Paese l’accesso a questa classe di apparecchiature. Questo è un esempio di come stiamo innovando il nostro approccio per far fronte alla minaccia, perché se ci si limita a un approccio di tipo «acchiappa la talpa», sappiamo che non appena un’azienda finisce nell’elenco, la Cina creerà un’altra filiale nel giro di una settimana.

Penso che stiamo diventando più seri per quanto riguarda i controlli a livello nazionale e, non lo dirò mai abbastanza, dobbiamo diventare ancora più seri nel lavorare con i nostri alleati. Non va bene se neghiamo qualcosa alla Cina e i giapponesi o i tedeschi vendono loro componenti per realizzare strumenti EUV (litografia ultravioletta estrema). Dobbiamo quindi agire più seriamente, in modo che sia più difficile. Niente è perfetto: i cinesi faranno di tutto per trovare scappatoie, ma noi dobbiamo essere più veloci, più agili e pensare in modo diverso alle nostre strategie.

Un’altra domanda prima di andare avanti: l’industria o la semi-industria statunitense è d’accordo? L’ho chiesto perché non voglio citare nessuna azienda in particolare, ma questa settimana è stata diffusa la notizia che l’enfant prodige dell’intelligenza artificiale, Hoster, e Nvidia hanno sviluppato un nuovo chip conforme alle regole per le esportazioni, l’H20, per la Cina. Il chip dovrebbe essere lanciato all’inizio del prossimo anno e soddisfare i requisiti di controllo delle esportazioni. Ma quando si vede l’adattabilità di questa dinamica in un mercato globale per le aziende americane, significa che la conversazione con l’industria deve cambiare o evolversi più di quanto non abbia fatto attualmente?

Questo è un punto valido. Vorrei rivolgermi all’industria presente. L’industria è allineata con questa prospettiva? Sì, ma il loro obiettivo primario è la generazione di entrate. Sono convinta che la democrazia sia vantaggiosa per le imprese, comprese quelle del settore. Lo stato di diritto qui e nel mondo è positivo per le aziende. Potrebbe doverci essere una brutta telefonata agli azionisti, ma a lungo termine vale la pena che lavoriate con noi per difendere la sicurezza nazionale del nostro Paese. Se tra dieci anni non venderete più in Cina, non sarà a causa dei nostri controlli sulle esportazioni, ma perché la Cina vi sta escludendo perché vuole compiere il decoupling, non a causa del mio operato.

Dobbiamo quindi tenere gli occhi ben aperti sulla minaccia rappresentata dalla Cina e collaborare per garantire la forza delle nostre aziende e la protezione della nostra sicurezza nazionale. Sebbene l’industria si sia dimostrata collaborativa e disponibile e le nostre relazioni siano buone, dobbiamo riconoscere la naturale tensione insita nel nostro lavoro.

Per quanto riguarda i controlli sulle esportazioni, vorrei sottolineare la necessità di andare oltre i tradizionali metodi di coinvolgimento del settore. Storicamente, il dipartimento del Commercio traccia una linea di demarcazione. Come abbiamo fatto con Nvidia: abbiamo tracciato una particolare linea di demarcazione. Non sorprende che nel giro di pochi mesi Nvidia abbia rilasciato un nuovo chip appena al di sotto di quella linea di demarcazione. Bene, questo è ciò che fa l’industria, questo è ciò che abbiamo insegnato loro, questo è il modo in cui funziona il controllo delle esportazioni.

Qui arriviamo al cuore della riflessione di Gina Raimondo e al vero dilemma del capitalismo politico degli Stati Uniti. Il segretario al Commercio cerca un nemico che non potrà mai battere: Jensen Huang, co-fondatore e amministratore delegato di NVIDIA, l’azienda divenuta leader dei semiconduttori non solo per una capitalizzazione che l’ha proiettata oltre i 1. 000 miliardi (quello che in inglese si chiama «trillion company») ma anche per i ricavi, almeno in questa fase del 2023, quindi sopra Intel, Samsung e TSMC. La potenza di NVIDIA nell’era dell’intelligenza artificiale non può essere sottovalutata. Inoltre, l’azienda non deve nulla del suo successo ai sussidi e agli incentivi degli Stati Uniti. Jensen Huang, così come gli altri operatori, riconosce l’esistenza della sicurezza nazionale ma vuole continuare a vendere in Cina. Finché il governo degli Stati Uniti porrà limiti tecnici, i tecnici di NVIDIA, con capacità immensamente superiori a quelle molto limitate dei tecnici del governo, sapranno adattarsi a quei limiti, per tenere un mercato e fornire prodotti, perché hanno paura (una paura relativa, vista la potenza di NVIDIA, ma sempre esistente) che decine di aziende in Cina, potenzialmente concorrenti, possano insediarle. È quello che NVIDIA sperimenta già, perlomeno in parte, con Huawei. Questo continuerà ad essere un problema, che non può essere risolto dalla «dottrina Raimondo».

La politica degli Stati Uniti dirà «dobbiamo impedire gli avanzamenti di intelligenza artificiale dell’esercito cinese». Ma NVIDIA spiegherà loro che l’intelligenza artificiale può essere abilitata da qualunque scheda grafica delle loro generazioni attuali, e di quelle precedenti, quindi questo contrasto è destinato a rimanere.

Se arrivano gli ingegneri del dipartimento del Commercio che lavorano per Gina Raimondo a dire a NVIDIA «collaboriamo insieme, lavoriamo per la sicurezza nazionale», a loro sarà sempre riservato il trattamento della battuta resa celebre proprio da Ronald Reagan: «Le parole più terrificanti della lingua inglese sono: Sono del governo e sono qui per aiutare». L’era del capitalismo politico non ha cambiato questo fatto e non lo cambierà perché il governo non saprà mai fare quello che ha saputo fare e che sa fare Jensen Huang.

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Questo approccio non è produttivo. Invece, Alan e io stiamo sviluppando un nuovo modo di avere un dialogo continuo con l’industria, in cui i nostri ingegneri possono confrontarsi con i loro ingegneri. Il nostro messaggio è chiaro: vogliamo limitare la tecnologia che può consentire alla Cina di svolgere le attività XYZ. Quindi vi dico che se riprogettate un chip per superare una particolare linea di demarcazione e che permette alla CIna di fare IA, io lo controllerò il giorno dopo. Dobbiamo quindi arrivare a dire all’industria: il nostro obiettivo di sicurezza nazionale è quello di non avere la «salsa speciale» all’AI all’interno del vostro chip, ad esempio, quindi non fatelo e basta.

Si tratta quindi di una nuova discussione, in quanto il semplice tracciare una linea e far lavorare l’ingegnere intorno ad essa è insufficiente. Dobbiamo stabilire un continuo scambio di informazioni con l’industria, in cui comunicare chiaramente le nostre intenzioni e gli effetti desiderati, quasi come l’intenzione del comandante. Dobbiamo instaurare un continuo botta e risposta con l’industria, in cui comunichiamo chiaramente le nostre intenzioni e gli effetti desiderati, quasi come l’intenzione del comandante. Poi, l’industria deve adeguarsi.

Il dipartimento del Commercio sta svolgendo un ruolo cruciale nell’innovativo ordine esecutivo del Presidente sull’intelligenza artificiale, che ci porta al centro della conversazione sull’IA. Nonostante le discussioni sulle minacce di accelerazione e sulla competizione tra grandi potenze, in cui sappiamo che questa tecnologia sarà importante non solo oggi ma anche in futuro, è essenziale garantire che vengano posti dei guard rail per regolamentare la capacità dell’IA. Abbiamo parlato con lei il giorno in cui è stato presentato l’ordine esecutivo; con quale rapidità verrà attuato e quanto è significativo fornire questi guard rail?

Il dipartimento del Commercio è al centro della strategia del Presidente per l’IA. Abbiamo due ruoli. Il primo è quello di negare alla Cina l’accesso alla nostra IA, come discusso in precedenza con il BIS. Tuttavia, ritengo che il nostro ruolo più significativo sia quello di essere proattivi, investendo nell’industria attraverso il Chips Act e collaborando con loro per aiutarli a correre più velocemente in modo da superare la Cina.

Circa un mese fa, mi sono recata all’Istituto per la sicurezza dell’IA presso il dipartimento del Commercio con l’obiettivo di collaborare con l’industria, il Congresso e i responsabili politici per determinare i guard rail necessari. Vale la pena notare che nella Silicon Valley esiste una prospettiva che favorisce la filosofia del «move fast and break things». Quando si ha a che fare con l’IA, rompere le cose non è un’opzione, perché è pericoloso.

Il chiaro riferimento è al famoso motto di Facebook «move fast and break things» e ai danni che ha generato. Ma è rivolto anche all’attuale dibattito sulle regole dell’intelligenza artificiale, e la posizione di influenti figure della Silicon Valley, a partire da Marc Andreessen, co-fondatore e General Partner della società di venture capital Andreessen Horowitz, che manifesta e argomenta una posizione in cui, per creare ricchezza e trainare l’innovazione, le aziende del motore tecnologico americano devono essere lasciate in pace dal governo.

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Dobbiamo quindi trovare un equilibrio di guard rail, assicurandoci che questi modelli non finiscano nelle mani di attori non statali e di malintenzionati. Dobbiamo anche assicurarci che i modelli facciano ciò che pensiamo che faranno. È una cosa enorme che persino gli sviluppatori non siano consapevoli di ciò che i modelli possono fare. Quindi serve sicurezza, ma dobbiamo essere molto attenti, perché non possiamo esagerare altrimenti soffochiamo l’innovazione e l’America ha raggiunto la sua posizione di leader grazie all’innovazione e dobbiamo continuare a coltivare questo approccio. L’Europa è molto indietro rispetto a noi, la Cina è ancora indietro. Ancora una volta, è delicato e complicato.

Importante e interessante che Raimondo, anche se cita Germania e Paesi Bassi come potenze dei semiconduttori, ribadisca la questione che gli europei sottovalutano sistematicamente, ovvero l’enorme ritardo europeo sulla tecnologia. Raimondo dice «l’Europa è dietro di noi» sull’intelligenza artificiale e in questo modo esprime una posizione pressoché unanime nel dibattito degli Stati Uniti, e che Eric Schmidt a Harvard in dialogo con Graham Allison ha espresso molto nettamente l’11 ottobre 2023, deridendo sostanzialmente l’Europa per il suo approccio all’intelligenza artificiale, privo di capacità industriale.

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Lo dico: quando mi guardo allo specchio, mi chiedo costantemente come posso gestire un dipartimento del Commercio più innovativo nell’era dell’IA. Penso che tutti i membri del governo debbano farlo. Il governo in generale è troppo lento nel capire come acquistare software, come acquistare l’IA e come utilizzare positivamente l’IA in ciò che facciamo. E in qualche momento penso ancora un po’ che ci troviamo di fronte a un gioco a somma zero: cosa vogliamo fare: rendere possibile l’innovazione e l’industria o proteggere la nostra sicurezza nazionale? È un modo di pensare antiquato. Non possiamo avere questo gioco a somma zero. Dobbiamo fare entrambe le cose: far sì che l’industria possa continuare a superarsi per innovazione e proteggere la nostra sicurezza nazionale.

Quindi cosa significa nella pratica? Perché la Cina potrebbe essere in ritardo rispetto a noi in termini di adesione agli stessi standard etici, alle stesse barriere di sicurezza o allo stesso approccio ai dati.

Non vogliamo essere il minimo comune denominatore. Siamo un Paese che dà valore alla privacy, ai diritti, ai diritti umani. Nulla di tutto ciò sta cambiando. Quindi possiamo fare entrambe le cose. È questo che rende grande l’America. Possiamo fare entrambe le cose e le faremo. Dobbiamo investire in ricerca e sviluppo, formazione professionale e capacità tecnica, collaborando con l’industria per promuovere l’innovazione. Inoltre, dobbiamo implementare dei guardrail per evitare di impegnarci in pratiche non etiche e per proteggere la nostra tecnologia.

Lo spionaggio sponsorizzato dallo Stato per avere accesso alla nostra tecnologia è reale, ma dobbiamo sviluppare un nuovo modello per affrontare la minaccia che la Cina rappresenta. Dobbiamo avere un nuovo modello di collaborazione tra il dipartimento del Commercio e il Pentagono, tra il governo e l’industria, tra le università e la base industriale della difesa. Deve essere un modello più moderno se vogliamo affrontare le sfide necessarie.

In questo passaggio del suo intervento, Raimondo fa riferimento al «nuovo modello» di cui c’è bisogno a suo avviso per fare fronte alla minaccia cinese. Siccome la minaccia cinese è in continua evoluzione, perché usa le capacità industriali e di ecosistema, nel rapporto col governo, per adattarsi ai controlli sulle esportazioni degli Stati Uniti, allora gli Stati Uniti non possono avere un modello di capitalismo politico a silos, dove ogni attore del sistema persegue solamente i suoi interessi, ma devono lavorare sull’integrazione: tra il Commercio e il Pentagono, appunto, ma anche tra pubblico e privato e nel circolo della comunicazione tra le aziende della difesa e le capacità del mondo della ricerca e dell’università.

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Questo ci porta al pacchetto di pianto del Chips Act. Credo che in questa sala ci siano molte persone che sono molto curiose di sapere quando inizieranno a essere erogati i finanziamenti.

A questo punto, da un giorno all’altro. Ho un’intera squadra a casa che sta lavorando in questo momento e mi sono messa in contatto con tutti loro stamattina presto. Lo dico in tutta serietà: sono entusiasta di fare un annuncio prima della fine dell’anno, con un flusso continuo di annunci previsti per il primo trimestre o la prima metà del prossimo anno.

Il dipartimento del Commercio, al momento dell’approvazione della legge, non era attrezzato per gestire questo compito. Di conseguenza, abbiamo dovuto licenziare 110 dipendenti eccezionali, tra cui alcuni dei migliori investitori, analisti del mercato del credito, analisti industriali e ingegneri d’America. Come già accennato, la tempistica dovrebbe essere soddisfacente. Abbiamo costruito tutto questo partendo da zero e sono estremamente orgogliosa del lavoro di alta qualità che stiamo svolgendo per proteggere il denaro dei contribuenti.

Voglio dire questo, soprattutto ai membri del pubblico che potrebbero fare domanda per i fondi del Chips Act: vi darò delusioni, perché i fondi non sono sufficienti. Abbiamo solo 39 miliardi di dollari per questi incentivi alle imprese e io ho una missione di sicurezza nazionale da onorare.

Sì, vogliamo creare posti di lavoro in America, sì, abbiamo bisogno della produzione in America. Fondamentalmente, questa è un’iniziativa di sicurezza nazionale. Oggi gli Stati Uniti d’America non producono chip all’avanguardia sulle nostre coste. Avete citato Nvidia: tutti i loro chip sono prodotti a Taiwan. Tutti. Non c’è bisogno di dire a nessuno dei presenti i rischi legati a Taiwan o alla Cina. Quindi, alla fine della giornata, farò del mio meglio per allungare questo capitale, essere creativo e dare a tutti un buon numero. Ma alla fine della giornata, per poter dormire la notte, devo soddisfare la missione di sicurezza nazionale e questo significa assicurarci di produrre abbastanza chip Leading Edge, di avere abbastanza packaging avanzato, abbastanza chip maturi per la base industriale della difesa negli Stati Uniti d’America, è una missione di sicurezza nazionale che dobbiamo realizzare con questo denaro.

Ha citato i rischi legati a Taiwan, che avrebbero un impatto su aziende come Nvidia, Apple e numerose altre economie se la Cina intervenisse nel prossimo futuro. Inoltre, se si verificasse un’inflazione della catena di approvvigionamento a seguito di una pandemia, l’interruzione economica sarebbe molto più grave in quella situazione. Quindi, sareste in grado di avviare rapidamente la produzione nazionale, soprattutto perché le fabbriche sono complesse e richiedono anni per essere realizzate?

Ancora una volta ha colto nel segno. Non possiamo muoverci abbastanza velocemente. Non so se e quando la Cina farà una mossa su Taiwan e per molti versi non posso verificarlo se il nostro dipartimento della Difesa fa uno straordinario lavoro di deterrenza. Quello che posso controllare è la velocità con cui corriamo in America. Quindi devo pensare al peggio e andare il più veloce possibile, ed è per questo che inizieremo a far circolare questi soldi all’inizio del prossimo anno. Ci stiamo lavorando.

Vorrei esprimere la mia gratitudine a tutte le aziende marittime presenti che hanno voluto partecipare. Abbiamo partner fantastici che lavorano con noi in modo collaborativo. Non si tratta semplicemente di presentare domande e ricevere risposte. C’è un continuo andirivieni tra noi, mentre discutiamo i loro progetti e come possono essere perfezionati per soddisfare le nostre esigenze di sicurezza nazionale. Per questo motivo ho citato l’Advanced packaging come esempio. Sono molto soddisfatto della situazione e il nostro atteggiamento è chiaro. Ne abbiamo bisogno per la sicurezza nazionale dell’America, quindi cerchiamo di determinare il modo più rapido ed efficiente per raggiungere l’obiettivo e portarlo a termine.

Ho altre due domande per lei. La prima è che stiamo parlando molto di chip. Ci sono altri prodotti o tipi di tecnologie di origine statunitense a cui state guardando in modo simile in questo momento?

Sicuramente, nei settori delle biotecnologie, dei modelli di IA, dei prodotti di IA, del cloud computing e del supercalcolo, la risposta è sì. Ancora una volta, man mano che la tecnologia diventa sempre più avanzata e l’intelligenza artificiale ne guida lo sviluppo, credo che il BIS diventerà presto – se non lo è già – il posto più entusiasmante in cui lavorare nel governo federale. La nostra attenzione si concentrerà su come far progredire e controllare efficacemente l’IA e tutto ciò che ne deriva, per avere successo.

Il Bureau of Industry and Security, un tempo un’oscura agenzia del dipartimento del Commercio dedicata in prevalenza ai controlli sulle esportazioni che non interessavano a nessuno, è stata catapultata al centro dell’attenzione dal conflitto tra Stati Uniti e Cina, come ho mostrato dal 2018 nelle mie analisi sul capitalismo politico (prima, quindi, del ruolo ancora più centrale portato dalle nuove azioni dell’amministrazione Biden e dai controlli sulle esportazioni del 7 ottobre 2022 e dalle mostre conseguenti). Anche questo punto, tuttavia, merita un «reality check»: il BIS è veramente un posto di lavoro «eccitante» per i giovani americani, ad esempio per i grandi talenti della tecnologia? Esiste davvero qualcuno che vuole lavorare per il BIS e non per NVIDIA o per SpaceX? Non è facile capirlo. Sicuramente, il BIS ha avuto per anni un sito con una grafica assolutamente penosa e poco comprensibile e proprio in questo periodo la grafica viene rifatta, quindi preparando probabilmente un ruolo pubblico un po’ più ampio, nonostante sia di fatto un pezzo di «Stato profondo»

MOSTRA DI PIÙ

Qualche mese fa, durante un incontro con le controparti cinesi, lei era presente all’incontro del Presidente Biden all’APEC. Durante lo stesso incontro APEC, lei ha incontrato anche le sue controparti cinesi. Sulla base dei recenti miglioramenti nella comunicazione e nelle relazioni, come definirebbe oggettivamente l’attuale rapporto tra i nostri due Paesi?

La comunicazione è fondamentale perché la sua mancanza può portare rapidamente a un’escalation, a tensioni e a errori di calcolo. Tuttavia, è importante non confondere la comunicazione con la debolezza o la mollezza. C’è una notevole opportunità economica con la Cina che non danneggerà la nostra sicurezza nazionale e genererà posti di lavoro negli Stati Uniti – una realtà che dovremmo considerare.

È fondamentale notare che la reciprocità è fondamentale: se chiedono l’accesso ai nostri mercati, devono fornire l’accesso ai loro. Se Unionpay e Alipay funzionano in America, MasterCard e Visa dovrebbero essere autorizzate in Cina. In condizioni di parità, competeremo e commerceremo, e questo è positivo. Per quanto riguarda la sicurezza nazionale, dobbiamo essere consapevoli della minaccia e prenderla sul serio. È la più grande minaccia che abbiamo mai affrontato e dobbiamo essere all’altezza della sfida. La comunicazione è fondamentale e dobbiamo collaborare su questioni come la finanza e il cambiamento climatico. Non desideriamo tensioni o escalation, e il mondo conta su di noi per gestire in modo responsabile le nostre relazioni con la Cina ed evitare un’ulteriore escalation. Dobbiamo assolutamente fare tutto il possibile.

Ma non illudetevi, la Cina non è nostra amica e dobbiamo tenere gli occhi ben aperti sulla portata di questa minaccia.

Raimondo conclude l’intervento sulla sua «dottrina» ribadendo che c’è una profonda differenza tra il fatto che Biden e Xi Jinping si parlano e hanno canali di comunicazione, e l’aspetto strutturale, che è la competizione sistemica tra Cina e Stati Uniti. Per questo, con un linguaggio netto, dice che «la Cina non è nostra amica». Pertanto, gli elementi di riduzione della tensione e di comunicazione che si realizzano attraverso i contatti dei leader non possono cambiare questa realtà strutturale.

MOSTRA DI PIÙ

C’è qualcos’altro che vuole aggiungere prima di concludere questa conversazione?

L’unica cosa che vorrei dire, a parte il fatto che sono davvero felice di essere qui, è una sfida a tutti noi a pensare in modo diverso. La tecnologia sta cambiando a un ritmo che non abbiamo mai visto e questo significa che dobbiamo cambiare il modo di pensare alla spectrum strategy, non può essere un gioco a somma zero, dobbiamo rendere disponibile questa tecnologia in modo da poter innovare il mondo e assicurarci che il Dipartimento della Difesa abbia ciò di cui ha bisogno. Abbiamo già parlato di IA: dobbiamo cambiare il modo in cui ci procuriamo la tecnologia, dobbiamo cambiare il modo in cui assumiamo, come possiamo ottenere gli ingegneri e i tecnici geniali di cui abbiamo bisogno per svolgere il lavoro, come possiamo attrarre e reclutare giovani nel governo, per svolgere il lavoro di cui abbiamo bisogno. E questo vale per tutti noi. Voglio dire, qui sta la sfida, l’eccitazione, ma è tempo di aprirci a nuovi orizzonti e di mettere in discussione il modo in cui abbiamo finora operato su tutti i livelli, se vogliamo affrontare la minaccia che la Cina rappresenta e se vogliamo fare ciò che deve essere fatto con questa tecnologia.

Capitalismo politico contro politica socialista

di David Edgerton

E se l’Europa stesse commettendo un errore cercando di emulare i modelli di capitalismo politico emersi in Cina e negli Stati Uniti? Questa è la seria domanda posta da David Edgerton in questo testo, che considera come l’economia del quotidiano – la Foundational Economy – potrebbe essere molto più incisiva nel migliorare lo standard di vita degli europei nel medio e lungo termine.

Dobbiamo sviluppare le industrie del futuro: intelligenza artificiale, quantistica e biotecnologia! Se non ci dotiamo di una strategia industriale ambiziosa e forte, saremo relegati dietro gli Stati Uniti e la Cina. Questo è il mantra che si ripete oggi in Europa, nel Regno Unito e nell’Unione Europea. Nel Regno Unito, questi mantra sono ripetuti in particolare da chi propone la visione del Paese come grande potenza globalizzata dopo l’uscita dall’Unione Europea – in altre parole, i sostenitori della «Global Britain». Nel continente, queste idee sono al centro del progetto di Europa geopolitica. La volontà di potenza si combina con la politica economica. Il capitalismo politico, per usare la terminologia proposta da Alessandro Aresu, esercita quindi un vero fascino a Londra, Parigi e Bruxelles.

Vorrei confrontare quello che considero un approccio standard al capitalismo politico e il suo strumento principale, ossia la strategia industriale, con un approccio all’economia del quotidiano1 volto a rispondere alle sfide del miglioramento della vita delle persone e della decarbonizzazione. Esiste una profonda differenza tra questi due approcci, non solo in termini di obiettivi, ma anche di teoria, di modo di conoscere e di agire2. Qualsiasi sovrapposizione o allineamento tra loro è quindi difficile.

La differenza principale è tra questi programmi: da una parte, una politica di crescita del PIL, attraverso la stabilità finanziaria e una politica industriale incentrata sull’innovazione e sulle start-up, nonché una politica fiscale e di spesa, integrata da un’innovazione guidata dal settore privato per aumentare l’efficienza del settore pubblico; dall’altro, una politica incentrata sugli imperativi fondamentali di una vita dignitosa per le famiglie, che include questioni di distribuzione, nonché l’accesso a beni e servizi, sia pubblici che privati, sia personali che infrastrutturali. L’obiettivo di questa politica non è quindi quello di aumentare il PIL o il peso geopolitico, ma di migliorare la vita delle persone.

La politica o strategia industriale è tornata di moda. La tesi principale a loro favore è che la globalizzazione è finita, che la lotta contro il cambiamento climatico richiede un’azione industriale diretta, così come la sfida posta dalla Cina e forse anche possibili pandemie. Si tratta di una politica che si concentra in modo fantasioso su una parte dell’industria manifatturiera, sulla ’tecnologia’ e sulla competizione internazionale, con l’obiettivo di essere leader mondiale, o addirittura di imporsi sul resto del mondo.

La maggior parte delle riflessioni sulla strategia industriale presuppone che, in termini assoluti, questo sia un bene, che produca di per sé risultati positivi. Ma ovviamente questo dipende dalla politica e dal contesto. La politica industriale viene presentata come una buona scelta politica per tutti i Paesi. Ma ciò che può valere per gli Stati Uniti o la Cina può non valere, ad esempio, per il Regno Unito o l’Unione Europea. Infatti, se tutti i Paesi, grandi o piccoli, ricchi o poveri, seguissero la stessa strategia, applicheremmo una ricetta per un fallimento massiccio piuttosto che per un successo generale. È quindi piuttosto preoccupante che molti discorsi sulla politica industriale si basino sull’idea di imitare gli Stati Uniti.

La politica o strategia industriale è tornata di moda

DAVID EDGERTON

Per di più, queste politiche si basano su un’idea che è falsa e inadeguata. Il presupposto è che l’Europa – sia il Regno Unito che l’Unione Europea – sia, o meglio dovrebbe e potrebbe essere, una superpotenza scientifica e che le nuove industrie si svilupperanno su scala massiccia se le cose saranno finalmente organizzate correttamente. Questo è particolarmente evidente nel Regno Unito, dove il potere dell’innovazione è sopravvalutato, ma dove l’intero modello di trasformazione nazionale attraverso l’innovazione ha poca credibilità.

Quanto controllo può sperare di avere un Paese che rappresenta solo il 2% della spesa mondiale in R&S, ma anche della produzione manifatturiera globale, e i cui livelli di produttività non si avvicinano ai leader mondiali? Prendiamo il caso di British volt, una start-up che avrebbe dovuto incarnare il genio britannico nel settore delle batterie e battere l’industria asiatica, che è molto consolidata e più che dominante in questo settore. Questo progetto è un esempio perfetto di una politica basata ossessivamente sull’idea che bisogna insistere fino a quando non si ottiene il risultato giusto. In questo caso, non è andata così: il progetto si è fermato nell’agosto 2022 e la start-up è fallita nel gennaio 2023, prima di essere rilevata da un acquirente australiano3.

Questo non significa che il modello di start-up non abbia dei meriti. Il vaccino britannico AstraZeneca, ad esempio, è stato sviluppato dall’Università di Oxford. Ma è in India che è stato prodotto su larga scala per i Paesi poveri. Quindi, nonostante questa innovazione interna, il Regno Unito è stato un importatore netto di vaccini, soprattutto dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. E il vaccino di AstraZeneca non era nemmeno il principale vaccino utilizzato nel Regno Unito. Il successo del Regno Unito nel campo dell’immunizzazione si è quindi basato su acquisti molto rapidi di diversi tipi di vaccini da tutto il mondo, consentendo di gestire il rischio e l’incertezza e di sfruttare l’esperienza globale. Il Regno Unito ha acquistato vaccini sia da start-up che da grandi aziende farmaceutiche. In altre parole, nel campo delle batterie come in quello dei vaccini, il Regno Unito dipende dal resto del mondo.

Nonostante AstraZeneca, il Regno Unito è stato un importatore netto di vaccini, soprattutto dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea

DAVID EDGERTON

Al di là della retorica, va notato che alcune misure chiave di politica industriale hanno comportato il sostegno alle aziende straniere. A luglio, il Governo ha annunciato un sostegno di 500 milioni di sterline per il gruppo automobilistico indiano Tata Motors, con l’obiettivo di costruire una fabbrica di batterie utilizzando una tecnologia di origine cinese. Sono stati concessi importanti sussidi a EDF per la costruzione di una centrale nucleare con tecnologia francese e a un’azienda indiana di produzione di acciaio (sempre Tata) per la conversione a forni elettrici.

Questa esperienza e le lezioni del passato offrono alcuni insegnamenti salutari in termini di possibilità di una strategia industriale e di innovazione.

In primo luogo, è molto più facile perseguire una strategia industriale di autonomia nazionale che una strategia di conquista dei mercati mondiali. Il Regno Unito è stato il principale produttore di energia nucleare al mondo negli anni ’70, con reattori di progettazione britannica, ma erano venduti per l’esportazione. La Francia, invece, ha sviluppato un grande insieme di reattori, ma utilizzando la tecnologia americana su licenza.

In secondo luogo, essere indipendenti in un settore non rende indipendenti o sovrani in generale. Che senso ha per il Regno Unito progettare e produrre i propri aerei se poi dipende dalle testate nucleari e dai missili americani? Perché mantenere un’industria nazionale per progettare e produrre ali di aerei, ma non semiconduttori? Perché non essere autosufficienti nel campo delle armi e delle navi?

È molto più facile perseguire una strategia industriale di autonomia nazionale che una strategia di conquista dei mercati mondiali

DAVID EDGERTON

In terzo luogo, che cos’è la sovranità in un’industria o in una tecnologia? Significa utilizzare, mantenere, produrre o progettare? A che punto possiamo considerarci autosufficienti? Sarebbe chiaramente assurdo, e persino impossibile, per un Paese o un gruppo di Paesi come l’Unione Europea, progettare e produrre tutto ciò che viene consumato al loro interno. Se così fosse, quale dovrebbe essere l’obiettivo di produzione?

In quarto luogo, la sovranità significa che vogliamo solo aziende nazionali sul nostro territorio? Vogliamo che queste aziende non sviluppino alcuna capacità produttiva all’estero? Oppure la sovranità industriale significa commerciare con gli amici, con aziende amiche che operano in Paesi amici? Se sì, di quali amici e di quale tipo di interdipendenza stiamo parlando? Tutto questo fa un’enorme differenza.

La gamma di politiche industriali che emerge dalle varie risposte a queste domande è immensa. La maggior parte è anche molto costosa. La più economica, quella che è stata applicata per decenni e rimane la più popolare – il sostegno pubblico all’innovazione e alle start-up – non è stata un grande successo, e non dobbiamo aspettarci che lo diventi improvvisamente.

E anche se questo tipo di politica, o un’altra più plausibile e più costosa, dovesse funzionare, è importante riconoscerne i limiti. Innanzitutto, la politica industriale riguarda solo una parte molto piccola dell’economia. Un modo molto migliore di pensare all’economia è quello di partire dalle aree in cui la maggior parte delle persone effettivamente lavora e consuma, e chiedersi cosa si debba fare per cambiare le cose in un tempo ragionevole. Se vogliamo garantire posti di lavoro di qualità, dobbiamo riconoscere che l’80% dell’economia è costituito da servizi e che molti di questi lavori possono essere migliorati e meglio retribuiti. Se vogliamo davvero produrre batterie in casa – o acciaio, o altro – dobbiamo pagare per questo. Il punto di partenza di queste due politiche è radicalmente diverso.

La politica industriale riguarda solo una parte molto piccola dell’economia

DAVID EDGERTON

Il nuovo libro del gruppo della Foundational Economy rappresenta uno degli sviluppi più importanti dell’economia politica da qualche tempo a questa parte4. Suggerisce nuovi modi di pensare e concepire il mondo. Suggerisce anche nuovi modi di agire, molto diversi da quelli attualmente proposti dai partiti politici.

Gli autori criticano la politica di «crescita del PIL tramite la strategia industriale». Quelli che chiamano tecno-centristi e i sostenitori del libero mercato vogliono entrambi una crescita del PIL più elevata e salari più alti (cioè una maggiore produttività). I tecno-centristi favoriscono le azioni dal lato dell’offerta a favore dell’innovazione e degli imprenditori. Questi programmi sono integrati da misure per ridurre le differenze di produttività regionali, ovviamente incoraggiando l’innovazione e l’imprenditorialità locale. Si tratta dell’applicazione a livello regionale di un programma che ha sostanzialmente fallito a livello nazionale e che è ancora più probabile che fallisca in futuro, dati i vincoli delle emissioni di carbonio. Si tratta inoltre di un programma che non affronta gli elementi essenziali dell’economia odierna e delle sue sfide.

Quali sono dunque gli elementi di questo nuovo approccio? In primo luogo, c’è una rinnovata attenzione alla famiglia piuttosto che all’individuo, alla distribuzione dei redditi familiari e a come questa sia cambiata nel tempo. Questo porta alla consapevolezza che, in linea di massima, la famiglia monoparentale oggi implica la povertà per le persone a carico, e che se dovessimo tornare ai livelli di disuguaglianza di reddito degli anni ’70, la maggior parte delle famiglie oggi sarebbe notevolmente più ricca. In altre parole, viviamo in un mondo in cui il salario familiare è scomparso e il capitale ha conquistato una fetta molto più grande della torta del PIL.

In secondo luogo, quello che gli autori chiamano empirismo fondamentale mostra l’importanza dell’acquisto di servizi essenziali (da internet agli autobus al cibo) e di servizi gratuiti come la salute e l’istruzione, che per le persone più povere hanno un peso maggiore rispetto ai salari o alle indennità, così come le infrastrutture sociali che non possono essere acquistate. Un’economia degna di questo nome non deve limitarsi al reddito degli individui (anche se aggregato), ma guardare alle strutture in cui le persone vivono (le famiglie) e alle molteplici infrastrutture che consentono loro di condurre una vita dignitosa. Questo mostra una serie di problemi sfaccettati, che vanno ben oltre la stagnazione del PIL pro capite. Mostra gli effetti del calo dei salari e delle prestazioni sociali, gli sforzi di riduzione dei costi sulla qualità e la quantità dei servizi e il caos causato dalla tendenza estrattivista di gran parte del capitalismo contemporaneo, in particolare in relazione alla proprietà della casa e al finanziamento degli alloggi. Evidenzia inoltre l’importanza della qualità dei servizi, sia pubblici che privati, da cui dipendiamo.

Quali sono le implicazioni per la politica economica? Innanzitutto, non è sufficiente concentrarsi sulla crescita del PIL (anche tenendo conto della ridistribuzione). Dobbiamo pensare meno a queste astrazioni e più alla fornitura di beni e servizi concreti e alla qualità di vita reale delle persone. Dobbiamo pensare in termini di principi classici della socialdemocrazia, che puntano alla massimizzazione dell’efficacia, dell’efficienza e dell’uguaglianza allo stesso tempo. Ciò richiede un’azione collettiva per affrontare gli interessi privati e settoriali che insistono solo sull’efficienza locale e non si preoccupano di un’efficacia o di un’uguaglianza più ampie. Un calcolo nazionale più ampio che tenga conto di queste altre dimensioni è al centro degli approcci socialdemocratici. In secondo luogo, abbiamo bisogno di questo tipo di approccio quando pensiamo alla decarbonizzazione, che richiede chiaramente un’azione incentrata sulla trasformazione delle infrastrutture. Ciò influisce direttamente sui costi delle famiglie e sulla qualità dei servizi, oltre che sui collegamenti fisici con le famiglie e le apparecchiature domestiche. Dobbiamo prendere in considerazione direttamente l’interconnessione dei sistemi di riscaldamento, di trasporto e di altro tipo, e la sfida della transizione senza imporre costi insopportabili. La strategia industriale non tiene in conto nulla di tutto questo. La decarbonizzazione dell’elettricità e delle automobili, che è al centro della strategia industriale, è la parte più facile. Per il resto, avremo bisogno di un intervento coordinato e di investimenti su una scala ancora più ampia di quella che ha caratterizzato la straordinaria trasformazione dell’infrastruttura energetica europea dagli anni ’50 agli anni ’70. Non possiamo pensare semplicemente a un programma o a sovvenzioni per i produttori di nuove attrezzature, o a una rivoluzione industriale verde, o a un piano per nuovi programmi di ricerca e sviluppo e nuove imprese.

> Un’economia degna di questo nome non dovrebbe limitarsi al reddito degli individui (anche in aggregato), ma dovrebbe considerare le strutture in cui le persone vivono (famiglie) e le molteplici infrastrutture che consentono loro di condurre una vita dignitosa.

Quali sono le implicazioni per la concezione dell’industria in generale? Prima di tutto, dobbiamo porre fine alla nostra ossessione per l’industria come esisteva in passato. Questo ci aiuterà a concentrarci meglio sulla realtà della produzione, non solo sui settori più visibili, riconoscendo, ad esempio, l’importanza della produzione alimentare al suo interno. Dovremmo anche concentrarci su ciò che produciamo e consumiamo, e sulla sua qualità. Dovremmo anche intervenire sulla qualità, sui costi e sui profitti spaventosi dell’industria edilizia, ad esempio. Potremmo concentrarci sull’installazione, la manutenzione e la riparazione di nuove infrastrutture e preoccuparci meno della provenienza di acciaio, cavi e turbine. Ma se lo facciamo, deve essere sulla base di un obiettivo ben ponderato.

Ciò suggerisce di concentrarsi seriamente su ciò che funziona bene, piuttosto che su particolari modelli di sviluppo guidati dalla novità. Ad esempio, vale la pena notare l’enorme differenza tra il sistema privato «Test and Trace» nel Regno Unito, che non è riuscito a rintracciare e isolare un solo paziente Covid, e un sistema sanitario pubblico degno di questo nome, implementato sul campo. Allo stesso modo, l’AI e la ricerca biomedica non sono la risposta alla profonda crisi dell’assistenza sanitaria e sociale che stiamo vivendo (a lungo termine, la riduzione della povertà è importante per la salute quanto le innovazioni mediche). Più in generale, ci permette di non concentrarci su una politica di innovazione che probabilmente fallirà, ma su una politica di emulazione e imitazione che ha molte più probabilità di successo.

L’approccio quotidiano implica anche una politica universitaria molto diversa da quella che ha continuamente fallito negli ultimi quarant’anni. La politica di R&S finanziata dallo Stato dovrebbe concentrarsi maggiormente sullo sviluppo di prodotti e processi specifici per le esigenze locali, che non possono essere forniti altrove, e sulla produzione di conoscenze che consentano al pubblico nel suo complesso di pensare e agire meglio, piuttosto che sul sostegno ai venture capitalist e alle grandi imprese. Più in generale, dobbiamo generare nuove forme di competenze, in particolare quelle economiche, anziché affidarci a esperti con dietro altri interessi. Lo Stato, centrale e locale, deve essere democratizzato e creare nuove forme di competenza.

Abbiamo disperatamente bisogno di una politica più modesta, una politica di miglioramento e di imitazione, più che di che una politica di eccessi retorici e peggioramento della miseria sociale

DAVID EDGERTON

Infine, concentrandoci sulle persone, sulle famiglie, sulla vita quotidiana, possiamo allontanarci dalle fantasie che ostacolano una politica sensata. Ciò che emerge dall’approccio dell’economia del quotidiano è la necessità di capire dove siamo realmente, e questo include non solo il problema, ma anche le possibili soluzioni. Questo è importante perché troppe delle nostre politiche ruotano intorno alla finzione. Abbiamo bisogno di una politica che punti a fare meglio, non a pretendere falsamente di essere la migliore. Abbiamo disperatamente bisogno di una politica più modesta, una politica di miglioramento e di imitazione, più che di una politica di eccessi retorici e peggioramento della miseria sociale. Pensare con l’economia della vita quotidiana ci aiuterà a fare tutto questo.

NOTE
  1. In inglese Foundational economy, che indica un collettivo apparso negli anni 2010 che cerca di prendere in considerazione e mettere al centro della riflessione le infrastrutture e gli indicatori del benessere quotidiano. Proponiamo la traduzione «economia del quotidiano», che si sembra la più vicina all’idea di fondo.
  2. Ho discusso l’idea di economia del quotidiano altrove,  cfr. David Edgerton, «How and why the idea of a national economy is radical», Renewal, vol. 29, p. 17-22, 2021 ; «Why the everyday economy is the innovation labour needs», The Political Quarterly, vol. 93, p. 683-690, 2022
  3. David Edgerton, «The woes of startup Britishvolt should shock the UK out of its Brexit self-delusion», The Guardian, 11 novembre 2022.
  4. Luca Calafati, Julie Froud, Colin Haslam, Sukhdev Johal, Karel Williams, When nothing worksFrom cost of living to foundational liveability, Manchester, Manchester University Press, 2023.

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MARIO DRAGHI: “PROPONGO UN CAMBIAMENTO RADICALE”_da Le Grand Continent

Pare ormai statisticamente accertato che ad ogni uscita pubblica di Mario Draghi, nel tempo particolarmente dosata, sugli organi di stampa corrisponda la possibilità di un suo importante incarico. Tutto lascia presagire che anche questa volta siamo alla vigilia prossima, non proprio immediata, di qualche candidatura ai massimi vertici istituzionali, nella fattispecie europei. Il personaggio è conosciuto e temuto, con una sua statura riconosciuta. Non può essere definito un mercenario, nemmeno un missionario; un funzionario di alto rango sì, di stretta osservanza e fedeltà. Negli scritti  qui sottoposti, specie il primo, il più puntuale ed attuale, si propone come l’innovatore, il timoniere in grado di indicare la rotta e condurre la nave verso una direzione certa. Parla di regole e deregolamentazioni comuni del mercato unico europeo necessarie a creare un contesto paragonabile a quello dei mercati americano e cinese; osserva che lo spazio concorrenziale sul quale misurarsi è il mercato mondiale e a quello va commisurata l’azione europea; poiché le regole universali della concorrenza sono a suo dire saltate per responsabilità soprattutto della Cina e per conseguente reazione degli Stati Uniti, l’Europa sta subendo una fase di stallo, se non di vera e propria regressione, alla quale si deve reagire con una azione attiva e diretta delle istituzioni pubbliche, nella fattispecie europee. Da buon discepolo gesuita, però, Mario Draghi glissa elegantemente su alcune questioni cruciali ed ignora distrattamente alcuni aspetti fondamentali delle politiche e delle dinamiche europee. In politica, ivi compresa quella economica, non esistono scelte neutre a beneficio ecumenico. A suo riguardo sarebbe corretto, prima di tutto, rispondere a due domande fondamentali per inquadrare i propri propositi: per conto di chi si agisce e per fare cosa.
La vita professionale di Mario Draghi ha conosciuto tre brillanti tappe fondamentali: le grandi privatizzazioni degli anni ’90 in Italia, la presidenza della BCE nel secondo decennio del XXI secolo, la Presidenza del Consiglio Italiano nel 2021. Nella prima è riuscito a privare della propria spina dorsale economica, in verità già un po’ malconcia, l’Italia; nella seconda, mettendo sotto capestro la Grecia e mantenendo sotto giogo l’Italia, è riuscito a salvaguardare sul proscenio i sistemi bancari di Francia e Germania, particolarmente esposti sui debiti sovrani in crisi, nelle retrovie, aspetto ben più rilevante, il circuito finanziario che, con la particolare e lucrosa intermediazione tedesca, riusciva e riesce tuttora a garantire costantemente i flussi finanziari dall’Europa verso gli Stati Uniti; nella terza è riuscito a riportare nuovamente a livelli allarmanti l’esposizione all’estero del debito pubblico italiano e, soprattutto, ha svolto brillantemente il compito di vigilare e ricondurre all’ordine le possibili, quanto sprovvedute, bizze del cancelliere tedesco e del “Napoleone” di Francia sul conflitto in Ucraina. A meno di una improbabile folgorazione sulla via di Damasco, intelligibile nel testo e della quale sottolineerò in seguito, la risposta alla domanda “per conto di chi?” non potrebbe essere più scontata.
Quanto al “che fare” occorre addentrarsi maggiormente nelle sue argomentazioni. Il declino dell’Europa, compresa la Germania, non ha coinciso, come sostiene Draghi, ma è iniziato decenni prima della emersione della Cina e della sua sagacia tattica e si è accentuato irreversibilmente con l’implosione del blocco sovietico, l’allargamento della Unione Europea, parallelo e complementare a quello della NATO e l’illusione statunitense dell’assenza epocale di avversari paragonabili per potenza; da qui la spinta esogena al ricambio di classe dirigente nei tre principali paesi, nefasto già nell’immediato per il continente, ma strategicamente, con ragionevole probabilità, per gli stessi Stati Uniti.
Mario Draghi, nella sua ambiguità, cerca di accattivarsi un consenso ecumenico su alcuni principi di azione generale apparentemente inoppugnabili, perché generici e generali. Propugna il superamento della logica della competizione esasperata interna al mercato europeo per acquisire una logica di competizione del Sistema Europa nell’agone mondiale. Un obbiettivo da raggiungere individuando prima di tutto i settori sui quali concentrare l’attenzione, nella fattispecie le tecnologie verdi, la difesa, il digitale e l’energia; creando di conseguenza piattaforme di acquisto comuni tali da favorire le economie di scala nella spesa e indirettamente nella produzione e nella concentrazione delle aziende; puntando sulla disponibilità di capitali al momento in gran parte immobilizzati nelle banche.
Nessun accenno alle modalità di mobilizzazione dei capitali che hanno portato alla creazione del mostro Deutsch Bank del tutto funzionale alla trasmigrazione di capitali negli Stati Uniti con modalità speculative di tipo predatorio e alla resistenza, in verità sempre più fragile, opposta alla trasformazione del regime giuridico delle Lands Bank tedesche, che ha consentito un minimo di autonomia decisionale nelle scelte economiche. In mano a quali fondi deve cadere questa ulteriore riorganizzazione e con quale libertà di movimento all’interno e all’esterno della UE?
La creazione di stazioni di appalto comune di acquisto di forniture militari non comporta di per sé, secondo astratte leggi di mercato, una espansione del complesso militare-industriale europeo senza tener conto che equipaggiamenti comuni, comportano modelli di difesa e di esercito comuni, che a loro volta implicano una politica estera comune. A tutt’oggi l’unica parvenza di politica estera comune europea è dettata dalla linea russofobica degli Stati Uniti, dalla invenzione del nemico russo, dal disastro euro-atlantico in Africa. Mario Draghi non pare perseguire alternative, né smentire se stesso e il suo operato.
Mario Draghi propugna il modello federativo della Unione Europea, ma pragmaticamente sostiene gli accordi di cooperazione rafforzata tra gruppi di stati, di fatto il riconoscimento del ruolo fondamentale e crescente dei governi, quindi degli stati nazionali. Un ossimoro sino ad ora reso praticabile dall’allineamento atlantico, di fatto una promanazione, sia degli apparati della UE che delle élites che dispongono delle leve degli stati nazionali.
Sin dalla nascita dei progetti unitari è stata sempre presente una componente federalista europea, tanto chiassosa, quanto velleitaria nel propugnare gli ideali di una Europa unita e indipendente. Si è sempre ridotta, pur di sopravvivere, ad essere la mosca cocchiera ed il paravento del dominio atlantista scaturito dal disastro della seconda guerra mondiale sin dagli albori della sua formazione. La stessa CED (Comunità Europea di Difesa), cavallo di battaglia e prima illusione di quella retorica negli anni ’50, fallì quando fu chiaro che né la Francia e la Gran Bretagna avrebbero potuto disporre dei comandi di quell’esercito e che alla Francia veniva richiesto il sacrificio dell’esercito coloniale da schierare, piuttosto sulla cortina di ferro antisovietica. Oggi Mario Draghi si rifà, concludendo il sermone, alla retorica dei “padri fondatori” della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio). Ma quell’accordo prevedeva la suddivisione delle quote di produzione tra i sei stati aderenti e la salvaguardia di una industria pesante a supporto soprattutto dello sforzo antisovietico, precedente di anni alla costituzione del Patto di Varsavia e in subordine ad una politica di consenso che spegnesse il miraggio bolscevico tra la gente. Attendiamo dal nostro risposte chiare e coraggiose; soprattutto risposte a quanto dichiarato da Raimondo, nell’articolo a fianco http://italiaeilmondo.com/2024/04/23/cina-stati-uniti-capire-la-dottrina-raimondo-di-alessandro-aresu/  Cominciano anche noi a porci domande giuste e risposte sui problemi ineludibili su quali modalità di relazioni tra paesi europei occorrerebbe costruire. Giuseppe Germinario
il coraggio che manca
 
MARIO DRAGHI: “PROPONGO UN CAMBIAMENTO RADICALE”

Il modo in cui siamo organizzati, i nostri processi decisionali e i nostri meccanismi di finanziamento sono progettati per il mondo di ieri: pre-Covid, pre-Ucraina, pre-conflagrazione in Medio Oriente, pre-ritorno delle ostilità tra grandi potenze. Ma a noi serve un’Unione europea che sia adeguata al mondo di oggi e di domani. Ecco perché quel che proporrò nella relazione che la Presidente della Commissione mi ha chiesto di preparare è un cambiamento radicale: perché è di un cambiamento radicale che abbiamo bisogno.

Con il suo accordo, pubblichiamo la versione italiana (approvata dall’autore) del testo dell’intervento di Mario Draghi alla High-level Conference on the European Pillar of Social Rights (Bruxelles, 16 aprile 2024). Il testo originale in inglese può essere letto a questo link.

Questa è, in sostanza, la prima volta in cui ho l’occasione di iniziare a condividere con voi, se non proprio la filosofia — non ci siamo ancora arrivati —, almeno il modo in cui si vanno delineando il disegno d’insieme e la filosofia complessiva del report.

La competitività è da molto tempo una questione controversa per l’Europa.

Nel 1994, l’economista e futuro premio Nobel Paul Krugman etichettò come “pericolosa ossessione” la tendenza a concentrarsi sulla competitività. A suo dire, una crescita a lungo termine si ottiene aumentando la produttività – che va a beneficio di tutti – e non tentando di migliorare la propria posizione relativa rispetto ad altri e di catturare la loro quota di crescita.

L’approccio alla competitività che abbiamo adottato in Europa dopo la crisi del debito sovrano sembrerebbe avergli dato ragione. Abbiamo deliberatamente perseguito una strategia basata sul tentativo di ridurre i costi salariali l’uno rispetto all’altro, in aggiunta a una politica fiscale prociclica, con l’unico risultato di indebolire la nostra stessa domanda interna e minare il nostro modello sociale.

Non è la competitività a essere viziata come concetto. È l’Europa che si è concentrata sulle cose sbagliate.

Ci siamo rivolti verso l’interno, vedendo noi stessi come concorrenti, anche in settori come la difesa e l’energia in cui abbiamo profondi interessi comuni. Allo stesso tempo, non abbiamo guardato abbastanza verso l’esterno: con una bilancia commerciale in fin dei conti positiva, non abbiamo considerato la nostra competitività esterna come una questione di policy seria.

In un ambiente internazionale favorevole, abbiamo fatto affidamento sulla parità di condizioni a livello globale e su un ordine internazionale basato sulle regole, aspettandoci che gli altri facessero lo stesso. Ma ora il mondo sta cambiando velocemente, e siamo stati colti di sorpresa.

Altre regioni, in particolare, hanno smesso di rispettare le regole e sono attivamente impegnate a elaborare politiche volte a migliorare la loro posizione competitiva. Nel migliore dei casi, queste politiche hanno l’obiettivo di riorientare gli investimenti verso le proprie economie a scapito della nostra; nel peggiore, sono progettate per rendere permanente la nostra dipendenza da loro.

La Cina, ad esempio, punta a catturare e internalizzare tutte le parti delle catene di approvvigionamento legate alle tecnologie verdi e avanzate, e sta facendo in modo di assicurarsi l’accesso alle risorse necessarie. Questa rapida espansione dell’offerta sta portando a un eccesso di capacità in numerosi settori e minaccia di indebolire le nostre industrie.

Gli Stati Uniti, da parte loro, utilizzano la politica industriale su larga scala per attrarre entro i propri confini la capacità produttiva interna di maggior valore, compresa quella delle imprese europee, ricorrendo al protezionismo per tagliare fuori la concorrenza e impiegando il loro potere geopolitico per riorientare e proteggere le catene di approvvigionamento.

Come Unione europea non abbiamo mai avuto un analogo “Industrial Deal”, anche se la Commissione continua a fare tutto quanto è in suo potere per colmare questa lacuna. Sta di fatto che, nonostante una serie di iniziative positive in corso, ci manca ancora una strategia complessiva sulle risposte da dare nei diversi settori.

Ci manca una strategia su come tenere il passo nella corsa, sempre più spietata, per la leadership nelle nuove tecnologie. Oggi i nostri investimenti in tecnologie digitali e avanzate, anche per la difesa, sono inferiori rispetto a quelle di Stati Uniti e Cina, e solo quattro dei primi 50 player tecnologici al mondo sono europei.

Ci manca una strategia su come proteggere le nostre industrie tradizionali da condizioni di disparità globali dovute ad asimmetrie nella regolamentazione, nei sussidi e nelle politiche commerciali. Un caso esemplare è quello delle industrie ad alta intensità energetica.

In altre regioni, queste industrie non solo devono sostenere costi energetici più bassi, ma sono anche soggette a minori oneri normativi e, in alcuni casi, ricevono pesanti sovvenzioni che rappresentano una minaccia diretta alla possibilità per le imprese europee di competere.

In assenza di politiche pianificate e coordinate strategicamente, la logica conseguenza è che alcune delle nostre industrie finiscano per ridurre la capacità produttiva o si trasferiscano al di fuori dell’UE.

E ancora, ci manca una strategia su come assicurarci le risorse e gli input di cui abbiamo bisogno per realizzare le nostre ambizioni, senza accrescere la nostra dipendenza da altri.

In Europa abbiamo giustamente un’agenda climatica ambiziosa e obiettivi impegnativi per i veicoli elettrici. Ma in un mondo in cui i nostri concorrenti controllano molte delle risorse di cui abbiamo bisogno, una simile agenda non può che essere accompagnata da un piano per mettere in sicurezza le nostre catene di approvvigionamento — dai minerali critici alle batterie, passando per le infrastrutture di ricarica.

Finora la nostra risposta è stata limitata perché il modo in cui siamo organizzati, i nostri processi decisionali e i nostri meccanismi di finanziamento sono progettati per il mondo di ieri: pre-Covid, pre-Ucraina, pre-conflagrazione in Medio Oriente, pre-ritorno delle ostilità tra grandi potenze.

Ma a noi serve un’Unione europea che sia adeguata al mondo di oggi e di domani. Ecco perché quel che proporrò nella relazione che la Presidente della Commissione mi ha chiesto di preparare è un cambiamento radicale: perché è di questo che c’è bisogno.

In ultima analisi, sarà necessario completare una trasformazione che attraversi tutta l’economia europea. Dobbiamo poter contare su sistemi energetici decarbonizzati e indipendenti; un sistema di difesa integrato e adeguato a livello di UE; produzione nazionale nei settori più innovativi e in più rapida espansione; e una posizione di leadership nell’innovazione deep-tech e digitale, che sia vicina alla nostra base produttiva.

Tuttavia, vista la velocità alla quale si muovono i nostri concorrenti, è altrettanto importante stabilire delle priorità. È necessario agire immediatamente nei settori maggiormente esposti alle sfide verdi, digitali e di sicurezza. Il mio report si concentrerà su dieci di questi macro-settori dell’economia europea.

Ogni settore richiede riforme e strumenti specifici, ma dalla nostra analisi emergono tre fili conduttori, comuni ai diversi interventi di policy.

Il primo è favorire le economie di scala. I nostri principali concorrenti stanno approfittando della propria dimensione continentale per generare economie di scala, aumentare gli investimenti e catturare quote di mercato nei settori in cui questo conta di più. In Europa avremmo naturalmente lo stesso vantaggio, ma la frammentazione ci frena.

Nell’industria della difesa, ad esempio, la mancanza di economie di scala ostacola lo sviluppo di una capacità industriale europea: un problema riconosciuto anche dalla recente Strategia industriale europea per la difesa. Negli USA, ai cinque soggetti principali fa capo l’80% del mercato statunitense nel suo complesso, mentre in Europa si arriva solo al 45%.

Questa differenza si spiega in gran parte con la frammentazione della spesa per la difesa nell’UE.

I governi non ricorrono molto spesso agli acquisti congiunti — gli appalti collaborativi rappresentano meno del 20% della spesa — e non si concentrano abbastanza sul mercato interno: negli ultimi due anni quasi l’80% degli acquisti è stato effettuato da paesi terzi.

Per soddisfare le nuove esigenze in materia di difesa e sicurezza, dobbiamo intensificare gli approvvigionamenti congiunti, rafforzare il coordinamento della spesa e l’interoperabilità delle attrezzature, ridurre notevolmente la dipendenza da fornitori internazionali.

Un altro ambito in cui non stiamo perseguendo economie di scala sono le telecomunicazioni. Nell’UE abbiamo un mercato di 445 milioni di consumatori, ma gli investimenti pro capite sono solo la metà di quelli negli Stati Uniti e siamo in ritardo nella diffusione del 5G e della fibra.

Uno dei motivi di questa lacuna è che abbiamo 34 gruppi di reti mobili in Europa — e 34 è una stima prudente, in realtà ne abbiamo molti di più — che spesso operano solo su scala nazionale, contro i tre degli Stati Uniti e i quattro della Cina. Per produrre maggiori investimenti, dobbiamo razionalizzare e armonizzare ulteriormente la normativa in materia di telecomunicazioni in tutti gli Stati membri e sostenere — non ostacolare — il consolidamento.

E le economie di scala sono fondamentali anche in un altro senso, per le imprese giovani che generano le idee più innovative. Il loro modello di business dipende dalla capacità di crescere rapidamente e commercializzare le proprie idee, il che a sua volta presuppone l’esistenza di un grande mercato interno. E la scala è essenziale anche per lo sviluppo di nuovi medicinali innovativi, attraverso la standardizzazione dei dati dei pazienti dell’Unione europea e l’uso dell’intelligenza artificiale, che ha bisogno di tutta la ricchezza di dati di cui disponiamo— se solo riuscissimo a standardizzarli.

In Europa siamo tradizionalmente molto forti nella ricerca di base, ma non riusciamo a portare l’innovazione sul mercato e a potenziarla.

Per affrontare questo ostacolo potremmo, tra le altre cose, rivedere l’attuale normativa prudenziale sul credito bancario e istituire un nuovo regime normativo comune per le start-up nel settore tecnologico.

Il secondo filo conduttore è la fornitura di beni pubblici. Ci sono investimenti di cui tutti beneficiamo, ma che nessun paese può sostenere da solo: in questi casi avremmo tutte le ragioni per agire insieme, pena il rischio di non essere all’altezza delle nostre esigenze— ad esempio sul fronte del clima, nel campo della difesa e anche in altri.

Nell’economia europea ci sono varie strozzature, punti in cui la mancanza di coordinamento si traduce in inefficienze dovute proprio al basso livello di investimenti. Un esempio è rappresentato dalle reti energetiche, e in particolare dalle interconnessioni.

Che si tratti di un bene pubblico è chiaro: un mercato integrato dell’energia ridurrebbe i costi energetici per le nostre imprese e ci renderebbe più resilienti di fronte alle crisi future— un obiettivo che la Commissione persegue nel contesto di REPowerEU.

Ma l’interconnessione richiede decisioni in materia di pianificazione, finanziamento, approvvigionamento di materiali e governance, e queste decisioni sono difficili da coordinare. Di conseguenza, non saremo in grado di costruire una vera Unione dell’energia fintanto che non ci accorderemo su un approccio comune.

Un altro esempio è la nostra infrastruttura di super computing. L’UE dispone di una rete pubblica di computer ad alte prestazioni (high-performance computers o HPC) di livello mondiale, ma le ricadute sul settore privato sono al momento molto, molto limitate.

Questa rete potrebbe essere utilizzata dal settore privato — ad esempio dalle start-up di intelligenza artificiale e dalle PMI — e in cambio, i vantaggi finanziari conseguiti potrebbero essere reinvestiti per aggiornare gli stessi HPC e sostenere l’espansione del cloud nell’UE.

Una volta identificati questi beni pubblici, dobbiamo anche dotarci dei mezzi per finanziarli. Il settore pubblico ha un ruolo importante da svolgere, e in passato ho già parlato di come potremmo fare un uso migliore della capacità di prestito comune dell’UE, in particolare in settori, come la difesa, in cui la frammentazione della spesa riduce la nostra efficacia complessiva.

La maggior parte del fabbisogno di investimenti, tuttavia, dovrà essere coperta da investimenti privati. L’UE dispone di risparmi privati molto elevati, che sono però per lo più incanalati nei depositi bancari e finiscono per non finanziare la crescita quanto potrebbero in un mercato dei capitali più ampio. Per questo motivo il progresso dell’Unione dei mercati dei capitali è una parte indispensabile della strategia complessiva per la competitività.

Il terzo filo conduttore è garantire l’approvvigionamento di risorse e input essenziali.

Se vogliamo raggiungere i nostri obiettivi in materia di clima senza aumentare la nostra dipendenza da paesi sui quali non possiamo più contare, avremo bisogno di una strategia globale che copra tutte le fasi della catena di approvvigionamento dei minerali critici.

Al momento, in quest’ambito stiamo per lo più lasciando campo libero agli attori privati, mentre altri governi hanno scelto di guidare in prima persona, o comunque di coordinare fortemente, l’intera catena. Abbiamo bisogno di una politica economica estera che produca, per la nostra economia, questo stesso risultato.

La Commissione ha già avviato questo processo con il Regolamento europeo sulle materie prime critiche, ma occorrono misure complementari per rendere più concreto il suo obiettivo. Ad esempio, potremmo prevedere una apposita piattaforma mineraria critica dell’UE, principalmente a fini di approvvigionamento congiunto, diversificazione e sicurezza dell’offerta, messa in comune delle fonti di finanziamento e costituzione di scorte.

Un altro contributo fondamentale che dobbiamo garantire — e che riveste un’importanza particolare per voi, le parti sociali — è la disponibilità di forza lavoro qualificata.

Nell’UE, tre quarti delle imprese segnalano difficoltà nell’assumere dipendenti con le giuste competenze, e per 28 profili professionali – che rappresentano il 14% della nostra forza lavoro – sono attualmente identificati come carenti di manodopera.

Con l’invecchiamento della società e un atteggiamento meno favorevole nei confronti dell’immigrazione, dovremo trovare queste competenze al nostro interno. Sarà necessario lavorare da più parti per assicurare la disponibilità delle skill necessarie e definire percorsi flessibili di miglioramento delle competenze.

Uno degli attori più importanti al riguardo sarete voi, le parti sociali. Siete sempre stati fondamentali nelle fasi di cambiamento e l’Europa farà affidamento su di voi per contribuire ad adattare il nostro mercato del lavoro all’era digitale e rafforzare i nostri lavoratori.

Questi tre filoni ci impongono una riflessione profonda sulla nostra organizzazione, su cosa vogliamo fare insieme e cosa mantenere a livello nazionale. Considerata l’urgenza della sfida che abbiamo davanti, tuttavia, non possiamo concederci il lusso di rimandare a una futura revisione del Trattato le risposte a tutte queste importanti questioni.

Per garantire la coerenza tra i diversi strumenti di policy dovremmo essere in grado di sviluppare ora un nuovo strumento strategico per il coordinamento delle politiche economiche.

E se dovessimo constatare che ciò non è fattibile, in casi specifici, dovremmo essere pronti a prendere in considerazione la possibilità di procedere con un sottoinsieme di Stati membri. Una cooperazione rafforzata sotto forma di 28° regime, ad esempio, potrebbe essere una strada percorribile per l’Unione dei mercati dei capitali, con l’obiettivo di mobilitare gli investimenti.

Come regola generale, tuttavia, credo che la coesione politica della nostra Unione ci imponga di agire insieme, possibilmente sempre. Dobbiamo essere consapevoli che oggi la nostra stessa coesione politica è minacciata dai cambiamenti in atto nel resto del mondo.

Ripristinare la nostra competitività non è un obiettivo che possiamo raggiungere da soli, o battendoci l’un l’altro. Ci impone di agire come Unione europea, come mai prima d’ora.

I nostri concorrenti sono in vantaggio perché possono agire ciascuno come un paese unico con un’unica strategia, allineando dietro quest’ultima tutti gli strumenti e le politiche necessarie.

Se vogliamo raggiungerli, avremo bisogno di un nuovo partenariato tra gli Stati membri, una ridefinizione della nostra Unione non meno ambiziosa di quella operata dai Padri Fondatori 70 anni fa con la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio.

Grazie.

 

La politica economica in un mondo che cambia

Nel prossimo futuro la politica fiscale sarà chiamata a svolgere un ruolo più significativo

di Mario Draghi

Il fermo immagine mostra Mario Draghi in un’intervista a Washington dopo aver ricevuto il premio Volcker alla carriera, 15 febbraio 2024 - Ansa
Il fermo immagine mostra Mario Draghi in un’intervista a Washington dopo aver ricevuto il premio Volcker alla carriera, 15 febbraio 2024 – Ansa

12′ di lettura

Vi proponiamo il discorso integrale che Mario Draghi ha tenuto al Nabe, Economic Policy Conference di Washington, durante il conferimento del premio Paul A. Volcker Lifetime Achievement Award

Tutti i governi, fino a non molto tempo fa, nutrivano grandi aspettative sulla globalizzazione, intesa come integrazione dinamica dell’economia mondiale.

Si pensava che la globalizzazione avrebbe aumentato la crescita e il benessere a livello mondiale, grazie a un’organizzazione più efficiente delle risorse mondiali. Man mano che i Paesi sarebbero diventati più ricchi, più aperti e più orientati al mercato, si sarebbero diffusi i valori democratici insieme allo Stato di diritto. E tutto ciò avrebbe reso le economie emergenti più produttive nelle istituzioni multilaterali, legittimando ulteriormente l’ordine globale.

Lo stato d’animo prevalente è stato ben colto da George H.W. Bush nel 1991, quando ha affermato che “nessuna nazione sulla Terra ha scoperto un modo per importare i beni e i servizi del mondo fermando le idee alla frontiera”.

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Questo circolo virtuoso porterebbe anche a una “uguaglianza per difetto”, nel senso che non sarebbe necessaria alcuna politica governativa specifica per raggiungerla. Piuttosto, avremmo una convergenza armoniosa verso standard di vita più elevati, valori universali e stato di diritto internazionale. Non c’è dubbio che alcune di queste aspettative si siano realizzate. L’apertura dei mercati globali ha portato decine di Paesi nell’economia mondiale e ha fatto uscire dalla povertà milioni di persone – 800 milioni solo in Cina negli ultimi 40 anni. Ha generato il più ampio e rapido miglioramento della qualità della vita mai visto nella storia.

Ma il nostro modello di globalizzazione conteneva anche una debolezza fondamentale. La persistenza del libero scambio fra Paesi necessita che vi siano regole internazionali e regolamenti delle controversie recepite da tutti i Paesi partecipanti. Ma in questo nuovo mondo globalizzato, l’impegno di alcuni dei maggiori partner commerciali a rispettare le regole è stato ambiguo fin dall’inizio. A differenza del mercato unico dell’UE, dove il rispetto delle regole è intrinseco e avviene attraverso la Corte di giustizia europea, le organizzazioni internazionali create per supervisionare l’equità del commercio globale non sono mai state dotate di indipendenza e poteri equivalenti.

Pertanto, l’ordine commerciale mondiale globalizzato è sempre stato vulnerabile a una situazione in cui qualsiasi paese o gruppo di paesi poteva decidere che il rispetto delle regole non sarebbe servito ai propri interessi a breve termine.

Per fare solo un esempio, nei primi 15 anni di adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), la Cina non ha notificato all’OMC alcun sussidio del governo sub-centrale, nonostante la maggior parte dei sussidi sia erogata dai governi provinciali e locali. Questa inadempienza era nota da anni: già nel 2003 si era notato che gli sforzi della Cina per l’attuazione dell’OMC avevano “perso un notevole slancio”, ma l’indifferenza ha prevalso e non è stato fatto nulla di concreto per affrontarla.

Le conseguenze di questa scarsa conformità a regole condivise sono state economiche, sociali e politiche.

La globalizzazione ha portato a grandi squilibri commerciali, ed i responsabili politici hanno tardato a riconoscerne le conseguenze. Questi squilibri sono sorti in parte perché l’apertura del commercio avveniva tra Paesi con livelli di sviluppo molto diversi, il che ha limitato la capacità dei Paesi più poveri di assorbire le importazioni da quelli più ricchi e ha dato loro la giustificazione per proteggere le industrie domestiche nascenti dalla concorrenza estera.

Ma riflettono anche scelte politiche deliberate in ampie parti del mondo per accumulare avanzi commerciali e limitare l’aggiustamento del mercato. Dopo la crisi del 1997, le economie dell’Asia orientale hanno utilizzato le eccedenze commerciali per accumulare grandi riserve valutarie e autoassicurarsi contro gli shock della bilancia dei pagamenti, soprattutto impedendo l’apprezzamento dei tassi di cambio, mentre la Cina ha perseguito una strategia deliberata a lungo termine per liberarsi dalla dipendenza dall’Occidente per i beni capitali e la tecnologia.

Dopo la crisi dell’eurozona del 2011, anche l’Europa ha perseguito una politica di accumulo deliberato di avanzi delle partite correnti, anche se in questo caso attraverso le errate politiche fiscali procicliche sancite dalle nostre regole che hanno depresso la domanda interna e il costo del lavoro. In una situazione in cui i meccanismi di solidarietà dell’UE erano limitati, questa posizione poteva persino essere comprensibile per i paesi che dipendevano dai finanziamenti esterni. Ma anche quelli con posizioni esterne forti, come la Germania, hanno seguito questa tendenza. Queste politiche hanno fatto sì che le partite correnti dell’area dell’euro siano passate da un sostanziale equilibrio prima della crisi a un massimo di oltre il 3% del PIL nel 2017. A questo picco, si trattava in termini assoluti del più grande avanzo delle partite correnti al mondo. In percentuale del PIL mondiale, solo la Cina nel 2007-08 e il Giappone nel 1986 hanno registrato un avanzo più elevato.

L’accumulo di eccedenze ha portato a un aumento del risparmio globale in eccesso e a un calo dei tassi reali globali, un fenomeno rilevato da Ben Bernanke già nel 2005. A questo non è corrisposto un aumento della domanda di investimenti. Gli investimenti pubblici sono diminuiti di quasi due punti percentuali nei Paesi del G7 dagli anni ’90 al 2010, mentre gli investimenti del settore privato si sono bloccati una volta che le imprese hanno ridotto la leva finanziaria dopo la grande crisi finanziaria.

Il fermo immagine mostra Mario Draghi in un’intervista a Washington dopo aver ricevuto il premio Volcker alla carriera, 15 febbraio 2024. Ansa

Questo calo dei tassi reali ha contribuito in modo sostanziale alle sfide incontrate dalla politica monetaria negli anni 2010, quando i tassi di interesse nominali sono stati schiacciati sul limite inferiore. La politica monetaria è stata ancora in grado di generare occupazione attraverso misure non convenzionali e ha prodotto risultati migliori di quanto molti si aspettassero. Ma queste misure non sono state sufficienti per eliminare completamente il rallentamento del mercato del lavoro. Le conseguenze sociali si sono manifestate in una perdita secolare di potere contrattuale nelle economie avanzate, poiché i posti di lavoro sono stati spostati dalla delocalizzazione o le richieste salariali sono state contenute dalla minaccia della delocalizzazione. Nelle economie del G7, le esportazioni e le importazioni totali di beni sono aumentate di circa 9 punti percentuali dall’inizio degli anni ’80 alla grande crisi finanziaria, mentre la quota di reddito del lavoro è scesa di circa 6 punti percentuali in quel periodo. Si è trattato del calo più marcato da quando i dati relativi a queste economie sono iniziati nel 1950.

Ne sono seguite le conseguenze politiche. Di fronte a mercati del lavoro fiacchi, investimenti pubblici in calo, diminuzione della quota di manodopera e delocalizzazione dei posti di lavoro, ampi segmenti dell’opinione pubblica dei Paesi occidentali si sono giustamente sentiti “lasciati indietro” dalla globalizzazione.

Di conseguenza, contrariamente alle aspettative iniziali, la globalizzazione non solo non ha diffuso i valori liberali, perché la democrazia e la libertà non viaggiano necessariamente con i beni e i servizi, ma li ha anche indeboliti nei Paesi che ne erano i più forti sostenitori, alimentando invece l’ascesa di forze orientate verso l’interno. La percezione dell’opinione pubblica occidentale è diventata quella che i cittadini comuni stessero giocando in un gioco imperfetto, che aveva causato la perdita di milioni di posti di lavoro, mentre i governi e le imprese rimanevano indifferenti.

Al posto dei canoni tradizionali di efficienza e ottimizzazione dei costi, i cittadini volevano una distribuzione più equa dei benefici della globalizzazione e una maggiore attenzione alla sicurezza economica. Per ottenere questi risultati, ci si aspettava un uso più attivo dello “statecraft” (l’arte di governare), che si trattasse di politiche commerciali assertive, protezionismo o redistribuzione.

Una serie di eventi ha poi rafforzato questa tendenza. In primo luogo, la pandemia ha sottolineato i rischi di catene di approvvigionamento globali estese per beni essenziali come farmaci e semiconduttori. Questa consapevolezza ha portato al cambiamento di molte economie occidentali verso il re-shoring delle industrie strategiche e l’avvicinamento delle catene di fornitura critiche.La guerra di aggressione in Ucraina ci ha poi indotto a riesaminare non solo dove acquistiamo i beni, ma anche da chi. Ha messo in luce i pericoli di un’eccessiva dipendenza da partner commerciali grandi e inaffidabili che minacciano i nostri valori. Ora, ovunque vediamo che la sicurezza degli approvvigionamenti – di energia, terre rare e metalli – sta salendo nell’agenda politica. Questo cambiamento si riflette nell’emergere di blocchi di nazioni che sono in gran parte definiti dai loro valori comuni e sta già portando a cambiamenti significativi nei modelli di commercio e investimento globali. Dall’invasione dell’Ucraina, ad esempio, il commercio tra alleati geopolitici è cresciuto del 4-6% in più rispetto a quello con gli avversari geopolitici. Anche la quota di IDE che si svolge tra Paesi geopoliticamente allineati è in aumento.

E, nel frattempo, è aumentata l’urgenza di affrontare il cambiamento climatico. Raggiungere lo zero netto in tempi sempre più brevi richiede approcci politici radicali in cui il significato di commercio sostenibile viene ridefinito. L’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti e, in prospettiva, il Carbon Border Adjustment Mechanism dell’UE danno entrambi la priorità agli obiettivi di sicurezza climatica rispetto a quelli che in precedenza erano considerati effetti distorsivi sul commercio.

Questo periodo di profondi cambiamenti nell’ordine economico globale comporta sfide altrettanto profonde per la politica economica. In primo luogo, cambierà la natura degli shock a cui sono esposte le nostre economie. Negli ultimi trent’anni, le principali fonti di disturbo della crescita sono state gli shock della domanda, spesso sotto forma di cicli del credito. La globalizzazione ha causato un flusso continuo di shock positivi dell’offerta, in particolare aggiungendo ogni anno decine di milioni di lavoratori al settore commerciale delle economie emergenti. Ma questi cambiamenti sono stati per lo più fluidi e continui.

Ora, con l’avanzamento della Cina nella catena del valore, non sarà sostituita da un altro esportatore di rallentamento del mercato del lavoro globale. Al contrario, è probabile che si verifichino shock negativi dell’offerta più frequenti, più gravi e anche più consistenti, mentre le nostre economie si adattano a questo nuovo contesto.

È probabile che questi shock dell’offerta derivino non solo da nuovi attriti nell’economia globale, come conflitti geopolitici o disastri naturali, ma ancor più dalla nostra risposta politica per mitigare tali attriti. Per ristrutturare le catene di approvvigionamento e decarbonizzare le nostre economie, dobbiamo investire un’enorme quantità di denaro in un orizzonte temporale relativamente breve, con il rischio che il capitale venga distrutto più velocemente di quanto possa essere sostituito.

In molti casi, stiamo investendo non tanto per aumentare lo stock di capitale, quanto per sostituire il capitale che viene reso obsoleto da un mondo in continua evoluzione. Per illustrare questo punto, si pensi ai terminali di GNL costruiti in Europa negli ultimi due anni per alleviare l’eccessiva dipendenza dal gas russo. Non si tratta di investimenti destinati ad aumentare il flusso di energia nell’economia, ma piuttosto a mantenerlo.

Gli investimenti nella decarbonizzazione e nelle catene di approvvigionamento dovrebbero aumentare la produttività nel lungo periodo, soprattutto se comportano una maggiore adozione della tecnologia. Tuttavia, ciò implica una temporanea riduzione dell’offerta aggregata mentre le risorse vengono rimescolate all’interno dell’economia.Il secondo cambiamento chiave nel panorama macroeconomico è che la politica fiscale sarà chiamata a svolgere un ruolo maggiore, il che significa – mi aspetto – deficit pubblici persistentemente più elevati. Il ruolo della politica fiscale è classicamente suddiviso in allocazione, distribuzione e stabilizzazione, e su tutti e tre i fronti è probabile che le richieste di spesa pubblica aumentino.

La politica fiscale sarà chiamata a incrementare gli investimenti pubblici per soddisfare le nuove esigenze di investimento. I governi dovranno affrontare le disuguaglianze di ricchezza e di reddito. Inoltre, in un mondo di shock dell’offerta, la politica fiscale dovrà probabilmente svolgere anche un ruolo di stabilizzazione maggiore, un ruolo che in precedenza avevamo assegnato principalmente alla politica monetaria.

Abbiamo assegnato questo ruolo alla politica monetaria proprio perché ci trovavamo di fronte a shock della domanda che le banche centrali sono in grado di gestire. Ma un mondo di shock dell’offerta rende più difficile la stabilizzazione monetaria. I ritardi della politica monetaria sono in genere troppo lunghi per frenare l’inflazione indotta dall’offerta o per compensare la contrazione economica che ne deriva, il che significa che la politica monetaria può al massimo concentrarsi sulla limitazione degli effetti di secondo impatto.

Pertanto, la politica fiscale sarà naturalmente chiamata a svolgere un ruolo maggiore nella stabilizzazione dell’economia, in quanto le politiche fiscali possono attenuare gli effetti degli shock dell’offerta sul PIL con un ritardo di trasmissione più breve. Lo abbiamo già visto durante lo shock energetico in Europa, dove i sussidi hanno compensato le famiglie per circa un terzo della loro perdita di benessere – e in alcuni Paesi dell’UE, come l’Italia, hanno compensato fino al 90% della perdita di potere d’acquisto per le famiglie più povere.

Nel complesso, questi cambiamenti indicano una crescita potenziale più bassa man mano che si svolgono i processi di aggiustamento e una prospettiva di inflazione più volatile, con nuove pressioni al rialzo derivanti dalle transizioni economiche e dai persistenti deficit fiscali. Inoltre, abbiamo un terzo cambiamento: se stiamo entrando in un’epoca di maggiore rivalità geopolitica e di relazioni economiche internazionali più transazionali, i modelli di business basati su ampi avanzi commerciali potrebbero non essere più politicamente sostenibili. I Paesi che vogliono continuare a esportare beni potrebbero dover essere più disposti a importare altri beni o servizi per guadagnarsi questo diritto, pena l’aumento delle misure di ritorsione.

Questo cambiamento nelle relazioni internazionali inciderà sull’offerta globale di risparmio, che dovrà essere riallocato verso gli investimenti interni o ridotto da un calo del PIL. In entrambi gli scenari, la pressione al ribasso sui tassi reali globali che ha caratterizzato gran parte dell’era della globalizzazione dovrebbe invertirsi.

Questi cambiamenti comportano conseguenze ancora molto incerte per le nostre economie. Un’area di probabile cambiamento sarà la nostra architettura di politica macroeconomica.

Per stabilizzare il potenziale di crescita e ridurre la volatilità dell’inflazione, avremo bisogno di un cambiamento nella strategia politica generale, che si concentri sia sul completamento delle transizioni in corso dal lato dell’offerta, sia sullo stimolo alla crescita della produttività, dove l’adozione estesa dell’IA (intelligenza artificiale) potrebbe essere d’aiuto.

Ma per fare tutto questo in fretta sarà necessario un mix di politiche appropriato: un costo del capitale sufficientemente basso per stimolare la spesa per gli investimenti, una regolamentazione finanziaria che sostenga la riallocazione del capitale e l’innovazione, e una politica della concorrenza che faciliti gli aiuti di Stato quando sono giustificati.

Una delle implicazioni di questa strategia è che la politica fiscale diventerà probabilmente più interconnessa alla politica monetaria. A breve termine, se la politica fiscale avrà uno spazio sufficiente per raggiungere i suoi vari obiettivi dipenderà dalle funzioni di reazione delle banche centrali. In prospettiva, se la crescita potenziale rimarrà bassa e il debito pubblico ai massimi storici, la dinamica del debito sarà meccanicamente influenzata dal livello più elevato dei tassi reali.

Ciò significa che probabilmente aumenterà la richiesta di coordinamento delle politiche economiche, cosa non implicita nell’attuale architettura di politica macroeconomica. In effetti, questa architettura ha volutamente assegnato diverse importanti funzioni politiche ad agenzie indipendenti, che operano a distanza dai governi, in modo da essere isolate dalle pressioni politiche – e questo ha senza dubbio contribuito alla stabilità macroeconomica a lungo termine. Tuttavia, è importante ricordare che indipendenza non significa necessariamente separazione e che le diverse autorità possono unire le forze per aumentare lo spazio politico senza compromettere i propri mandati. Lo abbiamo visto durante la pandemia, quando le autorità monetarie, fiscali e di vigilanza bancaria hanno unito le forze per limitare i danni economici dei blocchi e prevenire un crollo deflazionistico. Questo mix di politiche ha permesso a entrambe le autorità di raggiungere i propri obiettivi in modo più efficace.

Allo stesso modo, nelle condizioni attuali una strategia politica coerente dovrebbe avere almeno due elementi.

In primo luogo, deve esserci un percorso fiscale chiaro e credibile che si concentri sugli investimenti e che, nel nostro caso, preservi i valori sociali europei. Ciò darebbe maggiore fiducia alle banche centrali che la spesa pubblica corrente, aumentando la capacità di offerta, porterà a una minore inflazione domani.

In Europa, dove le politiche fiscali sono decentralizzate, possiamo anche fare un passo avanti finanziando più investimenti collettivamente a livello dell’Unione. L’emissione di debito comune per finanziare gli investimenti amplierebbe lo spazio fiscale collettivo a nostra disposizione, alleggerendo alcune pressioni sui bilanci nazionali. Allo stesso tempo, dato che la spesa dell’UE è più programmatica – spesso si estende su un orizzonte di più anni – la realizzazione di investimenti a questo livello garantirebbe un impegno più forte affinché la politica fiscale sia in ultima analisi non inflazionistica, cosa che le banche centrali potrebbero riflettere nelle loro prospettive di inflazione a medio termine.In secondo luogo, se le autorità fiscali dovessero definire percorsi di bilancio credibili in questo modo, le banche centrali dovrebbero assicurarsi che l’obiettivo principale delle loro decisioni siano le aspettative di inflazione. Nei prossimi anni la politica monetaria si troverà ad affrontare un contesto difficile, in cui dovrà più che mai distinguere tra inflazione temporanea e permanente, tra spinte alla crescita salariale e spirali che si autoavverano, e tra le conseguenze inflazionistiche di una spesa pubblica buona o cattiva.

In questo contesto, una misurazione accurata e un’attenzione meticolosa alle aspettative di inflazione sono il modo migliore per garantire che le banche centrali possano contribuire a una strategia politica globale senza compromettere la stabilità dei prezzi o la propria indipendenza. Questo obiettivo permette di distinguere con precisione gli shock temporanei al rialzo dei prezzi, come gli spostamenti dei prezzi relativi tra settori o l’aumento dei prezzi delle materie prime legato a maggiori investimenti, dai rischi di inflazione persistente. Abbiamo bisogno di spazio politico per investire nelle transizioni e aumentare la crescita della produttività. Le politiche economiche devono essere coerenti con una strategia e un insieme di obiettivi comuni. Ma trovare la strada per questo allineamento politico non sarà facile. Le transizioni che le nostre società stanno intraprendendo, siano esse dettate dalla nostra scelta di proteggere il clima o dalle minacce di autocrati nostalgici, o dalla nostra indifferenza alle conseguenze sociali della globalizzazione, sono profonde. E le differenze tra i possibili risultati non sono mai state così marcate.

Ma i cittadini conoscono bene il valore della nostra democrazia e ciò che ci ha dato negli ultimi ottant’anni. Vogliono preservarla. Vogliono essere inclusi e valorizzati al suo interno. Spetta ai leader e ai politici ascoltare, capire e agire insieme per progettare il nostro futuro comune.

Dall’educazione gesuita alle più alte magistrature, la traiettoria di Mario Draghi è quella di un uomo che ha capito come funzionano le regole dell’Europa del XXI secolo per giocare le carte a proprio vantaggio. In questo ritratto straordinariamente vivace, Ben Judah ripercorre la serie di scommesse che hanno portato Mario Draghi alla presidenza del Consiglio italiano.

Se c’è una frase in Europa nell’ultimo decennio su cui la storia ha girato, è questa. Dopo un confuso preambolo che paragona l’euro a un calabrone che vola quando non dovrebbe, Draghi smette di leggere il suo copione e, per 16 secondi, guarda la telecamera. “Nell’ambito del nostro mandato, nell’ambito del nostro mandato… la BCE è pronta a fare tutto il necessario per preservare l’euro”. Fa una pausa e aggiunge, per sicurezza: “Credetemi, sarà sufficiente”. Nel giro di pochi secondi, la notizia è passata su tutte le stazioni radio del mondo; i miliardi speculati contro l’euro sono stati girati nella direzione opposta.

Mario Draghi è ora il primo ministro italiano. L’uomo che ha “salvato l’euro” è uscito dalla pensione per “salvare l’Italia” dalla pandemia. C’è un’Europa dello spirito: quella di Beethoven, delle vacanze estive e dell’odore del caffè. E poi c’è l’Europa di oggi, quella di Mario Draghi. Una creatura dell’Unione Europea, capite lui e capirete come fare amicizia a Bruxelles, come vincere le battaglie più importanti e come essere, tra 27 Paesi, veramente europei. Ma soprattutto, capite Draghi e capirete come funziona il potere nell’Unione. Ha costruito un’Europa tecnocratica ed è salito ai suoi vertici.

Draghi è nato a Roma. Non la città dei vecchi di oggi, ma la Roma di Fellini, degli attentati delle Brigate Rosse e del miracolo economico italiano: un mercato emergente in Europa, infuocato dalle agitazioni sindacali, dalla rivolta comunista e dalla gioia dei giovani. Ma mentre la sua generazione era selvaggia, flirtava con l’estremismo e sognava nuovi mondi nei campus, Draghi era docile e carico di responsabilità. Un outsider nel maggio 68.

C’è un’Europa dello spirito: quella di Beethoven, delle vacanze estive e dell’odore del caffè. E poi c’è l’Europa di oggi, quella di Mario Draghi.

BEN JUDAH

Avevo i capelli abbastanza lunghi”, confessa a Die Zeit, “ma non molto lunghi. E, a parte questo, non avevo genitori a cui potessi ribellarmi”. Suo padre, l’anziano e ben inserito banchiere Carlo Draghi, nato nel 1895, morì quando lui aveva 15 anni. La madre cominciò a declinare rapidamente poco dopo. A 16 anni, al ritorno dalle vacanze, trovò ad attenderlo una pila di conti non pagati. Draghi rimase orfano a 19 anni.

Gli amici ricordano che il suo aspetto composto nascondeva un’ansia genuina. Maurizio Franzini, un economista, una volta condivise il suo ufficio: “Diceva sempre: “Non sembro ansioso. Ma sono molto ansioso”. Al momento di entrare all’università, ossessionato dalle discussioni con il padre e da uno dei suoi primi ricordi, un viaggio in treno con il governatore della Banca d’Italia, Draghi scelse economia alla Sapienza di Roma. Ma è stata la sua formazione secondaria, non l’università, che, secondo chi lo conosce meglio, lo ha reso quello che è.

“È stato ben formato dai gesuiti”, dice Vincenzo Visco, che ha lavorato a stretto contatto con lui come Ministro delle Finanze e poi del Tesoro. “Gli hanno insegnato a essere prudente, riservato e ad ascoltare. È un cattolico sociale. Parlare gesuita significa molte cose per gli italiani. È un segno di classe che lo lega inesorabilmente a Massimiliano Massimo, l’equivalente romano di Eton per i gesuiti, dove Draghi ha studiato con i figli di ministri e magnati. È il segno di un’educazione severa e rigorosa, impartita da sacerdoti eruditi; ed è un privilegio. Per gli europei è spesso un modo per attirare l’attenzione sul suo modo di fare: pedagogico, preciso, ombroso e, se necessario, spietato.

Herman Van Rompuy, ex presidente del Consiglio europeo e autore di haiku, lo trovava divertente. In più di un’occasione, durante le notti peggiori della crisi dell’euro, osservando un tavolo composto da Mario Monti e Mariano Rajoy, allora primi ministri di Italia e Spagna, seduti accanto a Draghi, l’ex primo ministro belga ha scherzato: “Siamo bravi studenti gesuiti, stiamo cercando di trovare un compromesso”.

Ma come tutte le buone battute, implicava qualcosa di serio: che questi uomini di una confraternita segreta fondata per salvare la Chiesa fossero ora al servizio dell’Europa. “Forse non sai”, dice Mario Tiberi, un vecchio collega accademico, “che i gesuiti hanno un mantra del loro fondatore Sant’Ignazio di Loyola sul servire la visione di Dio: todo modo.

Mentre un’ondata di omicidi politici seguiva il 1968, Draghi imparò la prima lezione della vita politica. Bisogna sempre trovare il mentore giusto. Il suo nome era Federico Caffè. In mezzo al clamore, viveva, come dicevano i suoi studenti, “come un monaco”. Caffè è influente: il principale economista keynesiano italiano. Convinto che Draghi fosse brillante, lo presentò a Franco Modigliani, economista italiano del MIT, che lo accettò come studente. Ma doveva ancora finire la sua tesi. “Era sulla moneta unica e conclusi che la moneta unica era una follia, qualcosa da non fare in nessun caso”, racconta Draghi in occasione di un evento in onore del suo mentore.

Mentre un’ondata di omicidi politici seguiva il 1968, Draghi imparò la prima lezione della vita politica. Bisogna sempre trovare il mentore giusto. Il suo nome era Federico Caffè.

BEN JUDAH

Al MIT Draghi è stato allievo di coloro che avrebbero plasmato il discorso economico dell’epoca. Egli sottolinea con orgoglio che cinque dei suoi professori hanno vinto il Premio Nobel: Paul Samuelson, Bob Solow, Franco Modigliani, Peter Diamond e Robert Engle. I suoi colleghi – Ben Bernanke, Paul Krugman, Kenneth Rogoff e Olivier Blanchard – sono diventati rispettivamente i sommi sacerdoti della Federal Reserve, del New York Times, dell’austerità e del FMI. Mentre inizia a delinearsi il nuovo mondo dei tassi di cambio fluttuanti, della libera circolazione dei capitali e dei banchieri centrali dotati di poteri, si è formato un circolo di economisti. Insieme, stanno dando forma all’era neoliberista.

Draghi non cerca dogmi. A differenza dei suoi mentori, l’economia di Draghi non si è mai chiusa in una teoria, ma ha continuato a muoversi in avanti, sempre un punto a sinistra rispetto al centro. Per lui questo è pragmatismo. A quarant’anni, ha deluso il suo mentore di sinistra. Draghi è ora direttore della Banca Mondiale. Nell’aprile del 1987, sopraffatto dal dolore di vedere il neoliberismo trionfare sull’economia di sinistra, i suoi discepoli morti o scomparsi, Caffè, il grande keynesiano, scompare. Non lo vedremo mai più. Alcuni dicono che si sia suicidato, altri che si sia ritirato in un monastero sulle Alpi, per nascondersi dal mondo che vedeva arrivare.

Nel febbraio 1992, Draghi era nella stanza di Maastricht quando è nato l’euro: era uno dei principali consiglieri del primo ministro italiano Giulio Andreotti quando firmò il trattato. Da tempo si era lasciato alle spalle il Caffè, la sinistra e la sua tesi di laurea. L’atmosfera era ottimista: la popolarità e il successo della nuova moneta unica dell’Unione avrebbero travolto tutti. Tanto che alla conferenza stampa Helmut Kohl scommise sei bottiglie di vino tedesco che la Gran Bretagna avrebbe aderito al progetto nel 1997. “Il governo fa sempre quello che vuole la City”, si vanta. “La City farà in modo che la Gran Bretagna entri nell’Unione monetaria.

Gli inglesi se ne andarono con un opt-out; gli italiani con condizioni così dure che i tedeschi si stupirono di averle accettate. Il secondo mentore di Draghi, Modigliani, è stufo. La decisione di firmare è stata di Draghi: era uno dei due italiani con l’autorità ultima di valutare le condizioni. Aveva consigliato al Presidente del Consiglio di procedere con quella che nella sua tesi ha definito una “follia”: l’unione monetaria senza unione politica ed economica. Perché? La risposta: la sua teoria neoliberista della politica italiana.

Mezzogiorno a Roma. Negli anni ’90, una città di politica, vicoli e corridoi. Le campane del Senato suonano a festa. Gli affari si aggiornano a Palazzo Montecitorio. Le tute si sparpagliano. I giornalisti urlano domande. Questo torrente di attività sembra riversarsi e invadere le strade intorno a Piazza Navona. Le trattative proseguono sotto gli ombrelloni della gelateria Giolitti. I funzionari incontrano i ministri all’Hotel Forum. Questo è l’habitat naturale di Draghi. Capo del Tesoro dal 1991, è qui che il quarantenne funzionario ha fatto tutto il necessario per portare il suo Paese nella moneta unica: regolare le banche italiane, gestire il debito e privatizzare oltre 100 miliardi di euro. Draghi è più che indispensabile. Sta costruendo il neoliberismo italiano.

Non c’è scuola migliore di Roma per la politica dell’euro: è già un gioco di politici deboli e tecnocrati potenti. Un quadro astratto italiano è appeso sopra la sua scrivania nel Palazzo delle Finanze. Fuori, la “Prima Repubblica” si sta sgretolando. Smascherata come un’accozzaglia clientelare di connessioni mafiose e tangenti, i quattro partiti del governo estromesso nel 1992 stavano per scomparire.

A tenere in vita il Paese è la burocrazia più forte d’Italia: gli ingegneri finanziari della pubblica amministrazione guidati dal primo Presidente del Consiglio tecnocratico del Paese, Carlo Azeglio Ciampi. Draghi è nel suo elemento. Il capitalismo, secondo lui, ha delle regole. Finché i politici si tolgono di mezzo e i tecnocrati creano la struttura giusta, la crescita sarà stabile. Questa è la filosofia del MIT. In un altro continente, i suoi ex studenti continuano a crescere. Come economisti, credono nell’intervento: per aiutare il mercato a funzionare.

Draghi è più che indispensabile. Sta costruendo il neoliberismo italiano.

BEN JUDAH

Ecco perché l’euro è un imperativo. Il capitalismo può fornire le regole – e la struttura – che mancano all’Italia. I politici sono ora limitati nella politica macroeconomica. Con l’adesione alla moneta unica, le leve fondamentali della macroeconomia – le principali politiche fiscali e monetarie – vengono sottratte alle mani della politica interna. Questa strategia è nota come vincolo esterno.

L’Italia sta andando così bene. La sua economia è più grande di quella della Gran Bretagna; il suo tenore di vita si avvicina a quello della Germania. I primi anni ’90 sono stati il momento migliore dell’Italia: il vino toscano ha superato quello francese negli Stati Uniti. Gucci e Prada conquistano il mondo. I magnati non erano disposti a rischiare. Vogliono aiuto. Nel 1992, il giovane Draghi attirò l’attenzione di uno degli uomini più ricchi d’Italia, Carlo De Benedetti, all’epoca proprietario de La RepubblicaL’Espresso e una serie di quotidiani regionali. I due si incontravano spesso e discutevano dell’euro. “Se l’Italia non fosse stata nell’eurozona, sarebbe stata come l’Egitto o il Nord Africa”, ricorda De Benedetti. Questo è ciò che le élite temevano negli anni Novanta: senza il vincolo, un ritorno agli anni Settanta.

Ma De Benedetti capisce subito che Draghi è una sfinge. Segreta. Intelligente. Non dà mai indizi. Ma cosa vuole da lui? “Una volta gli ho chiesto a bruciapelo: io traggo beneficio dalle nostre conversazioni. Ma tu cosa ne ricavi?”. Draghi sorrise: “Mi rispose che gli piaceva parlare con qualcuno nella vita reale”. De Benedetti aveva ragione a chiederlo. Perché Roma aveva già insegnato a Draghi alcune lezioni importanti. Non far sapere mai a nessuno quello che pensi, a meno che non sia necessario. E sempre, sempre, sempre farsi gli amici giusti: tra i media e i magnati. Un giorno avrete bisogno del loro favore.

Il tocco politico di Draghi non passa inosservato. In Parlamento viene spesso chiamato “Mr Britannia”, a causa dei suoi interminabili incontri con i banchieri londinesi. Salvatore Biasco, allora deputato di sinistra, osservò dalla sua commissione che Draghi giungeva lentamente a quella che sarebbe stata la sua più grande consapevolezza: che è da tecnocrate che si può esercitare il massimo potere. “Si comportava come un ministro del Tesoro, non come un funzionario pubblico”, ricorda Biasco. “Era una sorta di ministro del Tesoro ombra. È stato lì, come politico non eletto, che ha affinato la Draghipolitik tecnocratica che avrebbe plasmato l’Europa”.

Tutte le storie di denaro europeo finiscono a Londra. Nel 2002, Draghi divenne vicepresidente di Goldman Sachs International. Amici, seminari, magnati: tutto aveva dato i suoi frutti. Proprio come la sua strategia, a quanto pare. Certo, è stato un populista, Silvio Berlusconi, a diventare nuovamente Presidente del Consiglio nel 2001. E allora? È intrappolato dal vincolo: le sue mani sono lontane dalle vere leve del potere. I tecnici finanziari di Roma sono rilassati. L’Italia non è stata scialacquatrice: ha accumulato un grande debito nazionale negli anni ’80 a causa degli alti interessi applicati, in gran parte per abbassare l’inflazione e tenere il passo con il sistema monetario europeo che ha preceduto l’euro. Il boom in arrivo è destinato ad erodere questo debito.

La generazione di Draghi pensava di avere ragione. Fino al 2008. La crisi finanziaria ha rivelato che questi ingegneri avevano commesso un terribile errore. Avevano rotto un sistema che avrebbero passato il resto della loro carriera a cercare di aggiustare.

La generazione di Draghi pensava di avere ragione. Fino al 2008. La crisi finanziaria ha rivelato che questi ingegneri avevano commesso un terribile errore. Avevano rotto un sistema che avrebbero passato il resto della loro carriera a cercare di aggiustare.

BEN JUDAH

In questo modo, i banchieri centrali, che erano i tecnocrati responsabili della definizione delle regole del capitalismo, diventano i gestori politici della crisi e, così facendo, riorganizzano per sempre il potere nell’Unione.

Draghi avrà la possibilità di unirsi a questi nuovi superuomini. Prima uno scandalo di corruzione ha reso vacante il posto di governatore della Banca d’Italia. Poi, rifiutandosi di appoggiare la politica monetaria non ortodossa della BCE per combattere la crisi, il capo della Bundesbank, da tempo indicato come successore del francese Jean-Claude Trichet, ha ritirato la sua candidatura. Con Berlino fuori dai giochi, il posto di capo della BCE è stato aperto al banchiere centrale di un altro grande Stato.

La gestione dei media ha permesso a Draghi di ottenerlo nel giugno 2011. I media tedeschi detestano l’idea di un italiano all’Eurotower. Angela Merkel esita. De Benedetti riceve una telefonata: il conto della colazione è finalmente arrivato. Secondo De Benedetti, il solitamente soave Mario era isterico. “Era impazzito”, ricorda De Benedetti. La Bild pubblicò un articolo in prima pagina sull’Italia. Mamma mia, per gli italiani l’inflazione è uno stile di vita, come la salsa di pomodoro con gli spaghetti”, si legge nel titolo, “Mi chiamò e mi disse: ‘Cosa puoi fare per me'”, ricorda De Benedetti, “Temeva che avrebbe danneggiato la sua immagine”. Fu organizzato un incontro con il proprietario del tabloid. Ne seguì un ritratto luminoso, con una foto in prima pagina di Draghi che accettava un elmo prussiano con punte dalla Bild. “Mario è sempre stato molto riconoscente”, dice De Benedetti. Coltivare la sua immagine tecnocratica è stato al centro della Draghipoltik fin dall’inizio.

Anche Draghi ha adottato un approccio politico alla sua posizione di direttore. Anche in questo caso, è fortunato. Jean-Claude Trichet ha concluso il suo mandato così male che qualsiasi successore avrebbe fatto una bella figura al confronto. Secondo lo storico Adam Tooze, “lasciando l’incarico, Trichet, sostenendo solo governi di austerità sul mercato, ha aiutato Berlino a costruire l’austerità nel circuito stampato dell’Unione”. Cattiva economia: è questo che porta alla depressione dei consumatori, che prolunga la recessione. Ma Draghi è andato oltre. Nell’agosto 2011 ha firmato una lettera segreta al governo italiano: una nota di austerità che sollecitava tagli e riforme del lavoro. Roma era terrorizzata, Berlino era entusiasta. Facendo notare che Francoforte era disposta a mettere la sua liquidità solo al servizio di un certo tipo di politica, aprì la porta all’estromissione di Berlusconi. Al suo posto è subentrato un governo tecnocratico, che il leader estromesso ha definito un “colpo di Stato” da parte dell’Unione.

L’entourage di Draghi continua a plasmare il capitalismo: Ben Bernanke è a capo della Fed e Stanley Fischer è a capo della Banca d’Israele. A Francoforte, Draghi tratta l’Eurotower come il Tesoro di Roma, vantandosi: “In ogni conferenza stampa da quando sono diventato presidente della BCE, ho concluso la dichiarazione introduttiva con un appello ad accelerare le riforme strutturali in Europa”. I banchieri centrali hanno superato il limite: non sono più tecnocrati, ma politici.

Entrare alla BCE di Francoforte è come indossare un paio di cuffie a cancellazione di rumore. Tra il vetro blu e gli ascensori, tutto è improvvisamente silenzioso. Ma il suo freddo gelido è stato teatro di alcune delle riunioni più importanti d’Europa. Poco dopo essere diventato banchiere centrale, Maurizio Franzini, un vecchio amico, chiese a Draghi come facesse a sopportare l’ansia di un lavoro così importante: “Rispose che faceva ancora docce fredde tutte le mattine, una tecnica che aveva imparato negli Stati Uniti per tenersi in forma”.

A Francoforte, Draghi padroneggia le tre modalità del potere europeo: quella carismatica – la politica della persuasione – con cui rivendica il potere per la sua istituzione; quella tecnica – la politica delle regole – con cui è l’esecutore delle politiche dell’Unione in Grecia; e quella analitica – la politica dei numeri – con cui vince la battaglia per guidare i flussi di capitale con il quantitative easing (QE). Presi insieme, questi elementi formano la Draghipolitik, con la quale egli muove il quadrante tedesco. La sfida sta nel disegno stesso di ciò che la Germania ha accettato.

François Mitterrand aveva fatto dell’euro il prezzo dell’unificazione. Aveva obbligato Kohl a rispettare vaghi impegni a favore di una moneta unica, sui quali egli temporeggiava, minacciando il vicecancelliere Hans-Dietrich Genscher che, in caso di mancato impegno, la Germania si sarebbe trovata di fronte a una “triplice alleanza” tra Gran Bretagna, Francia e URSS che l’avrebbe isolata. In termini retorici, le sue esternazioni furono estreme. “Torneremo al mondo del 1913”, minacciò Bonn.

La Francia voleva l’euro per limitare il potere tedesco. Mitterrand disse che il marco tedesco era “l’arma nucleare” della Germania. Temeva che se non avesse avuto voce in capitolo sui tassi di interesse tedeschi, Parigi sarebbe stata costretta a seguirli per sempre. Si sbagliava. L’arma nucleare non era la moneta, ma il credito tedesco. Accettando una moneta unica senza eurobond, un bene sicuro a cui tutti potevano attingere per finanziarsi in caso di problemi, le obbligazioni tedesche erano diventate il bene sicuro dell’eurozona. Berlino aveva ora un veto di fatto sulla politica del debito.

L’errore di Mitterrand rafforzò il potere tedesco. Le esportazioni tedesche esplosero, mentre quelle italiane divennero meno competitive e quelle francesi ristagnarono. L’euro aveva reso i prodotti tedeschi più economici di quelli in marchi tedeschi e quelli italiani più costosi di quelli in lire. Berlino ha potuto contrarre nuovi debiti senza troppi rischi. Altri Paesi non sono stati così fortunati. Dopo il 2008, i governi più deboli avevano bisogno che l’UE acquistasse i loro titoli, li salvasse e collettivizzasse il loro debito. Ma Kohl aveva accettato l’euro a condizione che non ci fosse un debito collettivo e che la BCE non finanziasse direttamente i governi. Berlino ha dovuto essere convinta. La politica dell’euro è diventata un gioco in cui tutti ballano intorno ad Angela Merkel per cercare di convincerla ad aprire i rubinetti. In questo gioco, Draghi è il re.

Kohl aveva accettato l’euro a condizione che non ci fosse un debito collettivo, che la BCE non finanziasse direttamente i governi. Berlino doveva essere convinta. La politica dell’euro sta diventando un gioco in cui tutti ballano intorno ad Angela Merkel per cercare di convincerla ad aprire i rubinetti. In questo gioco, Draghi è il re.

BEN JUDAH

Il problema dell’Unione europea non è che è un superstato, ma che non è uno Stato. Era sorta una crisi e la soluzione era chiara. Ma non c’era un’autorità centrale che la attuasse. I politici, da Podemos a Syriza, erano stati eletti per costruire una zona euro più equa. Ma le loro mani erano lontane dalle vere leve del potere.

È qui che entra in gioco la Draghipolitik: l’arte tecnocratica di muovere Berlino. Draghi ha ricevuto un invito permanente a far parte del Consiglio europeo da parte del suo presidente, Van Rompuy: un livello di accesso agli intermediari del potere molto più alto di quello del presidente della Fed o del governatore della Banca d’Inghilterra. È qui che inizia a trasformare la BCE in una vera banca centrale e lui stesso in un attore. Innanzitutto, Draghi usa il suo potere carismatico per convincere la Merkel e i mercati a muoversi. Secondo Nicolas Véron, uno dei principali ricercatori sulla crisi dell’euro, Draghi ha svolto un ruolo storico come “pedagogo in capo” che ha convinto la Cancelliera ad accettare l’unione bancaria nel 2012. È qui che Draghi ha eccelso”, afferma Van Rompuy. Aveva un grande potere di persuasione: parlava chiaro, andava dritto al punto e aveva un’autorità naturale”. Ha spiegato alla Merkel: è nell’interesse della Germania e questo è il minimo che dovete fare”. Questi sono i punti di forza e i limiti della Draghipolitk. È la politica che, ancora oggi, secondo i presenti nella stanza di allora, lo mette estremamente a disagio: stabilisce i termini vaghi dell'”indipendenza” della banca.

L’Unione bancaria era abbastanza credibile per dire che Berlino era dietro l’eurozona. Poi l’ha moltiplicata. Guardare Draghi dire “whatever it takes” è stato come Hegel che guarda Napoleone a Jena. “È davvero una sensazione meravigliosa”, scrisse Hegel, “vedere un tale individuo che, concentrato in un solo punto, a cavallo di un cavallo, si estende sul mondo e lo domina”.

Ma chi era il cavaliere? Era Draghi? La Merkel? O i mercati? Secondo il filosofo politico Luuk van Middelaar, all’epoca consigliere di Van Rompuy, quei sedici secondi contenevano tutto. “Se si ascolta attentamente, prima c’è il tecnocrate. Dice: ‘entro il nostro mandato’. Poi c’è il politico, ‘qualsiasi cosa sia necessaria’. E solo dopo c’è l’autorità carismatica: ‘E credetemi, sarà sufficiente’. Ed è questo che lo rende il cavaliere. Il giorno dopo, Hollande e Merkel hanno confermato. Aveva spianato la strada alla BCE per sostenere i mercati del debito sovrano. La sua autorità carismatica aveva convinto i trader che dietro l’euro c’era un potere: usare il minimo indispensabile.

In qualità di ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis si è trovato di fronte a un’altra delle qualità politiche di Draghi: la spietatezza. Visto da Francoforte, si profilava all’orizzonte un default greco seguito da un collasso del sistema bancario europeo, a meno che la Grecia non fosse riuscita a riportare la situazione sotto controllo. Quando Atene ha cercato di scaricare maggiormente l’onere sui creditori mettendo ai voti il piano di salvataggio nel 2015, Draghi ha segnalato che avrebbe posto fine agli aiuti di emergenza alle sue banche. “L’azione libera contro di noi era guidata da Mario Draghi”, ricorda Varoufakis nelle sue memorie. È stata la politica europea delle regole nella sua forma più brutale. Tuttavia, punendo gli Stati più scialacquatori dell’Unione con piani di austerità, Varoufakis si è guadagnato la fiducia di Berlino per portare avanti la Draghipolitik.

Infine, ma non meno importante, Draghi padroneggia il potere analitico, cioè la politica dei numeri. Su un powerpoint, durante una riunione del Consiglio direttivo, Giuseppe Ragusa, ex economista senior della BCE, lo ha visto sconfiggere la frugale Bundesbank per lanciare il quantitative easing nel 2014. “Il modo in cui è riuscito a convincere le persone a fare quello che ha fatto”, dice Ragusa, “è stato spostare il dibattito politico sui numeri reali”.

Questi incontri cambieranno ancora una volta il capitalismo europeo. I mercati veramente liberi che si sono aperti negli anni ’70 con l’abolizione dei controlli sui capitali si sono chiusi. Il capitalismo gestito sta arrivando in Europa con la BCE che incoraggia i mercati a comprare attività più rischiose acquistando oltre 2.800 miliardi di dollari di attività sicure fino al 2018. Questo è l’ultimo atto di intervento senza redistribuzione. Draghi era convinto che l’euro non sarebbe sopravvissuto alla deflazione e a una terza recessione senza questo intervento. Ma i suoi errori stanno aggravando lo stesso problema che stava cercando di risolvere con l’austerità, prolungando il dolore nel sud.

Un sussurratore, un esecutore, un calcolatore. Non sono queste le qualità che ci aspettiamo da un grande uomo. Ma questo significa fraintendere il funzionamento dell’Unione. La sua macchina è stata costruita per depoliticizzare la politica, e chi riesce meglio prospera; un burocrate senza pretese diventa Napoleone. Grazie alla Merkel, ai media e ai dati, la Draghipolitik ha avuto la meglio su Jens Weidmann, capo della Bundesbank. “Draghi considerava Weidmann un suo nemico personale”, ha detto De Benedetti. Si tratta per lo più di una faccenda in sordina. Ma una volta, durante una cena, racconta Salvatore Bragantini, un’amica, la moglie Maria Serenella Cappello, si è lasciata sfuggire la cosa: “Quindi lei è nemico di mio marito”, ha detto, cogliendolo di sorpresa”.

Mentre la crisi aveva reso lo Stato più dipendente dalla finanza, la finanza sta diventando più dipendente dallo Stato. E uomini come Draghi hanno svolto un ruolo centrale in questo senso. Queste vittorie rivelano un’enorme abilità. Hanno reso la BCE un’istituzione ancora più potente della Banca d’Inghilterra. Ma sottolineano anche quanto la sua generazione si sia sbagliata. Avevano scommesso su una casa semi-costruita per l’Europa come chiave per la stabilità. Ma l’unione monetaria senza unione fiscale ha portato instabilità. Avevano scommesso su regole neoliberali per il capitalismo e su un ritorno al passato: è esploso. Hanno scommesso sull’austerità: hanno affrontato una depressione. Questi errori li hanno resi – i banchieri centrali d’élite del mondo che dovevano poi sistemare tutto – più potenti della maggior parte dei politici.

Durante il suo breve ritiro, dopo il 2019, Draghi trascorre molto tempo al telefono. Chiama i presidenti, passati e presenti: Bill Clinton, Emmanuel Macron. O gli altri superman che hanno diretto le banche centrali durante la crisi: Ben Bernanke, ex della Fed; Mark Carney, ex capo della Banca d’Inghilterra, o Stanley Fischer, che ha diretto la Banca d’Israele. “È l’unico uomo in Italia che può chiamare chiunque nel mondo”, dice De Benedetti. Ha costruito la sua carriera sulle sue reti. Così come la sua fortuna: una casa a Roma, una in Umbria, una sulla costa laziale e una nuova villa in Veneto.

Nel corso della sua vita, le scommesse personali e politiche di Draghi hanno pagato. Ma allo stesso tempo, la sua grande scommessa, quella fatta con l’Italia – il vincolo esterno – è fallita. L’aspetto geopolitico è fallito: non ha aiutato a gestire il potere tedesco. La parte economica è fallita: l’Italia ha mantenuto uno dei regimi di bilancio più severi d’Europa, registrando un avanzo primario quasi ogni anno dal 1995. Eppure l’Italia è diventata più povera. Nel 2000, il suo tenore di vita medio era pari al 98,6% di quello tedesco. Oggi, il reddito pro capite italiano è inferiore del 20% rispetto a quello d’oltralpe. Queste sono le conseguenze a lungo termine dell’austerità, delle riforme in scatola e di un euro che rende le esportazioni non competitive. Il debito accumulato dall’Italia negli anni ’80 è diventato il suo albatros. La crescita di Draghi non è mai arrivata.

Nel corso della sua vita, le scommesse personali e politiche di Draghi hanno pagato. Ma allo stesso tempo, la sua grande scommessa con l’Italia – il vincolo esterno – è fallita.

BEN JUDAH

E proprio nel suo successo, la politica ha fallito. I politici populisti e le coalizioni che flirtavano con l’uscita non potevano sfuggire all’ordine stabilito da Draghi. Ma l’Italia è rimasta intrappolata in un circolo vizioso di populisti sempre più deboli, punteggiato da deboli tecnocrati. Entrambi hanno fallito alle loro condizioni. Senza i mezzi per realizzare una macroeconomia favorevole alla crescita, i politici di Roma sono interessati alla politica dell’identità, non alle riforme. La crescita è soffocata. Il governo è debole. Dopo tutto, l’Italia aveva bisogno di leader forti.

L’Italia è passata da essere un Paese di Brigate Rosse a un Paese di vecchi. L’industria italiana, il calcio italiano e il cinema italiano sono in declino. Una delle generazioni più ambiziose d’Italia è emigrata di nuovo. Nel 2010, il programma televisivo di culto Boris ha catturato questa sensazione acida. “Questo è il futuro dell’Italia”, diceva uno sceneggiatore in una battuta diventata emblematica. “Un Paese di canzoni felici, mentre fuori c’è solo la morte”.

All’inizio della pandemia, la stessa storia si è ripetuta. Ma questa volta Macron ha convinto la Merkel a muoversi sulle sue linee rosse fondamentali: il debito collettivo dell’UE. La Germania ha accettato di concedere una tantum 750 miliardi di euro in prestiti Covid e sovvenzioni di stimolo. Il successo di Macron è arrivato solo quando ha smesso di sembrare Yanis Varoufakis in Grecia, con discorsi alla Sorbona che sottolineavano il suo mandato, e ha adottato la Draghipolitik per far muovere Berlino. È stata una svolta decisiva nelle manovre contro l’Europa frugale che Draghi aveva iniziato.

Ma l’Italia non è solo un Paese del passato: è il Paese, a quanto pare, degli stessi uomini. Un’ultima volta è stato pronto quando un altro uomo ha commesso un errore. “Da quando ha lasciato la BCE, il fantasma di Draghi aleggia sull’Italia”, dice una fonte. “È stato dopo la vicenda del piano di stimolo che si è interessato a un ritorno politico.

Telefonate al Presidente, telefonate a Renzi, telefonate a Berlusconi, quando il governo di Giuseppe Conte implode, Draghi ha un’idea. Sarà un premier tecnocratico, ma con un tocco: un governo essenzialmente politico, che riunirà tutti i partiti tranne quello di estrema destra. Si presenta come una soluzione al problema stesso che il vincolo esterno aveva alimentato: politici deboli e incapaci di guidare. Sono felici di usarlo.

“Secondo lo storico Marcel Gauchet, la verità è che gli europei non sanno cosa hanno costruito. Questo è ciò che rivelano le lotte di Draghi. Come europei, la sua generazione ha costruito un edificio di transizione per l’Italia. L’euro significa che non possiamo tornare a modelli nazionali di gestione economica, svalutazione e default. Ma anche la strada da percorrere, verso la riduzione del debito, i trasferimenti e l’unione fiscale, è bloccata. La politica dei mandati non funziona: l’unica politica che sembra funzionare è la Draghipolitik.

Alzando la maschera nel Parlamento italiano, il tecnocrate senza partito – ma maestro di politica – osserva la sua coalizione di sei partiti, che vanno dai populisti di destra della Lega alle schegge dell’estrema sinistra. Vede anche la sua opportunità storica. Nessuno meglio di lui sa che la vera politica dell’Europa è quella del debito della zona euro.

Ecco perché Bruxelles e Parigi stanno osservando Draghi. Riuscirà a investire i 200 miliardi di euro del piano di rilancio dell’Italia? “Il Presidente del Consiglio vede la sua missione economica in questo modo”, afferma un alto funzionario italiano. Sta cercando di dimostrare come il nuovo debito comune del piano possa rilanciare la crescita italiana”. Draghi ha sostenuto la necessità di un forte backstop fiscale per affrontare i rischi futuri dell’eurozona”. Spendendo saggiamente il denaro, Draghi vuole rendere il fondo una rete di sicurezza permanente. Se riuscirà a mantenere la sua coalizione, Draghi potrà governare in questo modo fino alle prossime elezioni, previste per il 2023. Ma prima di allora, quando il mandato di Matarella scadrà l’anno prossimo, dovrebbe puntare alla presidenza. “Questo è stato a lungo il ruolo che avrebbe preferito”, ha detto una fonte. Piuttosto che un ruolo cerimoniale, con i poteri di costruzione delle coalizioni che si aprono nel sistema italiano, gli permetterebbe di essere un vincolo interno.

Un crollo dell’euro è ormai improbabile. Questa è la sua eredità. Il rischio che corre l’Europa oggi è che il sistema dell’euro – la casa incompiuta – faccia lentamente all’Unione nel suo complesso quello che ha fatto all’Italia, mettendola su una traiettoria permanente di crescita più bassa. L’Unione europea ha bisogno di un debito comune per una ripresa più collettiva. Ma gli eredi della signora Merkel saranno d’accordo? Con tutte le implicazioni per la sovranità di quella che in definitiva non è altro che un’unione di trasferimenti? Finché nessuno riuscirà a compiere il doloroso passo successivo del consolidamento, il rischio è che l’Unione continui a perdere la battaglia della globalizzazione. Draghi sta mostrando cosa è possibile fare.

Alzando la maschera nel Parlamento italiano, il tecnocrate senza partito – ma maestro di politica – osserva la sua coalizione di sei partiti, che vanno dai populisti di destra della Lega alle schegge dell’estrema sinistra. Vede anche la sua opportunità storica. Nessuno meglio di lui sa che la vera politica dell’Europa è quella del debito della zona euro.

BEN JUDAH

Ma il prezzo della Draghipolitik è questo: consolidamento senza democrazia. Élite potenti con elettori alienati. Una politica che solo uomini come lui possono fare. Il che, indebolendo i partiti e l’importanza delle elezioni, rende ancora meno praticabile l’unica altra via per ottenere un’Europa migliore: un movimento transnazionale e democratico per un’eurozona più giusta. La draghipolitik può offrire una via per una soluzione tecnocratica, ma aggrava il problema politico.

Oggi è al passo con i tempi: promettendo di condurre l’Italia fuori dal neoliberismo, le sue ultime proposte fiscali sono perfettamente in linea con la Bidenomics. Ma questo non basta. Ora deve fare il contrario di ciò che ha iniziato a fare: incoraggiare una nuova generazione di politici forti a succedergli. Questo è l’unico modo per rompere il ciclo che sta indebolendo l’Italia.

Draghi ama citare Le Guépard, il grande romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa sull’adattamento di un nobile siciliano alla vita nella nuova Italia unita da Cavour e Garibaldi. “Tutto deve cambiare perché tutto rimanga uguale” è la massima ironica che viene spesso citata. Eppure, alla fine del romanzo, l’Italia unita è davvero arrivata.

Ma che tipo di Europa è questa? Questo sistema, il sistema di Draghi, è un sistema che si è depoliticizzato per sopravvivere. E ci è riuscito. Ma al costo di non saper più distinguere tra stabilità e stagnazione. Un sistema che può fare solo il minimo indispensabile. Non tutto.

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Cina contro Stati Uniti: il fronte orientale della guerra. Teoria della convergenza, di Ding Ke

Si parla molto della concorrenza e del decoupling tra Stati Uniti e Cina. Ma è in corso un altro processo, che passa molto più inosservato: la convergenza nelle istituzioni delle due principali potenze del nostro secolo, nascosta dalla guerra tra sistemi.

Caratteristiche del sistema economico cinese

La terza dimensione del conflitto economico tra Stati Uniti e Cina è la competizione e il conflitto tra i sistemi economici dei due Paesi1. In che misura il sistema economico cinese è unico rispetto al sistema americano di economia di mercato? A questo proposito, la critica di Dennis Shea, allora ambasciatore degli Stati Uniti presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), è istruttiva. In occasione della riunione del Consiglio Generale dell’OMC tenutasi il 26 luglio 2018, subito dopo lo scoppio della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, Denis Shea aveva affermato che «la Cina è in realtà l’economia più protezionista e mercantilista del mondo. Contrariamente alle aspettative dei membri, la Cina non si è mossa verso una più completa adozione di politiche e pratiche basate sul mercato da quando ha aderito all’OMC nel 2001. In realtà, è vero il contrario. Il ruolo dello Stato nell’economia cinese è aumentato». Per quanto riguarda i problemi del sistema economico cinese, ha evidenziato l’intervento del Governo cinese e del Partito Comunista nelle attività economiche e nell’allocazione delle risorse, la capillare presenza di imprese statali, il sistema di economia pianificata simboleggiato dal Piano quinquennale, la politica industriale simboleggiata da Made in China 2025, la creazione di capacità produttiva in eccesso attraverso i sussidi, il danno causato alla proprietà intellettuale da politiche irragionevoli e l’eliminazione dei concorrenti stranieri con lo strumento della politica industriale2.

Sebbene le osservazioni di Shea siano enumerative, possiamo, sulla base di questo indice, evidenziare tre punti sul carattere unico del sistema economico cinese visto dagli Stati Uniti. In primo luogo, il governo cinese dispone di un’enorme capacità di mobilitazione a favore dell’attività economica e per l’allocazione delle risorse. Questo avviene perché la Cina, in quanto Paese socialista, non consente la proprietà privata della terra. Cerca poi, per quanto possibile, di mantenere una forte presenza di imprese statali in aree strategiche come la finanza e l’energia. Inoltre, lo stesso Partito Comunista ha una notevole capacità organizzativa che usa per influenzare le comunità, anche quelle con una popolazione di qualche migliaio di persone. Questa situazione è fondamentalmente diversa dal sistema di economia di mercato degli Stati Uniti, che consente la proprietà privata di quasi tutti i fattori di produzione, compresi la terra e il capitale.

In primo luogo, il governo cinese dispone di un’enorme capacità di mobilitazione a favore dell’attività economica e per l’allocazione delle risorse: la Cina, in quanto Paese socialista, non consente la proprietà privata della terra

DING KE

In secondo luogo, il governo cinese sta cercando di sfruttare questa forte capacità di mobilitazione per avantaggiarsi nella competizione economica globale, in particolare tramite sussidi industriali. Come vedremo in seguito, l’intervento governativo nell’attività economica segue una sua logica. Tuttavia, per gli Stati Uniti, che hanno adottato il principio di allocazione delle risorse sulla base dei principi di mercato, qualsiasi intervento appare inevitabilmente una distorsione del mercato.

Xingzhi Xu

In terzo luogo, il governo cinese ha una forte tendenza a privilegiare alcune imprese con proprietari diversi, al fine di assicurarsi un vantaggio nella competizione internazionale, e non mantiene necessariamente condizioni di parità nella concorrenza. Questa situazione è stata interpretata dagli Stati Uniti come una questione di trattamento discriminatorio rivolto alle aziende straniere – furti di proprietà intellettuale, trasferimento forzato di tecnologia e restrizioni per entrare nel mercato – ma la realtà apprare più complessa. Per attirare le imprese, ci sono anche casi di trattamento preferenziale verso le aziende straniere o, per proteggere le imprese statali, casi di trattamento discriminatorio delle aziende private locali.

La Cina sta perseguendo seriamente la sua politica industriale dalla metà degli anni 2000.3 Durante questo processo, la Cina ha aumentato in modo significativo il suo sostegno a industrie specifiche in termini di sussidi e fondi governativi di orientamento. Secondo la prudente stima di CSIS, la Cina ha dedicato quasi l’1,8% del suo PIL alla politica industriale nel 2019, più di quattro volte il rapporto osservato dagli Stati Uniti nello stesso periodo4. Dopo l’intensificarsi delle tensioni tra Stati Uniti e Cina nel campo dell’alta tecnologia, Pechino ha iniziato a ricostruire il suo sistema nazionale di innovazione e il ruolo del Governo sta aumentando anche in aspetti che esulano dal puro sostegno finanziario, come il coordinamento delle attività di innovazione. Tuttavia, almeno per i quattro aspetti seguenti, c’è ancora spazio per discutere se queste azioni possano essere considerate contrarie al libero mercato e nocive alla concorreza.

In primo luogo, gli strumenti politici adottati dalla Cina, che si tratti di strumenti di sostegno finanziario, come i fondi governativi di orientamento, oppure di meccanismi di supporto alla ricerca di base o di sforzi per creare consorzi di innovazione, sono stati più o meno replicati nelle politiche industriali dei Paesi sviluppati.

In secondo luogo, le politiche industriali del governo cinese, volte a sostenere le industrie in fase di catch-up o quelle già mature, come la cantieristica navale o l’acciaio, hanno effettivamente distorto i principi del mercato e portato alla formazione di un eccesso di capacità produttiva. Tuttavia, a partire dall’implementazione della nuova strategia di innovazione autonoma nel 2006, il focus della politica industriale si è già spostato sulla creazione di industrie emergenti e sulla costruzione di un sistema nazionale dell’innovazione5. Allo stesso modo, l’ambito dell’intervento governativo si è gradualmente spostato dall’obiettivo tradizionale della politica industriale, cioè proteggere e incoraggiare le industrie nascenti, per mirare ora all’eliminazione degli alti livelli di incertezza e asimmetria informativa insiti nella creazione di nuove industrie e nel processo di innovazione.

In terzo luogo, va notato che c’è ancora una competizione feroce tra i governi locali in qualità di attori principali della politica industriale cinese

DING KE

In terzo luogo, va notato che c’è ancora una competizione feroce tra i governi locali in qualità di attori principali della politica industriale cinese. Nella creazione di nuove industrie, il comportamento dei governi locali si avvicina di più a quello dei venture capitalist che a quello del settore pubblico. In qualità di operatore effettivo dei fondi di orientamento governativi, il governo locale è stato in grado di svolgere le funzioni di selezione e incoraggiamento proprie dei venture capitalist, e la concorrenza intergovernativa ha anche incoraggiato la competizione tra i cluster industriali. La Cina ha formato diversi consorzi di innovazione locali, che rappresentano un mezzo importante per creare un sistema nazionale dell’innovazione. È molto probabile che la forte concorrenza tra questi consorzi inneschi in futuro una concorrenza attiva in materia di R&D tra le aziende.

In quarto luogo, per quanto riguarda la neutralità della concorrenza, le politiche discriminatorie nei confronti degli investimenti stranieri in termini di protezione della proprietà intellettuale e di trasferimento forzato di tecnologia hanno effettivamente rappresentato un problema. Tuttavia, questi non sono necessariamente i problemi principali per le aziende statunitensi in Cina, e molti indicatori mostrano un miglioramento, come dimostrano i risultati di un sondaggio condotto dalla Camera di Commercio Americana in Cina6.

Xu Lin, ex funzionario della Commissione per lo Sviluppo e le Riforme, responsabile della negoziazione sui sussidi durante i negoziati di adesione all’OMC, fornisce una valutazione accurata del sistema economico cinese7. Secondo Xu, un profondo intervento governativo è inevitabilmente criticato come strumento che porta ad una concorrenza sleale nel mercato, ma sottolinea che è improbabile che il governo cinese autorizzi la proprietà privata dei terreni o promuova la privatizzazione delle istituzioni finanziarie e delle imprese statali. Xu suggerisce che il Governo cinese dovrebbe limitare il più possibile il suo intervento diretto nell’allocazione delle risorse nell’area dei beni pubblici e allocarle piuttosto in altre aree, seguendo standard trasparenti e aperti e secondo un processo competitivo. In una certa misura, attraverso il meccanismo di convergenza istituzionale, la riforma istituzionale del governo cinese sta andando in questa direzione.

La Cina ha formato diversi consorzi di innovazione locali, che rappresentano un mezzo importante per creare un sistema nazionale dell’innovazione.

DING KE

Convergenza istituzionale tra gli Stati Uniti e la Cina 

Se il conflitto tra Stati Uniti e Cina continua, come si evolveranno in futuro la concorrenza e il conflitto tra i sistemi economici dei due Paesi? Come si trasformerà la divisione internazionale del lavoro, che è stata costruita attorno a due Paesi con istituzioni economiche diverse? A questo proposito, va sottolineato che il meccanismo della convergenza istituzionale, ossia l’aumento graduale del numero di aspetti del proprio sistema che sono simili a quelli dell’altro Paese, è decisamente all’opera tra le parti coinvolte nella competizione intersistemica.

Questo meccanismo è stato suggerito da Jan Tinbergen, il primo vincitore del Premio Nobel per l’Economia, negli anni ’60, con il nome di teoria della convergenza. Secondo Tinbergen, i campi comunista e capitalista, sotto la pressione di un’intensa competizione intersistemica, devono apprendere i punti di forza del sistema altrui per compensare le debolezze del proprio. Di conseguenza, nel blocco comunista sono penetrati elementi dell’economia di mercato, mentre nelle economie libere si è sviluppato il settore pubblico, e i due sistemi hanno avuto una graduale tendenza a convergere8.

Cui Zhiyuan dell’Università Tsinghua ha pubblicato un articolo intitolato «Decoupling or Convergece?» sul China Daily dell’8 ottobre 2019 e, citando la teoria della convergenza di Tinbergen, ha sottolineato che esiste una possibilità di convergenza istituzionale tra Stati Uniti e Cina. Cui ha indicato due casi cinesi che supportano la teoria della convergenza: (1) le misure per gestire l’eccesso di capacità produttiva e (2) il passaggio dalla «gestione dell’impresa» alla «gestione del capitale» durante la terza sessione plenaria del 18° Comitato Centrale sulla riforma della gestione degli asset di proprietà dello Stato. Come esempi da parte statunitense, ha citato invece le discussioni sulla nazionalizzazione del 5G negli Stati Uniti e la nuova politica industriale statunitense9.

Con l’intensificarsi del conflitto tra Stati Uniti e Cina, è probabile che Pechino impari di più da Washington, soprattutto nel campo dell’innovazione

DING KE

Sebbene le idee di Tinbergen, combinate con le analisi di Cui, siano davvero illuminanti, è importante notare alcune sottili e importanti differenze nei meccanismi di convergenza tra Stati Uniti e Unione Sovietica, e quelli tra Stati Uniti e Cina. In primo luogo, i sistemi economici adottati dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica erano fondamentalmente diversi. D’altra parte, il sistema cinese, noto come «capitalismo di Stato» – il nome ufficiale in Cina è piuttosto «economia socialista di mercato» – pur enfatizzando il ruolo dello Stato, ha naturalmente anche un aspetto capitalista o di economia di mercato. Come Paese in via di sviluppo, la Cina ha tratto molto dalle istituzioni e dall’esperienza delle economie di mercato avanzate, in particolare da quella statunitense10. Per quanto riguarda il sistema dell’innovazione, che è al centro del sistema economico generale, la Cina ha incorporato attivamente le istituzioni e le esperienze degli Stati Uniti e di altri Paesi avanzati attraverso il rimpatrio di scienziati e ingegneri, al fine di ricostruire un sistema nazionale dell’innovazione. Con l’intensificarsi del conflitto tra Stati Uniti e Cina, è probabile che Pechino impari di più da Washington, soprattutto nel campo dell’innovazione.

D’altra parte, gli Stati Uniti non avevano inizialmente motivo di indagare sul sistema economico cinese. In risposta però alla sfida di Pechino, e consapevoli delle pratiche e del comportamento economico della Cina, gli Stati Uniti sono stati gradualmente costretti a prendere provvedimenti per rafforzare il loro intervento governativo.

In effetti, i recenti commenti dei politici statunitensi sulla politica industriale sono stati degni di nota proprio per la loro consapevolezza sulla Cina. Ad esempio, nell’articolo «L’America ha bisogno di una nuova filosofia economica», pubblicato su Foreign Policy nel febbraio 2020, prima del suo insediamento, il consigliere per la Sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Jake Sullivan, e la sua coautrice Jennifer Harris hanno sottolineato che «Difendere una politica industriale (in senso lato, le azioni governative per rimodellare l’economia) era una volta considerato imbarazzante – oggi dovrebbe essere invece visto come qualcosa di praticamente ovvio» e che «le aziende statunitensi continueranno a perdere terreno nella competizione con le aziende cinesi se Washington continuerà a fare così tanto affidamento sul settore privato». L’articolo chiariva anche che, per affrontare la sfida cinese, era necessario adottare politiche industriali e rafforzare il ruolo del Governo nel processo di innovazione11. La rinnovata importanza degli investimenti pubblici e della strategia industriale nella definizione della politica economica sotto l’amministrazione del Presidente Biden è stata recentemente illustrata da Brian Deese sulle nostre colonne.

Xingzhi Xu

Per quanto riguarda le azioni effettive da parte del governo degli Stati Uniti, le proposte di legge per incoraggiare le strutture di produzione di semiconduttori a ristabilirsi sul mercato interno erano già state prese in considerazione sotto l’amministrazione Trump. E sotto l’amministrazione Biden, è stato approvato il CHIPS and Science Act per consentire un sostegno massiccio nella forma di sussidi. Queste azioni sono considerate molto attente alla politica cinese per l’industria dei semiconduttori. Per quanto riguarda lo sviluppo del settore dell’AI, il rapporto pubblicato dalla Commissione di Sicurezza Nazionale sull’intelligenza artificiale sottolinea chiaramente che la concorrenza deve essere inquadrata dallo Stato per sviluppare l’industria12. Nel campo delle tecnologie verdi, un’altra area considerata essenziale sia dal Governo statunitense che da quello cinese, nell0agosto del 2022 il Congresso ha adottato una massiccia politica di sovvenzioni verdi, l’Inflation Reduction Act, che mira ad aumentare massicciamente la produzione di veicoli, pannelli solari fotovoltaici, energia verde e idrogeno negli Stati Uniti, attraverso le sovvenzioni.

Un altro punto importante che differenzia la situazione attuale dalla convergenza tra Stati Uniti e Unione Sovietica è che, data la profonda interdipendenza tra gli Stati Uniti e la Cina, quest’ultima ha interesse a mantenere la divisione internazionale del lavoro che esiste con gli Stati Uniti.

Data la profonda interdipendenza tra gli Stati Uniti e la Cina, quest’ultima ha interesse a mantenere la divisione internazionale del lavoro che esiste con gli Stati Uniti

DING KE

Ciò si riflette chiaramente in una serie di riforme istituzionali dell’ambiente di investimento per le aziende straniere in Cina dal 2010. Come contromisura ai negoziati dell’Accordo di Partenariato Trans-Pacifico guidato dagli Stati Uniti, la Cina ha introdotto nel 2013 un sistema di liste negative in via sperimentale in quattro zone pilota di libero scambio, tra cui Shanghai. Questo sistema ha abolito il sistema della lista positiva, che designava individualmente quali industrie erano autorizzate ad entrare e consentiva alle aziende straniere di entrare in tutte le industrie non presenti nella lista. Nel 2017, il sistema della lista negativa è stato esteso all’intero Paese e le barriere all’ingresso delle aziende straniere nel mercato cinese sono state rapidamente abbassate. Con l’intensificarsi della disputa tra Stati Uniti e Cina, la parte cinese ha continuato a implementare le riforme istituzionali, tenendo conto della pressione degli Stati Uniti. Dopo la guerra commerciale del 2018, nel dicembre dello stesso anno, il governo cinese ha sottoposto a discussione un progetto di legge sugli investimenti esteri, che è stato adottato nel marzo 2019 ed è entrato in vigore nel 2020, in una data insolitamente precoce. Nella prima fase dell’accordo commerciale tra Stati Uniti e Cina, firmato nel gennaio 2020, il governo cinese ha anche adottato misure per adeguare le istituzioni economiche, in particolare eliminando i trasferimenti forzati di tecnologia e le barriere industriali discriminatorie nei settori bancario, dei titoli, delle assicurazioni e dei pagamenti elettronici. Il governo cinese ha anche fatto alcuni compromessi sull’aggiustamento economico

I risultati della serie di riforme istituzionali sono chiaramente illustrati nel «China Business Climate Survey Report», pubblicato annualmente da AmCham China. Come mostra la tabella qui sopra, la valutazione delle aziende associate ad AmCham China sul clima degli investimenti è peggiorata fino al 2016, ma è migliorata significativamente a partire dal 2017, in seguito all’introduzione del sistema di liste negative a livello nazionale. Anche la percentuale di aziende statunitensi che ritengono di essere trattate in modo equo – un indicatore di neutralità competitiva – è migliorata costantemente. Nello stesso sondaggio, una delle aspettative che le aziende associate esprimevano al Governo statunitense era quella di «impegnarsi per creare condizioni di parità per le aziende statunitensi che operano in Cina». Anche la percentuale di aziende che hanno selezionato questa voce è diminuita, passando dal 47% nel 2018 al 27% nel 2021.

Questo meccanismo di convergenza istituzionale è importante per il futuro della divisione internazionale del lavoro, che è stata costruita intorno agli Stati Uniti e alla Cina. Come spiega Inomata13, il conflitto economico tra Cina e Stati Uniti e la diffusione globale della pandemia di Covid-19 hanno portato «le aziende globali a considerare la forza di varie istituzioni nel Paese di destinazione o l’affinità con l’ambiente aziendale del Paese di origine come punti di riferimento importanti per la valutazione del rischio nell’espansione all’estero». In altre parole, la divisione internazionale del lavoro sarà favorita tra Paesi dotati di quadri istituzionali comuni, come i sistemi economici, gli standard tecnologici e i sistemi legali, mentre c’è una crescente possibilità di decoupling tra Paesi con quadri istituzionali diversi. In queste condizioni, la convergenza istituzionale tra Stati Uniti e Cina è estremamente importante per garantire la base istituzionale necessaria a mantenere l’attuale divisione del lavoro tra i due Paesi.

Va notato, tuttavia, che anche se questi meccanismi continuano a funzionare a lungo termine, è improbabile che i due sistemi economici convergano completamente verso uno stesso modello 14. Ciò è dovuto non solo alle differenze di sistemi politici e di capacità dei governi, ma anche allo scopo fondamentale della competizione tra i sistemi, che consiste nel mantenere una posizione di leadership nei confronti dell’altra parte attraverso la concorrenza. Questo meccanismo è decisamente diverso da quello del coinvolgimento, che incoraggia il cambiamento di regime nel Paese partner invitandolo a integrarsi nell’ordine internazionale esistente. Di conseguenza, quando si tratta di innovazioni che richiedono una fiducia profonda e un coordinamento complesso, o di attività economiche strettamente legate alla sicurezza, come quelle descritte nella seconda parte di questo studio, il margine di cooperazione tra Stati Uniti e Cina probabilmente si ridurrà – e sarà inevitabile un decoupling almeno parziale.

NOTE
  1. In questi ultimi anni, un numero crescente di studi hanno cominciato a interpretare la natura del conflitto tra Stati Uniti e Cina sotto la prospettiva della concorrenza tra sistemi. Brands (2018) si concentra sulle differenze tra regimi politici e Hayashi (2020) studia il carattere unico del sistema economico cinese dal punto di vista delle regole del commercio internazionale. Considerando che quest’opera tratta di conflitti economici, la discussione si concentra sulle differenze tra i sistemi economici dei due Paesi, in particolare sull’unicità del sistema cinese
  2. D. Shea, «Ambassador Shea: China’s Trade-disruptive economic model and implications for the WTO », Consiglio generale dell’OMC, Ginevra, 26 luglio 2018. Per una critica più completa del sistema economico cinese da parte del governo americano, consultare il rapporto annuale al 2022 Report to Congress On China’s WTO Compliance, pubblicato del Dipartimento del commercio americano. Oltre i punti sollevati dall’ambasciatore Shea, il report tocca anche questioni come quella della trasparenza.
  3. Ding Ke, «US-China High-Tech Disputes and the Transformation of China’s Industrial Policy : From Indigenous Innovation to the New Whole Nation System», in Ding Ke (dir.), US-China Economic Conflict : East Asian Responses to the Restructuring of International Division of Labor, IDE-JETRO, 2023.
  4. Gerard Di Pippo, Ilaria Mazzocco et Scott Kennedy, «Red Ink Estimating Chinese Industrial Policy Spending in Comparative Perspective», CSIS Report, maggio 2022.
  5. In alcune industrie emergenti, come l’industria degli schermi LCD, la sovrapproduzione è frequente. Tuttavia, al contrario delle industria tradizionali come l’acciaio, la sovrapproduzione nelle industrie emergenti caratterizzata da progressi tecnologici rapidi presenta un aspetto positivo nella misura in cui accelera l’introduzione di nuove tecnologie intensificando la concorrenza. Per un case study dell’industria cinese degli schemi LCD, rimando a LU (2016, capitolo 7, sezione 3).
  6. 中国美国商会 (AmCham China)『中国商業環境調査報告』(各年版).
  7. 徐林(Xu, L.) 2021.「从加入WTO 到加入CPTPP–中国産業政策的未来」『比較』(5):125-151.
  8. J. Tinbergen, «Do communist and free economies show a convergence pattern ?» Soviet Studies, 1961, 12(4), p. 333-341.
  9. Jonathan Gruber et Simon Johnson, «Jump-Starting America : How Breakthrough Science Can Revive Economic Growth and the American Dream», PublicAffairs, 2019.
  10. Ad esempio, la Cina, per entrare nell’OMC, ha dovuto creare delle leggi necessarie a un sistema di economica di mercato, prendendo spunto dall’esperienza dei Paesi sviluppati (secondo uno scambio di vedute con un esperto di ricerca dell’OMC in Cina l’11 novembre 2021).
  11. 経済産業省(METI)『通商白書』(各年版).- 2021「.経済産業政策の新機軸–新たな産業政策への挑戦」産業構造審議会の配布資料.
  12. Sahashi Ryo, «US-China Economic Conflicts and the Biden Administration», in Ding Ke, US-China Economic Conflict : East Asian Responses to the Restructuring of International Division of Labor, IDE-JETRO, 2023.
  13. 猪俣哲史(Inomata, S.) 2020「制度の似た国同士で分業へ 国際貿易体制の行方」『日本経済新聞』7月14日.
  14. In questo senso, è necessario continuare a seguire i differenti indicatori della tabella 3 per vedere in che misura possono essere migliorati

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Industria e diritto di fronte allo smantellamento delle catene del valore_Intervista a Fabio Londero

Una intervista significativa che offre diversi spunti importanti che toccano alcune chiavi importanti di interpretazione che informano la produzione di questo sito. Intanto l’estensione del concetto di profitto, non solo nelle sue modalità di calcolo, anche esse discrezionali, ma anche dei criteri legati alla efficienza, alla solidità, alla possibilità di esistenza e, quindi, di mantenimento e perpetuazione del comando e del potere dei dirigenti. Figure, quindi, impegnate nel perseguimento di strategie politiche. Un altro aspetto riguarda il legame necessario che le aziende, il loro staff manageriale, devono mantenere, essendone anche l’espressione, con il proprio contesto sociale/culturale e, soprattutto, con i centri decisori nello Stato. Qui occorre fare una distinzione, del resto adombrata dallo stesso intervistato. Quella del legame originario con uno Stato egemone o, quantomeno, in possesso delle piene prerogative sovrane oppure con uno Stato dai centri decisori subordinati e sottomessi. Paradossalmente, l’autonomia strategica e decisionale delle aziende radicate in questi ultimi risulta spesso essere maggiore rispetto alle prime, anche se di fatto, in proporzione alla strategicità e peso delle loro attività, finiscono progressivamente per essere risucchiate dalla volontà egemonica dei centri decisori degli stati dominanti o da assumere questi come riferimento. La stessa esigenza di uniformazione dei principi etici, organizzativi e giuridici delle multinazionali deve appoggiarsi al tentativo degli stati egemoni di imporre la propria giurisdizione, il proprio intervento ed il proprio diritto nell’agone internazionale. L’insistenza sulle crescenti difficoltà delle multinazionali a mantenere coerenza ed unitarietà, operatività in un contesto geopolitico sempre più frammentato espressa nell’intervista è di per sé eloquente. A parere dello scrivente l’autore mette di fatto in discussione diversi punti fermi che vincolano e distorcono il dibattito oltre che in parte della corrente di pensiero dominante, soprattutto nell’area contestatrice dell’attuale assetto geopolitico/geoeconomico sino a rendere quest’ultima sterile e impotente. Tra questi il tema della cosiddetta crisi sistemica del capitalismo, del suo sistema unitario, tema per altro ricorrente almeno negli ultimi due secoli; la contrapposizione tra sistemi a dominio capitalistico da una parte, nella fattispecie il mondo occidentale a predominio anglo-statunitense, e sistemi a controllo politico; l’asserito predominio assoluto nei primi dei “nani della finanza” e della natura parassitaria del loro predominio e della predazione, anch’esso un tema ricorrente, almeno dalla fine del ‘800, nella narrazione antagonista. Si tratta, certamente, di una narrazione che “facilita” enormemente l’individuazione di un avversario perfettamente circoscritto, nella figura e nella dimensione, surdeterminato e, quindi, facilmente additabile al ludibrio delle “moltitudini”. Facili, però, quanto distorcenti di una realtà, esattamente come i mulini a vento del don Chisciotte.

Tocca ai Sancio Panza di turno introdurre qualche elemento di realtà più complesso, più scomodo, ma forse più proficuo alla costruzione di un disegno politico più impervio, ma più praticabile e meno fallimentare:

  • il modo di produzione capitalistico, in quanto rapporto sociale di produzione, è ormai da tempo presente nell’universo mondo e, devo dire, ambìto, pur in diverse modalità e intensità, da tutti i centri decisori delle varie formazioni sociali e statuali
  • una presenza diffusa che deve quindi pagare lo scotto di un adattamento ai contesti storici, culturali e territoriali, agli assetti di potere delle varie formazioni sociali; contribuendo quindi a plasmarli, ma anche ad essere plasmati e ad essere differenziati. Più che di capitalismo, si dovrebbe parlare, quindi, di capitalismi, per meglio dire di centri decisori capitalisti in cooperazione e conflitto tra loro, ma facenti parte, comunque, di centri decisori politici e strategici dagli interessi e da punti di vista più ampi rispetto alle mire di mero conseguimento di profitto
  • rispetto alle dinamiche capitalistiche interne, più che di crisi sistemica, parlerei di crisi cicliche o di crisi sistemiche propedeutiche alla formazione di nuovi assetti… appunto capitalistici
  • quanto al carattere finanziario e parassitario del capitalismo occidentale e al predominio politico assoluto delle sue figure occorre precisare e delimitare numerosi aspetti. Osservando il percorso dei flussi e il loro utilizzo si può facilmente osservare che anche quelli a carattere più speculativo, pur favorendo e alimentando in parte singoli protagonisti di natura parassitaria, assolvono in ultima istanza ad una funzione di drenaggio a fini di esercizio di potenza politica e di strategie politiche e di conformazione più o meno funzionale e coesa delle formazioni sociali-statuali dominanti; lo stesso ambito finanziario è molto articolato ed è riconducibile solo in parte ad attività speculative puramente parassitarie; nelle stesse attività finanziarie sono implicate quelle stesse imprese multinazionali che non sono avulse dalla produzione dei beni, ma che ne controllano le filiere e le catene globali di produzione con l’azione e il sostegno fondamentale degli stati egemonici

Per concludere un ragionamento che meriterebbe altri spazi ed altra profondità, più che di centri decisori finanziari egemonici nel mondo occidentale, parlerei di “strateghi del capitale” (Gianfranco La Grassa), non solo finanziari, facenti parte a pieno titolo, ma con peso più o meno relativo, di centri decisori strategici politici in competizione e conflitto tra di essi a fini di potere e di conformazione delle formazioni sociali, quindi anche di costruzione di identità e collettività e di obbligo e necessità di costruzione di una qualsivoglia coesione sociale, delle quali sono espressione. Nell’azione dei quali l’aspetto economico è solo parte ed è intriso dell’azione politica e delle finalità politiche di potere. Ambito, quello economico, che, con l’affermazione del modo capitalistico, ha assunto forme sempre più sofisticate e pervasive e, nei periodi di affermazione egemonica, carattere di apparente neutralità ed oggettività. Può assumere un interesse predominante tuttalpiù nelle periferie dei sistemi imperiali. Questo vale, pur in diversa misura e in diverse fasi storiche per tutte le formazioni sociali e per tutti i poli in via di formazione.

Possono sembrare sottigliezze fini a se stesse. In realtà hanno implicazioni particolarmente pesanti nel dibattito e nell’azione politica. Nella fattispecie nella caratterizzazione “neomedievale” delle future società, con annessa debilitazione del potere statale ridotto e conteso da altre figure, tese a generalizzare, secondo le tesi di importanti centri di pensiero (Rand), una condizione di crisi dello Stato altrimenti propria invece di alcune formazioni sociali declinanti in particolare del mondo occidentale, squassate da conflitti interni distruttivi; nella visione “populistica” del rapporto assolutamente determinante tra centri decisori, élites tout court e strati bassi della società; nel rapporto tra “moltitudini” e cupole ristrette di potere. In altre parole in una riduzione semplicistica delle stratificazioni sociali, delle gerarchie, della funzione delle élites e delle dinamiche del conflitto politico e sociale, di quelle geopolitiche e di conflitto orizzontale tra centri. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Industria e diritto di fronte allo smantellamento delle catene del valore

FABIO LONDERO — “Non c’è un’etica condivisa lungo la supply chain”: stiamo per far deragliare le catene del valore con i nostri valori?

In un mondo rotto e sempre più regolamentato, le multinazionali che avevano puntato su una crescita globalizzata e su un diritto uniforme rischiano di disgregarsi. Per Fabio Londero, General Counsel del gruppo siderurgico friulano Danieli, le conseguenze negative dell'”effetto Bruxelles” potrebbero essere fatali.

Fabio Londero è un giurista d’impresa, Group General Counsel della multinazionale friulana Danieli, tra i leader mondiali nella produzione di impianti siderurgici.

Fare impresa in un mondo, allo stesso tempo, globalizzato e frammentato, costringe a confrontarsi con notevoli rischi, di carattere economico, politico e giuridico. Negli ultimi anni si è sviluppata un’altra tipologia di rischio, che concerne, più che altro, l’immagine di una impresa di fronte all’opinione pubblica. Trattasi del cosiddetto rischio reputazionale, strettamente legato al concetto di etica d’impresa. In cosa consiste e quanto rileva all’interno della vita di una multinazionale?

Penso sia utile ripartire dall’insegnamento, che oggi sembra così sorpassato, di Milton Friedman, secondo cui l’impresa deve perseguire gli interessi degli azionisti, nel rispetto della legge. Tale massima, e in particolare la sua seconda parte, ossia la mera conformità dell’attività di impresa rispetto all’ordinamento giuridico vigente, rimane per me un canone fondamentale. È chiaro poi che tale approccio debba essere senz’altro rimodulato alla luce del contesto. Ho sempre avuto dubbi, però, sull’agire etico dell’azienda. John Locke, qualche secolo fa, evidenziava come l’etica fosse passata dalla religione allo Stato. Ora sembra che sia passata, in parte, dallo Stato alle aziende. Solo che l’impresa, e in particolare la multinazionale, è composta da un insieme di valori spesso differenti, non comprimibili in una scelta politica del consiglio di amministrazione. Una multinazionale, pure se occidentale, lavora in decine e decine di paesi e contesti giuridici e culturali profondamente diversi: è impossibile, se non proprio controproducente, trascurare idee e valori estranei ai nostri, così come non è possibile ignorare i quadri giuridici dei paesi in cui si opera, che sono dettati dai più svariati fattori di carattere politico, economico e culturale. Il principio di realtà per affrontare questo mondo frammentato dovrebbe essere informato da logiche che permettano all’impresa di rimanere efficiente, senza una adesione totale agli scontri politici e valoriali in atto. Anche perché, quando dico che l’impresa dovrebbe limitarsi a perseguire i profitti nel rispetto della legge, non intendo solo il cosiddetto lucro; profitto deriva dal latino proficĕre, che significa innovare, perfezionare, essere efficienti. Questo deve essere secondo me il paradigma dominante, specie in un contesto geopolitico così turbolento.

Spesso un’attività, seppure lecita secondo leggi e consuetudini in vigore, ciononostante subisce un vaglio di tipo etico. Da qui il dilemma: agire semplicemente in conformità delle leggi, assumendosi il rischio del danno reputazionale, o rinunciare a determinate attività e affari in via preventiva, per evitare possibili condanne morali? Trattasi, in ultima istanza, di una analisi costi-benefici? 

Molto spesso, la prima domanda che si pone un manager di una multinazionale è: tale azione è legale o illegale? Se è legale, la decisione è quasi già presa. Questo è – e secondo me dovrebbe pure rimanere – il paradigma tradizionale. È chiaro poi che quando si opera nei mercati globali vi sono certi rischi di carattere reputazionale. Credo però che spesso questa dimensione del danno da immagine sia eccessivamente sopravvalutata: se il prodotto è valido, l’eventuale danno da immagine lascerà il tempo che trova. Dopodiché, mi chiedo: si può dire che il danno reputazionale è lo stesso per le decine di paesi in cui la multinazionale opera? O è solo quello occidentale? La catena del valore è anche una catena dei valori, che passa per molteplici sistemi, tradizioni, culture. Non c’è un’etica condivisa lungo la supply chain. Per questo insisto sul fatto che l’unico imperativo da seguire, ulteriore rispetto ai profitti, sia quello legale: il limite e lo spazio dell’agire di impresa è e deve essere solo quello tratteggiato dai diversi legislatori.

John Locke, qualche secolo fa, evidenziava come l’etica fosse passata dalla religione allo Stato. Ora sembra che sia passata, in parte, dallo Stato alle aziende.

FABIO LONDERO

In merito al rischio reputazionale, sempre più centrale è il tema ambientale. Da qui, i vari criteri ESG, norme e direttive comunitarie, codici di condotta, raccomandazioni e soft law. Si richiede all’impresa, insomma, di essere il più possibile sostenibile, specie in Europa. Quanto incide o potrà incidere il tema ambientale nell’attività di impresa?

La decisione di perseguire una politica ambientale, sul fronte, ad esempio, della produzione di beni industriali, molto spesso non deriva da una decisione di carattere ideologico-politico assunta in qualche consiglio di amministrazione sotto la spinta delle raccomandazioni di Bruxelles. È molto più probabile, invece, riscontrare scelte aziendali che hanno origini nel tempo e che nascono da intuizioni, sviluppo di nuove competenze tecniche e, soprattutto, esigenze della clientela. Mi permetto di fare un esempio riferito all’azienda per cui lavoro, la Danieli & C. Officine Meccaniche S.p.A. Negli anni ci siamo ritagliati un ruolo leader nel cosiddetto green steel, ma questo perché? Non si tratta di una mera decisione di essere sostenibili, ma di un insieme di dinamiche di impresa, come i clienti che vogliono prodotti più efficienti, l’individuazione di soluzioni tecnologiche e competenze, l’intuizione di nuovi mercati. Grazie a questa combinazione di fattori, anni fa si è deciso di andare oltre al paradigma dei grandi impianti tipico degli anni ’60, investendo invece nella maggiore efficienza dei micro-impianti, di dimensioni più contenute e più localizzati (in prossimità dei clienti), con impatti positivi in termini di minore inquinamento, minore spesa energetica e via dicendo. Un passo avanti verso la sostenibilità, ma guidato da logiche decisamente più complesse – e, mi si permetta, capitalistiche – della mera decisione dall’alto di darsi un volto verde.

Un classico esempio dell’approccio dell’Unione europea è quello attuale della Direttiva sulla Corporate sustainability due diligence (CS3D), che impone diversi accorgimenti alle multinazionali sul fronte della sostenibilità lungo la supply chain. Cosa ne pensi?

Penso che stiamo assistendo ad una bulimia di normative, parametri, direttive, raccomandazioni di soft law. Il che ha implicazioni non solo in relazione ai maggiori rischi giuridici, ma anche sul fronte dei costi, tanto che a volte mi chiedo provocatoriamente quanto sia sostenibile la sostenibilità. Peraltro, oltre al tema dei costi, vi è un discorso di fattibilità. Pensiamo proprio alla Direttiva CS3D: identificare nuovi oneri e adempimenti è facile, ma chi si ritrova a doverli applicare deve fare fronte alla complessità della supply chain. Andare a ritroso nella catena per verificare se uno delle centinaia di fornitori rispetta o meno determinati principi non solo è piuttosto complicato (oltre ad ulteriori accorgimenti di compliance, nel concreto cosa deve fare l’impresa? Ispezioni tra decine e decine di paesi?), ma riporta anche a quanto già detto sulla catena, che non è solo del valore, ma dei valori: questi principi possono valere per noi occidentali, ma non per altre realtà, che rispondono a differenti sistemi culturali e giuridici. Un uso eccessivo di tali strumenti rischia di tradursi in quello che chiamo “imperialismo dei valori”: ossia l’errore di assumere la nostra prospettiva come universale, mentre il mondo – e lo vediamo ogni giorno – è eterogeneo, “particolare”. Da cittadino italiano o europeo posso anche essere d’accordo sull’attenzione verso certi valori, ma per un’impresa conta anche il principio di realtà.

Vi sono poi le implicazioni giuridiche di tali politiche e legislazioni o para-legislazioni ambientali. Uno dei rischi più concreti è che a livello giudiziario inizino ad essere adottate decisioni basate su principi che non si fondano su normative cogenti e certe, bensì su parametri, standard e best practices di soft law. Se i tribunali, nonostante l’assenza di vere e proprie leggi vincolanti, cominciassero ad applicare tale apparato di soft law alla stregua di un principio generale dell’ordinamento, questo si tradurrebbe in un panorama di profonda incertezza, ove alla fine l’attività di impresa finirebbe per dipendere dalla sensibilità del singolo giudice. Mancherebbero la prevedibilità e la calcolabilità del rischio giuridico. E il soft law rischierebbe di tramutarsi in hard law, non per opera del legislatore, bensì di un giudice.

La catena del valore è anche una catena dei valori, che passa per molteplici sistemi, tradizioni, culture. Non c’è un’etica condivisa lungo la supply chain.

FABIO LONDERO

Quali possono essere le implicazioni di queste fratture, anche valoriali e non solo politiche, all’interno delle catene del valore?

Se la divisione politica e valoriale dovesse essere perseguita in modo netto, nella direzione di un sempre minore dialogo tra sistemi giuridici e culturali differenti, il rischio concreto è quello di una frammentazione dell’attività aziendale, nell’ottica di una divisione per aree: così, per fare un esempio, la multinazionale Alpha si scinderebbe, di fatto, in un ramo con un brand occidentale, uno orientale e via dicendo, secondo regimi valoriali e legislativi diversi e, dunque, separandone i destini e la comunicabilità, come avvenuto in parte nel caso Sequoia riportato da Jeremy Ghez in un articolo su Grand Continent. Il punto è che una multinazionale è, dalla prospettiva economico-produttiva, un tutt’uno organico. È impossibile dividerla senza romperla, ad esempio creando Alpha Cina, Alpha Usa e Alpha Italia e pretendendo logiche, politiche e decisioni radicalmente diverse a seconda del contesto. L’azienda è interconnessa, vi è un flusso di conoscenze, competenze e rapporti che non si può scindere, a mio parere. La tecnologia, ad esempio, è una, attraverso la quale si progetta, si realizza, si produce. Come si può suddividere il patrimonio in entità separate e tra loro non comunicanti? Significherebbe, di fatto, privare la multinazionale della sua ragion d’essere organizzativa, economica e aziendale.

© Danieli Corus

Negli ultimi anni, le tensioni che percorrono il panorama internazionale hanno sollevato un ulteriore interrogativo per le imprese. Come muoversi rispetto alla politica estera dello Stato di riferimento? E, soprattutto, si può dire che pure le multinazionali, in ultima istanza, non prescindono dalla frammentazione del panorama in Stati nazionali e dalla singola bandiera che, nonostante le numerose filiali e sussidiarie, le identifica?

Dal mio punto di vista, non si può ignorare il fatto che ogni impresa ha un’origine, che per forza di cose è in un certo paese e secondo la sua legge. L’importanza del nesso tra impresa controllante e Stato di origine, e relativa politica estera, è pacifica. Detto questo, ribadisco – rifacendomi soprattutto all’esperienza delle aziende produttive, che è la realtà che conosco meglio – un punto fondamentale: una multinazionale che produce determinati beni opera in diversi paesi e siti produttivi. Ciò significa che, il più delle volte, ci sono migliaia di dipendenti in giro per il mondo, in percentuali maggiori di quelle presenti nello Stato d’origine. Se il cuore è in un posto, vi sono tante altre parti del corpo dislocate per decine e decine di paesi, che hanno altrettanta rilevanza. Peraltro, il tema secondo me si complica quando si va a discutere di filiali aperte in un altro Stato. Queste filiali sono disciplinate dal diritto dello Stato in cui sono costituite, non da quello dello Stato d’origine della controllante. Penso al tema delle sanzioni, la cui complessità deriva anche e soprattutto dalla diversità dei sistemi giuridici che informano le filiali lungo la catena. Spesso, il diritto che le regola non è quello occidentale che ha imposto le sanzioni, pur considerando la portata extraterritoriale che questo intende assumere. Nel momento in cui un soggetto opera all’estero, accetta anche le normative locali di riferimento. Questo rende meno scontata l’implementazione di certe politiche.

La catena non è solo del valore ma dei valori: questi principi possono valere per noi occidentali, ma non per altre realtà, che rispondono a differenti sistemi culturali e giuridici.

FABIO LONDERO

In uno scacchiere globale così anarchico, paiono paralizzati i vari sistemi sovranazionali di risoluzione delle dispute, dagli arbitrati internazionali al WTO, mentre proliferano misure protezionistiche di carattere unilaterale: cosa significa questo nel concreto? Ci troviamo di fronte ad una rivincita, ammesso abbia mai perso, della diversità, tra molteplici Stati nazionali, giurisdizioni, culture, confini e interessi contrapposti, rispetto alle pretese unificatrici del mercato?

Nelle dinamiche politiche, così come in quelle economiche, a partire soprattutto dall’entrata della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001, ci si è illusi sull’esistenza di un mondo pacifico e globalizzato, paradigma che oggi si scontra con un contesto geopolitico radicalmente cambiato. Certo, per una multinazionale il mondo piatto e unificato dal mercato sarebbe il contesto più auspicabile, ma la realtà non è più questa, ammesso sia mai stato veramente così.

Uno degli indici più concreti e interessanti per registrare tali cambi di paradigma è proprio quello delle controversie internazionali, che le multinazionali affrontano ogni giorno. Pensiamo all’arbitrato internazionale: anche in presenza di lodi arbitrali favorevoli, che ad esempio riconoscono il diritto ad ottenere dei beni di una impresa estera, nel concreto la possibilità di enforcement, ossia di eseguire questi lodi nello specifico paese per ottenere tali asset, è spesso impedita da una serie di misure protezionistiche delle singole realtà statuali. Tale tendenza sconfessa, da un certo punto di vista, l’idea del mercato globale regolato da un regime giuridico universale e uniforme. Nonostante le Convenzioni sottoscritte, di fatto risulta sempre più difficile vedersi riconosciuta la sentenza internazionale, a causa di barriere più o meno surrettizie che vengono innalzate dai singoli Stati. Così, anche se si ottiene un lodo favorevole contro un’impresa cinese, o egiziana o brasiliana e via dicendo, poi nel momento in cui si va ad eseguire tale lodo nei rispettivi paesi ove si trovano gli asset, ci si vede opporre una qualche eccezione di ordine pubblico interno che impedisce il riconoscimento del credito. E a cosa serve un lodo arbitrale internazionale che non si riesce a eseguire nel concreto? L’arbitrato internazionale è nato proprio come modello ideale di risoluzione delle controversie a livello sovranazionale, per evitare di affidarsi a sistemi giuridici statali di paesi problematici, ma ciò non è stato sufficiente a svincolare la realtà dalla concreta geografia degli asset, ossia dalla giurisdizione del singolo Stato in cui bisogna poi eseguire i lodi. Questo diventa un problema soprattutto con i soggetti locali, che hanno beni localizzati solo nel proprio Stato di riferimento, mentre le multinazionali hanno quantomeno asset più dislocati.

Trattasi di un altro fattore che può indurre alla frammentazione delle imprese in sezioni tra loro separate. Isole produttive, economiche e giuridiche sempre più indipendenti l’una dall’altra, in modo da ridurre i rischi di essere aggrediti e avvalersi, al caso, delle protezioni domestiche dello Stato. Un mondo che si frammenta in un arcipelago di isole la cui comunicazione è sempre più ridotta. Dai mercati globali ai mercati interni, con una separazione di fatto della capogruppo dalle proprie ramificazioni nei singoli paesi, con minore, se non nullo, trasferimento di ricchezze, competenze e tecnologie. Il problema, però, è che, come dicevo, la multinazionale è un tutt’uno organico, che necessita di scambi, interconnessioni. Ho dei dubbi sulla fattibilità, in concreto, di questo sistema ad arcipelago. Il rischio è che a forza di frammentare si finisca, sostanzialmente, per rovesciare le fondamenta su cui poggia una multinazionale contemporanea.

Una multinazionale è, dalla prospettiva economico-produttiva, un tutt’uno organico. È impossibile dividerla senza romperla

FABIO LONDERO

Rinnovata centralità dello Stato e della politica estera da un lato, maggiore sensibilità delle opinioni pubbliche, specie occidentali, dall’altro. È ormai impossibile per un’impresa emanciparsi dalla tenaglia composta da queste due dimensioni? Ogni fase di transizione comporta rischi, opportunità, cambi di paradigma. Quale può essere secondo te il ruolo della multinazionale al termine, se mai vi sarà un termine, di questo interregno?

Sono dell’idea che in questo mondo frammentato le aziende dovrebbero adottare una politica di basso profilo. Non bisogna ignorare la tenaglia di cui parli, ma proprio perché vi sono plurime e spesso eterogenee pressioni, l’obiettivo potrebbe essere quello tradizionale di perseguire il profitto, inteso come innovazione, efficienza, valore dell’azienda. In questo contesto non si può ignorare il quadro geopolitico, né quello dell’opinione pubblica, ma l’impresa ha una sua dimensione e deve fare i conti con i continui rapporti con le proprie ramificazioni. Quando mi confronto con un manager di un paese straniero, con valori diversi da miei, cosa devo fare? Chi ha ragione? Magari dal mio punto di vista occidentale ho ragione io, però non credo sia nell’interesse dell’impresa alzare un muro per tale mancata condivisione di un’etica comune. Per questo l’azienda dovrebbe fare un passo indietro: alla fine, cosa unisce i diversi manager? Degli scambi efficienti che portino ricchezza. Anche perché le imprese, come soggetti, non hanno alternativa, salvo perdere mercati o dividersi.

Poi certo, c’è chi potrebbe dire che proprio per le turbolenze geopolitiche di questa fase storica le imprese dovrebbero partecipare attivamente alla politica estera dei propri Stati. Questo però dipende dal contesto. Negli Stati Uniti si è sempre registrato, storicamente, un dialogo tra dimensione pubblica e privata, pensiamo alla nascita di Internet, ma stiamo parlando di un mercato enorme e di un paese con una politica estera piuttosto definita, centrale nella sua proiezione. Ma noi italiani? O noi europei? Possiamo avere buoni rapporti con le istituzioni di riferimento, certo. Ma pensiamo all’Europa: al momento è ancora percorsa da diverse geografie politiche, non è una nazione. Esiste veramente una politica industriale europea? Esiste una politica antitrust. O ambientale tuttalpiù. Ma qual è la politica estera e di sovranità europea? Se non si diventa un soggetto politico, si rimane, sostanzialmente, dei mercanti.

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Dove sta andando la Cina di Xi? 15 punti per decodificare le due sessioni, di Neil Thomas, Jing Qian

Dove sta andando la Cina di Xi? 15 punti per decodificare le due sessioni

Neil ThomasJing Qian

A Pechino, l’éminence grise di Xi, Wang Huning, e il suo primo ministro, Li Qiang, hanno messo in scena uno spettacolo ben collaudato.

Le riunioni annuali simultanee del Comitato nazionale della Conferenza politica consultiva del popolo cinese e dell’Assemblea nazionale del popolo sono una miniera di deboli segnali da decifrare. Dai grandi orientamenti economici alle nomine strategiche, 15 punti degli esperti del Centro di analisi cinese di Asia Society per aiutarvi a vedere le cose più chiaramente.

La Cina è ovunque e noi non ne sappiamo quasi nulla. La struttura del nostro dibattito pubblico ci porta a sapere molto di più sulle dinamiche interne del Partito socialista francese che sul funzionamento del più grande partito del mondo, il Partito comunista cinese. La nostra quasi totale ignoranza del sistema politico cinese, delle sue dottrine e delle sue tensioni ci impedisce di pensare collettivamente a come posizionarci nel mondo che Xi Jinping intende plasmare. Questo è un problema. Per più di un anno, sulle pagine della rivista, abbiamo cercato di capire le dinamiche profonde che stanno trasformando la Cina di Xi. Se pensate che questo lavoro di analisi e traduzione meriti di essere sostenuto, vi invitiamo ad abbonarvi a Le Grand Continent.

Dove sta andando la Cina? In un momento in cui i mercati crollano, la crescita rallenta, le tensioni internazionali aumentano all’esterno e la politica interna continua a dettare l’agenda di Pechino, questa domanda diventa sempre più urgente. Le “Due Sessioni” attualmente in corso a Pechino sono una miniera di segnali deboli e senza dubbio uno dei punti di riferimento più decisivi per analizzare le principali tendenze della politica cinese dei prossimi mesi.

1 – Cosa sono le “Due Sessioni” e perché sono importanti?
Le Due Sessioni sono le riunioni annuali concomitanti del Comitato nazionale della Conferenza politica consultiva del popolo cinese (CPPCC) – iniziate il 4 marzo di quest’anno – e del Congresso nazionale del popolo (NPC) – che si apre oggi, 5 marzo. Le riunioni si concluderanno la prossima settimana, intorno all’11 marzo, e dovrebbero essere strutturate su una serie di punti salienti.

Il Comitato nazionale della Conferenza consultiva politica del popolo cinese (CPPCC) è un’organizzazione del Fronte unito che mobilita i gruppi sociali per sostenere e consigliare il Partito-Stato. Strumento chiave per l’attuazione della strategia del PCC, il Fronte unito è una rete di gruppi e individui controllati dal Partito per servire i suoi interessi. Comprende otto partiti politici autorizzati, tra cui il CPPCC.

Il Congresso nazionale del popolo è l’organo legislativo unicamerale della Cina e, in teoria, l’organo supremo del potere statale. Entrambi gli organi sono tuttavia sotto il controllo del Partito Comunista Cinese (PCC), ma svolgono funzioni politiche importanti e distinte.

Un altro motivo per cui le due sessioni dovrebbero essere oggetto di particolare attenzione è che il segretario generale del PCC Xi Jinping non ha ancora convocato la terza sessione plenaria del Comitato centrale del Partito, che tradizionalmente approva le riforme economiche, e il premier Li Qiang ha quindi colto l’occasione per presentare il suo primo rapporto sul lavoro del governo.

RAPPORTO SUL LAVORO DEL GOVERNO, G.W.R.
Il 5 marzo, in occasione della sessione di apertura dell’Anp, il premier Li Qiang ha presentato, a nome del Consiglio per gli Affari di Stato, il suo primo Rapporto sul lavoro del governo (G.W.R.). La lettura di questo documento è il fulcro delle Due Sessioni. Il “rapporto sui progressi del governo” esamina il lavoro dell’anno passato, definisce i requisiti generali e l’orientamento delle politiche di sviluppo per l’anno successivo ed elenca i compiti specifici che il governo perseguirà.

Contiene una serie di sezioni specifiche, tutti segnali deboli da tenere d’occhio.

L’emblema nazionale cinese si riflette sul finestrino di un autobus mentre i delegati lasciano il Paese dopo aver partecipato alla sessione di apertura del Congresso Nazionale del Popolo (NPC) presso la Grande Sala del Popolo a Pechino, martedì 5 marzo 2024. L’obiettivo di crescita ufficiale della Cina per quest’anno è di circa il 5%, ha dichiarato martedì il premier Li Qiang in un rapporto annuale sui piani e i risultati del governo che dà priorità alla sicurezza e all’economia. Foto AP/Andy Wong
2 – Strategia economica: raddoppiare lo “sviluppo di alta qualità”.
L’economia è al centro delle preoccupazioni del rapporto, ma Li Qiang non ha riservato grandi sorprese il 5 marzo. Nel corso di una riunione tenutasi il 19 febbraio1 , ha dichiarato che il Consiglio di Stato avrebbe dovuto “seguire le istruzioni” impartite dal Partito lo scorso dicembre2 in occasione dell’annuale Conferenza centrale sul lavoro economico (CCTE). Sebbene la CCTE abbia indicato uno spostamento tattico a favore della crescita quest’anno, ha affermato la strategia di fondo di Xi, secondo cui lo “sviluppo di alta qualità” è “la dura verità della nuova era”.Li Qiang ha annunciato un obiettivo di crescita del 5% per quest’anno. Il rapporto del CCTE afferma che il Partito manterrà la sua “politica fiscale attiva” e “inasprirà moderatamente la politica fiscale”, “farà un uso efficace dello spazio di politica fiscale” e porrà maggiore enfasi sugli aggiustamenti anticiclici. Nonostante il recente calo dei tassi ipotecari, il differenziale dei tassi d’interesse tra Stati Uniti e Cina e i timori di fuga di capitali fanno sì che l’allentamento monetario sia meno favorito, e la CCTE si impegna a mantenere una “politica monetaria prudente”. La direttiva di “costruire il nuovo prima e sbarazzarsi del vecchio poi” implica anche la determinazione di Pechino a favorire riforme pianificate e incrementali piuttosto che il tipo di shock politico negativo che ha fatto deragliare i mercati nel 2021. Anche il verbale della riunione dell’Ufficio politico del 29 febbraio3 dedicata alla revisione della RTG si impegna a “creare un ambiente politico stabile, trasparente e prevedibile”, ripetendo sostanzialmente i termini del verbale del CCTE.Li Qiang sta cercando di fare appello alle aziende private e alla comunità imprenditoriale per stimolare la ripresa dei consumi, degli investimenti e del mercato azionario. In occasione della riunione plenaria del Consiglio di Stato del 19 febbraio4 , Li Qiang ha dichiarato che Pechino dovrebbe “attuare misure pragmatiche e incisive per rafforzare la fiducia dell’intera società” e, in occasione della riunione esecutiva del Consiglio di Stato del 23 febbraio5 , ha affermato che la stabilizzazione degli investimenti esteri è un “importante fulcro” della politica economica. Pechino sta anche accelerando l’adozione di una legge per promuovere lo sviluppo del settore privato.Tuttavia, l’evidenza finora suggerisce che i cambiamenti politici consisteranno principalmente nel perfezionamento dei meccanismi di politica economica esistenti, piuttosto che nell’impiego di approcci innovativi. Lo stesso Xi sembra considerare gli attuali problemi come la dolorosa ma necessaria contropartita a breve termine per il guadagno a lungo termine di un’economia più sicura e autosufficiente. Rimangono forti dubbi sulla capacità di Xi di mantenere il tasso di crescita della Cina senza riforme strutturali che stimolino i consumi, migliorino le finanze locali e diano un ruolo maggiore alle forze di mercato.

L’enfasi posta dal CCTE sullo “sviluppo di alta qualità” non suggerisce alcuna revisione dell’approccio statalista di Xi. Questo concetto fa parte dell’attuale piano economico di Xi Jinping, presentato al 19° Congresso del Partito nel 2017, integrato nel 14° Piano quinquennale nel 2021 e approfondito al 20° Congresso del Partito nel 2022. Si tratta di un “nuovo concetto di sviluppo” che bilancia il perseguimento della crescita a breve termine con programmi a lungo termine per rendere la crescita più innovativa, coordinata, verde, aperta ed equa. È inoltre associato a un “nuovo paradigma di sviluppo” incentrato sulla domanda interna, sulle tecnologie locali e sulla riduzione della dipendenza dall’estero.

Come previsto, Li Qiang non ha annunciato un riorientamento definitivo della crescita economica rispetto alla sicurezza nazionale – la sconcertante doppia priorità6 del terzo mandato di Xi. Le recenti dichiarazioni, come i commenti di Xi7 sulle relazioni annuali delle istituzioni del Partito-Stato, hanno fatto rumori positivi sull’importanza della questione economica. Tuttavia, il 27 febbraio, il Comitato permanente dell’NPC (NPCSC) ha rivisto la legge sulla protezione dei segreti di Stato per rafforzare ulteriormente lo Stato di sicurezza, introducendo i “segreti di lavoro” come nuova categoria di informazioni riservate che potrebbero interessare le aziende che fanno affari con la Cina. Solo un segnale forte e chiaro potrebbe ripristinare la fiducia nell’ambiente commerciale cinese.

Lo stesso Xi sembra vedere gli attuali problemi come una dolorosa ma necessaria contropartita a breve termine per il guadagno a lungo termine di un’economia più sicura e autosufficiente.
NEIL THOMAS, JING QIAN
Li Qiang ha anche annunciato nuovi approcci nella lunga battaglia di Pechino per aumentare la quota dei consumi rispetto agli investimenti nell’economia e il lancio di una campagna “Consumare senza preoccuparsi”. Una riunione dell’influente Commissione centrale per gli affari finanziari ed economici, tenutasi il 23 febbraio8 , si è concentrata sul potenziale del rinnovamento delle attrezzature industriali, della sostituzione dei beni di consumo e della riduzione dei costi logistici per incrementare i consumi. È probabile che questa idea prenda la forma di un finanziamento centrale per incoraggiare le famiglie a rinnovare le loro automobili, i loro prodotti elettronici e gli elettrodomestici. Questo approccio consente a Pechino di stimolare i consumi in modo gestito e di creare mercati per le industrie high-tech e verdi che sono al centro dell’agenda di Xi.

Des journalistes tentent de prendre des photos alors que le porte-parole du Congrès national du peuple, Lou Qinjian, arrive pour une conférence de presse à la veille du Congrès national du peuple au Grand Hall du peuple à Pékin, le lundi 4 mars 2024. © AP Photo/Ng Han Guan

Ma Xi si oppone all’aumento diretto dei consumi per motivi ideologici, anche se potrebbe essere più efficace per stimolare la crescita. Lo stesso vale per il rafforzamento della rete di sicurezza sociale e l’abolizione delle restrizioni alla migrazione interna e all’uso della terra. Tuttavia, Xi non sembra ancora disposto o preoccupato di perseguire riforme strutturali così profondamente redistributive9. Di conseguenza, un significativo ribilanciamento a favore dei consumi e una ripresa economica sostenuta non sono ancora all’ordine del giorno.

In sostanza, Pechino dovrebbe utilizzare le due sessioni per annunciare misure tattiche per aumentare la fiducia a breve termine nell’economia cinese, ma senza modificare la strategia di fondo di Xi, che prevede uno sviluppo guidato dallo Stato e dagli investimenti. Cambiamenti importanti nella politica economica sono più ipotizzabili in una terza sessione plenaria presieduta da Xi che in un discorso di Li Qiang alle Due Sessioni. Tuttavia, è probabile che la prossima sessione plenaria, che si terrà nel corso dell’anno, affronti il tema della politica economica se le prospettive di crescita della Cina sono scarse.

È più probabile che una terza sessione plenaria presieduta da Xi preveda importanti cambiamenti nella politica economica piuttosto che un discorso di Li Qiang alle Due Sessioni.
NEIL THOMAS, JING QIAN
3 – Un obiettivo di crescita del 5%
I titoli dei giornali sulla RTG si concentreranno sull’annuncio dell’obiettivo di crescita del PIL per il 2024. Questa cifra è un segnale importante per i politici sulla priorità da dare alla crescita rispetto ad altri obiettivi politici. L’anno scorso, il premier uscente Li Keqiang aveva fissato un obiettivo di “circa il 5%”, considerato relativamente modesto visto che i blocchi e i confinamenti legati al Covid-19 avevano ridotto la crescita nel 2022. Pechino sostiene che l’economia è cresciuta del 5,2% nel 2023, ma la maggior parte degli analisti esterni è scettica su questa affermazione, con stime sulla crescita effettiva della Cina che arrivano all’1,5%10.

Li Qiang ha rivelato un ambizioso obiettivo di crescita del 5% per il nuovo anno. La maggior parte dei governi provinciali, che a gennaio e febbraio riuniscono anche le due assemblee locali, hanno proclamato obiettivi di crescita simili, con una media ponderata del 5,4% – in leggero calo rispetto al 5,6% del 2023. Il governo centrale in genere fissa un obiettivo leggermente inferiore, poiché svolge un ruolo maggiore nel bilanciare la crescita economica con altre priorità politiche. Quest’anno, solo Pechino, Liaoning, Tianjin e Zhejiang hanno rivisto al rialzo i loro obiettivi, il che riflette meglio il desiderio del governo centrale di privilegiare la qualità rispetto alla quantità quando si tratta di sviluppo.

Rispetto allo scorso anno, un obiettivo di crescita di circa il 5% rimane relativamente ambizioso, soprattutto se si considera la lentezza della ripresa cinese post-Covida, le difficoltà del settore immobiliare, la ricorrente deflazione e il calo della fiducia di imprese e consumatori. Questo obiettivo indicherebbe un focus tattico sul ripristino della fiducia e della spesa. Un obiettivo più basso, intorno al 4,5%, suggerirebbe una maggiore attenzione ai programmi di regolamentazione e potrebbe destabilizzare le imprese e i mercati, mentre un obiettivo più alto, intorno al 5,5%, rafforzerebbe le aspettative di ripresa.

Rispetto all’anno scorso, un obiettivo di crescita di circa il 5% rimane relativamente ambizioso, soprattutto se si considera la lentezza della ripresa cinese post-Covida.
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4 – Un obiettivo di deficit: misure di stimolo limitate e maggiore enfasi sulle imprese statali
È improbabile che vengano adottate misure di stimolo in stile bazooka. Xi è determinato ad allontanare l’economia da un modello di crescita basato su un debito rischioso e ancorato al mercato immobiliare, e il Paese è ben lontano da un collasso che potrebbe travolgere il sofisticato apparato di sicurezza interna del Partito. In un discorso tenuto a Davos il 16 gennaio11, Li Qiang ha lasciato intendere che non ci saranno “potenti stimoli” come la crisi finanziaria del 2008 o il crollo del mercato azionario del 2015.

Des officiers militaires chinois arrivent au Grand Hall du Peuple pour assister à une session préparatoire de l’Assemblée populaire nationale (APN) à Pékin, le lundi 4 mars 2024. © AP Photo/Andy Wong
Sono previste misure di stimolo, ma probabilmente saranno moderate rispetto al rallentamento dell’economia cinese. L’anno scorso, Li Keqiang ha annunciato un obiettivo del 3% del PIL, tradizionalmente considerato un limite massimo, ma il CPANP ha rivisto questo obiettivo al 3,8% in ottobre, emettendo 1.000 miliardi di RMB di buoni del tesoro speciali per sostenere la crescita attraverso gli aiuti per i disastri. Li Qiang ha annunciato un rapporto deficit/PIL del 3% per il 2024.Ma l’obiettivo di crescita del PIL del 5% per quest’anno richiederà ulteriori stimoli fiscali o monetari. Il ministro delle Finanze Lan Fo’an ha già dichiarato che la spesa fiscale aumenterà quest’anno e che le emissioni obbligazionarie dell’anno scorso saranno rinviate. Pechino potrebbe fornire un ulteriore sostegno fiscale12 nel corso dell’anno attraverso circa 1.000 miliardi di yuan di obbligazioni speciali del Tesoro e 4.000 miliardi di yuan di obbligazioni speciali per gli investimenti in infrastrutture locali.L’attuale rallentamento strutturale del settore immobiliare, dovuto al calo della domanda, continuerà a turbare il mercato immobiliare e la salute finanziaria delle amministrazioni locali.
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L’attuale rallentamento strutturale del settore immobiliare, dovuto al calo della domanda, continuerà a sconvolgere il mercato immobiliare e la salute finanziaria delle amministrazioni locali. In risposta, ci si aspetta che Pechino faccia sempre più affidamento sulle imprese statali (SOE) per assorbire i debiti e completare i progetti incompiuti dei costruttori immobiliari in difficoltà. Inoltre, è probabile che la costruzione di alloggi a prezzi più accessibili diventi una priorità ancora più alta. Un altro punto da tenere d’occhio, che indicherà se una maggiore liquidità nel settore immobiliare sarà all’ordine del giorno, è se Li Qiang supererà il mantra secondo cui “le case sono per viverci, non per speculare”.L’accentramento del potere da parte di Xi rende improbabili riforme strutturali volte a rafforzare la capacità fiscale dei governi locali, anche se questo è il modo più efficace per ridurre la loro dipendenza dalle entrate immobiliari e porre rimedio alla loro disastrosa situazione finanziaria. È probabile invece che Pechino si concentri su soluzioni per ripianare i debiti locali esistenti, come l’eliminazione graduale delle politiche di taglio delle tasse dell’era Covid, l’ulteriore centralizzazione dei sistemi pensionistici a livello provinciale, l’emissione di un maggior numero di obbligazioni per ristrutturare il debito dei meccanismi di finanziamento dei governi locali e l’eventuale introduzione di un sistema di sovvenzioni in conto capitale per le province più povere. Tuttavia, è probabile che queste misure positive siano accompagnate da un maggiore controllo dei funzionari locali nelle province più povere, con conseguenti epurazioni anticorruzione e un’attuazione disomogenea delle politiche nelle varie province.

5 – Tecnologia e politica industriale: le “nuove forze produttive
È probabile che il rapporto faccia eco alla strategia di Xi di favorire una politica industriale tecnologica e manifatturiera guidata dal Partito rispetto alle riforme guidate dal mercato per affrontare le sfide economiche della Cina. Il 31 gennaio Xi Jinping ha presieduto una sessione di studio dell’Ufficio politico incentrata sull'”accelerazione dello sviluppo” delle “nuove forze produttive”, un concetto introdotto a settembre durante un tour di ispezione nello Heilongjiang. Xi ha dichiarato che lo sviluppo delle nuove forze produttive è “un requisito intrinseco e un asse importante per promuovere uno sviluppo di alta qualità”, il che riassume il suo approccio economico emblematico e indica che in futuro potrebbero occupare un posto importante nella definizione delle politiche. Gli esperti selezionati per condividere con Li Qiang il loro punto di vista sul progetto RTG durante l’incontro del 23 gennaio erano principalmente tecnologi, tra cui Robin Li, CEO di Baidu, Yan Jianwen, presidente di un’azienda di produzione intelligente, e Wang Chunfa, un’autorità in materia di politica dell’innovazione.

Secondo Xi, le nuove forze produttive sono quelle in cui “l’innovazione gioca un ruolo di primo piano” e il “principale indicatore” del loro successo è “un aumento significativo della produttività totale dei fattori”. La crescita della produttività cinese, e in particolare il suo differenziale di produttività rispetto agli Stati Uniti, è diminuita notevolmente negli ultimi anni, a causa della crescita dello Stato e della riduzione del settore privato. Se l’innovazione riuscirà a invertire questa tendenza, aiuterà Pechino ad affrontare sfide economiche come il debito, la demografia e le restrizioni occidentali al commercio e agli investimenti. I massicci investimenti nello sviluppo di tecnologie più avanzate contribuiranno ad aumentare la produttività totale dei fattori, incrementando il valore aggiunto del capitale e del lavoro. Ma è improbabile che possano risolvere i problemi strutturali, ripristinare la fiducia e rilanciare la crescita a un livello vicino a quello che sarebbe possibile con un approccio più orientato al mercato.

Il 31 gennaio Xi Jinping ha presieduto una sessione di studio dell’Ufficio politico incentrata sull'”accelerazione dello sviluppo” delle “nuove forze produttive”, un concetto che ha introdotto durante un tour di ispezione nello Heilongjiang a settembre.
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Il rallentamento della crescita globale e il dirigismo di Xi verso i mercati, il denaro e l’innovazione hanno una chiara conseguenza: i segnali politici stanno diventando sempre più cruciali per le imprese e gli investitori. Il 19 febbraio13 Xi Jinping ha dichiarato alla potente Commissione per l’approfondimento delle riforme che il Partito deve concentrarsi su “cosa deve fare l’innovazione, chi deve organizzare l’innovazione e come sostenere, incoraggiare e proteggere l’innovazione”. I suoi recenti discorsi suggeriscono che investire in nuove forze produttive significa un maggiore sostegno politico alla modernizzazione delle vecchie industrie e alla costruzione di nuove, tra cui l’industria manifatturiera avanzata, la tecnologia agricola, l’intelligenza artificiale, la biotecnologia, l’aviazione commerciale, il digitale, i droni, la tecnologia verde, le scienze della vita, l’informatica quantistica e il capitale di rischio. In occasione di un incontro con economisti giapponesi il 25 gennaio14, Li Qiang ha dichiarato che l’economia digitale, le industrie verdi, la sanità e l’assistenza agli anziani sono settori particolarmente graditi agli investimenti stranieri.

6 – Politica estera: priorità alla stabilità tra Stati Uniti e Cina?
È improbabile che Li Qiang annunci cambiamenti sostanziali alla politica estera cinese, che viene decisa principalmente dalle istituzioni del Partito, dominate da Xi. La sua relazione sulla politica estera riprenderà probabilmente i temi della Conferenza centrale sugli affari esteri15 tenutasi a dicembre. L’autorevole verbale di tale riunione ha fornito la più forte articolazione della strategia diplomatica emergente della Cina per contrastare la leadership degli Stati Uniti, allineandosi con il Sud globale su linee di faglia come il cambiamento climatico, il libero commercio o la Palestina. Questa posizione riflette la crescente sensazione di Pechino di poter sfruttare le crescenti divisioni in Occidente, dall’Ucraina a Gaza, nonché la possibilità di una nuova presidenza di Donald Trump negli Stati Uniti.

Des hôtesses se préparent à verser du thé avant la session d’ouverture de la Conférence consultative politique du peuple chinois dans le Grand Hall du peuple à Pékin, le lundi 4 mars 2024. © AP Photo/Ng Han Guan

Il 7 marzo, il ministro degli Esteri – chiunque sia in quel momento – terrà una conferenza stampa annuale sulle priorità della politica estera cinese per il 2024. Alla conferenza dello scorso anno, tenutasi poche settimane dopo l'”incidente del palloncino” che ha fatto deragliare le relazioni tra Stati Uniti e Cina, l’ex ministro Qin Gang (poi scomparso dalla scena pubblica l’estate scorsa e licenziato senza spiegazioni) ha criticato l’appello del presidente statunitense Joe Biden a “salvaguardare” la gestione della diplomazia bilaterale. Ora, dopo la fragile stabilizzazione raggiunta al vertice di Woodside lo scorso novembre, qualsiasi commento sulle “salvaguardie” potrebbe riflettere l’attuale disposizione di Xi verso i gruppi di lavoro bilaterali e i meccanismi di controllo delle crisi, e quindi le loro prospettive di successo. È probabile che quest’anno Xi dia priorità alla stabilità per migliorare la fiducia delle imprese in vista delle elezioni americane. Li Qiang incontrerà il presidente della Camera di commercio statunitense il 28 febbraio16 e il vicepresidente Han Zheng sarà l’ospite d’onore di una cena organizzata da AmCham China, la Camera di commercio statunitense in Cina.

È improbabile che Li Qiang annunci cambiamenti importanti nella politica estera cinese, che è decisa principalmente dalle istituzioni del Partito, dominate da Xi.
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Li Qiang dovrebbe anche ripetere le formule standard sulla politica di difesa, come il raggiungimento di alcuni obiettivi di modernizzazione entro il centenario dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA) nel 2027, una fase di una più ampia trasformazione le cui principali scansioni sono posizionate nel 2035 e nel 2049. I rapporti sul bilancio riveleranno anche la spesa prevista da Pechino per la difesa nazionale, che si prevede continuerà ad aumentare. L’anno scorso, il budget militare annunciato era di 1.550 miliardi di yuan, con un aumento del 7,2% rispetto ai 1.450 miliardi di yuan previsti per il 2022. Tuttavia, questi dati di crescita devono essere interpretati con cautela17 , soprattutto se confrontati con i dati del PIL, in quanto rappresentano aumenti nominali piuttosto che reali. Quest’anno, Li ha annunciato che il bilancio militare raggiungerà i 1.660 miliardi di yuan (231 miliardi di dollari) – un aumento del 7,2%, come l’anno scorso.

7 – Taiwan e Hong Kong: verso una graduale escalation?
Le posizioni di Pechino su Taiwan e Hong Kong stanno attirando l’attenzione, ma è improbabile che si verifichino cambiamenti politici significativi. Il rapporto include ancora alcune righe su questi argomenti, ma gli analisti dovrebbero essere cauti prima di diagnosticare grandi cambiamenti politici, poiché è più probabile che provengano da Xi. Nel 2020, ad esempio, l’ex premier Li Keqiang ha omesso la parola “pacifico” quando si è riferito al desiderio di Pechino di “riunificare” Taiwan – un allontanamento dalla frase abituale, che alcuni media hanno interpretato come un segnale di “imminente” aggressione. Tuttavia, questa parte del rapporto è stata abbreviata per tenere conto della discussione su Covid-19, e altri funzionari si sono affrettati a ribadire la preferenza di Pechino per la “riunificazione pacifica”.

L’aspetto più interessante da osservare quest’anno è se il rapporto del governo e il CPPCC si impegneranno a “combattere” piuttosto che semplicemente a “opporsi” o a “limitare” l’indipendenza di Taiwan. L’ideologo Wang Huning, anche lui membro del Comitato permanente dell’Ufficio politico, ha usato per la prima volta questo linguaggio in occasione di una conferenza annuale su Taiwan il 23 febbraio18, anche se funzionari di livello inferiore avevano già usato questa espressione negli anni precedenti. Il termine “combattimento” suggerirebbe un maggiore impegno nel dispiegare intimidazioni militari e sanzioni economiche per dissuadere il nuovo presidente di Taiwan, Lai Ching-te, dal cercare una maggiore autonomia dalla Cina continentale.

La cosa più interessante da osservare quest’anno è se il rapporto del governo e il CPPCC si impegneranno a “combattere” piuttosto che semplicemente a “opporsi” o a “contenere” l’indipendenza di Taiwan. Wang Huning ha usato questo linguaggio per la prima volta il 23 febbraio.
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8 – Altri punti politici da tenere d’occhio
Il rapporto include una sezione sulla protezione sociale, che sta diventando sempre più importante per la legittimità politica, dato che la crescita rallenta e il rischio di instabilità sociale aumenta, come evidenziato nel rapporto di Asia Society China 2024: What to Watch. Come l’anno scorso, la GTR dovrebbe puntare a circa 12 milioni di nuovi posti di lavoro urbani e a un tasso di disoccupazione urbana non superiore al 5,5%, ponendo maggiore enfasi sulla disoccupazione giovanile e sull’assicurazione contro la disoccupazione per i lavoratori migranti. Il governo dovrebbe inoltre rispondere alle sfide socio-economiche poste dall’invecchiamento della popolazione, aumentando il sostegno alla cura dei bambini e degli anziani.

Il rapporto comprende anche una sezione sulla politica ambientale e climatica, ma anche in questo caso è improbabile che vengano fatti nuovi annunci importanti. È possibile che venga data maggiore enfasi alle tecnologie verdi come l’energia solare, le batterie e i veicoli elettrici – i “tre nuovi settori” che potrebbero diventare importanti motori di crescita. Tuttavia, sebbene la capacità di produzione di energia pulita stia crescendo a un ritmo costante, la Cina è ancora lontana dal raggiungere gli obiettivi di riduzione dell’intensità energetica e delle emissioni di carbonio fissati per il 2025. Sarà interessante vedere se il discorso di Li Qiang indicherà che Pechino è ancora determinata a fare il necessario per raggiungere questi obiettivi nel contesto di una traiettoria economica più impegnativa.

Des membres de l’orchestre militaire chinois répètent, un jour avant la session d’ouverture de la Conférence consultative politique du peuple chinois dans le Grand Hall du peuple à Pékin, le lundi 4 mars 2024. © AP Photo/Ng Han Guan

L’NPC ascolterà anche i rapporti annuali della Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme (NDRC) sullo sviluppo economico e sociale e del Ministero delle Finanze (MOF) sui bilanci centrali e locali, nonché i rapporti di lavoro del Comitato permanente dell’NPC (NPCSC), della Corte suprema del popolo (SPC) e della Procura suprema del popolo (SPP). Si terranno inoltre le deliberazioni finali sulla prima revisione della Legge organica del Consiglio per gli Affari di Stato adottata nel 1980, che modificherà l’organizzazione del Consiglio in modo da rafforzare il controllo e il potere dell’Anp.

Per quanto riguarda la dimensione ambientale, è possibile che l’attenzione si concentri sulle tecnologie verdi come l’energia solare, le batterie e i veicoli elettrici – i “tre nuovi settori” che potrebbero diventare importanti motori di crescita per l’economia cinese.
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Il rapporto di lavoro del CPANP fornirà indizi su quali punti del suo piano legislativo quinquennale19 saranno inclusi nel piano legislativo annuale che pubblicherà ad aprile. Tra le leggi in sospeso relative alla politica economica e alle operazioni commerciali che la CPANP potrebbe considerare prioritarie quest’anno vi sono la legge sull’imposta sui consumi, la legge sulla stabilità finanziaria, la legge sulle controversie di interesse pubblico, la legge sulle tariffe doganali e la legge sull’imposta sul valore aggiunto, nonché le revisioni della legge sulla contabilità, della legge contro la concorrenza sleale, della legge sulle dogane, della legge sul fallimento delle imprese, della legge sul commercio estero e della legge sulle assicurazioni.

COSA FARÀ LA XI?
Le Due Sessioni sono uno dei pochi eventi politici in Cina in cui Xi non è in prima linea. I riflettori saranno teoricamente puntati sul premier Li Qiang, sul presidente dell’ANP Zhao Leji e sul presidente del CPPCC Wang Huning. Le foto di questi luogotenenti adorneranno la prima pagina del Quotidiano del Popolo, l’organo ufficiale del Partito, ma il giornale continuerà a seguire ogni mossa di Xi, offrendo servizi dietro le quinte che spesso rivelano più dei resoconti principali delle sue attività.

9 – I commenti di Xi: grandi temi politici
I contributi più importanti di Xi durante le Due Sessioni sono i discorsi che fa alle delegazioni provinciali dell’ANP e ai gruppi settoriali della CPPCC, la Conferenza consultiva politica del popolo cinese. Nel 2023 si è rivolto ai delegati dell’Anp del Jiangsu, una riunione congiunta di due gruppi del CPPCC, l’Associazione per la costruzione democratica della Cina (ADCC) e la Federazione nazionale dell’industria e del commercio cinese (NFICC), oltre che ai delegati del PLA, l’Esercito popolare di liberazione, e della Polizia armata del popolo dell’Anp. Xi si rivolge sempre a questo contingente militare, ma in genere visita province e settori diversi da un anno all’altro.

Le Due Sessioni sono uno dei pochi eventi politici in Cina in cui Xi non è in primo piano.
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Questi interventi spesso riflettono o prefigurano temi chiave della politica nazionale. L’anno scorso, ad esempio, Xi ha detto ai delegati del Jiangsu20 che “la chiave per diventare una moderna potenza socialista come previsto è l’autosufficienza tecnologica e l’auto-miglioramento”. Un aneddoto21 ha rivelato che ha aggiunto: “Non dobbiamo mai intraprendere la strada dell’urgenza per ottenere risultati, prosciugare lo stagno per catturare i pesci e preoccuparci solo del PIL”. Alla riunione FNICC-ACDC22 , Xi ha affermato che “i Paesi occidentali, guidati dagli Stati Uniti, hanno attuato il contenimento, l’accerchiamento e la repressione contro la Cina”.

Questi commenti indicano politiche interne che privilegiano la sicurezza rispetto alla crescita e politiche estere che enfatizzano i legami con la Russia e il Sud globale. Tuttavia, è più difficile prevedere il quadro e i messaggi delle attività di Xi rispetto a quelli del rapporto di lavoro del governo. Un punto da tenere d’occhio è se Xi visiterà la delegazione dell’ANP nello Hunan, dove il segretario locale del partito ha recentemente lanciato23 una “grande campagna di discussione per emancipare la mente”, che ha generato un notevole – ma probabilmente ingiustificato24 – clamore mediatico su una revisione della politica economica.

10 – Risultati del voto dell’ANP: una misura del dominio di Xi
Anche la presa di Xi sul Partito sarà attentamente monitorata. L’ANP ha approvato tutto ciò che è stato messo ai voti, ma i margini di approvazione non sono unanimi, poiché il cosiddetto voto anonimo incoraggia alcuni delegati a esprimere la propria insoddisfazione nei confronti di determinate politiche o funzionari votando “no” o astenendosi. Nel marzo 2013, ad esempio, dopo che l’inquinamento atmosferico aveva raggiunto livelli record a Pechino, solo il 67% dei delegati ha approvato la lista di nomi per il nuovo comitato ambientale dell’Anp.

La media annuale dei voti25 dell’NPC a favore del RTG, del rapporto sullo sviluppo della NDRC (la Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme), del rapporto sul bilancio del Ministero delle Finanze e dei rapporti di lavoro del Comitato permanente dell’NPC (NPCSC), della Corte Suprema del Popolo (SPC) e della Procura Suprema del Popolo (SPP) è salita da un minimo dell’85,3% nel 2013, poco prima che Xi diventasse presidente, a un massimo del 98,6% nel 2023, due decenni dopo. Il fatto che un numero maggiore di delegati scelga o si senta obbligato ad approvare ogni mossa di Pechino dimostra la maggiore presa di Xi sul potere rispetto ai suoi predecessori. È probabile che anche quest’anno le votazioni siano quasi unanimi, ma il malessere economico solleva la possibilità di voti di protesta che potrebbero scuotere la facciata di invincibilità di Xi. Questo è un altro punto delicato da tenere d’occhio.

Il fatto che un numero maggiore di delegati scelga o si senta obbligato ad approvare ogni mossa di Pechino dimostra la maggiore presa di Xi sul potere rispetto ai suoi predecessori.
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11 – La conferenza stampa del primo ministro: conoscere Li Qiang
Al termine delle Due Sessioni, Li Qiang avrebbe dovuto tenere la sua seconda conferenza stampa annuale come Primo Ministro, seguendo una tradizione iniziata da Li Peng nel 1991 e formalizzata da Zhu Rongji nel 1998. Ma Pechino l’ha cancellata del tutto.

L’anno scorso, Li Qiang ha spiegato26 che Pechino riteneva di poter gestire le ricadute sociali del rallentamento della crescita perseguendo altre priorità politiche, affermando che “la maggior parte delle persone non è interessata alla crescita quotidiana del PIL, ma piuttosto alla casa, all’occupazione, al reddito, all’istruzione, all’assistenza medica, all’ambiente e ad altre cose concrete che le circondano”. Con un tono più sovversivo, Li Keqiang ha usato la sua famosa conferenza stampa del 202027, l’ultimo anno della guerra di Xi alla povertà, per dichiarare che 600 milioni di cinesi guadagnavano ancora solo circa 1.000 yuan al mese (140 dollari). Nella sua ultima conferenza stampa del 2012528, Wen Jiabao ha chiesto di approfondire la “riforma strutturale politica”. Quest’anno, quindi, non sentiremo il Primo Ministro cinese parlare in questo modo.

Le Premier ministre chinois Li Qiang boit pendant qu’il présente son rapport de travail lors de la session d’ouverture de l’Assemblée Nationale Populaire (ANP) au Grand Hall du Peuple à Pékin, Chine, mardi 5 mars 2024.© AP Photo/Andy Wong

12 – Copertura di leader e delegati: politica d’élite e relazioni tra Stato e società
Altri punti di vigilanza politica riguardano il profilo dei principali luogotenenti di Xi. Il suo capo di gabinetto, Cai Qi, avrà un ruolo di primo piano nella copertura ufficiale, a differenza dei precedenti congressi? Se così fosse, ciò confermerebbe il crescente favore di cui gode come “vice segretario generale” informale di Xi. Li Qiang riceverà più spazio sul Quotidiano del Popolo rispetto a Li Keqiang? Se sì, questo indicherebbe che gode di maggiore fiducia politica e di un campo d’azione più ampio rispetto al suo predecessore. Lo stesso varrà per Zhao Leji o Wang Huning?

Cai Qi, il capo dello staff di Xi Jinping, avrà un ruolo di primo piano nella copertura ufficiale, a differenza dei precedenti congressi? Se così fosse, ciò confermerebbe il crescente favore di cui gode come “vice segretario generale” informale di Xi.
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Più in basso nella gerarchia politica, seguire i delegati e le proposte avanzate dai media del partito dà una buona indicazione delle questioni che il partito vuole far conoscere all’opinione pubblica, sia per affermare la propria legittimità sia per evidenziare le aree prioritarie per le politiche future. Alcune proposte di legge presentate dai delegati possono persino influenzare la direzione e il ritmo dell’agenda legislativa dell’ANP29. Negli ultimi anni, i temi più gettonati sono stati il rafforzamento della tutela ambientale, la possibilità di creare una famiglia a prezzi più accessibili e la creazione di posti di lavoro per i laureati. Queste priorità riflettono la continua, seppur limitata, interazione tra Stato e società in Cina: lo Stato continua a monitorare le principali fonti di insoddisfazione della società e cerca di rispondervi.

RISORSE UMANE: UN RITORNO ALLA NORMALITÀ NEI MINISTERI DEGLI AFFARI ESTERI E DELLA DIFESA?
L’inizio dello scorso anno ha visto il completamento del trionfo politico di Xi iniziato al 20° Congresso del Partito nell’ottobre 2022: la selezione di una lista di fedelissimi per le posizioni di leadership nell’Anp, nel Pcc e nel Consiglio per gli Affari di Stato era stata assicurata prima e durante le Due Sessioni del marzo 202330.

Ma alcune di queste scelte si sono presto rivelate sconsiderate. Qin Gang è stato destituito da ministro degli Esteri a luglio e si è dimesso da delegato dell’Anp il 27 febbraio31, presumibilmente a causa di indiscrezioni personali quando era ambasciatore negli Stati Uniti. Li Shangfu è stato destituito da ministro della Difesa a ottobre, in seguito a notizie che lo vedevano indagato per corruzione. Entrambi sono stati contemporaneamente rimossi dai loro incarichi di Consiglieri per gli Affari di Stato, una posizione di alto livello che li collocava tra le poche decine di leader della Cina.

Pechino dovrebbe approfittare delle Due Sessioni per completare la transizione ai loro successori. L’approvazione delle decisioni sul personale nella sessione annuale dell’NPC, composta da 2.977 membri, anziché nella riunione bimestrale del Comitato permanente dell’NPC (NPCSC), composto da 175 membri, che ha poteri simili in materia di personale, conferisce un’ulteriore patina di legittimità a questi cambiamenti inattesi.

12 – Un nuovo ministro degli Esteri?
Liu Jianchao è il chiaro favorito per diventare il nuovo ministro degli Esteri cinese. Liu è attualmente direttore a livello ministeriale del dipartimento internazionale del partito, che si occupa delle relazioni tra le parti piuttosto che tra gli Stati. Diplomatico esperto, è stato viceministro degli Esteri, capo della lotta alla corruzione all’estero di Xi, capo della disciplina della base di potere di Xi nella provincia di Zhejiang e vicedirettore dell’Ufficio centrale degli Esteri (CFO) del partito sotto Xi. Tra gli altri candidati figurano Ma Zhaoxu, viceministro esecutivo degli Affari esteri, che ha recentemente rappresentato la Cina alla riunione dei ministri degli Esteri del G20, e Liu Haixing, ex diplomatico e vice direttore esecutivo della Commissione centrale per la sicurezza nazionale.

Liu Jianchao è il favorito per diventare il nuovo ministro degli Esteri cinese.
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Liu è l’unico diplomatico di livello ministeriale attivo all’interno del Comitato centrale e il suo fitto programma di viaggi diplomatici ad alto livello fa pensare che sia stato messo alla prova per la promozione. A gennaio, ha guidato una delegazione insolitamente variegata di diplomatici, economisti e funzionari provinciali negli Stati Uniti, dove ha incontrato il Segretario di Stato Antony Blinken e una vasta gamma di funzionari, dirigenti e accademici. Liu è un diplomatico di talento e un inglese sofisticato, capace di difendere gli interessi della Cina senza alienarsi gli interlocutori. Potrebbe aiutare Xi a stabilizzare le relazioni con l’Occidente e a riparare alcuni dei danni causati dalla diplomazia aggressiva dei “lupi di guerra”.

Ma Liu potrebbe non essere trattenuto. Wang Yi, il numero uno della diplomazia cinese, che fa parte dell’Ufficio politico del Partito composto da 24 persone e che è a capo del CFAO, ha sostituito Qin come ministro degli Esteri lo scorso luglio, assumendo il ruolo che ha ricoperto dal marzo 2013 al dicembre 2022. Wang è ampiamente visto come un custode, dato che ricopre un’altra posizione di alto livello, ma ora domina lo spazio della politica diplomatica sotto Xi, portando alcuni a Pechino a ipotizzare che possa mantenere il suo ruolo.

Se Liu diventerà ministro degli Esteri, ci si chiede se diventerà anche consigliere per gli Affari di Stato. In tal caso, sarebbe l’erede di Wang come diplomatico di punta dopo il 21° Congresso del Partito nel 2027 e avrebbe più voce in capitolo nel processo decisionale. In caso contrario, rimarrebbe ben al di sotto di Wang nella gerarchia e potrebbe ricorrere a politiche più bellicose per cercare di impressionare Xi.

Se Liu diventerà ministro degli Esteri, la domanda è se diventerà anche consigliere di Stato. In tal caso, sarebbe l’erede designato di Wang.
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13 – Nuove promozioni per il nuovo ministro della Difesa?
Dong Jun ha sostituito Li Shangfu come Ministro della Difesa a dicembre. Si prevede che l’Assemblea Nazionale del Popolo lo promuova alla carica di Consigliere per gli Affari di Stato e alla Commissione Militare Centrale di Stato (CMC), che è la controparte dell’omonimo organo del Partito, identico ma più autoritario. Dong è membro del Comitato centrale, ma dovrà attendere la terza sessione plenaria per poter entrare nella CMC del Partito.

Dong è comandante della Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA) dall’agosto 2021. È il primo ufficiale di marina a ricoprire la carica di ministro della Difesa, una novità assoluta per la marina sotto Xi e uno dei tanti segnali della crescente enfasi di Pechino sul potere marittimo. Dong ha anche esperienza di comando in aree sensibili come il Mar Cinese Orientale e il Mar Cinese Meridionale, a testimonianza dell’importanza che Xi attribuisce all’avanzamento delle rivendicazioni marittime di Pechino in queste aree.

Le personnel de sécurité enlève une protection contre la pluie pour les marches du Grand Hall du Peuple avant la session d’ouverture de l’Assemblée populaire nationale (APN) à Pékin, Chine, mardi 5 mars 2024. © AP Photo/Ng Han Guan

14 – Nuovi consiglieri per gli Affari di Stato?
Dong è il principale diplomatico militare cinese, mentre Liu sarebbe il principale interlocutore della Cina con i governi stranieri. Dare loro gli stessi ruoli e poteri dei loro predecessori aiuterebbe Pechino a migliorare il suo profilo internazionale in un momento di grande incertezza economica e di conflitti geopolitici. Se né Dong né Liu diventeranno Consiglieri di Stato, ciò potrebbe segnalare un maggior grado di sfiducia e paralisi al centro della leadership di Xi e prospettive peggiori per i tentativi della Cina di gestire le tensioni con l’Occidente e guidare il Sud globale.

Se né Dong né Liu diventeranno Consiglieri per gli Affari di Stato, ciò potrebbe indicare un maggior grado di sfiducia e paralisi al centro della leadership di Xi.
NEIL THOMAS, JING QIAN
15 – Altri rimpasti?
Secondo alcune voci, Wang Qingxian, governatore dell’Anhui, potrebbe sostituire Sun Yeli come direttore dell’Ufficio informazioni del Consiglio di Stato, la principale agenzia di propaganda esterna del Partito. Wang è un ex giornalista che ha lavorato con diversi collaboratori di Xi nello Shanxi e nello Shandong. La sua nomina, che segue gli appelli di Xi a migliorare la propaganda economica, darebbe maggior peso all’idea che Xi consideri le difficoltà del mercato cinese soprattutto un problema di discorso. Meng Fanli, segretario del partito della città di Shenzhen, potrebbe succedere a Wang nell’Anhui.

Un’altra voce sostiene che la leadership del Ministero dell’Ecologia e dell’Ambiente (MEE) potrebbe essere rinnovata per la prima volta dall’aprile 2020. Questa idea è più speculativa, poiché il segretario del partito Sun Jinlong e il ministro Huang Runqiu sono entrambi ben al di sotto dell’età di pensionamento ministeriale di 65 anni. Tuttavia, Sun era legato alla fazione ormai decimata della Lega della Gioventù Comunista e Huang non è un membro del Partito Comunista, quindi Xi potrebbe volerli sostituire con alleati politici più stretti. Un’altra possibilità è la sostituzione del ministro dei trasporti Li Xiaopeng – figlio dell’ex premier Li Peng – che compie 65 anni a giugno e ricopre la carica dal 2016.

SOURCES
  1. 李强主持召开国务院第三次全体会议
  2. Xi Signals More Growth but Same Strategy at China’s Central Economic Work Conference | Asia Society
  3. 中共中央政治局召开会议讨论政府工作报告中共中央总书记习近平主持会议
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CRÉDITS
Cette étude a été produite par Asia Society. En plus des auteurs, les experts Taylah Bland, Andrew Chubb, G.A. Donovan, Jie Gao, Bates Gill, Bert Hofman, Lizzi C. Lee, Li Shuo, Kate Logan, Lyle Morris, Haolan Wang, Shengyu Wang, Guoguang Wu, Gavin Xu, Hongjia Yang et Yifan Zhang y ont également contribué. Nous remercions Philippe Le Corre pour la mise en relation.

 

LA DOTTRINA PRIMAKOV, a cura di GILLES GRESSANI

LA DOTTRINA PRIMAKOV

Per capire Putin, è necessario rileggere la prima traduzione francese del testo chiave della dottrina geopolitica russa più influente e meno conosciuta.

AUTEUR
GILLES GRESSANI

TRAD.
DANYLO KHILKO
La doctrine Primakov

Siamo lieti di pubblicare la prima traduzione francese di uno dei testi più rari e influenti della geopolitica russa contemporanea. L’autore, Yevgeny Primakov, allora ministro degli Esteri nei governi Chernomyrdin e Kirienko, è senza dubbio uno dei più influenti operatori delle relazioni internazionali della fine del XX secolo. La direzione che ha dato alla politica estera russa durante il suo mandato rimane fondamentale per la classe politica russa, come è stato recentemente riconosciuto da Sergei Lavrov, il potente ministro degli Esteri dell’amministrazione Putin, attento lettore di questo testo inedito in francese.1 La sua lezione, all’attenzione di avversari politici del calibro di Henry Kissinger, deve quindi essere studiato da vicino.


Внешнеполитическое кредо // Встречи на перекрёстках

Sono entrato nel Ministero degli Affari Esteri in un momento completamente diverso.

HENRY KISSINGER
Dal 2007 al 2009, Evgeny Primakov e io abbiamo presieduto un gruppo composto da ministri in pensione, alti funzionari e leader militari di Russia e Stati Uniti, alcuni dei quali sono qui con noi oggi. Il suo scopo era quello di appianare i punti deboli delle relazioni tra Stati Uniti e Russia e di considerare possibili approcci di cooperazione. In America, questo gruppo è stato definito Track II, ossia bipartisan e incoraggiato dalla Casa Bianca a pensare, ma non a negoziare per suo conto. Abbiamo organizzato incontri in ciascuno dei due Paesi, in modo alternativo. Il Presidente Putin ha ricevuto il gruppo a Mosca nel 2007 e il Presidente Medvedev nel 2009. Nel 2008, il Presidente George W. Bush ha riunito la maggior parte della sua squadra di sicurezza nazionale nella Sala del Gabinetto per un dialogo con i nostri ospiti.

Tutti i partecipanti hanno ricoperto posizioni di alta responsabilità durante la Guerra Fredda. Durante i periodi di tensione, hanno fatto valere l’interesse nazionale del loro Paese. Ma hanno anche compreso, grazie all’esperienza, i pericoli di una tecnologia che minaccia la vita civile e si muove in una direzione che, in una situazione di crisi, potrebbe distruggere tutta la vita umana organizzata. Il mondo era pieno di crisi, alle quali le differenze tra le culture e l’antagonismo delle ideologie conferivano una certa grandezza.

Yevgeny Primakov fu un partner indispensabile in questo lavoro. La sua mente acuta e analitica, arricchita da una comprensione globale delle tendenze del nostro tempo, acquisita durante gli anni trascorsi vicino e poi finalmente al centro del potere, ma anche la sua grande devozione al suo Paese, ci hanno permesso di affinare il nostro pensiero e di contribuire alla ricerca di una visione comune. Non eravamo sempre d’accordo, ma ci siamo sempre rispettati a vicenda. Manca a tutti noi, e a me in particolare, come collega e amico.

↓FERMER
Il Paese si era ormai avviato verso l’economia di mercato e il pluralismo politico. Non tutti erano contenti della disintegrazione dell’Unione Sovietica. Molti erano dispiaciuti di perdere un Paese potente e multinazionale.

HENRY KISSINGER
Alla fine della Guerra Fredda, russi e americani immaginavano una partnership strategica basata sulle loro recenti esperienze. Gli americani si aspettavano che un periodo di minori tensioni avrebbe portato a una cooperazione produttiva su questioni globali. L’orgoglio russo per la modernizzazione del Paese è stato ferito dalle difficoltà causate dalla trasformazione dei confini e dalla scoperta dei compiti erculei che si prospettano per la ricostruzione e la ridefinizione della nazione. Molti, da entrambe le parti, hanno capito che i destini della Russia e degli Stati Uniti non potevano essere separati. Preservare la stabilità e prevenire la proliferazione delle armi di distruzione di massa stava diventando sempre più necessario, così come costruire un sistema di sicurezza in Eurasia, in particolare intorno ai confini della Russia.

Si aprivano nuove prospettive per gli scambi economici, gli investimenti e, per finire, la cooperazione energetica.

↓FERMER
Il passaggio dall’URSS alla Russia ha avuto gravi conseguenze. Il Patto di Varsavia e il Consiglio di mutua assistenza economica furono smantellati. Da lì è iniziato tutto.
Alcuni pensavano che da quel momento in poi la Russia sarebbe entrata a far parte del “mondo civilizzato” come un Paese di seconda categoria. A volte discretamente, a volte pubblicamente, si accettava che l’URSS avesse perso la “guerra fredda” e che la Russia ne sarebbe stata il successore. Si pensava che le relazioni con gli Stati Uniti si sarebbero sviluppate, come era avvenuto con il Giappone e la Germania dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale. Questi due Paesi avevano visto la loro politica gestita da Washington e non si erano opposti.

Questa visione era condivisa dalla grande maggioranza dei politici nel 1991. Pensavano che questa strategia avrebbe aiutato la Russia a superare i problemi del passato.

Così è diventato di moda dire che i responsabili della riforma economica dovevano trovare un modo per affrontare la “rovina del dopoguerra”.

Un politologo, Roi Medvedev (“Медведев Р. Капитализм в России? М., 1998. С. 98.”, “Roi Medvedev, Capitalism in Russia?”), critica questo scritto “è impossibile paragonare le conseguenze della guerra fredda con quelle della guerra civile [1917-1919] o con quelle della Grande Guerra Patriottica [Seconda Guerra Mondiale].

L’economia dell’URSS, divenuta Russia, non è stata distrutta come alla fine di una guerra convenzionale ed è stata in grado di adattarsi alle nuove prospettive. I problemi dell’economia russa sono stati causati dalle politiche dei riformatori radicali, non dalla guerra fredda. In effetti, durante la guerra patriottica l’inflazione era più bassa rispetto al 1993-1994, così come la crescita.

Adottare un atteggiamento “disfattista”, sia in politica estera che interna, non era un modo per cancellare gli elementi perniciosi dell’eredità sovietica (alcuni aspetti della quale, aggiungerei, dovevano essere eliminati, altri dovevano essere mantenuti). Potevamo democratizzare e riformare la nostra società solo a condizione di non pensare che “laggiù” [in Occidente] tutto fosse armonioso, stabile e giusto, e che dovessimo imitarli a tutti i costi, anche nel loro modo di fare politica.

Questo non significa negare che, alla fine della Guerra Fredda, l’URSS abbia cessato di essere una “superpotenza”. In effetti, la nuova situazione significava che ora c’era una sola superpotenza. Tuttavia, era anche importante capire che il concetto stesso di “superpotenza” era stato ereditato dalla Guerra Fredda. Nessuno poteva contestare il fatto che gli Stati Uniti fossero allora la prima potenza militare, economica e finanziaria. Ma questo Stato non poteva controllare e dirigere gli altri.

È un errore pensare che gli Stati Uniti siano così potenti da far ruotare intorno a loro ogni evento importante del mondo. Un tale approccio ignora la grande trasformazione che è il passaggio da un mondo bipolare conflittuale a un mondo multipolare. Questa trasformazione è iniziata molto prima della fine della Guerra Fredda, con le sue origini nello sviluppo ineguale e i suoi limiti nella logica del confronto tra due blocchi.

HENRY KISSINGER
Non c’è bisogno che vi dica che le nostre relazioni oggi sono molto peggiori di quelle di dieci anni fa. Anzi, probabilmente sono peggiori di quanto non fossero prima della fine della Guerra Fredda. La fiducia reciproca si è dissipata da entrambe le parti. Il confronto ha sostituito la cooperazione. So che negli ultimi mesi della sua vita Evgeny Primakov ha cercato il modo di superare questo preoccupante stato di cose. Onoreremo la sua memoria facendo nostra questa ricerca.

↓FERMER
La fine della guerra ha indebolito notevolmente i legami che legavano la maggior parte dei Paesi del mondo a una delle due superpotenze. La fine del Patto di Varsavia ha allontanato i Paesi dell’Europa centrale e orientale dalla Russia. Questo è ancora più evidente con gli ex membri dell’URSS che sono diventati indipendenti. Anche gli Stati Uniti, sebbene in modo meno evidente, hanno visto gli ex alleati allontanarsi. In particolare, i Paesi dell’Europa occidentale hanno adottato una posizione più indipendente, poiché la loro sicurezza non dipendeva più dall'”ombrello nucleare” americano. Allo stesso modo, il Giappone è diventato in qualche modo più indipendente politicamente e militarmente.

HENRY KISSINGER
Forse il problema più importante era il divario abissale tra due concezioni della storia. Per gli Stati Uniti, la fine della Guerra Fredda ha rafforzato, per così dire, la loro profonda convinzione dell’inevitabilità della rivoluzione democratica. Ha annunciato l’estensione di un sistema internazionale governato principalmente dallo Stato di diritto. Ma l’esperienza storica russa è più complessa. Per un Paese il cui territorio è stato soggetto per secoli a invasioni militari, sia da Est che da Ovest, la sicurezza deve basarsi non solo su fondamenti giuridici, ma soprattutto geopolitici. Ora che il confine, baluardo della sicurezza, è stato spostato di 1000 km dall’Elba verso Mosca, la percezione della Russia dell’ordine mondiale non può prescindere da una dimensione strategica. La sfida del nostro tempo è catturare queste due visioni – quella legalistica e quella geopolitica – in un concetto coerente.

↓FERMER
A questo proposito, è significativo notare come i Paesi non direttamente coinvolti nel confronto tra i due blocchi abbiano mostrato una maggiore autonomia una volta terminata la guerra. Questo è particolarmente vero per la Cina, che è diventata rapidamente una grande potenza economica, e per le nuove unioni di integrazione in Asia, Oceania e Sud America.

Molti pensavano che, una volta superato il confronto ideologico e politico, non ci sarebbero state più tensioni tra gli Stati un tempo rivali. Non è stato così. Anche se la situazione sta cambiando, le mentalità rimangono.

Gli stereotipi che costituivano il pensiero degli statisti della Guerra Fredda non sono scomparsi, nonostante l’eliminazione dei missili strategici e di migliaia di carri armati.

All’epoca non parlavo male dei miei predecessori a causa delle mie convinzioni personali. Non voglio farlo oggi. Ma per capire meglio lo stato d’animo che regnava all’interno del Ministero degli Affari Esteri negli anni ’90, vi racconterò una conversazione tra il ministro russo e l’ex presidente americano. È stata rivelata da Dimitri Simes, presidente del Centro Nixon. Nixon chiese a Kozyrev di spiegare i nuovi obiettivi della Russia. Kozyrev rispose: “Vede, signor Presidente, uno dei problemi dell’Unione Sovietica era che dava troppa importanza agli interessi nazionali. Ora pensiamo al bene di tutta l’umanità. D’altra parte, se lei sa come si definiscono gli interessi nazionali, le sarei grato se me lo spiegasse”. Nixon si sentì “non molto a suo agio” e chiese cosa pensasse Simes della conversazione. Simes rispose: “Il ministro russo è solidale con gli Stati Uniti, ma non sono sicuro che comprenda appieno la natura e gli interessi del suo Paese. Questo, un giorno, causerà problemi a entrambi i Paesi”. Nixon ha quindi risposto: “Quando ero vicepresidente e poi presidente, volevo che tutti capissero che ero un figlio di puttana e che avrei combattuto per gli interessi americani. Quest’uomo, invece, si presenta come una persona molto benintenzionata e comprensiva, in un momento in cui l’URSS si è appena disintegrata e la nuova Russia ha bisogno di essere difesa e rafforzata”.

Molti al MAE hanno diviso il mondo in due parti: i civilizzati e la “feccia” (“шпана”). Pensavano che avremmo avuto successo stringendo alleanze strategiche con i “civilizzati”, cioè i nemici della Guerra Fredda, accettando di avere un secondo ruolo. Era una scommessa rischiosa perché anche molti politici americani volevano questo. Segretari di Stato ed ex vice del Presidente degli Stati Uniti volevano che Washington dominasse le relazioni tra Mosca e Washington. Nel 1994, Zbigniew Brzezinski dichiarò: “D’ora in poi, è impossibile collaborare con la Russia. Un alleato è un Paese che è disposto ad agire in modo genuino e responsabile con noi. La Russia non è un alleato. È un cliente.

Certo, le relazioni con l’Occidente, e in particolare con gli Stati Uniti, sono sempre state di grande importanza. Ma il nostro Paese non deve dimenticare i propri interessi e seguire il passaggio storico verso un mondo multipolare. Dobbiamo preservare i nostri valori e le nostre tradizioni, acquisiti nel corso della storia russa, compresi i periodi imperiale e sovietico.

Esiste una regola molto antica: i nemici non sono permanenti, mentre lo sono gli interessi nazionali. Questa idea ha guidato e guida tuttora la politica estera della maggior parte dei Paesi del mondo. Durante l’era sovietica, tuttavia, abbiamo dimenticato questa massima e gli interessi nazionali sono stati talvolta sacrificati al sostegno degli “amici permanenti” e alla lotta contro i “nemici permanenti”.

Oggi, dopo la Guerra Fredda, la Russia, come altri Paesi, ha il diritto di garantire la propria sicurezza, la propria stabilità, l’integrità del proprio territorio, di ricercare il progresso economico e sociale, di lottare contro le influenze esterne che potrebbero cercare di dividere la Russia e gli altri membri della “Comunità degli Stati Indipendenti” [ex membri dell’URSS].

Coloro che vogliono avvicinare la Russia e l’Occidente pensano che l’unica alternativa sia un graduale ritorno al confronto. Questo non è vero.

HENRY KISSINGER
Quindi, paradossalmente, ci troviamo ancora una volta di fronte a un problema essenzialmente filosofico. Come possono gli Stati Uniti andare d’accordo con la Russia, che non condivide affatto i loro valori, ma che è una parte essenziale dell’ordine internazionale? Come può la Russia garantire la sua sicurezza senza allarmare i suoi vicini e farsi dei nemici? Può la Russia assicurarsi un posto negli affari mondiali senza turbare gli Stati Uniti? Gli Stati Uniti possono difendere i loro valori senza essere visti come se volessero imporli? Non cercherò di rispondere a tutte queste domande, ma piuttosto di incoraggiarne l’esplorazione.
Molti commentatori, sia russi che americani, hanno affermato che la cooperazione tra i due Paesi per creare un nuovo ordine internazionale è impossibile. Per loro, Stati Uniti e Russia sono entrati in una nuova guerra fredda.
Oggi, il pericolo non è tanto il ritorno al confronto militare, quanto la continua convinzione, da entrambe le parti, di una profezia che si autoavvera. Gli interessi a lungo termine di entrambi i Paesi richiedono la creazione di un mondo in cui le fluttuanti turbolenze di oggi lascino il posto a un nuovo equilibrio, sempre più multipolare e globalizzato.

↓FERMER
Da un lato, la Russia deve cooperare con le altre potenze su base equa e cercare interessi comuni per rafforzare la cooperazione in alcuni settori. D’altro canto, nelle aree in cui gli interessi divergono, la Russia deve difendere i propri interessi evitando lo scontro. Questa è la logica della politica estera russa nel dopoguerra. Se si trascura l’esistenza di interessi comuni, si rischia una nuova guerra fredda.

Alcuni ritengono che la Russia non possa gestire una politica estera proattiva. Secondo loro, è necessario occuparsi degli affari interni, rafforzare l’economia, portare avanti la riforma militare e poi entrare nell’arena internazionale con un peso considerevole. Ma questa visione non regge all’analisi. Soprattutto, sarà difficile per la Russia realizzare questi cambiamenti cruciali e mantenere la propria integrità territoriale senza una politica estera attiva. La Russia non è indifferente al ruolo che svolgerà nell’economia globale aprendo le sue frontiere ai prodotti stranieri. Diventerà un fornitore discriminato di materie prime o un partner paritario? Rispondere a questa domanda è anche una questione di politica estera.

Dopo il periodo di confronto, tuttavia, è ancora importante per la Russia garantire sicurezza e stabilità, sia all’interno dei propri confini che nelle regioni limitrofe.

HENRY KISSINGER
In entrambi i Paesi, il discorso prevalente è quello di attribuire tutte le colpe all’altro. Allo stesso modo, in entrambi i Paesi si tende a demonizzare, se non l’altro Paese, almeno i suoi leader. Con le questioni di sicurezza nazionale sempre in primo piano, sono riapparsi sospetti e diffidenza, ereditati dai periodi più tesi della Guerra Fredda. Questi sentimenti sono stati esacerbati dal ricordo del primo decennio post-sovietico, durante il quale la Russia stava attraversando un’incredibile crisi economica e politica, mentre gli Stati Uniti si rallegravano di una crescita economica continua e di durata senza precedenti. Tutto ciò ha alimentato le divergenze politiche su questioni come i Balcani, i territori ex sovietici, il Medio Oriente, l’espansione della Nato, la difesa balistica e la vendita di armi, con il risultato che i progetti di cooperazione sono stati fagocitati.

↓FERMER
Se abbandona una politica estera attiva, la Russia non avrà alcuna possibilità di tornare sulla scena mondiale come Paese potente. Le relazioni internazionali aborriscono il vuoto. Se un Paese si disimpegna dai processi globali, viene rapidamente sostituito. Se la Russia vuole rimanere una delle maggiori potenze, deve agire su tutti i fronti. Dobbiamo tenere conto di Stati Uniti, Europa, Cina, Giappone, India, Paesi del Medio Oriente, Asia, Oceania, Sud America e Africa.

Possiamo farcela? Certo, è difficile avere successo su tutti i fronti con le nostre risorse limitate. Ma possiamo condurre una politica estera attiva grazie alla nostra influenza politica, alla nostra posizione geografica, alla nostra appartenenza al club nucleare, al nostro status di membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, alla nostra tradizione scientifica, alle nostre capacità economiche e alla nostra industria militare all’avanguardia.

La maggior parte dei Paesi non vuole quindi accettare la visione di un singolo Paese. L’ho percepito durante i miei viaggi in Medio Oriente, Israele, Cuba, Brasile, Argentina e altri Paesi dell’America centrale. I leader di Venezuela e Messico mi hanno detto francamente che vorrebbero che i russi avessero una maggiore presenza sulla scena mondiale per controbilanciare le conseguenze negative delle tendenze unipolari.

HENRY KISSINGER
Siamo di fronte a un nuovo tipo di pericolo. Fino a poco tempo fa, le minacce all’ordine internazionale andavano di pari passo con l’accumulo di potere da parte di uno Stato dominante. Oggi, le minacce derivano piuttosto dal crollo delle strutture statali e dal numero crescente di Stati senza leader. Il problema del crollo del potere, sempre più diffuso, non può essere risolto da un singolo Stato, anche se grande, da una prospettiva esclusivamente nazionale. Richiede una cooperazione costante tra gli Stati Uniti, la Russia e le altre potenze. Di conseguenza, la rivalità tra i Paesi coinvolti nella risoluzione dei conflitti tradizionali, in un sistema interstatale, deve essere limitata in modo che questa rivalità non oltrepassi il limite o crei un precedente.

↓FERMER
Infine, un Paese come la Russia non può ignorare la crescente interdipendenza delle potenze.

La diversificazione dei partenariati della Russia consentirà al Paese di rafforzare la propria stabilità e sicurezza. La fine del confronto ideologico tra due poli è diventata il punto di partenza per un mondo stabile e prevedibile a livello globale. Sebbene profonda, questa trasformazione non ha reso impossibili i conflitti etnici regionali. Al contrario, li ha resi meno probabili. Siamo tutti colpiti dall’attuale ondata di attacchi terroristici. Anche le armi di distruzione di massa si stanno diffondendo. Ma questi fenomeni sono emersi durante la Guerra Fredda, prima dell’avvento della collaborazione multipolare.

HENRY KISSINGER
Negli anni ’60 e ’70, per me, le relazioni internazionali si riducevano a un rapporto conflittuale tra Stati Uniti e Unione Sovietica. L’evoluzione della tecnologia ha fatto sì che i due Paesi potessero attuare una visione strategica stabile, pur mantenendo la loro rivalità in altri settori. Da allora il mondo è profondamente cambiato. In particolare, in un mondo multipolare emergente, la Russia dovrebbe essere vista come una parte essenziale di qualsiasi equilibrio globale e non, soprattutto, come una minaccia per gli Stati Uniti.

Ho trascorso la maggior parte degli ultimi settant’anni occupandomi, in un modo o nell’altro, delle relazioni tra Stati Uniti e Russia. Sono stato al centro delle decisioni quando sono scoppiate le crisi e ai festeggiamenti comuni quando sono stati raggiunti i successi diplomatici. I nostri Paesi e i popoli del mondo hanno bisogno di una prospettiva più duratura.

↓FERMER
La capacità della comunità internazionale di superare questi nuovi pericoli, minacce e sfide dell’era post-Guerra Fredda dipenderà soprattutto dalle relazioni tra le grandi potenze.

Per la transizione verso un nuovo ordine mondiale (миропорядок) sono necessarie le seguenti due condizioni.

Primo. Le divisioni di un tempo non devono essere riproposte su nuove questioni. A mio avviso, ciò significa opporsi all’espansione della NATO nei Paesi che appartenevano al “Patto di Varsavia”, nonché ai tentativi di trasformare la NATO nel principio del nuovo sistema mondiale. La sanguinosa operazione della NATO in Jugoslavia ne è una chiara illustrazione. Questa operazione è stata condotta senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, è avvenuta al di fuori dei confini dei Paesi membri e non aveva nulla a che fare con la garanzia della sicurezza dei Paesi membri della NATO.

HENRY KISSINGER
Sfortunatamente, gli sconvolgimenti del mondo si sono rivelati troppo forti per l’intelligence politica. Ne è un simbolo la decisione di Yevgeny Primakov che, da primo ministro in volo verso Washington attraverso l’Atlantico, ha preferito fare dietrofront e tornare a Mosca per protestare contro l’inizio delle manovre militari della NATO in Jugoslavia. Le nascenti speranze che una stretta collaborazione contro Al-Qaeda e i Talebani in Afghanistan potesse essere il primo passo verso una partnership più profonda si sono infrante nel magma dei conflitti in Medio Oriente, prima di essere vanificate dalle operazioni militari russe nel Caucaso nel 2008 e poi in Ucraina nel 2014. I recenti tentativi di trovare punti di accordo sul conflitto siriano e di stemperare gli animi sulla questione ucraina non sono riusciti a contrastare un crescente senso di estraneità.

↓FERMER
L’emergere di nuove aree di conflitto può minacciarci, non solo in Europa, ma ovunque. Il netto rifiuto dell’estremismo da parte di alcuni gruppi islamici dovrebbe incoraggiarci a non considerare l’intero mondo musulmano come un nemico della civiltà contemporanea.

HENRY KISSINGER
Come sappiamo, ci attendono numerose questioni divisive, come l’Ucraina e la Siria. Negli ultimi anni, i nostri Paesi hanno discusso di tanto in tanto di questi temi senza compiere progressi significativi. Ciò non sorprende, perché le discussioni si sono svolte al di fuori di un quadro globale. Tutti questi problemi specifici sono l’espressione di un problema più ampio. L’Ucraina deve far parte del quadro di sicurezza internazionale ed europeo, fungendo da ponte tra la Russia e l’Occidente, e non da avamposto dell’uno o dell’altro. Per quanto riguarda la Siria, sembra chiaro che le fazioni locali e regionali non possono trovare una soluzione da sole. Invece, gli sforzi congiunti tra Stati Uniti e Russia, accompagnati dal coordinamento con le altre grandi potenze, potrebbero aprire la strada a soluzioni pacifiche, in Medio Oriente e forse anche altrove.

↓FERMER
Naturalmente, dobbiamo opporci fermamente alle forze estremiste e terroristiche, che sono particolarmente pericolose se gli Stati le sostengono. Dobbiamo fare tutto il possibile per evitare che gli Stati aiutino i gruppi terroristici.

Ovviamente, è urgente elaborare una convenzione generale all’ONU per negare l’asilo politico ai terroristi. Tuttavia, le sanzioni non devono essere utilizzate per punire i Paesi o rovesciare i regimi che non ci piacciono. È già chiaro che le operazioni militari contro i regimi nemici sono dannose, indipendentemente dal fatto che questi regimi sostengano o meno i creatori di caos che stanno mettendo il mondo sottosopra. È molto più efficace sostenere iniziative pacifiche.

In secondo luogo, se vogliamo muoverci verso un nuovo ordine universale e affrontare i pericoli reali, la comunità mondiale deve collaborare in modo equo. Per coordinare adeguatamente gli sforzi, è necessario mettere in atto meccanismi efficaci.

HENRY KISSINGER
Qualsiasi sforzo per migliorare queste relazioni deve includere una consultazione sul futuro equilibrio del mondo. Quali tendenze stanno mettendo in discussione l’ordine di ieri e plasmando quello di oggi? Quali sfide pongono questi cambiamenti agli interessi della Russia e dell’America? Quale ruolo vuole svolgere ciascun Paese nella costruzione di questo ordine e quale importanza può ragionevolmente sperare di avere in esso? Come conciliare le visioni del mondo radicalmente diverse emerse in Russia e negli Stati Uniti – così come in altre grandi potenze – sulla base della loro esperienza storica? L’obiettivo dovrebbe essere quello di concettualizzare le relazioni UE/Russia all’interno di una visione strategica che consenta di risolvere le questioni controverse.

↓FERMER
È importante sviluppare la dottrina (кредо) del Ministero degli Esteri cercando di rispondere al seguente problema. Tutti sanno che la politica estera è legata alla politica interna. Ma questo non significa che debba essere attuata per favorire alcune forze politiche. Né può essere utilizzata a fini elettorali. Il ministro degli Esteri, a prescindere dalle sue preferenze politiche, non deve dividere la società russa. Sono certo che la politica estera debba basarsi sull’accordo dei partiti politici. Deve essere nazionale e non partecipare alle rivalità politiche, difendendo i valori che sono vitali per la società nel suo complesso.

HENRY KISSINGER
Sono qui per difendere la possibilità di un dialogo che cerchi di unire i nostri futuri piuttosto che giustificare i nostri conflitti. Ciò richiede che ciascuna parte rispetti i valori e gli interessi essenziali dell’altra. Questi obiettivi non possono essere raggiunti entro il mandato dell’attuale amministrazione. Ma il loro perseguimento non deve essere ritardato dalla politica interna degli Stati Uniti. Saranno raggiunti solo grazie alla volontà comune di Washington e Mosca, della Casa Bianca e del Cremlino, di superare i rancori e i sentimenti di persecuzione per affrontare le grandi sfide che i nostri due Paesi dovranno affrontare nei prossimi anni.

↓FERMER
Ho presentato queste idee e questi principi al Presidente [Boris Eltsin] e lui si è convinto. Mi disse: “Dovresti lavorare di più con il Parlamento, con i leader dei partiti politici”. Capivo che non voleva tenermi al guinzaglio. Ma sentivo che spettava al Presidente decidere sulla nostra politica estera e che il Ministro degli Esteri doveva essergli fedele. D’altra parte, capivo che il Presidente si fidava di me e non voleva limitare le mie iniziative.

PER L’UCRAINA, LE CONDIZIONI PER LA VITTORIA SONO CAMBIATE: CAPIRE LA DOTTRINA ZALOUJNY

Un regime che deve la propria sopravvivenza alla prosecuzione della guerra. Il gioco del cerino è iniziato. Ma sarà lunga. Giuseppe Germinario

PER L’UCRAINA, LE CONDIZIONI PER LA VITTORIA SONO CAMBIATE: CAPIRE LA DOTTRINA ZALOUJNY
La strategia di Zelensky appartiene al passato? Per il comandante in capo delle forze ucraine, Valeri Zaloujny, dobbiamo almeno prendere atto di una realtà che si è recentemente imposta all’Ucraina: le condizioni per la vittoria sono cambiate. Di fronte alla diminuzione degli aiuti militari, Kiev deve ora “trovare la propria strada”. Introduciamo e commentiamo questo testo chiave.
AUTORE LE GRAND CONTINENT – IMMAGINE © UFFICIO STAMPA PRESIDENZIALE UCRAINO VIA AP

Mentre negli ultimi giorni si moltiplicano le voci e le indiscrezioni sul licenziamento da parte del presidente Volodymyr Zelensky del comandante in capo delle forze armate ucraine, Valeri Zaloujny, il 1° febbraio Zaloujny ha pubblicato sulle colonne del media americano CNN un testo in cui espone la sua visione della strategia ucraina nella guerra imposta dalla Russia.

La tempistica di questa pubblicazione può sorprendere. In un momento in cui l’esercito ucraino sta affrontando una situazione difficile in prima linea, con le sue capacità offensive ampiamente ostacolate dall’indebolimento dell’assistenza militare occidentale – in gran parte a causa del mancato rinnovo del budget assegnato al Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti da parte del Congresso – e dall’esaurimento dei suoi uomini sul campo, Zaloujny si lascia andare a un esercizio per il quale aveva pagato il prezzo pochi mesi prima.

Già notate in diverse occasioni, le evidenti tensioni tra il capo delle forze armate ucraine e il Presidente si sono seriamente riaccese dopo la pubblicazione di un’intervista rilasciata da Zaloujny all’Economist lo scorso novembre, quando la controffensiva ucraina lanciata nell’estate del 2023 si è rivelata un fallimento. In questo nuovo articolo, che esplora la necessità di un costante adattamento e innovazione dell’esercito ucraino e della sua strategia, Zaloujny delinea come potrebbe essere la guerra ucraina nello scenario di una riduzione – già di fatto in atto – degli aiuti militari esterni ricevuti.

Nonostante gli sforzi degli europei e di altri Paesi – in particolare della Corea del Sud – è difficile al momento immaginare che l’Ucraina riprenda l’iniziativa sul campo nell’eventualità sempre più probabile di una fine degli aiuti militari americani, almeno nella forma in cui sono stati concessi finora. Mercoledì 31 gennaio, Josep Borrell ha dichiarato che gli europei consegneranno solo 524.000 proiettili da qui a marzo, mentre l’anno scorso ne erano stati promessi un milione. Il Ministro della Difesa ucraino Roustem Oumierov stima che l’esercito abbia bisogno di almeno 200.000 proiettili da 155 mm al mese, una media di oltre 6.000 al giorno. Nelle ultime settimane, le forze ucraine hanno sparato non più di 2.000 proiettili al giorno – tre volte meno dei loro avversari.

Valeri Zaloujny Quasi ottant’anni ci separano dalle ultime battaglie della Seconda Guerra Mondiale, che sono servite come base per la visione strategica delle guerre della fine del XX e dell’inizio del XXI secolo.

Nonostante il rapido sviluppo di armi ed equipaggiamenti militari, compresi aerei, missili e mezzi spaziali, e lo sviluppo delle comunicazioni e della guerra elettronica, la strategia per la vittoria è stata quella di distruggere il nemico e catturare o liberare il territorio. Le forme e i metodi utilizzati per raggiungere questo obiettivo dipendevano direttamente dal livello di sviluppo delle armi e degli equipaggiamenti militari utilizzati.

Naturalmente, la conoscenza delle basi della strategia, dell’arte operativa e della tattica dovrebbe accompagnare lo sviluppo della carriera degli specialisti militari e servire a risolvere due compiti principali.

Il primo di questi è probabilmente secondario. Consiste nel preparare un comandante militare alla guerra che verrà, con il compito di prevedere la situazione che caratterizzerà l’inizio delle ostilità. È proprio questo compito estremamente difficile che, se risolto, permette di resistere a un attacco e di dare al nemico un rifiuto degno di questo nome, dissanguando i suoi gruppi d’attacco e guadagnando così tempo per prendere l’iniziativa. L’intero processo comporta rischi e dubbi enormi, dovuti al fatto che esiste una sola possibilità di combattere una battaglia decente con forze ridotte e risorse limitate.

Questo primo “compito principale” descritto da Zaloujny si riferisce alle prime settimane dell’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022. La rapida avanzata di Mosca nel nord-est del Paese aveva fatto temere una rapida caduta di Kiev, che molto probabilmente avrebbe portato alla fuga o alla cattura dei membri del governo ucraino, all’insediamento di un nuovo governo filorusso e, quindi, alla fine del conflitto. In realtà, a impedire che ciò avvenisse è stata probabilmente tanto la feroce resistenza ucraina quanto la disorganizzazione dell’esercito russo.

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Il secondo compito, a mio avviso, è il più importante: determinare per tempo i requisiti della guerra, che sono legati all’evoluzione del progresso tecnologico e, di conseguenza, al rapido sviluppo di armi ed equipaggiamenti militari, alla situazione politica nel mondo e nel Paese stesso, alla situazione economica, ecc. Pertanto, per ogni guerra, dobbiamo trovare la nostra strategia e la nostra logica, che ci permetterà di trovare la strada per la vittoria in nuove condizioni.

Quando parliamo di una nostra strategia, non possiamo assolutamente rifiutare le dottrine esistenti che descrivono il processo di preparazione e conduzione delle operazioni. Dobbiamo semplicemente renderci conto che saranno in continua evoluzione e che si arricchiranno di nuovi contenuti.

I principi dell’arte operativa rimarranno invariati.

Quindi, tenendo conto delle esigenze odierne, il nostro compito più importante sarà quello di adottare un nuovo punto di vista sulle forme e sui metodi di utilizzo delle forze di difesa per raggiungere la vittoria.

La ragione principale del cambiamento della strategia, delle forme e dei metodi di impiego delle truppe è, ovviamente, lo sviluppo di armi e attrezzature militari, in particolare dei sistemi senza pilota, che sono ormai ampiamente diffusi e possono essere utilizzati per un’ampia e crescente gamma di compiti. Di conseguenza, i sistemi senza pilota, insieme ad altri nuovi tipi di armi, potrebbero essere l’unica via d’uscita dalla guerra di posizione, di cui l’Ucraina non sta beneficiando in tempo per una serie di ragioni.

Sebbene i droni siano stati utilizzati in passato nei conflitti, la loro concentrazione in Ucraina non ha precedenti. In un rapporto pubblicato nel maggio 2023, il Royal United Services Institute (RUSI) ha stimato che tra i 25 e i 50 droni volano permanentemente ogni 10 chilometri lungo la linea del fronte. A soli due anni dall’inizio dell’invasione russa, stiamo già assistendo a un cambiamento nell’uso dei droni da parte di entrambe le parti. L’esercito ucraino è passato dai velivoli tattici turchi Bayraktar TB2 – lunghi oltre 6 metri – all’inizio del conflitto a modelli in miniatura disponibili sul mercato a prezzi inferiori. Pilotati a distanza o in “prima persona” tramite occhiali video, si sono dimostrati formidabili contro i veicoli corazzati russi.

La Russia – che a luglio ha completato la costruzione di un impianto di produzione di droni a Yelabuga, in Tatarstan, in collaborazione con Teheran – avrebbe una capacità produttiva di droni doppia rispetto all’Ucraina. Secondo le stime ucraine, Mosca può produrre o procurare circa 100.000 droni al mese, contro i soli 50.000 di Kiev. Le ultime ondate di attacchi aerei russi suggeriscono un cambiamento nella strategia di Mosca. La massa di droni a disposizione viene sempre più utilizzata per saturare le difese antiaeree ucraine e fornire così una migliore finestra di opportunità per i missili a lungo raggio, che sono più costosi e lunghi da produrre ma anche più distruttivi.

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Allo stesso tempo, nella situazione attuale, una serie di altri fattori influenzano senza dubbio la decisione di cercare nuove forme di impiego delle forze di difesa.

Tra questi

l’instabilità della situazione politica intorno all’Ucraina, che sta portando a una riduzione del sostegno militare
la forte probabilità che la Russia provochi una serie di conflitti, sull’esempio di Israele e dello Yemen, e distolga i principali partner dal sostegno all’Ucraina;
l’esaurimento delle scorte di missili e munizioni per l’artiglieria e la difesa aerea dei nostri partner, dovuto all’alta intensità delle ostilità in Ucraina e all’impossibilità di produrli rapidamente nel contesto di una carenza globale di polvere da sparo;
l’insufficiente efficacia della politica delle sanzioni, che sta portando al dispiegamento delle capacità dell’industria della difesa in Russia e nei suoi Stati partner, consentendo almeno una guerra di logoramento;
il significativo vantaggio del nemico nella mobilitazione delle risorse umane e l’incapacità delle istituzioni statali ucraine di migliorare la forza delle forze di difesa senza adottare misure impopolari;
l’imperfezione del quadro normativo che regola l’industria della difesa nel nostro Paese e la parziale monopolizzazione di questo settore stanno portando a difficoltà nella produzione di munizioni nazionali e, di conseguenza, a una maggiore dipendenza dell’Ucraina dalle forniture degli alleati;
l’incertezza sulla natura futura della lotta armata su questa scala, che rende difficile per i nostri alleati determinare le priorità di sostegno.
La popolazione della Russia è più di tre volte quella dell’Ucraina. Per un certo periodo, il fervore patriottico ucraino e lo scarso addestramento ricevuto dai soldati e dai volontari russi che sono andati al fronte possono aver fatto dimenticare – o almeno sfumare – questa realtà dell’equilibrio di potere tra i due Paesi, ma sul campo sta diventando sempre più evidente. In alcune zone del fronte, le truppe ucraine sono esauste e talvolta troppo poche per resistere ai ripetuti assalti russi. La scorsa settimana, Mosca è avanzata negli oblast di Luhansk, Donetsk e Kharkiv, nella parte orientale del Paese.

Mentre l’esercito russo starebbe reclutando (secondo il Bundesheer austriaco) 1.200 uomini al giorno – sufficienti a coprire le perdite – a dicembre il governo ucraino ha proposto una nuova legge volta ad aumentare il numero di persone che possono essere mobilitate, nonché le condizioni che regolano tale mobilitazione. Considerata incostituzionale, una nuova versione della legge è stata presentata pochi giorni fa. Sebbene necessarie per affrontare le forze russe, le condizioni che regolano la mobilitazione potrebbero minare il sostegno di cui godono il presidente ucraino e l’esercito come istituzione – in cui il livello di fiducia tra la popolazione è aumentato considerevolmente dal lancio dell’invasione russa nel febbraio 2022.

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L’esperienza delle forze armate ucraine, in particolare nel 2022-2023, è unica e irripetibile per noi. Pertanto, nella nostra ricerca del percorso verso la vittoria, dobbiamo costantemente rivedere le capacità disponibili che determinano l’esito della guerra e cercare modi per ottenere un vantaggio sul nemico. Inoltre, quando utilizziamo il concetto di esito delle operazioni di combattimento, comprendiamo le condizioni in cui il nemico rifiuterà ulteriori aggressioni, e la creazione di queste condizioni è considerata un uso efficace delle capacità disponibili nell’arsenale delle forze armate ucraine.

Alla luce di quanto detto e delle condizioni della guerra odierna, forse l’opzione principale per ottenere un vantaggio è quella di padroneggiare l’intero arsenale di mezzi relativamente economici, moderni ed estremamente efficaci che si stanno sviluppando rapidamente. È il tentativo di utilizzare le conquiste del progresso nello sviluppo delle ultime tecnologie che ci permetterà di vincere la battaglia scientifica, tecnica, tecnologica e tattica e che porterà non solo a una vittoria incondizionata, ma anche al risparmio e alla conservazione delle risorse sia per l’Ucraina che per i nostri partner.

La necessità di aumentare significativamente le capacità dei sistemi senza pilota e di altri sistemi tecnologici avanzati per influenzare positivamente il corso delle ostilità spinge a cercare nuove forme e metodi di applicazione che, a loro volta, influenzeranno certamente la struttura delle forze armate e di altre componenti delle forze di difesa ucraine.

L’aumento dell’impatto degli UAV e di altri sistemi avanzati sull’efficacia delle operazioni di combattimento può essere ottenuto attraverso

Migliorando continuamente la consapevolezza situazionale dei comandanti e la capacità di mantenerla in tempo reale nell’area di operazione, di giorno e di notte, con qualsiasi condizione atmosferica;
supporto per il fuoco e gli attacchi in tempo reale, 24 ore su 24;
fornire informazioni di intelligence in tempo reale per gli attacchi;
effettuare attacchi di precisione e ad alta precisione contro il nemico e i suoi obiettivi, sia in prima linea che in profondità.
È quindi necessario creare un nuovo concetto di operazioni basato sulle capacità tecnologiche esistenti, che si baserà non solo sugli indicatori spaziali e temporali delle operazioni militari (di combattimento), ma anche principalmente sulla creazione di condizioni decisive e sul conseguimento di effetti rilevanti che contribuiranno al raggiungimento dell’obiettivo dell’operazione.

Sulla base dell’esperienza bellica e delle previsioni di sviluppo del combattimento armato, queste condizioni decisive sono le seguenti:

ottenere l’assoluta superiorità aerea, in particolare ad altitudini che consentano attacchi efficaci, ricognizione, sorveglianza e logistica;
privare il nemico della capacità di condurre azioni offensive o difensive;
aumentare la mobilità delle proprie truppe e limitare completamente la mobilità delle truppe nemiche;
ottenere un accesso sicuro ai confini designati, prendendo il controllo di ampie aree di terreno;
privare il nemico dell’opportunità di ristabilire la posizione perduta e raddoppiare gli sforzi.
A prima vista, si tratta di condizioni del tutto conservative e convenzionali, che sono state a lungo soddisfatte dalle forme e dai metodi esistenti. Ma questo è solo un primo sguardo, perché i mezzi per raggiungerle sono già cambiati e i vecchi mezzi, purtroppo, sono sempre più un sogno per le forze armate ucraine, e anche i mezzi per raggiungerli stanno cambiando.

Uno dei principali messaggi che emergono dal testo di Zaloujny è la necessità per l’esercito ucraino di adattarsi di fronte all’indebolimento del sostegno militare di cui godeva all’epoca. I 50 miliardi di euro sbloccati dagli Stati europei nella riunione del Consiglio del 1° febbraio sono fondamentali per mantenere il funzionamento dell’apparato statale ucraino che sovrintende e alimenta lo sforzo bellico. Tuttavia, come riassumono le giornaliste della BBC Laura Gozzi e Sarah Rainsford, “questo programma di finanziamento non è per la prima linea, ma per la vita dietro le linee “1 .

L’aspettativa di nuovi finanziamenti da parte del Congresso degli Stati Uniti sembra sempre più una chimera, visto che la posizione dei membri repubblicani della Camera – e, in parte, del Senato – sull’assistenza all’Ucraina è cambiata nel giro di pochi mesi, sotto la spinta della campagna elettorale di Donald Trump. I senatori incaricati di negoziare un pacchetto che combina fondi per la crisi al confine meridionale degli Stati Uniti e assistenza all’Ucraina, a Taiwan e a Israele in particolare, dovrebbero svelare a breve il testo che potrebbe garantire a Kiev il supporto militare di cui il suo esercito ha bisogno per fronteggiare la Russia. Tuttavia, Trump, che durante la campagna presidenziale voleva usare l’immigrazione clandestina come arma politica contro Joe Biden, sta lavorando per bloccare questo accordo sul nascere, prendendo così due piccioni con una fava: bloccare la crisi al confine e privare l’Ucraina di fondi.

È prevedibile che, con la prospettiva che Trump venga nominato dal GOP dopo le primarie, i membri repubblicani del Congresso non rischieranno di opporsi al potenziale futuro presidente. Lo stesso Mitch McConnell, leader della minoranza repubblicana al Senato, i cui rapporti con Trump sono stati tumultuosi in passato, avrebbe detto la scorsa settimana a una riunione del partito repubblicano che “la politica di confine è cambiata” e che non vuole “fare nulla per danneggiare le possibilità dei candidati presidenziali del GOP “2 . Finora, McConnell è stato uno dei più forti sostenitori dell’assistenza all’Ucraina all’interno dei ranghi repubblicani del Congresso. È difficile capire come il voto sull’accordo, che potrebbe avvenire già la prossima settimana, possa raccogliere 60 voti per passare al Senato, per non parlare della Camera.

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In linea con l’idea di creare le condizioni decisive, il processo di attuazione sarà ovviamente garantito dalla risoluzione di una serie di compiti operativi, e nel corso della risoluzione di ogni compito operativo, gli effetti necessari saranno creati grazie alle forze e alle risorse coinvolte. E sono loro che, grazie alla loro superiorità tecnologica, devono agire fuori dagli schemi e almeno in accordo con la dottrina in vigore.

La creazione degli effetti necessari porta inevitabilmente a cambiamenti radicali nel sistema applicativo. Per soddisfare le condizioni di creazione degli effetti necessari, è necessario considerare già distinti i seguenti elementi:

un’operazione di creazione di un campo numerico;
un’operazione di controllo dell’ambiente elettronico
un’operazione che combini attacchi aerei senza equipaggio e attacchi cibernetici;
un’operazione logistica.
Tutte queste operazioni sono già state padroneggiate e sviluppate. Sono condotte secondo un unico concetto e piano, sono coordinate e interconnesse, ma differiscono nel contenuto.

Per quanto riguarda la condotta concreta delle operazioni per ottenere effetti, esse dovrebbero essere essenzialmente difensive e offensive, ma possono differire in termini di metodo di esecuzione:

un’operazione per ridurre il potenziale economico del nemico ;
un’operazione di completo isolamento ed esaurimento;
operazione robotica di ricerca e attacco;
operazione robotizzata per il controllo di una zona di crisi;
operazione psicologica con mezzi d’attacco;
operazione difensiva tecnologica senza contatto.
Questo elenco di operazioni continuerà a crescere con lo sviluppo dei mezzi stessi e, naturalmente, porterà a cambiamenti nei documenti dottrinali e alla formazione di una filosofia completamente nuova dell’addestramento e delle operazioni di combattimento. L’emergere di nuove operazioni indipendenti, o di loro combinazioni, implica la necessità di creare una nuova struttura organizzativa. Tutto questo sarà possibile se le istituzioni statali reagiranno in modo flessibile e rapido ai cambiamenti.

Ad esempio, la natura e il contenuto delle tradizionali operazioni difensive, offensive e di stabilizzazione, che erano generalmente pianificate e condotte in modo lineare e basato su modelli, sono cambiati. Allo stesso tempo, l’essenza di queste operazioni è stata unificata, compresi i punti di vista dei partner. Allo stesso tempo, il noto concetto di guerra centrata sulla rete nel nuovo ambiente, grazie a mezzi di combattimento armati ad alta tecnologia, viene interpretato non attraverso le azioni delle truppe, ma attraverso la creazione di effetti e la realizzazione di condizioni decisive utilizzando capacità appropriate.

Vorrei anche sottolineare che, oltre ad aumentare l’efficacia delle operazioni di combattimento, i sistemi aerei senza pilota e altri sistemi tecnologici avanzati possono risolvere una serie di problemi chiave nell’organizzazione e nella condotta delle operazioni di combattimento da parte delle forze di difesa ucraine:

Aumentare il grado di guerra senza contatto e, di conseguenza, ridurre il livello di vittime grazie alla capacità di controllare questi mezzi da remoto;
ridurre il grado di coinvolgimento dei mezzi di distruzione tradizionali nell’esecuzione delle missioni di combattimento;
garantire operazioni di combattimento con un impegno limitato di equipaggiamento militare pesante;
nonostante l’assenza di una flotta, colpire le forze di superficie e sottomarine nemiche e le loro infrastrutture costiere quasi fino all’intera profondità del teatro di operazioni in mare, con grande efficacia e rischi minimi per il personale;
infliggere massicci attacchi a sorpresa alle infrastrutture critiche e alle comunicazioni importanti senza bisogno di costosi missili e aerei con equipaggio.
La capacità dell’esercito ucraino di resistere agli assalti russi e di condurre operazioni offensive dipende da una costante necessità di innovazione. Ciò è particolarmente vero nel Mar Nero, dove l’equilibrio di potere era ed è tuttora altamente asimmetrico, a favore della Russia. Pur non disponendo di una vera e propria marina militare, dall’inizio del conflitto l’Ucraina è riuscita a distruggere circa il 20% della flotta russa del Mar Nero, grazie soprattutto all’uso di droni navali di superficie (USV) e di missili ucraini – Neptune in particolare – e occidentali.

Tuttavia, il comandante della Marina ucraina Oleksiy Neïjpapa ha recentemente ammesso che “le tattiche sviluppate nel 2022 e 2023 non funzioneranno nel 2024. Quindi dobbiamo cambiare tattica, cambiare le caratteristiche tecniche di tutto ciò che facciamo”. Sebbene la Russia sia stata particolarmente lenta a reagire agli attacchi ucraini in Crimea e nel Mar Nero, si sta adattando e potrebbe riconquistare la sua superiorità. Di fronte a questo rischio, l’esercito ucraino sta studiando lo sviluppo di nuove capacità – ad esempio, droni subacquei autonomi – che continuerebbero a tenere a bada la flotta russa, consentendo così di mantenere il commercio nel Mar Nero.

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Questo elenco di vantaggi è incompleto e senza dubbio si evolverà, ampliando la gamma di applicazioni efficaci. È chiaro che sul campo di battaglia il nemico cercherà modi per difendersi e tenterà di prendere l’iniziativa. Pertanto, con lo sviluppo delle capacità dei sistemi d’attacco, compresi quelli senza pilota, è imperativo migliorare la difesa e le contromisure. Per padroneggiare le nuove forme e i nuovi metodi, le forze di difesa devono quindi creare un sistema di riarmo tecnologico statale completamente nuovo, che comprenderà i seguenti sottosistemi:

sviluppo e supporto scientifico ;
produzione e servizi
formazione del personale di manutenzione e generalizzazione dell’esperienza di combattimento;
impiego delle truppe
finanziamento flessibile;
logistica.
È molto probabile che ognuno di questi sottosistemi richiederà in futuro ricerche e sviluppi separati, ma si può già dire che il sistema deve essere olistico e allo stesso tempo flessibile in termini di attori che possono essere coinvolti, così come in termini di finanziamenti e modifiche alla produzione.

Non c’è dubbio che tutto questo richiederà tempo, ma il tempo è fondamentale.

Considerando il sistema applicativo esistente, le soluzioni tecniche trovate, il sistema di gestione già stabilito, l’esperienza acquisita e le opinioni dei partner nell’ambiente attuale, la creazione di un tale sistema con il volume di produzione richiesto potrebbe richiedere fino a cinque mesi. Questo periodo è dovuto alla necessità di creare strutture organizzative adeguate e di dotarle di personale, di formarle, di fornire risorse, di creare le infrastrutture e la logistica necessarie e di sviluppare un quadro dottrinale.

Tenendo conto di ciò, nel 2024 dovremo concentrare i nostri sforzi su :

creare un sistema per fornire alle forze di difesa attrezzature ad alta tecnologia;
introdurre una nuova filosofia per la preparazione e la condotta delle operazioni militari, tenendo conto dei limiti;
l’acquisizione di nuove capacità militari il più rapidamente possibile.
Stiamo parlando del fatto che, in condizioni moderne, le forze armate ucraine, così come le altre componenti delle forze di difesa dello Stato, hanno capacità che consentono loro non solo di distruggere il nemico, ma anche di garantire l’esistenza stessa dello Stato. È quindi necessario sfruttare le opportunità offerte dalle nuove condizioni di guerra per massimizzare l’accumulo delle più recenti capacità di combattimento, che consentiranno di utilizzare meno risorse per infliggere il massimo danno al nemico, ponendo fine alla sua aggressione e proteggendo l’Ucraina in futuro.

FONTI
Laura Gozzi e Sarah Rainsford, “Pacchetto di sostegno all’Ucraina del valore di 50 miliardi di euro approvato dai leader dell’UE”, BBC, 1 febbraio 2024.
Siobhan Hughes e Lindsay Wise, “Trump’s Hard-Line Border Stance Endangers Funding for Ukraine”, The Wall Street Journal, 25 gennaio 2024.

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Settant’anni di sistema di autonomia regionale etnica della Cina-SEPARATISMO IN CINA, di Ma Rong

SEPARATISMO IN CINA
Le dottrine della Cina di Xi | Episodio 41

“L’unità al di sopra dell’autonomia”. Nella Repubblica Popolare, alcuni sognano un “gruppo etnico cinese” per completare il primato dell’identità nazionale su tutto il resto. Traduciamo e spieghiamo la posizione del sociologo Ma Rong.
AUTORE DAVID OWNBY – IMMAGINE © AP PHOTO/MARK SCHIEFELBEIN

Ma Rong (1950-) è un prolifico sociologo dell’Università di Pechino e uno specialista delle relazioni etniche in Cina. Ha conseguito il dottorato alla Brown University di Rhode Island nel 1987. Membro della minoranza Hui, Ma si è specializzato sul Tibet1 , ma ha pubblicato decine di libri e articoli su una varietà di argomenti che riguardano le questioni etniche in molte parti della Cina e del mondo. Il testo di Ma è interessante a causa dell’attuale interesse dell’Occidente per i gruppi etnici minoritari in Cina, spinto dai conflitti in corso e dalle politiche governative di repressione organizzata nello Xinjiang e in Tibet.

Per ragioni di autocensura – il Partito mette la museruola a qualsiasi posizione contraria alla sua linea in materia – la situazione nello Xinjiang non è l’argomento principale del testo. Ma Ma affronta questioni che sono oggetto di dibattito tra gli intellettuali e l’establishment cinese nel contesto del sistema di gestione etnica della Cina e, in misura minore, dell’ex Unione Sovietica.

L’articolo di Ma, qui tradotto,2 appare nel numero di febbraio 2019 di Ethnic Studies (民族研究) dedicato a “Settant’anni di sistema di autonomia regionale etnica della Cina”. L’argomentazione di Ma Rong è che l'”autonomia regionale etnica”, sebbene appropriata all’inizio della storia della RPC, è sempre più obsoleta alla luce dello sviluppo economico e sociale della Cina a partire dall’era di Deng Xiaoping. Si tratta di un’argomentazione che Ma porta avanti da tempo e che ha incontrato una notevole resistenza da parte di alcuni accademici e di “gruppi di interesse” delle minoranze etniche che beneficiano di alcuni aspetti dell’attuale sistema, che affonda le sue radici nell’estrema – anche se in gran parte fittizia – autonomia formale concessa alle “repubbliche etniche” dell’ex Unione Sovietica3. Ma sostiene che il sistema cinese spesso danneggia le minoranze etniche che pretende di proteggere, essenzialmente tenendole in “ghetti etnici” che limitano le loro possibilità di vita. Secondo Ma, tutti saranno meglio serviti da una politica che enfatizzi l'”integrazione” piuttosto che l'”autonomia”.

Il mese scorso, Xi ha espresso la necessità, nell’ambito della sua campagna educativa tematica, di studiare e attuare la sua tabella di marcia con una sola voce, “raggiungendo l’unità di pensiero, volontà e azione utilizzando le nuove teorie del Partito”. È essenziale comprendere come questa volontà di “integrare a tutti i costi” i 56 gruppi etnici della Cina sia una componente retorica fondamentale della matrice ideologica di Xi Jinping.

Negli anni ’90, nelle regioni minoritarie della Cina sono emerse alcune tendenze preoccupanti, come l’incidente del maggio 1990 a Baren Township. Nel XXI secolo, a seguito dello sviluppo generale dell’economia sociale del Paese nel suo complesso e dell’avanzamento della strategia di “sviluppo occidentale”, le differenze regionali in termini di livello di sviluppo economico, lingua, cultura e religione si sono gradualmente accentuate, Intorno al 2008, una serie di violenti episodi di terrorismo etnico, tra cui l’incidente del 14 marzo a Lhasa e quello del 5 luglio 2009 a Urumqi, hanno sconvolto l’intera nazione, portando parte della popolazione a riflettere seriamente.

L'”incidente del maggio 1990″ a cui si fa riferimento si riferisce a un periodo di conflitto armato che ha avuto luogo tra gli uiguri e il governo cinese nella contea di Akto, nello Xinjiang, nell’aprile 1990, e che ha provocato diversi morti. A distanza di oltre trent’anni, le informazioni su questi scontri sono ancora molto frammentarie.

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Di conseguenza, dal 2000 è in corso una discussione nel mondo accademico cinese sull’opportunità di rivedere le teorie, le istituzioni e le politiche relative ai gruppi etnici cinesi utilizzate dalla fondazione della Nuova Cina, accompagnata da un grande dibattito su come migliorare il nostro approccio fondamentale alle relazioni etniche nella Cina contemporanea. Poiché “l’autonomia etnica regionale 民族区域自治” è stata la bandiera e il discorso centrale del lavoro etnico del Partito, il modo in cui comprendere questo sistema deve essere il centro della discussione e il fulcro del dibattito quando riesaminiamo le teorie, le istituzioni e le politiche impiegate dalla nuova Cina nella gestione delle questioni etniche.

I. Due prospettive per comprendere e migliorare le relazioni etniche in Cina
Per quanto riguarda le proposte per il futuro miglioramento delle relazioni etniche in Cina, gli studiosi che hanno partecipato al dibattito hanno avanzato due proposte completamente diverse.

A – La tesi secondo cui la chiave per migliorare le relazioni etniche in Cina è l’effettiva attuazione della “Legge sull’autonomia delle regioni etniche 民族区域自治法”.
Gli studiosi che sostengono questa prima prospettiva sostengono che, in termini teorici, non solo dobbiamo continuare a difendere il sistema discorsivo “etnico 民族” e le politiche istituzionali di base in vigore dalla fondazione della nuova Cina, ma anche rafforzare il dinamismo delle politiche etniche preferenziali per proteggere i diritti politici speciali e i vantaggi particolari di cui godono le etnie minoritarie attraverso l’implementazione di un sistema ancora più forte di autonomia regionale delle minoranze. Alcuni sostengono che solo attuando pienamente la Legge sull’autonomia delle regioni etniche, in particolare le “Norme sull’autonomia 自治条例” nelle cinque regioni autonome più grandi, potremo davvero esercitare i diritti di autonomia, dopodiché potremo migliorare le relazioni etniche nelle poche province in cui si sono deteriorate, portando stabilità sociale in Tibet e nello Xinjiang. Pertanto, dovremmo accelerare la formulazione completa dei regolamenti sulle regioni autonome etniche in ogni regione autonoma 区 e prefettura 州, in modo da consentire ai governi di tutte le regioni autonome di avere l’autorità legale concreta per esercitare un potere relativamente autonomo, e dovremmo anche chiedere che il sistema di autonomia regionale etnica sia migliorato e ampliato.

Le regioni autonome sono suddivisioni territoriali che concedono maggiore autonomia agli abitanti appartenenti a minoranze etniche, senza necessariamente rappresentare la maggioranza della popolazione. Attualmente in Cina ce ne sono cinque: Guangxi, Mongolia interna, Níngxià, Xinjiang e Tibet.

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Alcuni studiosi criticano fortemente la Legge sull’autonomia delle regioni etniche perché non è mai stata attuata in modo completo ed esaustivo, sostenendo che l’attuazione dei regolamenti sull’autonomia delle cinque regioni etniche più grandi è il problema più grande che si incontra nel mantenere e migliorare il sistema di autonomia di queste regioni e nel migliorare le relazioni interetniche, e allo stesso tempo chiedono di rafforzare la posizione autorevole della Commissione di Stato per gli Affari Etnici (国家民委) nella guida del lavoro etnico, sostenendo che il sistema della Commissione di Stato per gli Affari Etnici dovrebbe diventare un organo rappresentativo in grado di rappresentare realmente gli interessi dei gruppi minoritari e di tutelare i loro diritti autonomi a livello centrale e locale, al fine di aiutare questi gruppi a interagire efficacemente con altri ministeri e agenzie a tutti i livelli.

B – L’argomentazione secondo cui dovremmo eliminare i conflitti etnici rafforzando l’identificazione con l'”etnia” del “popolo” cinese “中华民族的民族”
La seconda proposta avanzata dagli studiosi sostiene che, dato lo sviluppo della società cinese nel XXI secolo, non è più possibile definire gli “affari interni” di ciascun gruppo minoritario e stabilire la sfera giuridica della “gestione autonoma”, e quindi, nelle nuove condizioni sociali e storiche, dobbiamo, nel pieno rispetto della memoria storica e della cultura tradizionale di tutti i popoli minoritari, rafforzare gradualmente l’identità politica di tutti i cittadini di “etnia cinese 中华民族” e, sulla base dei principi giuridici relativi ai cittadini moderni, migliorare attivamente le condizioni di vita e le prospettive di sviluppo dei nostri cittadini appartenenti a minoranze etniche. Affermano inoltre che tutti i diritti e gli interessi delle minoranze (diritti linguistici e culturali, libertà di credo religioso, diritti all’occupazione e allo sviluppo, protezione dell’ambiente, diritti all’uguaglianza legale, ecc.) possono essere pienamente tutelati nel quadro dei legittimi diritti dei cittadini e della Costituzione della Repubblica Popolare Cinese.

Il “Piano d’azione nazionale per i diritti umani 国家人权行动计划” (2012-2015) ha fissato obiettivi quantitativi nelle seguenti sette aree: “diritti al lavoro”, “diritti a uno standard di vita di base”, “diritti alle garanzie sociali”, “diritti alla salute”, “diritti all’istruzione”, “diritti culturali” e “diritti ambientali”, e il governo sta ora promuovendo attivamente l’uguaglianza nel servizio pubblico e nella protezione sociale in tutti i settori e gruppi. Pertanto, in futuro, l’energia primaria del lavoro etnico nel nostro Paese dovrebbe essere dedicata a rafforzare l’identificazione di tutti i gruppi con la “Cina etnica”, e dovrebbe promuovere il contenuto specifico della Costituzione e i diritti dei cittadini, formulando al contempo misure per la loro attuazione: dovrebbero definire chiaramente gli aspetti “legali” e “illegali” di eventi concreti (come le attività religiose), ed effettuare la gestione in conformità con la legge nazionale (non con la “politica locale” di ciascun livello di governo).

Qui Ma giustifica la politica di sorveglianza, controllo e repressione del governo cinese nei confronti delle minoranze etniche, in particolare nella regione dello Xinjiang dal 2017. Questa politica comprende l’internamento di massa, la rieducazione ideologica, la sterilizzazione e la contraccezione forzata, il lavoro forzato, la tortura e la violenza sessuale. Il Partito giustifica questa politica sostenendo che è conforme alla legislazione locale e rientra negli affari interni del Paese, non consentendo alcuna osservazione straniera, che definisce “intrusione”.

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Allo stesso tempo, nella gestione delle liti o dei conflitti, dovremmo abbandonare l’identificazione delle persone coinvolte nel conflitto come “membri del gruppo etnico X” per identificarle come “singoli cittadini”; i conflitti che coinvolgono i diritti e le responsabilità dei cittadini non dovrebbero essere risolti dagli organi della Commissione nazionale per gli affari etnici che “applicano la politica etnica”, ma dovrebbero essere risolti e gestiti dal governo, dalla polizia, dai tribunali o da altri organi simili, in conformità con il diritto civile e penale del Paese.

La “legge” del lavoro etnico nel nostro Paese dovrebbe essere la legge della costituzione del quadro giuridico del Paese, e non dovremmo accantonare lo spirito della costituzione ed enfatizzare l’autonomia regionale etnica e la legge dei particolari diritti collettivi di ciascun gruppo etnico. Le agenzie governative responsabili dell’istruzione, del personale e dell’occupazione dovrebbero sforzarsi di aumentare il livello di partecipazione dei lavoratori dei gruppi etnici minoritari in tutte le professioni coinvolte nell’industrializzazione e nella modernizzazione del nostro Paese, per consentire loro di raggiungere gradualmente la stessa capacità competitiva dei lavoratori Han e di raggiungere la prosperità comune sulla base del rispetto e della fiducia in se stessi.

Il dibattito di cui sopra rivela che il vero cuore del problema ruota attorno alla questione della legge sull’autonomia delle regioni etniche. Oggi, di fronte a una situazione internazionale tesa e all’emergere di attività separatiste etniche in alcune province, le autorità centrali chiedono con forza la creazione e il consolidamento di una coscienza della comune etnia cinese 中华民族共同体意识, mentre la legge sull’autonomia delle regioni etniche non parla di “etnia cinese”. Poiché le discussioni contemporanee sulla teoria e la politica etnica non possono evitare di tornare alla proclamazione della Legge sull’autonomia delle regioni etniche nel 1984, è estremamente necessario rivedere il contesto storico che ha dato origine a questa legge e impegnarsi in una discussione sulla sua natura fondamentale.

Ma evidenzia i dibattiti fondamentali che hanno imperversato in Cina sulle questioni etniche negli ultimi anni, ma in genere senza fare nomi e senza entrare nei dettagli. In questo testo, si concentra sul confronto tra la Legge sull’autonomia delle regioni etniche del 1984 – il testo fondante dell’attuale sistema – e altri documenti storici simili, in particolare le varie Costituzioni cinesi. Egli suggerisce che le circostanze in cui la legge del 1984 è stata redatta – in particolare il fatto che le minoranze etniche avevano sofferto molto durante la Rivoluzione culturale – hanno portato a un testo che cercava di “ristabilire l’ordine” e di rassicurare i gruppi etnici che i loro diritti e interessi sarebbero stati preservati. Pur riconoscendo questi sentimenti, Ma Rong spiega che le minoranze etniche cinesi sarebbero altrettanto ben protette se rivendicassero i loro diritti di cittadini cinesi.

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II. Il processo storico alla base del “sistema di autonomia etnica” della Cina
Ripercorriamo innanzitutto il processo storico che ha dato origine al sistema di autonomia regionale etnica della Cina.

A – Il “sistema federale” e i “diritti di autonomia etnica
Fin dalla sua nascita, il Partito Comunista Cinese è stato profondamente influenzato dalle posizioni teoriche di Lenin e Stalin sull’etnicità e dall’esperienza dell’Unione Sovietica. I “diritti etnici autonomi” erano una parte importante della teoria di Lenin. Un documento del 1922 del Secondo Congresso del Partito [del PCC] cita un piano di ricostruzione nazionale che prevede “l’unificazione della Cina vera e propria” (compresa la Manciuria) in una vera e propria repubblica democratica; la creazione di autonomie in Mongolia, Tibet e Xinjiang, che formeranno una lega di territori democratici e autonomi. La Repubblica Federale Cinese sarebbe stata fondata sulla base di un sistema federale libero, con l’unione di Mongolia, Tibet e Xinjiang. Il progetto di costituzione della Repubblica Sovietica Cinese del 1931 (中华ࠬԤռ和国宪法大纲) sottolineava che:

“Il regime sovietico cinese riconosce il diritto all’autodeterminazione dei gruppi etnici minoritari all’interno dei territori cinesi e ha sempre affermato che ogni gruppo etnico piccolo o debole ha il diritto di lasciare la Cina e di fondare un proprio paese indipendente”. La Costituzione del Partito del 1945 fissava l’obiettivo di “costruire una nuova repubblica federale democratica, basata sull’alleanza di tutte le classi rivoluzionarie indipendenti, libere, democratiche, unificate, ricche e potenti e di tutti i gruppi etnici liberamente uniti”. Con la fine vittoriosa della guerra di resistenza contro il Giappone, la situazione interna ed esterna della Cina cambiò radicalmente. Nel gennaio 1946, il “Progetto di attuazione della ricostruzione nazionale pacifica (和平建国纲领草案)”, presentato dai rappresentanti del PCC alla Conferenza consultiva politica (政治协商会议) proponeva: “Nelle aree di minoranza etnica, dobbiamo riconoscere la posizione paritaria e il diritto all’autodeterminazione di tutti i gruppi etnici”, ma non parlò di “sistema federale”. Da quel momento in poi, il “sistema federale” è scomparso dal discorso del PCC e il Partito non ha più enfatizzato i “diritti all’autodeterminazione etnica”.

Il “Programma comune della Conferenza consultiva politica del popolo cinese” del settembre 1949 (中国人民政治协商会议共同纲领) era un documento che descriveva il sistema politico da attuare dopo la creazione della RPC. La clausola 51 del capitolo sesto sulla “Politica etnica” stabiliva che “in tutte le province in cui i gruppi minoritari vivono in modo concentrato, dovremmo attuare l’autonomia regionale etnica e, a seconda del numero di persone e delle dimensioni della regione, istituire uffici di autoamministrazione separatamente. Nelle province in cui le minoranze etniche vivono disperse tra il resto della popolazione, così come nelle aree autonome, tutti i gruppi etnici dovrebbero avere una certa rappresentanza numerica negli organi di governo locale”. Nel contesto nazionale e internazionale del 1949, il “Programma comune (共同纲领)” identificava chiaramente l'”autonomia regionale etnica” come sistema politico di base della nuova Cina per affrontare le questioni etniche, illustrando l’evoluzione storica del programma politico del Comitato centrale in materia di questioni etniche. Allo stesso tempo, il concetto di “etnia cinese” non compare nel “Programma comune”, il che è coerente con il sistema di discorso contenuto nella Costituzione del 1954.

B – Lo “Schema per l’attuazione dell’autonomia etnica regionale [politica] della Repubblica Popolare Cinese” del 1952 (中华人民共和国民族区域自治实施纲要)
Nell’agosto del 1952, il Consiglio di Stato promulgò lo “Schema per l’attuazione dell’autonomia regionale etnica [politica] della Repubblica Popolare Cinese”, un documento che avrebbe costituito l’embrione della Legge sull’autonomia regionale etnica del 1984 e la cui struttura generale è simile a quella della Legge del 1984. Rispetto al “Progetto di attuazione per la ricostruzione nazionale pacifica”, la “Legge sull’autonomia regionale etnica” ha aggiunto una prefazione e, in termini di struttura, ha mantenuto il primo capitolo, intitolato “Panoramica (总则)”, e presenta undici clausole, mentre il documento originale ne aveva solo tre. Il secondo capitolo del Progetto di attuazione è stato unito nella “Legge sull’autonomia delle regioni etniche” con il terzo capitolo (“Organi autonomi”), diventando il secondo capitolo (“Istituzione delle regioni autonome etniche e organizzazione degli organi autonomi”).

Il quarto capitolo del Progetto di attuazione (“Diritti autonomi”) è diventato il terzo capitolo della Legge sull’autonomia etnica (“Diritti autonomi degli enti autonomi”) e le undici clausole originarie sono state portate a ventotto. È stato aggiunto il capitolo due della Legge sull’autogoverno etnico (“Tribunali del popolo e Procure del popolo delle aree di autogoverno etnico”). Il capitolo cinque dello Schema di attuazione (“Relazioni etniche all’interno delle aree autonome etniche”) è il capitolo cinque della Legge sull’autonomia delle aree autonome etniche (“Relazioni etniche all’interno delle aree autonome etniche”). Il capitolo sei dello Schema di attuazione (“Principi guida del governo popolare superiore”) diventa il capitolo sei (“Responsabilità degli organi statali superiori”) della Legge sull’autonomia delle aree autonome etniche e il numero di clausole è aumentato a diciannove. Il capitolo sette (“Allegato”) dello Schema di attuazione diventa il capitolo sette (“Allegato”) della Legge sull’autonomia delle aree etniche, ma con due sole clausole.

In termini di confronto di base, la Legge sull’autonomia delle aree etniche del 1984 e lo Schema di attuazione dell’autonomia delle aree etniche del 1952 hanno strutture simili, la sezione sui “diritti autonomi” è passata da 11 a 28 clausole e i nuovi elementi aggiunti riguardano principalmente le assunzioni, incoraggiare lo sviluppo dell’economia non statale, i diritti di proprietà su foreste e pascoli, le risorse naturali, l’edilizia di base, la gestione delle imprese, il commercio estero, gli standard di spesa, la tassazione, le banche, la gestione della popolazione mobile, la protezione dell’ambiente e così via. La sezione dedicata alle “responsabilità degli organi statali superiori” è stata ampliata da sei a diciannove clausole, elencando essenzialmente aree specifiche di assistenza, guida e risorse da impiegare in vari aspetti del lavoro nelle regioni autonome. I punti salienti della Legge sull’autonomia delle regioni etniche del 1984 sono le clausole da 21 a 45, che consistono in regolamenti dettagliati riguardanti i diritti sovrani o autonomi delle regioni etniche autonome.

Un confronto tra questi due documenti rivela alcuni punti di particolare interesse:

In primo luogo, nessuno dei due testi menziona l’importante tema dell'”etnia cinese”, una caratteristica comune a entrambi.

In secondo luogo, nel quarto capitolo dello Schema di attuazione, intitolato “Diritti autonomi”, troviamo la clausola 14: “La forma concreta dell’amministrazione autonoma di ogni regione etnica rifletterà i desideri della maggioranza delle persone che vivono nella regione amministrata e quelli delle personalità con cui sono in contatto”, e la clausola 18: “Le riforme interne di ogni regione etnica rifletteranno i desideri della maggioranza delle persone che vivono nella regione amministrata e quelli delle personalità con cui sono in contatto”. Queste clausole non compaiono nella legge sull’autonomia delle regioni etniche e riflettono le particolarità della situazione nazionale cinese nei primi anni Cinquanta. All’epoca, il Tibet era stato appena liberato pacificamente e il governo di Lhasa esisteva ancora. Quando il governo centrale discusse la creazione di una regione autonoma in un luogo come il Tibet, lasciò un certo margine di negoziazione su questioni come “la forma concreta dell’amministrazione autonoma” e “quando avviare le riforme interne”, e non impose una forma o un calendario unico a livello nazionale, riflettendo uno spirito pragmatico di “ricerca della verità dai fatti”.

In terzo luogo, è stata aggiunta la clausola 20 alla sezione “Diritti autonomi degli enti autonomi” della Legge sull’autonomia delle regioni autonome etniche: “Se le risoluzioni, le decisioni, gli ordini e le istruzioni delle autorità superiori sono inadeguati nel contesto delle regioni autonome etniche, gli enti autonomi possono informare le autorità statali superiori e chiedere il permesso di modificare o interrompere l’attuazione della politica. Le autorità statali superiori devono fornire una risposta entro 60 giorni dal ricevimento della notifica”. Si tratta di una clausola che non compariva nello schema di attuazione e che oggettivamente concede alle autonomie locali “il diritto autonomo di modificare o rifiutare l’attuazione degli ordini o delle risoluzioni del governo centrale”, il che, da un punto di vista giuridico, aumenta i diritti amministrativi autonomi delle regioni autogovernate. Questa clausola è la differenza più importante tra i due documenti e, nella sua impostazione intellettuale di fondo, è coerente con le tendenze dei primi anni Ottanta di opporsi alla “sinistra” negli sforzi per “ristabilire l’ordine 拔乱反正”.

Le differenze tra la Cina centrale e alcune province di confine sono molto significative in termini di traiettoria di sviluppo storico e di condizioni sociali, e alcune istituzioni e politiche che sono applicate in modo appropriato alla popolazione Han potrebbero in alcuni casi non essere appropriate per le province di confine; concedere ai gruppi etnici che vivono in queste province alcuni diritti di modificare queste politiche riflette uno spirito scientifico di “ricerca della verità dai fatti”, ma il modo in cui questo dovrebbe essere scritto in modo appropriato nella legge sull’autonomia delle regioni etniche è una questione enorme che richiede un’attenta considerazione. Se questi “diritti autonomi di modificare o rifiutare l’attuazione di ordini o risoluzioni del governo centrale” mancano di vincoli istituzionali o assumono proporzioni sproporzionate, potrebbero, in determinate condizioni interne o esterne, creare un rischio di divisione politica.

C – L'”autonomia delle regioni etniche” nelle costituzioni cinesi
La Cina ha proclamato quattro costituzioni, nel 1954, 1975, 1978 e 1982. La versione del 1954 conteneva sei clausole relative alla regolamentazione degli organismi autonomi nelle regioni autonome etniche. Nella versione del 1975, rivista durante la Rivoluzione culturale, queste sei clausole sono state ridotte a una. Nella versione del 1978, rivista dopo la Rivoluzione culturale, il numero di clausole fu ridotto a tre.

Nel 1982, la Cina continentale stava promuovendo attivamente il “ritorno all’ordine” e l’attuazione di politiche coerenti con questo obiettivo. La Costituzione emanata in quell’anno aumentò significativamente il numero di clausole relative agli organi autonomi delle regioni autonome etniche da tre a undici, non solo ripristinando il requisito della Costituzione del 1954 secondo cui “ogni luogo in cui risiedono minoranze etniche deve praticare l’autonomia regionale”, ma anche aggiungendo un linguaggio riguardante “l’istituzione di organi autonomi e l’attuazione dei diritti autonomi”, enumerando e rafforzando il contenuto concreto di vari aspetti dei “diritti autonomi”. Nella società cinese dei primi anni ’80, l’accento era posto sull'”attuazione delle politiche di 落实政策”, che, dall’alto verso il basso, miravano a “ristabilire l’ordine” di fronte al pensiero di “estrema sinistra” della Rivoluzione culturale e all’espansione della lotta di classe; Questa era l’atmosfera politica generale degli affari interni dell’epoca, nonché un importante contesto storico che ci aiuta a comprendere alcune delle idee alla base della Costituzione del 1982 sull’autonomia regionale etnica e della legge del 1984 sull’autonomia regionale etnica che vide la luce poco dopo.

D – Una volta promulgata, la “legge sull’autonomia regionale etnica” del 1984 è diventata la bandiera e il discorso centrale del lavoro etnico.
La legge sull’autonomia delle regioni etniche della Repubblica Popolare Cinese è stata annunciata ufficialmente nel 1984. In seguito, il sistema dell’Assemblea del Popolo, il sistema di cooperazione multipartitica e di consultazione politica guidato dal Partito Comunista Cinese e il sistema dell’autonomia etnica sono stati considerati dal governo centrale come i tre sistemi politici di base della Cina.

Quando il compagno Deng Xiaoping incontrò János Kádár (1912-1989), segretario generale del Partito Socialista Operaio Ungherese, nell’ottobre 1987, disse: “Per risolvere i nostri problemi etnici, la Cina non usa il sistema federale della Repubblica Popolare, ma piuttosto il sistema dell’autonomia regionale etnica”. Jiang Zemin, in un discorso alla Seconda riunione del Comitato centrale sul lavoro etnico nel settembre 1999, ha affermato: “L’autonomia regionale etnica è una delle istituzioni politiche fondamentali della Cina. Essa integra strettamente la leadership concentrata e unificata del nostro Paese e l’autonomia regionale di cui godono le minoranze etniche, conferendole grande vitalità politica. Dobbiamo mantenere questa politica con coerenza e continuare a migliorarla”.

Nel maggio 2005, il compagno Hu Jintao, in occasione della Terza riunione del Comitato centrale sul lavoro etnico, ha dichiarato: “L’autonomia regionale etnica non deve essere messa in discussione come esperimento di base negli sforzi del nostro Paese per risolvere i problemi etnici, non deve vacillare come istituzione politica di base del nostro Paese, né deve essere indebolita come elemento della superiorità socialista del nostro Paese”. Come si evince, il sistema delle autorità regionali etniche è stato ripetutamente affermato nei discorsi dei più alti esponenti della leadership centrale del nostro Paese e per molti anni è stato un elemento centrale del sistema discorsivo del lavoro etnico del Partito Comunista Cinese, diventando una “tradizione politica” che né i funzionari, né gli accademici, né il popolo osano mettere in discussione con leggerezza.

Va ricordato ancora una volta che la Legge sull’autonomia delle regioni etniche del 1984 stabilisce che “la Repubblica Popolare Cinese è un Paese multietnico creato comunemente dal popolo in tutto il Paese”, sostiene il concetto che “le regioni etniche autonome rimangono tutte parti di una Repubblica Popolare Cinese indivisibile” e sottolinea che “ogni regione etnica minoritaria deve realizzare l’autonomia regionale, istituire organi autonomi e godere di diritti autonomi”. L’attuazione dell’autonomia etnica regionale incarna lo spirito del nostro Paese di rispettare e proteggere pienamente i diritti di tutte le minoranze etniche a gestire i propri affari interni. Eppure questa legge sull’autonomia etnica regionale, che dovrebbe guidare lo sviluppo delle relazioni etniche in Cina, non menziona nemmeno una volta l'”etnia cinese”. A posteriori, si tratta di un’omissione importante.

III. La posizione della Quarta Riunione del Comitato Centrale per il Lavoro Etnico sull'”autonomia regionale etnica”.
I dibattiti accademici in Cina sulla teoria etnica – tra cui la definizione del concetto di “etnia”, l’esistenza di una “etnia cinese” e se, in futuro, si debba rafforzare il sistema di autonomia regionale etnica o piuttosto costruire un’identità cinese comune – sono in corso da quasi vent’anni. Nella quarta riunione del Comitato centrale sul lavoro etnico del 2014, l’importante missione è stata identificata come “comprendere correttamente la questione etnica, le caratteristiche speciali e le leggi del lavoro etnico alla luce della nostra nuova situazione, unificare il nostro pensiero e la nostra comprensione, chiarire i nostri obiettivi e la nostra missione, affermare la nostra fiducia e determinazione e migliorare la nostra capacità e abilità nel lavoro etnico”. Per questo motivo, un’attenta lettura dei documenti di questo incontro sarà utile per comprendere le importanti tendenze del lavoro etnico nel nostro Paese.

A – Il mantenimento e il miglioramento del sistema di autonomia delle regioni etniche richiederà il raggiungimento delle “due integrazioni”.
Come abbiamo visto sopra, l’autonomia delle regioni etniche è stata ufficialmente riconosciuta, subito dopo la creazione della nuova Cina, come il sistema di base per risolvere i problemi etnici della Cina. È stata affermata da molti leader di alto livello ed è diventata una parte essenziale del sistema discorsivo che guida il lavoro etnico del Partito Comunista Cinese. Allo stesso tempo, come nel caso di molte politiche cinesi che riguardano i diritti e gli interessi delle minoranze etniche – come la politica del figlio unico, i bonus per gli esami di ammissione all’università, i distacchi preferenziali, i benefici sociali speciali, la nomina dei quadri nelle regioni autonome – la sua base legale e la sua giustificazione amministrativa sono legate alla legge sull’autonomia delle regioni etniche e allo status di ogni cittadino in quanto tale. Un piccolo cambiamento può avere conseguenze enormi, che riguardano non solo gli interessi individuali e i benefici sociali di centinaia di milioni di persone appartenenti a minoranze etniche in tutto il Paese, ma anche i sogni accademici di milioni di studenti appartenenti a minoranze etniche e il futuro lavorativo e le promozioni di milioni di manager appartenenti a minoranze, tra le altre cose.

Questo fa parte della politica tradizionale della Cina nei confronti dei gruppi etnici minoritari. Per maggiori dettagli, si veda Ma Rong, “Lo sviluppo storico del sistema cinese delle regioni autonome etniche”.

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Dato che queste varie “politiche etniche” rivolte alle minoranze etniche nel loro complesso sono state attuate per diversi decenni, ciò significa effettivamente che le minoranze etniche costituiscono ora un certo “gruppo di interesse” con una certa base giuridica e storica. Pertanto, quando le discussioni degli studiosi mettono in discussione questo sistema, provocano necessariamente una forte reazione da parte dei quadri delle minoranze etniche, degli accademici e delle masse; i quadri delle minoranze etniche e gli accademici sono importanti fonti di sostegno per il governo centrale nelle file dei quadri del Partito e del governo e degli accademici in tutte le regioni autonome. È stata probabilmente questa considerazione che ha portato la quarta riunione del Comitato centrale sul lavoro etnico del 2014 a riaffermare questo sistema: “L’autonomia delle regioni etniche è l’origine delle politiche etniche del nostro Partito, che derivano tutte da essa ed esistono grazie ad essa. Se questa origine dovesse cambiare, le fondamenta diventerebbero instabili e produrrebbero un effetto domino su questioni di teoria, politica e relazioni etniche.

Pur riaffermando questo sistema, l’incontro di lavoro etnico ha fatto due osservazioni del tutto nuove su come dovremmo, alla luce della nuova situazione attuale, intendere il sistema di autonomia regionale etnica costruito nel corso degli anni: mantenere e migliorare il sistema di autonomia regionale etnica richiederà il raggiungimento delle “due integrazioni”. La prima è mantenere l’integrazione tra unità e autonomia.

L’unità è uno dei maggiori interessi del Paese, un interesse comune a tutti i gruppi etnici, la precondizione e la base per l’attuazione dell’autonomia regionale etnica. Senza unità nazionale, non può esserci autonomia regionale etnica. Allo stesso tempo, sulla base dell’attuazione delle leggi e delle politiche del nostro Paese e della garanzia legale dei diritti autonomi delle regioni autonome, dobbiamo fornire un’assistenza speciale alle regioni autonome e risolvere in modo appropriato i problemi speciali delle regioni autonome.

Il secondo è l’integrazione della difesa dei fattori etnici e regionali. L’autonomia regionale etnica comprende entrambi. L’autonomia regionale etnica non è un’autonomia di cui godono particolari gruppi etnici, né tanto meno un’area riservata a un particolare gruppo etnico. Dobbiamo essere chiari su questo punto, altrimenti andremo nella direzione sbagliata. La Cina deve continuare a difendere il sistema di autonomia regionale etnica, ma per quanto riguarda il modo in cui dobbiamo intendere questo sistema e dove dobbiamo portarlo in pratica, dobbiamo “recuperare il tempo perduto”.

L’argomentazione di Ma Rong ricorda anche quella di Hu Lianhe e Hu An’gang in “Come viene gestita la questione delle nazionalità al di fuori della Cina”, nel suo generale – anche se largamente implicito – sostegno al multiculturalismo e ai Paesi melting pot come gli Stati Uniti e il Brasile. È ovviamente evidente che l’attuale politica etnica della Cina offre spesso pochissima protezione ai gruppi presumibilmente “autonomi” – il termine è chiaramente orwelliano nello Xinjiang o nel Tibet di oggi – ma nessuno sa se una politica che favorisca l'”integrazione” sarebbe migliore. Le voci delle minoranze etniche sono vistosamente assenti dal testo di Ma, che non ci dice nulla dei loro desideri.

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B – Come comprendere le regioni autonome etniche cinesi dal punto di vista dell'”etnicità”?
Nel considerare i confini amministrativi e la denominazione delle regioni autonome etniche, la nuova Cina ha adottato un approccio simile a quello dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia, utilizzando come punti di riferimento le regioni etniche tradizionali e i nomi dei gruppi etnici che vi abitano. Per quanto riguarda il modo in cui dobbiamo intendere oggi questa modalità di designazione, l’incontro sul lavoro etnico lo ha chiarito: le nostre regioni autonome indossano il “cappello” dell’etnicità, e indossare questo “cappello” significa che questi gruppi devono assumersi la responsabilità ancora maggiore di proteggere l’unità nazionale ed etnica.

Questa prospettiva è molto diversa dalla concezione comune della maggior parte delle persone, secondo cui le etnie autonome hanno maggiori diritti e interessi in termini di strutture amministrative autonome e attività economiche. Questo nuovo linguaggio (提法) sulle responsabilità delle etnie autonome ha suscitato molte riflessioni. Per quanto riguarda il motivo per cui, attualmente, è ancora necessario mantenere il sistema di autonomia etnica regionale, l’incontro di lavoro etnico ha sottolineato che “nella riforma, non possiamo assolutamente accontentarci di un sistema di autonomia regionale”: “Nella riforma, non possiamo assolutamente commettere errori che sarebbero destabilizzanti, o fare svolte di 180 gradi in sistemi o politiche importanti, o rischiare di cadere nel dimenticatoio”. Nel contesto di questa argomentazione, è necessario aggiungere un apprezzamento che rifletta un’esplorazione logica più profonda e una visione storica più lunga.

Allo stesso tempo, il Quarto incontro sul lavoro etnico ha sottolineato: “Applicando correttamente le disposizioni della Costituzione e della Legge sull’autonomia delle regioni etniche, la cosa principale è aiutare le regioni autonome a sviluppare le loro economie e a migliorare le condizioni di vita delle persone” e non, come alcuni hanno suggerito, accelerare l’attuazione delle leggi sull’autonomia regionale nelle cinque regioni autonome o nello Xinjiang. Obiettivamente, si tratta di una risposta indiretta a chi chiede l’attuazione delle leggi sull’autonomia regionale nelle cinque regioni autonome.

C – Il nostro punto di vista su alcune questioni controverse
Da qualche tempo, alcuni chiedono la “promozione” o l'”espansione” dell’autonomia delle regioni etniche. Per “promozione” si intende l’innalzamento del rango del sistema delle regioni autonome etniche nell’amministrazione nazionale, la creazione di strutture amministrative centrali e locali corrispondenti al sistema di autonomia regionale etnica, il che significherebbe la creazione di un ufficio per gli affari etnici al pari di strutture come la Conferenza nazionale del popolo o la Conferenza consultiva politica del popolo cinese. A livello di governo centrale, la Cina ha attualmente la Conferenza Nazionale del Popolo e i suoi uffici (la Grande Sala del Popolo) e la Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese e i suoi uffici (la Sala della Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese), e le riunioni annuali di queste due strutture (indicate collettivamente come le “due riunioni”) sono gli eventi più importanti della vita politica cinese.

Pertanto, coloro che chiedono la promozione del lavoro etnico auspicano la creazione di una struttura politica (il Comitato nazionale delle regioni autonome etniche) che sia l’equivalente di queste due strutture a livello di governo centrale, il che comporterebbe la costruzione di uffici a Pechino che sarebbero l’equivalente della Grande Sala del Popolo e della Sala della Conferenza consultiva politica del popolo cinese.

Per certi versi, questo pensiero ricorda il “Soviet delle Nazionalità” dell’Unione Sovietica, uno dei “due Soviet” del Soviet Supremo (l’altro è il “Soviet dell’Unione”). All’epoca dell’Unione Sovietica, il Soviet delle Nazionalità rappresentava gli interessi particolari di tutte le regioni etniche autonome. La Costituzione sovietica prevedeva che il Soviet delle Nazionalità fosse composto da 750 rappresentanti, eletti a scrutinio segreto per un mandato di cinque anni in elezioni che erano in linea di principio universali, uguali e dirette, tenute nelle repubbliche federate (32 rappresentanti ciascuna), nelle repubbliche autonome (11 rappresentanti ciascuna), negli oblast’ autonomi (5 rappresentanti ciascuno) e nei distretti nazionali (1 rappresentante ciascuno).

Il Soviet delle Nazionalità era uno dei due organi legislativi del Soviet Supremo dell’URSS, insieme al Soviet dell’Unione. Il suo ruolo era quello di rappresentare gli interessi di ogni repubblica sulla base di una distribuzione proporzionale dei seggi: 25 deputati per ogni repubblica sovietica, 11 per ogni repubblica autonoma, 5 per ogni regione autonoma e 1 per ogni oblast’.

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Il Soviet delle Nazionalità teneva due riunioni regolari all’anno, durante le quali i membri discutevano e si scambiavano opinioni su questioni etniche e progetti correlati. Il comitato permanente era composto da un presidente, quattro vicepresidenti e 30 membri. “Secondo la Costituzione dell’Unione Sovietica del 1924, era una delle camere del Comitato esecutivo centrale sovietico (苏联中央执行委员)”. Nell’Unione Sovietica qualsiasi misura politica importante doveva essere approvata da entrambi i Soviet (il Soviet dell’Unione e il Soviet delle Nazionalità).

Come tutti sanno, in Cina il processo di elezione dell’Assemblea nazionale del popolo e della Conferenza consultiva politica nazionale del popolo tiene già pienamente conto della questione della rappresentanza delle minoranze etniche; pertanto, con il sistema attuale, è necessario istituire separatamente un’amministrazione nazionale per “rappresentare le regioni autonome delle minoranze etniche”? Quale sarebbe la natura del rapporto di questo organismo con l’Assemblea nazionale del popolo e la Conferenza consultiva politica del popolo? È una domanda che vale la pena di considerare.

Espansione” significa andare oltre le norme amministrative per le aree autonome etniche previste da questa Costituzione e dalla Legge sull’autonomia delle aree etniche e istituire città autonome etniche o distretti autonomi etnici annessi alle città, trasformando quelle che finora erano province, prefetture e contee (o stendardi) etnicamente autonome in province, prefetture (comuni) e contee (stendardi, comuni e province) autonome. L’Ufficio per le politiche e le leggi della Commissione nazionale per gli affari etnici (国家民委政法司) ha esercitato per anni pressioni affinché la Costituzione venisse emendata per includere un testo sulle “città etniche”, in modo che, quando lo sviluppo economico o demografico di un Paese autonomo giustifica la sua “promozione” allo status di municipalità, esso possa mantenere i diritti e gli interessi associati al suo status originario di “autonomia etnica”.

Da quando la Cina ha intrapreso la sua politica di riforma e apertura, lo sviluppo economico delle città e dei paesi e il ritmo dell’urbanizzazione hanno subito un’accelerazione, e quando lo sviluppo dell’economia non agricola e le dimensioni della popolazione di alcune contee autonome (o bandi) hanno raggiunto la soglia di municipalità, la percentuale della popolazione etnica minoritaria sulla popolazione totale è spesso diminuita in modo significativo. Nella tendenza generale dello sviluppo sociale cinese, la percentuale della popolazione dell’intero Paese che risiede nelle città è aumentata rapidamente, passando dal 36,9% nel 2000 al 58,2% alla fine del 2017. Oggi che la Cina promuove lo “sviluppo occidentale” e il processo di rapida urbanizzazione, la traiettoria di sviluppo di queste città di nuova creazione dovrebbe essere ancora più aperta e queste città dovrebbero partecipare sempre più attivamente al grande flusso di sviluppo del commercio e dell’integrazione, senza continuare a rimanere aggrappate alla “autonomia regionale” legata all’etnia.

D – Promuovere il “rafforzamento degli scambi e delle interazioni (交往交流交融) all’interno dell’etnia cinese”.
La quarta riunione del Comitato centrale sul lavoro etnico ha osservato: “La formazione di un unico mercato nazionale in Cina e l’aumento dello scambio sociale tra le persone stimolerà notevolmente l’integrazione, è una tendenza storica, un risultato necessario dello sviluppo della nostra economia socialista, un risultato necessario del mantenimento della nostra identità socialista, un risultato necessario del progresso della civiltà cinese… Dobbiamo rispettare tali leggi e cogliere correttamente la direzione storica dello scambio sociale tra le persone. Non possiamo ignorare la natura comune del popolo e rifiutarci di guidare, né possiamo trascendere gli stadi storici e usare mezzi amministrativi per forzare il progresso ignorando le differenze etniche”. Ciò dimostra che l’idea di rafforzare l’autonomia regionale etnica “promuovendo” o “espandendo” [l’attuale sistema] va nella direzione opposta rispetto agli appelli delle autorità centrali a rafforzare la grande tendenza storica dello scambio sociale tra tutti i gruppi etnici.

Inoltre, al censimento del 2010, la Cina contava ancora 64.000 “persone non designate (未识别人口)”, tra le quali alcuni gruppi (come i Chuanqing 穿青 del Guizhou, i Portoghesi etnici (土生葡) di Macao) vorrebbero essere riconosciuti come nuove “etnie” e, attraverso questo status, entrare nella più ampia struttura familiare e politica nazionale cinese. Alcune province chiedono anche la creazione di nuove contee o municipalità autonome come “regioni etniche”. La quarta riunione del Comitato centrale sul lavoro etnico ha ufficialmente affermato che il compito del nostro Paese di “designazione etnica” è sostanzialmente completato.

E – Il nuovo grido per il “diritto all’autodeterminazione etnica
Dopo la fine degli anni ’40, le autorità centrali cinesi non hanno più promosso né il sistema federale né il “diritto all’autodeterminazione etnica”. Nella “Direttiva del Comitato Centrale al Comitato di Prima Linea della Seconda Armata da Campo sulla questione del “diritto all’autodeterminazione” dei gruppi di minoranza etnica 中共中央关于少e民族” 自决权 “问题给二野前委的指示”, datata 5 ottobre 1949, si sottolineava chiaramente che: “La determinazione della politica etnica del Partito deve basarsi sulle regole sulle politiche etniche del Programma comune del CPPCC 人民政协共同纲领”. Per quanto riguarda la questione del “diritto all’autodeterminazione” delle minoranze etniche, non dovremmo più insistere su questo punto. In passato, durante la guerra civile, il nostro Partito ha enfatizzato questo slogan per conquistare le minoranze etniche alla nostra causa e per opporsi al regime reazionario della GMD (che adottava un atteggiamento particolarmente sciovinista nei confronti delle minoranze etniche), e questo era perfettamente corretto all’epoca.

Ma oggi la situazione è cambiata radicalmente, il regime reazionario della GMD è stato fondamentalmente sconfitto. La Nuova Cina, guidata dal nostro Partito, si è affermata e, pertanto, per portare a termine la grande impresa dell’unificazione del nostro Paese, per opporsi ai complotti degli imperialisti e dei loro cani sciolti per dividere l’unità etnica della Cina, sul fronte interno non dovremmo più enfatizzare questo slogan per evitare che venga utilizzato dagli imperialisti e dagli elementi reazionari all’interno delle minoranze etniche in Cina, che ci metterebbero in una posizione passiva”. Così, dalla fine degli anni ’40, il Comitato Centrale del Partito ha chiaramente affermato che nel lavoro etnico della Cina dobbiamo abbandonare lo slogan e il quadro del “diritto all’autodeterminazione etnica”. I compagni Mao Zedong e Zhou Enlai ci hanno ripetutamente avvertito che non [usare lo slogan o la politica] non era solo perché si adattava alla nostra situazione nazionale, ma anche per evitare che forze esterne usassero le questioni etniche per fomentare le divisioni”.

Il 17 novembre 2017, il China Ethnic Journal (中国民族报) ha pubblicato un articolo che sottolineava che: “Il marxismo-leninismo non si oppone al diritto all’autodeterminazione etnica, ma al contrario lo considera un’importante teoria e guida nella gestione delle questioni etniche…. Anche se dal punto di vista del nome [usato nelle questioni politiche], sembra che il Partito Comunista Cinese, che ha difeso il diritto all’autodeterminazione etnica dalla fondazione del Partito fino allo scoppio della guerra sino-giapponese, non abbia scelto di integrare questa politica nel suo sistema di gestione della questione dei vari gruppi etnici coinvolti nella costruzione nazionale, Tuttavia, dal punto di vista del significato fondamentale del suo pensiero, l’idea promossa dal “diritto all’autodeterminazione etnica” di rispettare la sovranità politica e gli interessi dei gruppi etnici minoritari in posizione di debolezza, meritava di essere affermata dal PCC. ”

Sebbene questo articolo riconosca che il Partito non ha più promosso il “diritto all’autodeterminazione” dopo la fine degli anni ’40, sottolinea anche che il “nucleo” del “diritto all’autodeterminazione etnica” è stato affermato dal PCC e insiste anche sul fatto che, in termini teorici, l’idea del “diritto alla determinazione etnica” rimane legata all’attuale sistema di autonomia etnica regionale nel nostro Paese. Il 12 agosto 2016, il China Ethnic Journal ha pubblicato un altro articolo in cui metteva pubblicamente in dubbio che l'”etnicità cinese” come corpo politico avesse effettivamente preso forma, concentrandosi sull’autonomia regionale etnica come base teorica per l’affermazione.

III. La direzione futura dell’azione cinese a favore delle minoranze etniche
Durante la riunione dell’Assemblea nazionale del popolo del 20 marzo 2018, il presidente nazionale rieletto Xi Jinping ha tenuto un discorso. Nei recenti discorsi del Presidente Xi, possiamo vedere come il centro del Partito esprima la sua visione fondamentale sulla questione etnica e come definisca la direzione per il futuro sviluppo del lavoro etnico del nostro Paese.

Il mondo di oggi è composto da Stati-nazione (Stati sovrani riconosciuti dalle Nazioni Unite) con sistemi amministrativi, legali, diplomatici, economici e finanziari indipendenti. Nel corpo politico che è la Cina di oggi, e per tutti i cinesi che compongono la Repubblica Popolare Cinese, la “Cina etnica” è la nostra identità politica e culturale più fondamentale, e il passaporto cinese e la carta d’identità cinese sono i “confini” legalmente definiti che separano i cinesi dai cittadini di altri Paesi. Espressioni come “popolo cinese”, “civiltà cinese”, “figli e figlie della Cina” e “spirito nazionale” sottolineano la storia condivisa, l’identità collettiva e il destino comune di tutti i cinesi, e queste espressioni sono diventate di recente il filo conduttore dei discorsi dei nostri massimi dirigenti riguardo al discorso sull'”etnicità”.

Il “Rapporto di lavoro” del presidente Xi del 18 ottobre 2017, presentato alla 19ª Conferenza nazionale del popolo, in rappresentanza del 18° Comitato centrale, è il testo programmatico di questa coorte di leader centrali. In 73 occasioni, il testo fa riferimento al popolo cinese nel suo complesso e come “nazione”. Il “popolo cinese” è citato anche 14 volte, mentre in dieci casi il rapporto si riferisce alle differenze etniche della Cina come “popolo di tutte le nazionalità”, e solo sei volte ai 56 “gruppi etnici” (“lavoro religioso etnico”, “regioni etniche di confine”, “attività separatiste etniche”, “sistema di autonomia regionale etnica”, “etnia, religione” e “unità etnica”), mentre l'”autonomia regionale etnica” è menzionata solo una volta.

La formulazione concreta del “Rapporto di lavoro” sulla questione etnica, nella sezione dedicata al “fronte unito patriottico”, è la seguente: “Approfondire l’educazione progressiva all’unità etnica”: “Approfondire l’educazione progressiva all’unità etnica, consolidare la coscienza del corpo comune del popolo cinese, rafforzare l’interazione tra tutti i gruppi etnici, incoraggiare tutti i gruppi etnici ad essere strettamente legati come semi di melograno, in modo che si uniscano per lottare, svilupparsi e prosperare… realizzare congiuntamente la grande rinascita del popolo cinese”. ” Chiaramente, il Presidente Xi ha posto l’accento sull'”interazione tra tutti i gruppi etnici” e sul “consolidamento della consapevolezza di una comune etnia cinese”. Nel suo discorso alla cerimonia di chiusura del 13° Congresso nazionale del popolo nel marzo 2018, il presidente Xi non ha menzionato l'”autonomia regionale etnica”, ma ha invece sottolineato quanto segue: “Nel fiume di migliaia di anni di storia, il popolo cinese è sempre stato unito come una cosa sola, rimanendo unito nei momenti difficili 同舟共济, costruendo un Paese unito e multietnico, sviluppando la pluralità nell’unità dei 56 gruppi etnici, intrecciando e armonizzando le relazioni tra i gruppi etnici, formando la grande famiglia del popolo cinese che si prende cura l’uno dell’altro e si aiuta a vicenda”. ”

La Costituzione riveduta del 2018 menziona l'”etnia cinese” due volte (una nell’articolo 32 e una nell’articolo 33), il che significa che l'”etnia cinese” è ufficialmente “entrata nella Costituzione”. Il vocabolario e le espressioni utilizzate nei discorsi sopra citati mostrano chiaramente che c’è già stato un cambiamento significativo nell’enfasi posta sulle due nozioni di “etnia cinese” e “56 gruppi etnici”. Le espressioni usate in passato tendevano a sottolineare l'”autonomia etnica regionale”, l'”uguaglianza etnica” e la “prosperità comune”, mentre negli ultimi anni l’accento è stato posto sulla “comunità etnica cinese” e sull'”interazione tra le persone”.

Nel 1989, il professor Fei Xiaotong ha sottolineato che “nell’ultimo secolo di resistenza alle potenze occidentali, il popolo cinese è diventato un’entità nazionale consapevole”. La sua idea di “pluralità nell’unità” è stata riaffermata dalle autorità centrali. Il compagno Hu Jintao, nel suo discorso del luglio 2016 alla Conferenza nazionale di lavoro del Fronte Unito, ha sottolineato chiaramente: “L’uguaglianza, l’unità, l’assistenza reciproca e le armoniose relazioni etniche socialiste hanno creato la situazione di base della pluralità nell’unità del popolo cinese e gli interessi fondamentali della grande famiglia del popolo cinese”. Alla quarta riunione del Comitato centrale sul lavoro etnico, il presidente Xi ha spiegato l’idea della “pluralità nell’unità del popolo cinese” come segue: “Quando parliamo della natura della pluralità all’interno dell’unità del popolo cinese, l’unità contiene la pluralità e la pluralità costituisce l’unità. L’unità non è separata dalla pluralità, né la pluralità è separata dall’unità. L’unità è il filo conduttore e la direzione, la pluralità le parti mobili e la motivazione. Entrambe esistono in un’unità dialettica”.

Dal 2000, nella comunità accademica sono in corso dibattiti sulle tendenze dello sviluppo delle relazioni etniche in Cina e sui risultati oggettivi dell’autonomia regionale etnica e del trattamento preferenziale delle minoranze. Nel 2014, in occasione della quarta riunione del Comitato centrale sul lavoro etnico, le autorità centrali si sono espresse in modo abbastanza esaustivo su questi temi. Da un lato, hanno osservato che il sistema dell’autonomia regionale etnica è diventato, dal 1949 e dalla fondazione della Nuova Cina, il sistema di base e il discorso centrale per la gestione delle questioni etniche, e per evitare un cambiamento di centoottanta gradi che potrebbe portare a un “arretramento 翻车” , hanno ribadito il loro atteggiamento positivo nei confronti di questo sistema, arrivando persino a esprimere la ferma opinione che “l’idea di abolire il sistema di autonomia regionale etnica dovrebbe essere accantonata”, fornendo una “influenza calmante” a coloro che temevano che il Partito stesse contemplando grandi cambiamenti nel discorso e nel sistema di base della gestione etnica. D’altra parte, pur affermando il sistema di “autonomia regionale etnica”, hanno posto particolare enfasi, in termini di priorità, sulla necessità di porre l'”unità” al di sopra dell'”autonomia”: “In assenza di unità nazionale, non ci può essere autonomia regionale”.

Per quanto riguarda i gruppi etnici che attuano l’autonomia regionale, hanno insistito sul fatto che questi gruppi devono proteggere l’unità e che preservare l’unità etnica è “la più grande responsabilità”. Se guardiamo al percorso intrapreso dalla nuova Cina negli ultimi 70 anni nella gestione delle questioni etniche, possiamo vedere che ci sono stati grandi successi, ma anche grandi fallimenti. Se esaminiamo il sistema discorsivo utilizzato nei testi governativi e nelle discussioni accademiche sulle questioni etniche, scopriamo approcci diversi e vivaci dibattiti nel mondo accademico. L’emergere di opinioni diverse su questo tema estremamente complesso è naturale; ciò che spaventa è la “voce unica 一言堂” della rivoluzione culturale, ed è solo lasciando “sbocciare cento fiori” che il nostro pensiero può progredire. Se allora Deng Xiaoping non avesse sostenuto la “liberazione del pensiero”, la Cina non sarebbe stata in grado di trovare la strada della riforma e dell’apertura, e noi non saremmo stati in grado di raggiungere i grandi risultati che abbiamo ottenuto oggi nella nostra modernizzazione nazionale.

Quando oggi riflettiamo sulla questione etnica in Cina, il punto più importante rimane la “liberazione del pensiero” e l’opposizione alle “due 两个凡是 cose”, la difesa della “ricerca della verità dai fatti” e della “pratica come unico criterio di verità”. Analizzando gli aspetti positivi e negativi delle politiche etniche dalla fondazione della Nuova Cina, il nostro obiettivo è garantire che, dopo aver soppesato le esperienze di successo e le lezioni fallite, il nostro percorso futuro sia migliore e più agevole. Il nostro obiettivo è quello di integrare veramente tutti i gruppi etnici del nostro Paese in un unico insieme, che risponda congiuntamente agli eventi in continua evoluzione sul fronte internazionale e realizzi il “sogno cinese dei nostri 1,39 miliardi di persone per la prosperità e la forza”.

Il sogno cinese di Ma è un sogno in cui le identità etniche sono sostituite da un’identità nazionale e l’autore, giocando sulla notevole ambiguità di molti termini chiave della sua argomentazione cinese, arriva a suggerire che ciò di cui la Cina ha bisogno è una “etnia cinese 中华民族”. Minzu 民族 può ovviamente essere tradotto come “nazione”, “popolo”, “nazionalità” o “etnia”, e nella maggior parte dei contesti – compresi molti dei testi di Ma – la frase molto comune Zhonghua minzu 中华民族 significa “il popolo/la nazione cinese”. In altri casi, tuttavia, Ma sta chiaramente cercando di essere provocatorio suggerendo che una “etnia cinese” potrebbe essere possibile, anche se non si sofferma sulle complessità di ciò che questo potrebbe significare, come sarebbe diverso da un’etnia Han o dal popolo cinese – che certamente significa tutti i cittadini cinesi residenti nella Repubblica Popolare. Il termine dovrebbe essere tradotto come “etnia cinese”, a meno che non sia evidente il contrario – ad esempio in bocca a Xi Jinping – per dare al lettore un’idea di quali possano essere le intenzioni di Ma Rong.

↓CHIUDERE
La ruota della storia va sempre avanti e anche le leggi e i regolamenti del Paese devono evolvere in linea con il fondamentale progresso sociale e le situazioni contraddittorie, apportando le necessarie revisioni e aggiustamenti nello spirito di ricercare la verità dai fatti e di adattarsi ai tempi che cambiano. Per seguire la direzione del progresso storico e affrontare in modo appropriato le contraddizioni attuali, i leader devono studiare le tendenze e adottare le misure appropriate per adeguare la nostra strategia di lavoro nello spirito della ricerca della verità dai fatti. Nel processo di sviluppo della “pluralità nell’unità” del popolo cinese, quando la forza di enfatizzare e promuovere l'”unità” è eccessiva, al punto da danneggiare gli interessi sociali e le tradizioni culturali della “pluralità”, dovremmo prestare attenzione alla “pluralità” e proteggere la cultura tradizionale e gli interessi dei gruppi etnici minoritari; e quando la promozione dello sviluppo della “pluralità” minaccia l'”unità” sociale e nazionale, allora dovremmo enfatizzare la “comunità etnica cinese”.

FONTI
Si veda ad esempio, in inglese, Ma Rong, Population and Society in Contemporary Tibet (Hong Kong: Hong Kong University Press, 2010).
马戎, “中国民族区域自治制度的历史演变轨迹”, in un numero speciale di 民族研究 (Studi etnici) intitolato “民族区域自治制度70 年 Seventy Years of the Ethnic Regional Autonomy System”, 2019.3: 92-109.
Per un’eccellente panoramica delle argomentazioni di Ma e delle critiche dei suoi detrattori, si veda Mark Elliott, “The Case of the Missing Indigene: Debate over a ‘Second-Generation’ Ethnic Policy”, The China Journal 73 (2015): 186-213.

https://legrandcontinent.eu/fr/2023/06/17/du-separatisme-en-chine/

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LE ARMI IDEOLOGICHE DI LI QIANG CONTRO L’UNIONE, di Li Qiang

LE ARMI IDEOLOGICHE DI LI QIANG CONTRO L’UNIONE
Le dottrine cinesi di Xi | Episodio 41

“I governi e le organizzazioni non dovrebbero oltrepassare i limiti e trasformare il concetto di rischio in uno strumento ideologico”. In un passaggio della traduzione ufficiale del suo discorso al vertice estivo di Davos, martedì 27 giugno, il primo ministro cinese ha attaccato direttamente la nuova strategia di sicurezza economica dell’UE. Traduciamo e commentiamo riga per riga il discorso nella sua interezza per capire come Pechino stia adattando la sua strategia.
AUTORE ALEXANDRE ANTONIO – IMMAGINE © AP PHOTO/ANDY WONG

Dal 2007 il World Economic Forum organizza in Cina il “Meeting annuale dei nuovi campioni”, noto anche come “Davos Summer Forum”, che riunisce per diversi giorni i “campioni economici” della maggior parte dei Paesi emergenti. Martedì 27 giugno, a Tianjin, nel nord della Cina, il nuovo numero 2 del Partito Comunista Cinese, Li Qiang, ha tenuto il discorso di apertura di questa 14a edizione davanti a un pubblico di circa 1.500 leader del settore pubblico e privato provenienti da oltre 90 Paesi1.

Rivolgendosi in primo luogo alla prossima generazione di leader mondiali, il nuovo premier cinese Li Qiang ha seguito la tabella di marcia tracciata da Liu He a Davos all’inizio dell’anno, rendendo il suo discorso una vetrina del potenziale economico della Cina come motore della crescita globale e della ripresa post-Covida, annunciando che Pechino è “ancora sulla buona strada per raggiungere il suo obiettivo di crescita annuale di circa il 5%” – nonostante i segnali economici siano inferiori alle previsioni degli osservatori, segnati dalla stagnazione dei consumi e dalla disoccupazione giovanile ormai a livelli record.

In un paragrafo molto commentato in Occidente e tagliato dalla traduzione in mandarino di Xinhua, il Primo Ministro cinese mette in guardia – senza nominare direttamente alcun Paese ma puntando un dito molto più sfuggente contro “l’Occidente” – contro i tentativi di “autonomia strategica” recentemente incarnati nella nuova strategia di sicurezza economica dell’UE. Qui Li Qiang attacca i “tentativi di disaccoppiare” e “armare le interdipendenze” per ridurre la dipendenza strategica e la vulnerabilità dell’Occidente nei confronti di alcuni prodotti stranieri – come le terre rare, importate in Europa per il 98% dalla Cina. Per Li, ufficialmente, queste “armi ideologiche” sono “vicoli ciechi che contribuiscono alla frammentazione del mondo”.

Il messaggio di fondo è che la realizzazione di un orizzonte di sicurezza strategica comune che si estenda all’Europa, auspicata da autorevoli osservatori, andrebbe contro gli interessi di Pechino. Oltre a rafforzare l'”autonomia strategica” dell’UE, il disaccoppiamento dalla Cina significherebbe anche intensificare la cooperazione in materia di sicurezza economica con i Paesi desiderosi di ridurre i rischi, attraverso l’iniziativa Global Gateway, che potrebbe fornire una risposta europea alla strategia cinese delle Nuove vie della seta.

In risposta, lo stesso Li utilizza tutte le “armi ideologiche” che compongono la tavolozza diplomatica di Pechino – dalla “comunità del destino dell’umanità” introdotta nel 2012 alle più recenti Iniziative per la sicurezza globale e la civiltà introdotte da Xi quest’anno – e che il numero due del Partito vuole presentare come “unificanti e universali” per evitare un disaccoppiamento che sarebbe dannoso per il modello cinese.

Professor Klaus Schwab, presidente esecutivo del Forum economico mondiale,

Illustri capi di governo,

Eccellenze, capi di organizzazioni internazionali,

Illustri ospiti,

Signore e Signori

Cari amici,

è con grande piacere che mi unisco ai miei amici, vecchi e nuovi, qui a Tianjin per l’incontro annuale dei Nuovi Campioni 2023, o Summer Davos Forum. Permettetemi innanzitutto, a nome del governo cinese, di congratularmi vivamente per l’apertura di questo evento e di dare il benvenuto a tutti i partecipanti e ai giornalisti.

Sin dal suo lancio nel 2007, il World Economic Forum organizza l'”Incontro annuale dei nuovi campioni”, noto anche come “Forum estivo di Davos”, che ogni anno riunisce i “campioni economici” dei Paesi emergenti e alcuni “motori della crescita globale” dei Paesi sviluppati. Pechino coglie l’occasione per illustrare il proprio potenziale economico. Si tratta del primo faccia a faccia dall’inizio della pandemia.

↓FERMER
Questo è il primo incontro annuale faccia a faccia dopo il COVID-19, che si è svolto più di tre anni fa. Negli ultimi anni, questa pandemia unica, unita a trasformazioni senza precedenti in un secolo, ha portato a notevoli cambiamenti nel nostro mondo. Da un lato, l’impatto della COVID-19 persiste. Unilateralismo, protezionismo e deglobalizzazione sono in aumento. Le sfide globali si intensificano e i conflitti regionali continuano a divampare. L’instabilità, l’incertezza e l’imprevedibilità sono diventate comuni. Allo stesso tempo, il nuovo ciclo di rivoluzione tecnologica e trasformazione industriale sta prendendo slancio. L’umanità è più che mai determinata a perseguire la pace e lo sviluppo. Per la maggior parte dei Paesi, il desiderio di una cooperazione vantaggiosa per tutti è diventato ancora più forte. Il mondo si trova a un bivio storico. Come l’umanità possa superare questo periodo di turbolenza è una questione cruciale che riguarda tutti noi. Credo che possiamo trarre alcune importanti lezioni dalle trasformazioni avvenute nel mondo negli ultimi anni.

In primo luogo, dopo aver sperimentato le barriere, sia visibili che invisibili, dovremmo avere ancora più a cuore la comunicazione e lo scambio. Per un certo periodo, l’interazione faccia a faccia, che davamo per scontata, è stata resa molto difficile dalla pandemia. Con l’attenuarsi della pandemia, le barriere visibili che ha creato finiranno per scomparire. Tuttavia, le barriere invisibili erette da alcune persone negli ultimi anni si stanno diffondendo e spingono il mondo verso la divisione e persino lo scontro. Questo è un motivo di maggiore preoccupazione. Le differenze di percezione umana e la diversità delle civiltà esistono fin dall’antichità. Queste differenze non dovrebbero essere una causa di allontanamento, ma una forza trainante per una maggiore comunicazione e scambio. L’assenza di una comunicazione efficace e di una percezione globale, olistica e obiettiva può facilmente portare a pregiudizi e stereotipi. Vivendo nello stesso villaggio globale, noi, umanità, dobbiamo eliminare le barriere visibili e, soprattutto, quelle invisibili. Paesi, gruppi etnici e civiltà diverse devono approfondire la comprensione reciproca e rafforzare il dialogo per colmare le differenze e ampliare il terreno comune.

Il concetto di “villaggio globale” o “villaggio planetario” è al centro della “comunità di destino per l’umanità” (人类命运共同体). È un elemento della diplomazia cinese che emerge nel 2012 nel discorso ufficiale del Partito, prima di essere sancito nel 2018 nella prefazione alla Costituzione della RPC. Il PCC lo presenta come una governance globale alternativa che trae ispirazione dalla cultura cinese e dalla nozione di sviluppo e incarna la visione del Partito di una “tendenza all’interdipendenza nel mondo”.

↓FERMER
In secondo luogo, dopo aver subito gli shock delle crisi globali, dovremmo avere ancora più a cuore la solidarietà e la cooperazione. La storia della società umana è fatta di battaglie e vittorie contro sfide e difficoltà. Di fronte a una grave crisi, nessun Paese può rimanere indenne o risolvere i propri problemi da solo. La solidarietà e la cooperazione sono la strada da seguire. Negli ultimi tre anni, tutti noi abbiamo combattuto duramente contro la pandemia, dimostrando la potente forza dell’umanità che si unisce e si protegge a vicenda nei momenti difficili. La COVID-19 non sarà l’ultima crisi di salute pubblica che l’umanità dovrà affrontare. La governance globale della salute pubblica deve essere rafforzata. Allo stesso tempo, dobbiamo anche affrontare le sfide globali del rallentamento della crescita, dei rischi del debito, del cambiamento climatico e del divario di ricchezza. In qualità di comunità con un futuro comune, dobbiamo fare tesoro dei risultati della nostra cooperazione, abbracciare il concetto di cooperazione win-win e lavorare insieme per affrontare queste sfide globali e promuovere il progresso umano.

In terzo luogo, dopo aver vissuto gli alti e bassi della globalizzazione economica, dobbiamo avere ancora più a cuore l’apertura e la condivisione. La globalizzazione economica è una tendenza storica. Nonostante i venti contrari e le battute d’arresto, la tendenza generale della globalizzazione economica ha continuato a progredire. In particolare, i rapidi progressi delle nuove tecnologie, come la tecnologia digitale e l’intelligenza artificiale, stanno creando condizioni più favorevoli alla globalizzazione economica. Il mondo non deve e non può tornare a uno stato di reclusione o di isolamento. Pochi giorni fa mi sono recato in Germania e in Francia, dove ho avuto colloqui approfonditi con i leader di entrambi i Paesi e con esponenti del mondo politico e imprenditoriale. L’opinione prevalente è quella di rifiutare la mentalità del gioco a somma zero e di rimanere sulla strada giusta della cooperazione win-win.

La scorsa settimana, Li Qiang si è recato in Germania e in Francia per incontrare importanti aziende di entrambi i Paesi e si è espresso contro la strategia di autonomia strategica dell’Europa. In Germania, il numero 2 del Partito ha respinto l’idea di “de-risking” e “riduzione del grado di dipendenza”. In Francia, a margine del vertice di Parigi, Li ha ribadito la stessa posizione, affermando di volere “un ambiente commerciale equo, trasparente e non discriminatorio per le aziende cinesi” e auspicando di poter “lavorare insieme per mantenere la stabilità e la resilienza della catena di approvvigionamento tra Cina, Francia ed Europa”.

↓FERMER
Come sapete, alcuni in Occidente propongono il concetto di armamento delle interdipendenze e di “de-risking”. Questi due concetti sono proposte forzate. La globalizzazione economica ha già trasformato il mondo in un insieme in cui gli interessi di tutti sono intimamente legati. I Paesi sono interdipendenti, interconnessi in termini economici per consentire il successo reciproco. Questo è un bene, non un male. Se c’è un rischio in un settore emergente, non è a causa di un’organizzazione o di un governo. Sono le aziende ad essere più sensibili e a poter valutare questi rischi per giungere alle proprie conclusioni e prendere le proprie decisioni. I governi e le organizzazioni non dovrebbero oltrepassare i limiti e trasformare il concetto di “rischio” in uno strumento ideologico.

Questo passaggio è stato rimosso dalla traduzione ufficiale cinese di Xinhua. In esso, il Primo Ministro cinese contesta – senza nominare direttamente l’UE o alcun Paese – la nuova strategia di sicurezza economica dell’UE e le sue implicazioni. Li Quang attacca i “tentativi di disaccoppiare” e “armare le interdipendenze” che gli osservatori chiedono per ridurre la dipendenza strategica e la vulnerabilità dell’UE da alcuni prodotti stranieri – come le terre rare, importate in Europa per il 98% dalla Cina. Per Li, ufficialmente, queste “armi ideologiche” sono “vicoli ciechi che contribuiscono alla frammentazione del mondo”.

↓FERMER
Dobbiamo seguire la tendenza della storia, consolidare il consenso sullo sviluppo e continuare a impegnarci per costruire un’economia globale aperta. Dobbiamo opporci alla politicizzazione delle questioni economiche e lavorare insieme per mantenere stabili e fluide le catene industriali e di approvvigionamento globali e per garantire che i frutti della globalizzazione vadano a beneficio di diversi Paesi e gruppi di popolazione in modo più equo.

In quarto luogo, dopo aver sperimentato l’ansia causata da conflitti e disordini, dovremmo avere ancora più a cuore la pace e la stabilità. Senza la pace non si può ottenere nulla. Questa è una dura lezione che l’umanità ha imparato dalla storia. Negli ultimi cento anni, il mondo ha vissuto due guerre mondiali e più di 40 anni di guerra fredda, prima di sperimentare finalmente un periodo di stabilità e sviluppo. Tuttavia, gli ultimi anni sono stati segnati da ripetute retoriche che hanno alimentato il confronto ideologico, l’odio e il pregiudizio, e dai conseguenti atti di accerchiamento e repressione, fino a guerre e conflitti regionali. Le popolazioni delle regioni interessate hanno sofferto profondamente e lo sviluppo globale ha subito notevoli danni. La pace è preziosa e lo sviluppo non è mai facile. È necessario un impegno costante per raggiungere questi due nobili obiettivi. Dobbiamo agire nell’interesse comune dell’umanità e assumerci la nostra responsabilità per la pace e lo sviluppo. Dobbiamo difendere l’equità e la giustizia, superare il dilemma della sicurezza e lavorare collettivamente per salvaguardare un ambiente pacifico e stabile per lo sviluppo.

Un mondo che cambia può essere rivelatore in molti modi. In breve, ciò che manca nel mondo di oggi è la comunicazione, non l’allontanamento; la cooperazione, non il confronto; l’apertura, non l’isolamento; la pace, non il conflitto. Dobbiamo dare seguito alla visione del Presidente Xi Jinping di una comunità con un futuro condiviso per l’umanità e attuare congiuntamente l’Iniziativa per lo sviluppo globale, l’Iniziativa per la sicurezza globale e l’Iniziativa per la civiltà globale. Dobbiamo andare avanti seguendo la logica del progresso storico, svilupparci con la corrente dei nostri tempi e lavorare sodo per costruire un mondo ancora migliore.

Per evitare un de-rischio che sarebbe dannoso per il modello economico cinese, lo stesso Li riprende qui tutte le “armi ideologiche” che compongono la tavolozza della diplomazia cinese, rivolgendosi soprattutto ai Paesi del Sud del mondo – dalla “comunità del destino dell’umanità” introdotta nel 2012 alle più recenti Iniziative di sicurezza globale e di civilizzazione introdotte da Xi quest’anno.

↓FERMER
Signore e signori,

cari amici,

Come Paese grande e responsabile, la Cina è sempre stata saldamente dalla parte giusta della storia e del progresso umano. Tenendo alta la bandiera della pace, dello sviluppo e della cooperazione win-win, la Cina è impegnata a costruire la pace nel mondo, a promuovere lo sviluppo globale e a sostenere l’ordine internazionale. Dal 18° Congresso nazionale del Partito comunista cinese, ci siamo concentrati sulla promozione di uno sviluppo di alta qualità, abbiamo raggiunto l’obiettivo di costruire una società moderatamente prospera sotto tutti i punti di vista, come previsto, abbiamo posto fine alla povertà assoluta in Cina una volta per tutte e abbiamo intrapreso un nuovo viaggio verso la costruzione di un moderno Paese socialista sotto tutti i punti di vista. Oggi l’economia cinese è profondamente integrata nell’economia globale. La Cina si è sviluppata abbracciando la globalizzazione ed è diventata una forza molto attiva a favore della globalizzazione.

Nell’ultimo decennio, la Cina è stata una delle principali fonti di impulso per la crescita costante dell’economia mondiale. Negli ultimi dieci anni, l’economia cinese è cresciuta a un tasso medio annuo del 6,2%. La sua quota di produzione economica globale è passata dall’11,3% del 2012 a circa il 18%. Il commercio di merci della Cina è stato il primo al mondo per sei anni consecutivi. In media, il contributo della Cina alla crescita globale è stato superiore al 30%, rendendola il principale motore di tale crescita. Nel primo anno della pandemia COVID-19, la Cina è stata l’unica grande economia a registrare una crescita positiva. Negli ultimi tre anni, la Cina ha registrato una crescita media annua del 4,5%, circa 2,5 punti percentuali in più rispetto alla media mondiale, ed è stata una delle maggiori economie mondiali. Nel perseguire il suo sviluppo interconnesso con gli altri Paesi, la Cina ha rispettato gli impegni assunti con l’adesione all’OMC, aprendo il suo mercato al resto del mondo e condividendo le opportunità di sviluppo con tutti, diventando così uno dei principali partner commerciali di oltre 140 Paesi e regioni. Lo sviluppo della Cina ha migliorato la vita del popolo cinese e ha fornito ai cittadini di altri Paesi una grande quantità di prodotti di alta qualità ma poco costosi. La Cina è stata un’ancora e una fonte di impulso per il libero commercio e la crescita stabile nel mondo.

Nonostante i dati positivi delineati da Li Qiang, negli ultimi mesi i segnali economici sono stati inferiori alle aspettative degli osservatori. Due settimane fa, i nuovi dati diffusi dall’Ufficio di statistica hanno mostrato che le vendite al dettaglio su base annua sono cresciute a un ritmo più lento del previsto – del 12,7% a maggio, al di sotto dell’aumento previsto del 13,6% e del 18,4% di aprile. Inoltre, i dati sulla disoccupazione giovanile hanno attestato un nuovo record: il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 16 e i 24 anni ha raggiunto il 20,8% a maggio, con un aumento di 0,4 punti rispetto ad aprile.

↓FERMER
A lungo termine, la Cina continuerà a dare un forte impulso alla ripresa economica e alla crescita globale. Oggi la Cina rimane il più grande Paese in via di sviluppo del mondo. Vi abitano più di 1,4 miliardi di persone. I suoi indicatori economici pro capite e il suo tenore di vita sono modesti e il suo sviluppo rimane squilibrato e inadeguato. Tuttavia, è anche qui che si trovano il potenziale e lo spazio di sviluppo della Cina. Stiamo applicando la nuova filosofia di sviluppo, promuovendo un nuovo paradigma di sviluppo a un ritmo più veloce e lavorando duramente per raggiungere uno sviluppo di alta qualità. Stiamo introducendo misure più pratiche ed efficaci per sfruttare ulteriormente il potenziale della domanda interna, dare impulso al mercato, coordinare meglio lo sviluppo urbano, rurale e regionale, accelerare la transizione ecologica e promuovere l’apertura verso standard elevati. Queste misure stanno facendo la differenza. Da quello che vediamo quest’anno, l’economia cinese sta mostrando un chiaro slancio di ripresa e miglioramento: il PIL è cresciuto del 4,5% su base annua nel primo trimestre e si prevede che nel secondo trimestre la crescita sarà più rapida rispetto al primo. Siamo sulla buona strada per raggiungere l’obiettivo di crescita di circa il 5% fissato per l’intero anno. Diverse organizzazioni e istituzioni internazionali hanno alzato le loro previsioni di crescita per la Cina quest’anno, dimostrando la loro fiducia nelle prospettive di sviluppo del Paese. Abbiamo piena fiducia e capacità di ottenere una crescita costante dell’economia cinese su un percorso di sviluppo di alta qualità per un lungo periodo. Ciò aumenterà le dimensioni del mercato, creerà opportunità di cooperazione e fornirà una fonte costante di dinamismo per la ripresa e la crescita economica globale, nonché opportunità di cooperazione win-win per gli investitori di tutti i Paesi.

Signore e signori,

cari amici,

I cinesi dicono spesso che è nella prova del tempo che gli eroi mostrano la loro forza. In questi tempi di grande incertezza, gli imprenditori, grazie alla loro profonda conoscenza del mercato, al loro spirito di iniziativa e alle loro azioni, possono portare maggiore certezza al mondo. Il tema dell’incontro annuale di quest’anno è “Imprenditorialità: la forza trainante dell’economia globale”, e non potrebbe essere più appropriato. Gli imprenditori di diversi Paesi possono differire in molti modi, ma credo che gli attributi fondamentali dell’imprenditorialità siano gli stessi: uno spiccato senso dello scopo, una volontà incrollabile e una straordinaria capacità di agire per avviare, innovare e creare imprese. La Cina vuole collaborare con tutti voi per sostenere con forza la globalizzazione economica, difendere con forza l’economia di mercato, sostenere con forza il libero scambio e indirizzare l’economia globale verso un futuro più inclusivo, resiliente e sostenibile.

La scorsa settimana, il popolo cinese ha celebrato il tradizionale Dragon Boat Festival, un’occasione per gareggiare con le barche drago. Questo sport illustra il desiderio del popolo cinese di un tempo migliore e di raccolti più prosperi, ma incarna anche una semplice verità: quando tutti remano insieme, è possibile far avanzare una grande barca. Siamo uniti nel desiderio di una cooperazione vantaggiosa per tutti, remiamo insieme con un solo cuore e una sola mente e guidiamo la gigantesca nave dell’economia mondiale verso un futuro più luminoso!

Auguro all’incontro di quest’anno un grande successo.

Grazie.

FONTI
Versione del discorso di Li Qiang in cinese

http://www.forestry.gov.cn/lyj/1/szxx/20230628/508786.html

https://legrandcontinent.eu/fr/2023/07/01/les-armes-ideologiques-de-li-qiang-contre-lunion/

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OLAF SCHOLZ: L’ALTRA EUROPA GEOPOLITICA_di Olaf Scholz

Il discorso del cancelliere tedesco Olaf Scholz, qui tradotto, tenuto il 9 maggio al Parlamento Europeo, preceduto da un saggio-manifesto sulla rivista statunitense “Politico” a dicembre, anch’esso a suo tempo tradotto, rivela sostanzialmente due aspetti più volte rimarcati su questo sito: in Europa le spinte all’autonomia e all’indipendenza politica, sia pure flebili, esistono ma non riescono a trovare una espressione politica compiuta e matura; l’attuale compagine governativa tedesca, di fatto il ceto politico nella sua quasi totalità, si pone comunque agli antipodi di questa aspirazione. Li si coglie in ogni punto di questo discorso nel momento in cui:

  • definisce imperialistica la politica estera russa, quando il suo carattere prevalente è nazionalista. Un carattere alimentato soprattutto dalla natura espansionista della NATO, ben assecondata dal processo di allargamento della Unione Europea e dagli atti di aperta discriminazione delle popolazioni russe rimaste intrappolate nei nuovi stati scaturiti dall’implosione della Unione Sovietica;
  • ripropone una funzione ancillare alla Unione Europea quando definisce nella mera regolazione e normazione in punta di diritto dei rapporti e delle relazioni internazionali, siano esse di natura economica che diplomatica, la ragione di esistenza delle istituzioni europee, delegando con ciò ad altri la riserva di potenza necessaria a supportare autorità ed autorevolezza; una riproposizione della coltre di ipocrisia tesa che ha coperto per decenni la reale ragione d’esistenza della UE, consistita nello scindere il nesso tra forza e diritto e nel nascondere con sempre più ridotta efficacia sotto l’aura della forza propria del diritto la propria condizione di sudditanza.

Aspetti, quindi, dalle implicazioni politiche ormai evidenti e stridenti con una postura dignitosa nell’attuale contesto geopolitico. 

Di fatti, dopo qualche timido tentennamento iniziale, il leader tedesco non fa che traslare pedissequamente il peccato d’origine e la ragione d’esistenza antisovietica e filostatunitense della Unione Europea in quella antirussa, per meglio dire russofobica.

Una vera e propria, formale abdicazione da un ruolo autonomo compiuto, mai realmente considerato ed acquisito in questi ottanta anni.

Tre sono gli obbiettivi politici posti da Scholz:

  • l’accelerazione del processo di allargamento della UE, in particolare nei Balcani e ai confini della Russia. Il risultato sarà quello di accompagnare il ben più importante e strategico allargamento della NATO all’ulteriore indebolimento politico di una Unione incapace di formare un polo politico autonomo realmente coeso, magari più ristretto, però più efficace; in grado, quindi, di aggregare o quantomeno influenzare il resto del continente senza cercare contrapposizioni forzate con la Russia e la Cina;
  • una maggiore coesione ed efficacia decisionale interna con il voto a maggioranza in politica estera, di difesa e di immigrazione. L’assenza della rivendicazione di una politica industriale e finanziaria comune, come pure il mancato inserimento del contenzioso commerciale con gli Stati Uniti la dice lunga sul reale afflato unitario del suo proclama. Riguardo alla politica estera, la vera natura della UE, ossia la mancanza di una visione statuale unitaria del continente, emerge dal continuo strattonamento sulle priorità da definire e sull’assenza di definizione politica unitaria rispetto ai tutti e quattro i quadranti geografici che contornano il continente. Una definizione cui non si può pervenire con un voto a maggioranza, ma con una sintesi unitaria che al momento e nel futuro solo gli Stati Uniti sono in grado di garantire. Quanto alla politica di difesa e di sviluppo del complesso militare-industriale europeo, parlano da soli l’assenza di citazione dei progetti industriali comuni europei e il veto tedesco alla proposta francese di garantire all’industria europea l’esclusiva delle forniture ai propri eserciti;
  • il ripristino e il mantenimento della apertura e della cooperazione globale. Delle due l’una: siamo alla totale incomprensione della nuova fase geopolitica e geoeconomica verso cui ci si sta avviando nell’aspettativa illusoria del ritorno agli antichi fasti che hanno consentito alla Germania di lucrare copiosamente sulla propria posizione ancillare verso gli Stati Uniti e sub-egemonica in Europa; oppure siamo alla riproposizione di una funzione messianica e universalista del liberalismo occidentale, di fatto a guida statunitense, contrapposta anche fisicamente nelle varie parti del globo ai poli in formazione in un contesto multipolare ormai esplicitamente riconosciuto dallo stesso Scholz. Si tratta certamente, con questa considerazione, di allettare con un miraggio la stessa Cina per allontanarla dalla crescente tentazione di una alleanza stretta con la Russia capace di attrarre larga parte del mondo circostante. Lo sguardo di Scholz è però rivolto soprattutto all’interno dell’Europa. La sua visione ecumenica tende a contrastare l’emersione di rivali interni, in particolare la Polonia, con il corollario dei paesi scandinavi da una parte e dei paesi baltici e la Romania dall’altra, altrettanto e più congeniali agli attuali disegni statunitensi, i quali paesi hanno fondato sul nazionalismo straccione le proprie profferte di fedeltà atlantica.

L’ambizione ancillare di Scholz, della sua compagine e di gran parte della opposizione politica è certamente fondata. Posta di fronte ad un bivio, la Germania ha scelto la strada più facile ed apparentemente meno impegnativa. Tra il recupero dei cocci della sua sfera di sub-influenza nel vicinato e la prospettiva di rapporti più intensi con Russia e, presumibilmente, Cina ha scelto la prima pur di non contrariare l’attuale leadership statunitense. Con questo ha posto una pietra tombale sul timido tentativo di impostare una propria politica di influenza sull’Europa Orientale e la Russia, naufragata miseramente e tragicamente a cavallo degli anni 80/90 con l’assassinio di Herrhausen e Roewedder. Sholz dovrà passare, però, per il nodo scorsoio del campo d’azione geopolitico più ristretto e competitivo e per le crescenti e rapaci richieste, di fatto un vero e proprio saccheggio, esatte dagli Stati Uniti, ben lontane dai lauti margini concessi nei gloriosi trenta (quaranta) anni succeduti al secondo conflitto mondiale. Il nostro corre il rischio da un lato di agevolare la formazione di un cappio in grado di stringere il proprio paese da ovest con il Regno Unito, da Nord con gli scandinavi, da est con Polonia e soci e di alimentare dall’altro le rivalità interne al continente anche tra i paesi più importanti. L’esito prevedibile consisterà nell’innescare una gara convulsa al riconoscimento del proprio ruolo ancillare verso la nazione egemone; Giorgia Meloni e il suo governo ne sono l’ultimo esempio. La leadership statunitense sino a quando sarà in grado di tenere le redini e condurre il gioco, riuscirà a contenere e ricondurre ai propri disegni ambizioni e rivalità; dovesse implodere rischieremo il ritorno a scenari tragici già vissuti due volte nel secolo scorso, ma in condizioni peggiori di disfacimento. Buona lettura, Giuseppe Germinario

OLAF SCHOLZ: L’ALTRA EUROPA GEOPOLITICA
Scholz sta diventando il nuovo think tank del continente? Nel suo discorso al Parlamento europeo del 9 maggio, il Cancelliere tedesco ha proposto una formulazione alternativa dell’Unione geopolitica, opposta a quella di un’Europa potenza immersa nel mito della civiltà. Lo traduciamo e lo commentiamo riga per riga per la prima volta.
AUTORE PIERRE MENNERAT

Il discorso di Olaf Scholz per la Giornata dell’Europa prosegue una serie di interventi iniziata a Praga nel settembre 2022 e guarda già alle prossime elezioni europee del 2024. Questo discorso commemorativo non è una dichiarazione politica generale, ma ci permette di cogliere alcuni dei punti chiave della politica europea della coalizione tricolore in carica dal novembre 2021: il Cancelliere elogia l’Unione e ne presenta anche una concezione specificamente tedesca.

Si tratta indubbiamente di una volontà di “occupare spazio” in Europa e di sottrarre al presidente francese – indebolito dalla crisi sociale in Francia – una forma di leadership nell’agenda. Lo stile non è dissimile da quello di Emmanuel Macron. Come lui, Olaf Scholz fa largo uso di riferimenti, mescolando citazioni politiche (Robert Schuman e Willy Brandt) e letterarie (Paul Valéry e Oscar Wilde) per arricchire il suo discorso.

Il Cancelliere pronuncia un discorso che è una variante dello slogan socialdemocratico “L’Europa è il nostro futuro”, messo in prospettiva rispetto alla frattura civile rappresentata dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Tuttavia, l’Europa che Scholz descrive non deve essere una “potenza vecchio stile”, ma deve essere “aperta” – geograficamente ai nuovi Stati membri, economicamente agli accordi di libero scambio e all’innovazione, e geopoliticamente all’alleanza transatlantica.

Signora Presidente,

Signore e Signori,

Vi ringrazio per l’opportunità di parlare con voi in questo luogo speciale oggi, nella Giornata dell’Europa. Sono onorato e commosso dal vostro invito. Mi onora perché voi, deputati liberamente eletti, rappresentate 450 milioni di europei – i cittadini d’Europa.

E mi commuove perché il 9 maggio è l’unica risposta valida per il futuro alla guerra mondiale scatenata dalla Germania, al nazionalismo distruttivo e alla megalomania imperialista.

Oggi, 73 anni fa, il ministro degli Esteri francese Robert Schuman propose di creare una nuova “Europa organizzata e viva”.

All’inizio c’era la collettivizzazione del carbone e dell’acciaio, i beni che per decenni erano stati utilizzati per produrre armi, armi che i nostri nonni e bisnonni hanno messo gli uni contro gli altri. Il sogno dei padri e delle madri d’Europa era quello di porre fine a questa uccisione reciproca. Per noi questo sogno si è avverato: la guerra tra i nostri popoli è diventata inconcepibile, grazie all’Unione Europea e per la felicità di tutti noi.

Ma se vi guardate intorno, vedrete che questo sogno non è una realtà in tutti i Paesi europei. A costo di molte vittime, gli ucraini difendono ogni giorno la loro libertà e democrazia, la loro sovranità e indipendenza contro la brutalità dell’esercito russo invasore, e noi li sosteniamo in questo.

I padri e le madri dell’Europa hanno già attribuito all’Europa una missione che va ben oltre la pacificazione dei suoi confini. Per loro era ovvio: l’Europa ha una responsabilità globale, perché il benessere dell’Europa non può essere separato dal benessere del resto del mondo.

La Dichiarazione Schuman afferma: “Questa produzione”, cioè il carbone e l’acciaio, “sarà offerta al mondo intero senza distinzioni o esclusioni, per contribuire all’innalzamento del tenore di vita e allo sviluppo di opere di pace. L’Europa sarà in grado, con maggiori mezzi, di perseguire uno dei suoi compiti essenziali: lo sviluppo del continente africano.

Lo “sviluppo del continente africano” era allora contrapposto allo sfruttamento coloniale perpetrato dall’Europa sul nostro vicino continente.

Ecco perché affrontare le conseguenze del colonialismo deve essere parte integrante di ogni partenariato con i Paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. Un partenariato che scarti la visione eurocentrica del passato. Un partenariato che non si limiti a proclamare l’uguaglianza, ma la metta in pratica. Costruire tali partenariati è più importante che mai.

Nell’Unione vivono 450 milioni di cittadini, forse 500 milioni dopo il prossimo allargamento. Si tratta solo del 5% della popolazione mondiale. In Asia, Africa e Sud America stanno emergendo nuovi pesi massimi economici, demografici e politici – un successo, tra l’altro, della divisione del lavoro tra Paesi e continenti che ha fatto uscire dalla povertà un miliardo di persone. Non si accontenteranno di un mondo bipolare o tripolare, e giustamente. Per questo sono convinto che il mondo del XXI secolo sarà multipolare – e lo è già da molto tempo.

Cosa significa questo per noi in Europa? “L’Europa diventerà”, per citare lo scrittore francese Paul Valéry, “ciò che realmente è: un piccolo promontorio del continente asiatico?”. Non possiamo trovare la risposta a questa domanda guardando al passato. Vivere nel passato significa aggrapparsi al ricordo nostalgico della potenza mondiale dell’Europa, illudersi con l’illusione nazionale di essere una grande potenza. Ma anche coloro che avvertono costantemente il declino dell’Europa non vincono il futuro, soprattutto perché sottovalutano la capacità dell’Europa di trasformarsi e di agire.

Lo abbiamo dimostrato più volte nelle crisi degli ultimi anni e nel presente. Ricordiamo solo come abbiamo superato lo scorso inverno insieme, in solidarietà e unità con i nostri partner in tutto il mondo.

Ma ne traggo tre lezioni:

Primo: il futuro dell’Europa è nelle nostre mani.

Secondo: più rafforziamo l’unità dell’Europa, più facile sarà assicurarci un buon futuro.

E terzo: ciò di cui abbiamo bisogno ora non è meno, ma più apertura e cooperazione.

Per garantire che l’Europa abbia un buon posto nel mondo di domani, non al di sopra o al di sotto di altri Paesi e regioni, ma su un piano di parità con loro, al loro fianco.

Il discorso si apre con una panoramica commemorativa della storia dell’Unione come risposta all’imperialismo e al nazionalismo guerrafondaio. Inoltre, Scholz presenta la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) come un progetto concepito fin dall’inizio con una vocazione esterna e una responsabilità per il mondo extraeuropeo, citando la Dichiarazione Schuman che assegnava alla CECA il compito di “sviluppare il continente africano”. Il contesto coloniale di questa dichiarazione non sfugge a Olaf Scholz, che tuttavia sostiene che il lavoro dei “padri e delle madri d’Europa” è un antidoto alle illusioni di grandezza e implica oggi la ricerca di partenariati tra pari. In ogni caso, l’Europa non può più permettersi di essere una potenza mondiale dominante, ma deve essere un attore con un’influenza globale positiva.

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Un’Europa geopolitica
Perché questo accada, l’Europa deve cambiare. Abbiamo bisogno di un’Europa geopolitica, di un’Europa allargata e riformata e infine di un’Europa lungimirante. Vedo il Parlamento europeo come una forza trainante e un alleato in tutto questo. Prendiamo la creazione di un’Europa geopolitica. Willy Brandt ne sottolineò la necessità esistenziale qui al Parlamento europeo cinquant’anni fa. “L’unificazione dell’Europa”, scriveva nel vostro libro degli ospiti, “non è solo una questione di qualità della nostra esistenza. È una questione di sopravvivenza tra giganti e nel mondo incrinato di nuovi e vecchi nazionalismi.

Il Parlamento europeo ha sempre agito secondo questa massima e per questo gli sono molto grato. Lo fate quando onorate il potere della legge e quando ricordate a tutti noi che l’Europa può essere ascoltata solo quando parla con una sola voce. La brutale guerra d’invasione della Russia contro l’Ucraina ci ha mostrato proprio di recente quanto ciò sia necessario, e di conseguenza, dopo questa infame violazione della pace internazionale, l’Unione si è riunita come raramente prima. Questa esperienza ci porta alla fondazione di un’Europa geopolitica, come ho proposto durante la mia visita all’Università Carlo di Praga la scorsa estate.

Ciò include un coordinamento molto più stretto dei nostri sforzi di difesa e la costruzione di un’economia di difesa integrata in Europa. Il Fondo europeo per la pace, l’acquisto congiunto di munizioni per l’Ucraina, la più stretta cooperazione tra i nostri Paesi in materia di difesa aerea, la nostra bussola strategica, la stretta collaborazione tra l’Unione e la NATO: sono tutti passi positivi che dobbiamo approfondire e accelerare.

Ora dobbiamo gettare le basi per la ricostruzione dell’Ucraina. Naturalmente, questo richiede un capitale politico e finanziario a lungo termine. Ma è anche una grande opportunità, non solo per l’Ucraina, ma anche per l’Europa nel suo complesso. Un’Ucraina prospera, democratica ed europea è la risposta più chiara alla politica imperialista, revisionista e illegale di Putin.

L’Europa deve anche ottenere buoni risultati nella competizione internazionale con le altre grandi potenze. Gli Stati Uniti restano il più importante alleato dell’Europa. Ciò significa che saremo alleati migliori per i nostri amici transatlantici quanto più investiremo nella nostra sicurezza e difesa, nella nostra resilienza civile, nella nostra sovranità tecnologica, nella sicurezza degli approvvigionamenti, nella nostra indipendenza dalle materie prime critiche. Il nostro rapporto con la Cina è giustamente descritto dal trittico “partner, concorrente, rivale sistemico”, anche se la rivalità e la competizione sono indubbiamente aumentate. L’UE se ne rende conto e sta reagendo. Sono d’accordo con Ursula von der Leyen: il nostro motto non è “de-coupling”, ma “intelligent de-risking”!

Come a Praga in settembre e alla Sorbona in gennaio durante la commemorazione del 60° anniversario del Trattato dell’Eliseo, il Cancelliere ha adottato l’idea di una “Europa geopolitica”. Tuttavia, riprendendo questo concetto, gli ha dato un significato “più tedesco”, dove non si tratta tanto di autonomia quanto di efficienza. I suoi principali elementi concreti riguardano aspetti logistici ed economici: l’integrazione dell’industria europea della difesa, l’acquisto congiunto di armi e munizioni per Kiev, gli aiuti per la ricostruzione dell’Ucraina. Per quanto riguarda i progetti strutturanti di questa Europa geopolitica, Olaf Scholz cita il progetto di difesa aerea europea, lanciato nell’ottobre 2022 dalla Germania all’insaputa della Francia, ma ancora una volta omette di menzionare lo SCAF e il MGCS. Anche la concezione delle alleanze del Cancelliere tedesco rimane fondamentalmente atlantista: la sua Europa geopolitica esiste solo nella NATO, dove è un partner migliore per gli Stati Uniti. Per Olaf Scholz, tuttavia, il mondo non è né “bi-” né “tripolare”, ma multipolare. La delicata questione dell’allineamento all’uno o all’altro polo è quindi sostituita da quella della necessaria diversificazione di alleanze e accordi. Per quanto riguarda la Cina, il Cancelliere tedesco sostiene la formula del “de-risking” promossa dalla Commissione europea, un’opzione meno radicale del “de-coupling” che egli rifiuta.

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I Paesi del Sud globale sono nuovi partner di cui prendiamo sul serio le preoccupazioni e gli interessi. Per questo è fondamentale che l’Europa si impegni con forza e solidarietà per la sicurezza alimentare e la lotta alla povertà, che mantenga le promesse fatte sulla protezione internazionale del clima e dell’ambiente.

E, poiché anche questa è una questione geopolitica dell’Europa, è più che ragionevole concludere nuovi accordi di libero scambio: con il Mercosur, il Messico, l’India, l’Indonesia, l’Australia, il Kenya e in prospettiva con molti altri Paesi, accordi equi, che incoraggino anziché ostacolare lo sviluppo economico dei nostri partner! Equo significa, ad esempio, che la prima lavorazione delle materie prime avvenga in loco, non in Cina o altrove. Se ancoriamo queste idee alle nostre relazioni commerciali, diamo anche un importante contributo alla diversificazione delle nostre filiere produttive.

L’Europa deve guardare al mondo, perché se continuiamo a negoziare per anni nuovi accordi di libero scambio senza risultati, saranno altri a dettare le regole, con standard ambientali e sociali più bassi.

Un’Europa allargata e riformata
L’anno scorso abbiamo preso una decisione centrale sulla forma dell’Europa geopolitica. Abbiamo scelto un’Europa più grande. Abbiamo detto ai cittadini dei Paesi dei Balcani occidentali, dell’Ucraina, della Moldavia e, in prospettiva, anche della Georgia: voi appartenete a noi. Vorremmo che diventaste membri della nostra Unione europea. Non si tratta di altruismo, ma di credibilità e senso economico. Si tratta di garantire la pace in Europa dopo il cambiamento epocale causato dalla guerra di aggressione della Russia. L’Europa geopolitica sarà giudicata anche in base alla misura in cui manterrà le promesse fatte ai suoi vicini più prossimi. Una politica di allargamento mantiene le sue promesse, in primo luogo nei confronti degli Stati dei Balcani occidentali, ai quali abbiamo fatto balenare la prospettiva dell’adesione negli ultimi vent’anni. Naturalmente, il processo di normalizzazione tra Serbia e Kosovo e le riforme nei Paesi candidati devono continuare. Naturalmente, dopo il coraggio politico della Macedonia del Nord, il suo processo di ammissione deve progredire rapidamente. Tali progressi devono essere onorati da parte nostra, altrimenti la politica di allargamento perderà il suo appeal e l’Unione perderà la sua influenza e il suo peso.

Siamo onesti: un’Unione allargata deve essere un’Unione riformata.

Va sottolineato che l’allargamento non deve essere l’unico motivo di riforma, ma l’obiettivo. Sono lieto che il Parlamento europeo stia lavorando su proposte di riforma istituzionale, comprese quelle che non si fermano al Parlamento stesso. Continuerò a lavorare in seno al Consiglio europeo per garantire che queste idee vengano accolte.

C’è molto da fare: più decisioni del Consiglio a maggioranza qualificata in politica estera e fiscale. Continuerò a impegnarmi per convincere i cittadini di questo e vi ringrazio per l’ampio sostegno dei vostri ranghi. Vorrei dire agli scettici: l’unanimità, l’accordo al 100% su tutte le questioni non crea la massima legittimità democratica. Al contrario! È la persuasione, la lotta per costruire maggioranze o alleanze che ci contraddistingue come democrazia, la ricerca di compromessi che rendano giustizia anche agli interessi delle minoranze. Questo è il nostro concetto di democrazia liberale!

Le riforme europee auspicate dal Cancelliere sono simili alle proposte francesi sotto diversi aspetti. A livello istituzionale, Olaf Scholz rimane favorevole all’estensione del voto a maggioranza qualificata. Il Cancelliere si definisce in più occasioni un alleato del Parlamento europeo in seno al Consiglio europeo e promette di difendere le loro proposte. Per quanto riguarda la riforma del diritto europeo in materia di asilo e migrazione, esorta le istituzioni europee e gli Stati membri a compiere rapidi progressi. Tuttavia, un punto ricorrente nei discorsi europei di Olaf Scholz rimane la richiesta di maggiore apertura commerciale, che lo differenzia da Emmanuel Macron, più critico nei confronti della globalizzazione. Nella tradizione della Repubblica Federale, il Cancelliere vede questi accordi di libero scambio “equi” come fattori di stabilità, di diffusione del progresso socio-economico e di creazione di nuove alleanze nel resto del mondo.

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Mi sembra inoltre essenziale per il futuro rimanere fermi sul rispetto dei principi democratici e dello Stato di diritto, e so che una grande maggioranza di voi è qui con me. Perché non sfruttare l’imminente discussione sulle riforme dell’UE per incoraggiare la Commissione europea ad avviare un processo di violazione dei trattati ogni volta che i nostri valori fondamentali di libertà, democrazia, uguaglianza, stato di diritto e protezione dei diritti umani vengono violati?

Questo discorso è caratterizzato da un forte sostegno all’allargamento, insistendo su un calendario e su rapidi progressi per onorare le promesse fatte dopo l’invasione dell’Ucraina. Per Olaf Scholz, l’urgenza è nei Balcani, dove chiede impegni seri per mantenere il ritmo del riavvicinamento. L’allargamento “non è altruistico”, ma al contrario un interesse ben compreso e un’opportunità “di buon senso economico”. Tuttavia, il Cancelliere non ha menzionato l’iniziativa francese per una comunità politica europea.

L’impressione di un confronto di vedute con il presidente francese è stata tuttavia accompagnata da un apparente riavvicinamento tra Berlino e Parigi, con un aumento degli eventi bilaterali: La presenza del ministro degli Esteri Annalena Baerbock a Parigi il 9 e 10 maggio, la visita di Emmanuel Macron al collegio elettorale di Olaf Scholz a Potsdam prevista per il 6 giugno – che ricorda il viaggio di François Hollande da Angela Merkel a Rügen nel maggio 2014, per discutere già allora della guerra in Ucraina) -, prima della prima visita di Stato di un presidente francese in Germania dal 2000, dal 2 al 4 luglio.

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Un’Unione aperta al futuro
Signore e signori, vorrei aggiungere un elemento che ho appena citato. Noi europei dobbiamo essere aperti al futuro senza esitazioni. Questo significa affrontare i problemi che ci hanno ostacolato per anni e che rendono così facile per altri Paesi dividerci e metterci l’uno contro l’altro.

Penso, ad esempio, al nostro rapporto con la migrazione dei rifugiati. Certo, dobbiamo trovare una soluzione all’altezza della domanda di solidarietà europea, ma non possiamo aspettare che questa solidarietà scenda su di noi come lo Spirito Santo. L’Europa, come disse Robert Schuman 73 anni fa, si concretizza in realtà concrete, in una “solidarietà di fatto”. Per questo motivo sostengo con forza che i progressi compiuti sulla riforma del diritto d’asilo europeo dopo lunghi e difficili negoziati devono essere resi permanenti prima delle elezioni europee. Il vostro accordo su una posizione negoziale per parti centrali della riforma il mese scorso è stato un passo molto importante in questa direzione. Ora dobbiamo completare questo lavoro con tutte le nostre forze.

Siamo uniti dall’obiettivo di gestire e organizzare meglio la migrazione irregolare, senza tradire i nostri valori. Tuttavia, possiamo trarre molti più vantaggi di prima: in molti luoghi d’Europa c’è bisogno di manodopera, anche da Paesi extraeuropei. Se colleghiamo saldamente queste opportunità di migrazione regolare con il requisito che gli Stati di origine e di transito riprendano anche coloro che non sono autorizzati a risiedere qui, tutte le parti possono trarne vantaggio. A ciò si aggiungono le misure per un’efficace difesa delle frontiere, come abbiamo deciso al Consiglio europeo di febbraio. In questo modo, aumenterà l’accettabilità di un’immigrazione intelligente, mirata e controllata nei nostri Paesi e saremo in grado di indebolire gli sforzi di chi fa politica con la paura e il risentimento.

Aprirsi al futuro significa anche affrontare quella che probabilmente è la sfida più importante del nostro tempo. Mi riferisco alla trasformazione dei nostri Paesi e delle nostre economie verso la neutralità climatica. La prima rivoluzione industriale è iniziata in Europa. Perché non avere l’ambizione che anche il prossimo grande cambiamento sia influenzato dall’Europa, per il bene di tutti?

L’apertura auspicata da Scholz si esprime anche nell’espressione “aperti al futuro”, che il Cancelliere utilizza tre volte. Egli individua due grandi progetti per l’Europa: a breve termine, la gestione equa e intelligente dei flussi migratori e, a lungo termine, la trasformazione ecologica delle nostre economie.

Anche se espone in termini abbastanza chiari la visione tedesca di un’Unione che sia soprattutto al servizio del benessere economico e svincolata da ambizioni di potere, il discorso non è strettamente polemico. Così il Cancelliere ha evitato alcuni temi caldi che sono comunque essenziali a livello europeo: i dibattiti sui criteri di bilancio, la politica industriale e l’atteggiamento commerciale da adottare nei confronti degli Stati Uniti.

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Non è necessario che vi spieghi le opportunità che questa trasformazione offre all’Europa. È importante che i cittadini dei nostri Paesi le percepiscano nella loro vita quotidiana. Per esempio, perché il prezzo dell’elettricità da fonti rinnovabili sta scendendo, perché ci sono abbastanza stazioni per auto e camion elettrici, perché si stanno creando nuovi posti di lavoro per il futuro nel settore dell’energia, nel settore dei microchip, perché stiamo sviluppando e commercializzando in Europa le tecnologie di cui il mondo intero ha bisogno per la transizione ecologica. Dare forma a questo cambiamento con ambizione e non lasciare indietro nessuno: questo è il grande progetto per il futuro dietro il quale noi europei dovremmo ora riunirci.

Conclusione
Come disse Oscar Wilde: “Il futuro appartiene a coloro che riconoscono le possibilità prima che diventino ovvie”, e non appartiene certo ai sogni nostalgici e revisionisti di gloria nazionale e di potere imperialista. Gli ucraini stanno pagando con la vita questa follia del loro potente vicino. 2200 chilometri a nord-est di qui, a Mosca, Putin sta ora facendo sfilare i suoi soldati, i suoi carri armati e i suoi missili. Non lasciamoci impressionare da una tale dimostrazione di forza. Restiamo fermi nel nostro sostegno all’Ucraina, finché sarà necessario! Nessuno di noi vuole tornare ai giorni in cui in Europa vigeva la legge del più forte, in cui i piccoli Paesi dovevano sottomettersi ai grandi, in cui la libertà era un privilegio di pochi e non un diritto fondamentale di tutti. La nostra Unione Europea, unita nella sua diversità, è la migliore garanzia che questo passato non tornerà, ed è per questo che il rumore di Mosca non è il messaggio di questo 9 maggio, ma il nostro messaggio: il passato non trionferà sul futuro. E il futuro – il nostro futuro – è l’Unione europea.

https://legrandcontinent.eu/fr/2023/05/10/la-geopolitique-europeenne-ouverte-dolaf-scholz/

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