Intelligenza artificiale: quali impatti sull’automazione industriale? La parola a Marco Delaini, Fanuc

Intelligenza artificiale: quali impatti sull’automazione industriale? La parola a Marco Delaini, Fanuc

di Barbara Weisz ♦︎ Nelle macchine utensili, le nuove generazioni di motori e servoamplificatori sono smart: riducono i consumi e ottimizzano le lavorazioni. Ma l’IA non deve essere sopravvalutata: per portare vantaggio competitivo deve essere calata nel contesto. Fanuc Italia: ha venduto nel 2022 oltre 3.000 unità robotiche. Servitizzazione e pay per use: il mercato si sta preparando. E su industria 5.0… Intervista al ceo di Fanuc Italia, dopo il Technovation Forum, quando è stato inaugurato il nuovo Innovation Center 5.0 di Lainate

Fanuc Lainat – Technovation 2023

Il mercato chiede «prodotti sempre più intelligenti, performanti, che consumano meno». Parola di Marco Delaini, managing director di Fanuc Italia, che in questa intervista a Industria Italiana delinea gli sviluppi in ambito automazione industriale di una tecnologia disruptive come l’intelligenza artificiale. Con nuovi motori intelligenti che riducono i consumi ottimizzando le lavorazioni all’interno della macchina, programmazione dei robot sempre più semplice, importanti risvolti in termini di riduzione di co2 e risparmio energetico. Ma l’Intelligenza Artificiale presenta anche il rischio di non coniugarla correttamente, magari sull’onda della novità.

Per esempio, «parlando di manutenzione predittiva, è importante avere una grande raccolta dati, magari per anni, su macchine e lavorazioni diverse». La produzione di macchinari nel 2023 chiude con un nuovo record, pur a fronte di una contrazione rilevante del mercato interno bilanciata però dal fatto che i costruttori di macchinari si sono concentrati sull’export. I robot dopo l’installato record 2022 continuano a crescere a un ritmo del 7% per i prossimi anni. Fanuc Italia chiuderà il 2023 confermando i livelli di ricavi 2022, e anche per il colosso giapponese la differenza la fanno i robot. Con un record di installazione nella seconda parte del 2023, a quota 15mila, e il traguardo in settembre del milionesimo robot.

Ne abbiamo parlato in occasione del Technovation Forum organizzato dal 24 al 26 ottobre nell’headquarter italiano di Lainate, dove è stato inaugurato il nuovo Innovation Center 5.0: in 5G, abilitato per Industria 5.0, gestibile tramite una app che funziona su mobile e consente da remoto accensione e spegnimento di tutti i robot e l’attivazione di sistemi di diagnostica e monitoraggio. Il tema dell’Innovation Center e di che cosa sta succedendo in Fanuc verrà presto approfondito con un articolo ad hoc. Adesso, la parola a Delaini

D: Quale il massaggio chiave del Technovation Forum?

Marco Delaini inaugura il nuovo Innovation Center 5.0 al Technovation 2023

R. Abbiamo dedicato un forum all’intelligenza artificiale nelle applicazioni industriali. Si parla tanto di IA, c’è anche molta paura degli sviluppi futuri di questa tecnologia, noi abbiamo voluto concentrarci solo sul mondo industriale e abbiamo fatto vedere con esempi specifici le applicazioni di IA che facilitano le operazioni. Per esempio, legate alla robotica, per cui la programmazione dei robot, oppure al miglioramento dell’efficienza della macchina, anche riducendo il consumo di energia elettrica oppure l’impatto di Co2».

D: E’ possibile sintetizzare l’impatto dell’intelligenza artificiale nella fabbrica, e nei vostri sistemi di automazione in particolare?

R. Nel factory automation, quindi la parte relativa alle macchine utensili, le nuove generazioni di motori e servoamplificatori sono intelligenti nel senso che riescono a ridurre i consumi andando a ottimizzare le lavorazioni all’interno della macchina. L’IA viene soprattutto utilizzata per ridurre i consumi energetici, ottimizzare lavorazioni all’interno della macchina, e per verificarne lo stato, riuscendo a ridurre lavorazioni o accelerazioni improvvise che possono andare a consumare di più oppure a usurare maggiormente la macchina».

D: Voi costruite robot, macchine utensili, controllo numerico e dintorni. Il vostro business come si relazione con questo scenario?

Fanuc costruisce robot, macchine utensili e a controllo numerico

R. Tutto quello che è IA nel mondo della robotica e della macchina utensile ci viene prima di tutto richiesto dai clienti. E’ un’esigenza specifica di questo mercato. Ci chiedono prodotti sempre più intelligenti, o performanti, che consumano meno, attenti alla parte di Co2. Dobbiamo fornire tecnologie per realizzare macchine che consumano meno. Questo è il nostro core business. Non dobbiamo ridurre l’impatto di Co2 solo nella nostra produzione, ma in quella dei clienti. E lo possiamo fare dando ai costruttori di macchine utensili la tecnologia per costruire prodotti più efficienti».

D: Come va il mercato in Italia anche in relazione alla congiuntura macroeconomica dal suo punto di vista?

R. Abbiamo visto durante il forum alcuni dati, è chiaro che il mercato interno italiano soffre la fine degli incentivi 4.0. E le agevolazioni 5.0 ancora non ci sono. Quindi oggi tutti i costruttori di macchine hanno contrazioni importanti, in base ai dati Ucimu c’è una flessione del 38 per cento del mercato interno. Il mercato estero è partito basso all’inizio del 2023, poi si è ripreso nella seconda parte dell’anno e chiuderemo il 2023 in crescita. I mercati di sbocco principali sono quello americano ed europeo. La Cina è in crisi, in Asia vediamo che l’unico paese in crescita è l’India».

D: Secondo lei gli industriali italiani sono pronti a recepire le innovazioni disruptive che il mercato delle tecnologie offre loro?

I robot dopo l’installato record 2022 continuano a crescere a un ritmo del 7% per i prossimi anni. Fanuc Italia chiuderà il 2023 confermando i livelli di ricavi 2022, e anche per il colosso giapponese la differenza la fanno i robot. Con un record di installazione nella seconda parte del 2023, a quota 15mila, e il traguardo in settembre del milionesimo robot

R. Sono abituati ad accettare le sfide e a lanciare nuovi prodotti competitivi sul mercato. Noi abbiamo le aziende più innovative da questo punto di vista, siamo più veloci a produrre qualcosa da portare sul mercato rispetto ai cugini tedeschi. Oggi stiamo reagendo molto velocemente. E’ chiaro che a volte nel mondo dell’IA ci sono molti investimenti da fare, anche importanti, che devono essere supportati. E a fronte di una competizione fra governi a chi da più soldi per sviluppare soluzioni di IA ai, o ci rendiamo competitivi anche noi, e quindi anche la nostra parte di politica deve fare la sua parte, oppure rischiamo di partire un po’ zoppi».

D. Nel corso del forum sono stati evidenziati tre punti critici per le aziende che devono investire in innovazione: organizzazione interna, scelta delle tecnologie, e impiego di risorse finanziarie. C’è una gerarchia fra questi elementi?

R. Diciamo che ogni azienda ha il suo vestito, ritagliato sulla propria organizzazione. Sicuramente ci sono aziende più veloci nell’innovare e rinnovare il parco macchine, che quindi riescono a portare innovazione ogni anno. Altre sono più lente a fare questo cambiamento, per cui hanno problemi a volte di organizzazione, a volte finanziari, e le velocità possono essere differenti perché questo fa parte del mercato. Ci sono aziende magari storiche con un prodotto consolidato che non richiede subito un’evoluzione, e rimandano l’investimento a quando viene richiesto di più. Se parliamo per esempio di una macchina utensile a cinque assi, c’è molta competizione e quindi bisogna essere molto veloci a innovare. Sul tornio invece questa velocità non è richiesta dal mercato, quindi c’è più tempo per pianificare le innovazioni.

D. Si è anche parlato de rischio di sopravvalutare l’intelligenza artificiale, cosa ne pensa?

Durante il Technovation Forum, organizzato dal 24 al 26 ottobre nell’headquarter italiano di Lainate, è stato inaugurato il nuovo Innovation Center 5.0: in 5G, abilitato per Industria 5.0, gestibile tramite una app che funziona su mobile e consente da remoto accensione e spegnimento di tutti i robot e l’attivazione di sistemi di diagnostica e monitoraggio.

R. E’ chiaro che c’è una grossa aspettativa, quindi bisogna tradurre quello che vuole fare l’azienda e indirizzarla nei corretti investimenti. Oggi parliamo di intelligenza artificiale come un vantaggio competitivo. E allora tutti, come ha sottolineato fra gli altri Cim 4.0, corrono e dicono anche noi vogliamo l’IA. Ma bisogna sempre calare le cose nel contesto, ogni azienda deve identificare cosa vuole fare. Se stiamo parlando di manutenzione predittiva, è importante avere una grande raccolta dati, magari per anni, su macchine e lavorazioni diverse. Poi, farli elaborare all’IA e selezionare quelli importanti per la manutenzione predittiva. Il messaggio di oggi era: attenzione, l’IA non è una panacea che risolve tutti i problemi. E’ necessaria una preparazione, c’è una raccolta dati che deve essere fatta in anticipo. L’IA aiuta a selezionare questi dati, isolare quelli importanti e portarli a un livello successivo.

D: Diceva prima che manca ancora il Piano 5.0. Che priorità dovrebbe avere secondo lei?

R. Va legato alla sostenibilità, all’economia circolare, alla riduzione dei consumi energetici e dell’impatto di Co2. E’ un concetto diverso da quello di Industria 4.0. Poi, possiamo chiamarla 4.1, 4.2, anche se ormai il Governo ha parlato di 5.0. Se ne parla anche a livello europeo, sono stati determinati i paradigmi. Il concetto è che dobbiamo fare macchine non solo performanti, ma che consumino di meno. E’ cambiato l’obiettivo».

D. Sul tema della servitizzazione, come siete messi?

Fanuc headquarter Lainate

R. Ci sono diverse opzioni. Uno dei servizi che bisogna fornire riguarda la manutenzione predittiva, o la lettura di dati. Poi c’è un concetto di servitizzazione che viene spesso accomunato al pay per use, e che secondo me è limitante. La verità è che tutto il tema delle tecnologie abilitanti si sta spostando dalla vendita di macchine alla fornitura di servizi attraverso quelle macchine.

D: Servitizzazione e pay per use dovrebbero andare di pari passo, tenendo conto del fattore temporale. Pensare che dall’oggi al domani tutte le macchine vengano vendute in pay per use è irrealistico…

R. Potrebbe succedere, ma non dall’oggi al domani. Noi ci stiamo concentrando sulle richieste del cliente, andando a offrire servizi, inclusa l’estensione della garanzia, su tutti i prodotti Fanuc. Per esempio, stiamo lanciando servizi con garanzia fino a dieci anni sulla parte motori ed elettronica. Lo stesso faremo anche sui robot: garantire manutenzione e utilizzo fino a 10, o anche 15 anni. Quindi, non più una garanzia a 2 o 3 anni, come da obbligo di legge, ma un servizio più a lungo termine per andare incontro all’azienda. E completiamo il percorso con un servizio dedicato per cui il cliente si può scordare fermo macchine o fermo produzione.

D: Perché ve ne occupate voi?

R. Perché ce ne occupiamo noi.

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Corsa ai… semiconduttori! Per l’autosufficienza industriale, il controllo delle supply chain e… Con Alessandro Aresu

Corsa ai… semiconduttori! Per l’autosufficienza industriale, il controllo delle supply chain e… Con Alessandro Aresu

di Piero Macrì ♦︎ Intervista con l’analista geopolitico, autore del libro “Il dominio del XXI secolo. Cina e Stati Uniti e la guerra invisibile sulla tecnologia”. Semiconduttori, previsioni di mercato al 2030: oltre 1.000 miliardi di dollari. Tra i principali produttori: Nvidia, Tsmc, Amd, Qualcomm, Samsung, SK Hynix, StMicroelectronics, Broadcom, Intel, Infineon. Ridefinizione flussi manifatturieri: autonomia dall’Asia. Chips Act: investimenti per 43 miliardi. E sulle competenze…

La capacità di essere protagonisti della manifattura del 21mo secolo dipende dal controllo delle supply chain. E in particolare di quelle che forniscono l’elemento più prezioso per la digitalizzazione elettronica di prodotti e imprese: i semiconduttori, un mercato che nel 2030 si prevede possa valere oltre 1.000 miliardi di dollari. Quali le ragioni dell’invisibile guerra per l’approvvigionamento delle tecnologie abilitanti la produzione del nuovo millennio? Come cambiano le filiere di interi settori industriali-manifatturieri? Quali le misure messe in atto da Stati Uniti, Cina ed Europa? Lo abbiamo chiesto ad Alessandro Aresu, analista geopolitico, autore del libro “Il dominio del XXI secolo. Cina e Stati Uniti e la guerra invisibile sulla tecnologia” (Feltrinelli).

«Nell’industria si è aperto un conflitto da alta intensità in cui sono in gioco interessi nazionali. Chi vincerà la guerra dei semiconduttori avrà di fatto il dominio della manifattura su scala mondiale. Il rischio che questo possa essere il secolo cinese è reale», dice Aresu. La partita si gioca su uno scenario in continuo mutamento. Riguardo alla dinamica della competizione tecnologica globale, Aresu ricorda che la catena del valore dei semiconduttori si articola principalmente tra Stati Uniti, Taiwan, Cina, Corea del Sud, Giappone, Paesi Bassi, Germania. Tra le aziende che producono semiconduttori, ricordiamo NvidiaTaiwan Semiconductor Manufactoring Company (Tsmc), AmdQualcomm, Samsung, SK Hynix, StMicroelectronics, Broadcom, Intel, Infineon.

Ma nella ridefinizione dei flussi manifatturieri entrano in gioco altri paesi, in primis le potenze emergenti dell’Asia Orientale come VietnamMalesia e Tailandia. La grande scommessa è poi l’India, una crescita stabile di questa economia potrebbe infatti determinare cambiamenti sostanziali sullo scenario internazionale delle supply chain. L’Europa non sta a guardare. Attraverso il Chips Act si è avviata una strategia di diversificazione delle fonti di approvvigionamento di semiconduttori per ridurre la dipendenza da fornitori esterni e garantire una maggiore resilienza industriale. L’obiettivo è aumentare la quota Ue della produzione mondiale al 20% entro il 2030. Riconversione economica alla b e alla mobilità elettrica. Al centro della disputa tecnologica anche le batterie, il driver principale della transizione elettrica del settore automobilistico, un mercato dove la Cina detiene circa il 90% della capacità produttiva.

 

Riprendere il controllo delle supply chain. L’industria dei semiconduttori nella globalizzazione digitale del 21.mo secolo

Alessandro Aresu, analista geopolitico, autore del libro “Il dominio del XXI secolo. Cina e Stati Uniti e la guerra invisibile sulla tecnologia” (Feltrinelli).

«Negli ultimi 50 anni l’asse manifatturiero del mondo si è spostato verso l’Asia orientale, prima con l’ascesa del Giappone e poi con l’evento più dirompente, l’affermazione della manifattura cinese, la cui forza non è più soltanto quantitativa ma qualitativa, dice Aresu. Tutto questo ha determinato un cambiamento nei flussi delle supply chain e una maggiore vulnerabilità dell’industria europea che ha visto crescere la sua dipendenza dal gigante asiatico». Insomma, al crescere degli interscambi commerciali è aumentato il rischio industriale e un qualsiasi scossone nel mercato asiatico può mettere ormai in crisi la manifattura europea, in primis quella tedesca. Avere un controllo sulla filiera tecnologica è diventata una questione strategica.

«La globalizzazione ci ha reso interdipendenti, ma da chi e da cosa? Spesso si ha che fare con supply chain invisibili. Uno dei meccanismi della globalizzazione è stato incentivare una scarsa conoscenza delle forniture. Si conoscono soltanto i tier one, ma cosa c’è sotto è poco trasparente. La fornitura viene valutata in termini di prezzo e performance logistiche, raramente è basata su un’analisi delle filiere, e di quanto questa possa interferire in termini di dipendenza geografica, tecnologica. Prima tutti questi aspetti erano meno importanti, mentre il nuovo asse della sicurezza nazionale li rende essenziali», dice Aresu. Riprendere il controllo delle supply chain, quindi, incentivando politiche di re-shoring e near-shoring.

 

La ricerca di una maggiore indipendenza dalle supply chain globali

Il dominio del XXI secolo. Cina e Stati Uniti e la guerra invisibile sulla tecnologia” (Feltrinelli

«Circa il 25% della produzione mondiale di semiconduttori è assorbito dall’automotive e dal settore industriale-manifatturiero. La supply chain ha una complessità che le nostre menti faticano ad afferrare, osserva Aresu. E’ difficile capire, a prima vista, come la realizzazione di oggetti infinitamente piccoli richieda una legione di macchine, programmi, gas, reagenti e altri materiali. Le supply chain non sono mai neutre nella loro natura e nei loro effetti: creano dipendenze e valore aggiunto in termini diversi per i vari attori che le compongono.

Superano i confini e allo stesso tempo ne rimarcano l’importanza, in processi che tengono insieme le innovazioni dei ricercatori, la genialità degli imprenditori, e le scelte politiche. Sta qui l’importanza della guerra economica, il grimaldello con cui alcune potenze, a partire da Cina e Stati Uniti, si inseriscono nella sinfonia delle supply chains». E per quanto riguarda l’Europa? «Abbiamo aziende di tutto valore, dall’italo-francese Stmicroelectronics alla tedesca Infineon, alle olandesi Nxp e Asml. All’Ue serve un’azione mirata che valorizzi i suoi campioni e faccia crescere l’industria dove è meno forte, favorendo al contempo la creazione di nuovi attori tecnologici. Non è qualcosa che possono fare solo i governi: servono capitali privati oltre al supporto pubblico».

 

Autosufficienza industriale e competenze per lo sviluppo dei nuovi processi di sviluppo prodotto

Il chip A100 di Nvidia
Il chip A100 di Nvidia. Nvidia Corporation è un’azienda tecnologica statunitense con sede a Santa Clara. Sviluppa processori grafici per il mercato videoludico e professionale, oltre a moduli System-on-a-chip per il Mobile computing e per l’industria automobilistica. Il titolo da gennaio del 2023 volato da 140 a 382 euro per azione, guadagnandosi anche un posto nell’esclusivissimo club di società quotate con una capitalizzazione di mercato superiore ai mille miliardi (assieme ai colossi Apple, Microsoft, Alphabet e Amazon).

Al centro, come già affermato, il controllo delle filiere globali. «L’estrema complessità della supply chain dei semiconduttori impedisce ai vari poli che la compongono di essere autosufficienti. Così quest’industria, come altre industrie strategiche, continua a essere influenzata da due forze: l’esigenza del mercato, che richiede il mantenimento dell’interdipendenza per portare ai clienti prodotti adeguati e competitivi; l’impulso della sicurezza nazionale, che nella guerra tecnologica tra Stati Uniti e Cina richiede allo stesso tempo di ridurre le vulnerabilità e di rispondere a esigenze politiche. Ma accanto al controllo della supply chain, altrettanto importante è sviluppare le competenze e le tecnologie per i processi che consentono il trattamento dei materiali e lo sviluppo del prodotto», spiega Aresu.

«Quello che sulla mobilità elettrica ha fatto la Cina è stato unire i puntini della filiera globale. Un aspetto cruciale, spesso dimenticato dall’Europa. Il litio non si trasforma da solo, spiega Aresu. Occorre avere conoscenza dei processi trasformativi e la capacità di applicarlo con le tecnologie adatte, per giungere ai prodotti finiti». Giganti come Catl (Contemporary Amperex Technology), divenuta in meno di dieci anni il maggiore fornitore di batterie a ioni di litio al mondo, e poi Byd (Build Your Dreams), il leader mondiale dei veicoli elettrici. Nella filiera delle batterie e dell’auto elettrica la Cina dimostrato di avere la capacità tecnologica e industriale per competere su scala globale.

 

Semiconduttori, investimenti alle stelle nei settori strategici per lo sviluppo dell’economia mondiale

STMicroelectronics. Dettaglio di due wafer a fine lavorazione, ogni tesserina diventerà un circuito integrato

Tanto per avere un’idea dell’aumentata dipendenza dalla tecnologia di base, quella dei processori, basti pensare che il valore delle importazioni cinese di semiconduttori supera quello delle importazioni di petrolio. Nonostante ne produca in grandi volumi, il gap tecnologico rimane. La distanza tra i transistor (indice della qualità dei circuiti) è di 14 nanometri per i processori cinesi mentre quella dei leader del mercato (la coreana Samsung e la taiwanese Tsmc) ha già raggiunto i 5 nm e sta puntando ai 3/2 nm. Il conflitto Usa-Cina ridisegna le supply chain, obbligando tutti gli attori coinvolti a riallinearsi secondo precise collocazioni politiche e nazionali. Riprendere in mano la capacità produttiva. Gli Usa lo hanno fatto con il Chips and Science Act del 2022, che ha portato alla ricerca scientifica 280 miliardi di dollari, di cui 50 solo sui semiconduttori.

L’analoga legge europea sui semiconduttori, dello stesso anno, ne prevede 43 miliardi. In risposta alle alleanze strategiche nel settore dei semiconduttori, l’Europa sta cercando di rafforzare la propria industria e aumentare la sua quota di mercato globale. Accanto al Chips Act, il Chips Joint Undertaking. Il primo mira a rafforzare la capacità tecnologica e l’innovazione nel settore dei semiconduttori; il secondo, invece, nasce per aumentare gli investimenti e rafforzare l’ecosistema industriale europeo dei semiconduttori. Una delle principali sfide per l’Europa è poi la carenza di competenze. Per affrontare questo problema, il Chips Act prevede la creazione di una rete di centri per attrarre nuovi talenti in materia di ricercaprogettazione e produzione. Il coinvolgimento di aziende leader nel settore è il terzo ingrediente fondamentale per il successo delle iniziative europee. Ad esempio, Intel, una delle più grandi aziende di semiconduttori al mondo, ha espresso il suo sostegno al Chips Act e al Chips Joint Undertaking, e ha in programma di costruire diversi siti produttivi e centri di ricerca in Europa.

 

Un nuovo equilibrio per le supply chain. Come cambiano le filiere di interi settori industriali-manifatturieri

Microcontroller Aurix TriCore di Infineon. Fondata nell’aprile del 1999 quando la filiale dei semiconduttori della casa madre Siemens AG è stata staccata per formare una entità legale separata. Dal 2018 Infineon ha 40.100 lavoratori in tutto il mondo

Come mette in luce un recente whitepaper di Reuters Events intitolato “A generational shift in sourcing strategy”, realizzato nel 2023 in collaborazione con il gigante della logistica Moller-Maersk, la soluzione che diversi operatori hanno individuato per attenuare il rischio di vulnerabilità dalle catene globali è il cosiddetto reshoring o, meglio, “friendshoring” con strategie di near-sourcing nearshoring. Queste pratiche, che consistono nel riportare la produzione e l’approvvigionamento nei mercati nazionali o comunque nei paesi vicini (geograficamente o culturalmente), hanno guadagnato popolarità negli ultimi anni. Riequilibrare le proprie catene di approvvigionamento, ridurre i rischi, aumentare la visibilità e migliorare la sostenibilità, anche attraverso partnership di lungo periodo, per il ridisegno delle filiere o ridondanza delle forniture. Secondo lo studio di Reuters il 67% dei rivenditori e dei produttori globali afferma che le interruzioni della catena di fornitura globale hanno cambiato la provenienza dei materiali e dei componenti e il 58% di coloro che hanno spostato gli approvvigionamenti afferma che un’ulteriore delocalizzazione rimane un’alta priorità, se non la priorità principale, per la loro azienda.

Inoltre, il 37% prevede di cambiare sede produttiva. Nel documento si afferma che tra i fattori che alimentano i piani di produzione e approvvigionamento nearshore e reshore vi sono le interruzioni nelle catene di fornitura delle materie prime (70%), delle spedizioni (68%) e dei componenti o prodotti finiti (63%). Secondo un recente rapporto della Bank of America, il costo della riorganizzazione delle filiere, solo per le imprese Usa, si aggira attorno a 1 trilione di dollari. Tuttavia, sebbene le interruzioni dovute alla pandemia possano aver agito da catalizzatore per accelerare il reshoring e la riorganizzazione delle filiere, le ragioni strutturali di fondo di questo processo sono da ricercare nel passaggio al “capitalismo degli stakeholder”, a una rinnovata spinta al protezionismo in cui le aziende si concentrano sugli interessi degli azionisti e della comunità più ampia dei consumatori, dei dipendenti e dello Stato.  Insomma, si assiste a un progressivo maggiore controllo sulle catene di approvvigionamento da parte di governi, consigli di amministrazione e azionisti.

 

Anche in Europa la spinta al reshoring è crescente

STMicroelectronics Laboratory

Secondo i dati attualmente disponibili i Paesi con le due maggiori forze lavoro nel settore manifatturieroGermania e Polonia, sono i luoghi di sourcing e reshoring più interessanti, sebbene ci sia un “impegno su larga scala” da parte delle imprese a rifornirsi maggiormente sia nell’Europa dell’Est sia in quella dell’Ovest, per ridurre la distanza dal mercato finale e soddisfare la crescente necessità di attingere a bacini di manodopera qualificata. I settori più aperti alla ristrutturazione della produzione e delle catene di approvvigionamento sono quelli dell’elettronica e della tecnologia e dell’industria automobilisticaaerospaziale e dei macchinari. Il settore dell’elettronica e della tecnologia è stato il più danneggiato dai ritardi nei componenti e sta adesso individuando soluzioni alternative. I settori dei beni di consumo a rapida rotazione e degli alimenti e bevande sono stati invece i più colpiti dalla mancanza di capacità di trasporto e dalla carenza di manodopera. Infine, il settore chimico e dei prodotti chimici è stato il più danneggiato dai ritardi nelle materie prime, dall’inflazione e dai ritardi nelle spedizioni.

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Perché la produzione industriale italiana è calata del 7,2% in aprile e purtroppo continuerà ancora a scendere_da INDUSTRIA ITALIANA

Prima o poi si arriverà ad interrogarsi sul rapporto tra declino economico e postura e qualità del ceto politico, livello di subordinazione geopolitica di un paese. Le risposte a questi interrogativi, però, difficilmente arriveranno dall’imprenditoria, ancor meno dalle sue associazioni. Quanto alla Germania, la sua miopìa e il suo vantaggio relativo, ma in via di esaurimento, sono dipese dalla sua funzione di drenaggio e intermediazione finanziaria per conto degli Stati Uniti. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Perché la produzione industriale italiana è calata del 7,2% in aprile e purtroppo continuerà ancora a scendere

di Marco De’ Francesco ♦︎ Crisi strutturale del modello industriale tedesco, che è il nostro primo cliente. Rialzo dei tassi che sta dispiegando i suoi effetti: riduzione dell’acquisto di beni durevoli. Aumento costi di trasporto. Riduzione degli investimenti in 4.0 e interconnessione. Pnrr che di fatto è congelato e potrebbe bloccarsi. Fine del boom edilizio. Sono tanti i fattori che fanno pensare a un futuro tutt’altro che roseo. Li abbiamo analizzato con un parterre di altissimo livello: Fabio Arpe, Patrizio Bianchi, Giovanni Costa, Marco Fortis, Alberto Quadrio Curzio

Cosa si cela dietro il peggior calo della produzione industriale italiana da tre anni a questa parte? Quali ragioni hanno determinato la contrazione di aprile, che secondo le proiezioni dell’Istat è pari all’1,9% rispetto a marzo e al 7,2% su base annua? Perché i beni di consumo, quelli intermedi e l’energia sono sotto scacco? E soprattutto: che cosa succederà in futuro? La verità è che non c’è una sola ragione; piuttosto, diverse concause rimaste silenti nei periodi di relativa tranquillità degli scambi hanno iniziato gradualmente a manifestare il proprio potere distruttivo. Tanto materiale incombusto ha iniziato ad accendersi qua e là; è un po’ la cambiale che arriva in ritardo, e che è diretta alla manifattura italiana, gregaria dell’industria internazionale. Non essendo sul fronte, il nostro manufacturing sperimenta di rimbalzo la crisi che opprime già da tempo i propri referenti, come la Germania.

Sotto la lente di ingrandimento il modello industriale tedesco che, gonfiato venti anni fa dall’inversione delle partite correnti con diversi Paesi come l’Italia (causa tasso di conversione euro) e largamente fondato su accordi privilegiati sul costo dell’energia russa, oggi è finito in coma forse irreversibile; perché, dopo due decenni di strada in discesa, non ha formato gli anticorpi per affrontare un cambio di scenario. Decisioni pazzoidi come la chiusura del nucleare ne sono la prova. Ecco, la Germania è il nostro primo partner commerciale. La manifattura italiana è, in quanto supplier, legata a doppio filo a quella tedesca.

La crisi del modello industriale tedesco, peraltro, è quella del modello europeo, visto che si è creata una vasta area di Paesi (Austria, Belgio, Paesi Bassi, in parte Finlandia e Paesi dell’Est) per i quali la Germania rappresenta il centro di gravità manifatturiero; è il motivo per cui vanno peggio dei Paesi mediterranei.

Al di là di ciò, per le imprese manifatturiere italiane conta moltissimo la questione dei tassi di interesse: in questo momento molte di loro sono concentrate sul contenimento dei costi e sulla buona gestione, più che sulla produzione. Il rischio è quello di finire nella lista di quelle “in temporanea difficoltà”, e vedersi pertanto rifiutare un ulteriore accesso al credito. La brutta notizia è che anche la questione dei tassi sembra legata ai nuovi equilibri internazionali che si stanno formando a seguito dell’accentuarsi del conflitto diplomatico e commerciale tra Occidente e Oriente. Mentre il metano e gli idrocarburi in generale sono quasi tornati ai livelli pre-guerra (Russo-Ucraina) il costo dei trasporti non accenna a calmierarsi. Insomma, non cambierà stagione da un mese all’altro, e le imprese manifatturiere devono adattarsi al nuovo status quo.

Di tutto ciò e di altre concause abbiamo parlato con un parterre d’eccezione: con Fabio Arpe, il banchiere d’affari fondatore di Arpe Group; con l’economista industriale ed ex ministro dell’Istruzione del governo Draghi Patrizio Bianchi; con il professore emerito di Strategia d’impresa e Organizzazione aziendale all’Università di Padova Giovanni Costa; con il professore Emerito di Economia Politica della Università Cattolica di Milano Alberto Quadrio Curzio, già presidente dell’Accademia dei Lincei; e con il docente al dipartimento di Economia Internazionale dell’Università cattolica di Milano Marco Fortis, anche direttore della Fondazione Edison.

Cosa dice l’Istat

L’indice destagionalizzato mensile segna diminuzioni congiunturali in tutti i comparti: variazioni negative caratterizzano, infatti, i beni intermedi (-2,6%), i beni strumentali (-2,1%) e, in misura meno marcata, i beni di consumo (-0,4%) e l’energia (-0,3%).

Se poi consideriamo i dati nel confronto tra l’aprile 2023 e lo stesso mese del 2022, la situazione si fa più seria: i beni di consumo sono calati del 7,3%; tra questi, quelli durevoli (- 8,3%) più dei non durevoli (-7,2%); quelli strumentali (- 0,2%) non hanno subito il crollo di quelli intermedi (-11%) e dell’energia (-12,2%).

L’indice destagionalizzato mensile segna diminuzioni congiunturali in tutti i comparti

Sempre secondo le proiezioni dell’Istat, gli unici settori di attività economica in crescita tendenziale sono la fabbricazione di mezzi di trasporto (+5,7%), la fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (+2,1%) e la produzione di prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici (+0,6%). Le flessioni più ampie si registrano nell’industria del legno, della carta e della stampa (-17,2%), nella fornitura di energia elettrica, gas, vapore ed aria (-13,6%) e nella fabbricazione di prodotti chimici e nella metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (-10,9% per entrambi i settori).

Il calo più significativo è nelle industrie del legno, della carta e della stampa, che complessivamente registrano una flessione del 17,2%

Le ragioni: l’industria italiana all’ombra del gigante malato

l’economista industriale ed ex ministro dell’Istruzione del governo Draghi Patrizio Bianchi

«Io credo che questo rallentamento non vada preso sottogamba. C’è un gran dire che l’area mediterranea in questo momento va meglio di quella economica tedesca, e che l’Italia guida la prima: ma quali saranno le conseguenze, in un contesto economico e produttivo molto integrato? Per capire, bisogna riflettere sul fatto che non si tratta di una momentanea flessione di Berlino: ad essere in crisi, è il modello tedesco, quello che ha dominato l’economia europea dall’inizio del nuovo secolo», afferma Patrizio Bianchi.

Per Bianchi «il modello tedesco si basava sull’energia a basso costo, e quindi su accordi strategici con la Russia che oggi sono saltati. Si pensi a Nord Stream, il gasdotto che, attraverso il Mar Baltico, trasportava gas proveniente dalla Russia in Europa occidentale, passando per la Germania. Si pensi al suo boicottaggio, e all’interruzione di Nord Stream 2. Si pensi alle conseguenze politiche della guerra con l’Ucraina. È evidente che per Berlino è cambiato tutto». Per la Germania, cioè, si tratta di un cambio di paradigma al quale non riesce ad adattarsi. In realtà la situazione tedesca è assai complicata, e attualmente si può solo fare delle ipotesi. Perché, a ben vedere, è vero che la Germania è ormai entrata in recessione tecnica, dal momento che il pil tedesco nel primo trimestre 2023 ha mostrato un calo dello 0,3%, e che questo dato va sommato alla flessione dello 0,5% del quarto trimestre 2022; ma è anche vero che l’economia generale va peggio della produzione industriale: è vero che a marzo questa ha fatto registrare una diminuzione consistente, pari al 3,4%, e che il mese prima il calo era stato del 2,5%, ma tutto sommato il primo trimestre 2023 è andato meglio dell’ultimo del 2022 per 2,5 punti. Certo il gigante è fermo.

L’Ice fa presente che il surplus delle esportazioni tedesche l’anno scorso ha raggiunto il livello più basso dal Duemila, e che il saldo commerciale si è più che dimezzato, passando da 175,3 a 79,7 miliardi in un anno; pesa molto il costo di importazioni di energia. Sempre per l’Ice, nei rapporti con la Cina, la Germania ha registrato un grande deficit commerciale, il più ampio dal 1950, e la Cina, da secondo Paese importatore di merci tedesche, è passata al quarto posto. Insomma, il rapporto tra costo dell’energia e indebolimento del modello tedesco sarebbe evidente. Va peraltro sottolineato che la Germania ha sperimentato, negli ultimi 20 anni, un successo commerciale ben al di là dei propri meriti. Alla fine del secolo scorso, la Germania era il “grande malato d’Europa”. Fu il tasso favorevole nel cambio con l’euro, che era al contempo sfavorevole per Paesi come l’Italia, a determinare una sostanziale inversione delle partite correnti con altri Paesi, tra cui l’Italia. Poi la Germania ha gestito nel peggiore dei modi il proprio vantaggio potenziale: nel 2008 Berlino sembrava decollare, ma ciò non è mai avvenuto. L’indebolimento del contesto europeo, dovuto a folli politiche di austerità dettate da Berlino alla Commissione di turno, alla fine non ha favorito la Germania: i partner strangolati non avevano i soldi per comprare le merci tedesche. In questo contesto, sono intervenute politiche scellerate: si pensi all’automotive, comparto dove Berlino era fortissima e dove ora deve fare i conti con nuovi player americani e cinesi.

Giovanni Costa, professore emerito di Strategia d’impresa e Organizzazione aziendale all’Università di Padova

Non è la sede adatta per parlare degli infausti 16 anni di governo Merkel, che ha dominato la politica europea. In un’intervista di qualche tempo fa a Industria Italiana, l’economista e storico Giulio Sapelli ha così sintetizzato quegli anni: «Angela Merkel sarà ricordata per aver venduto la Germania alla Cina».

Il problema è che dai tempi dell’inversione delle partite correnti l’industria europea si è strutturata secondo uno schema che vede la Germania (e in parte la Francia) direttamente sul mercato, e diversi altri Paesi nel ruolo di supplier: in certi settori, tantissime aziende italiane, soprattutto al Nord, ricoprono questa posizione. Insomma, a differenza di quanto accadeva alla fine del secolo scorso, la crisi del modello tedesco non può che avere effetti nefasti sulla produzione industriale italiana.

«In generale, noi siamo per lo più un Paese di terzisti, non siamo direttamente sul mercato e quindi ci ritroviamo in una posizione di particolare debolezza: siamo in balia dell’andamento degli altri Paesi, soprattutto della Germania, ma non solo. Attualmente, disponiamo di informazioni molto nebulose; ma è abbastanza evidente che qualche problema c’è», Giovanni Costa.

https://www.industriaitaliana.it/perche-la-produzione-industriale-italiana-e-calata-del-72-in-aprile-e-purtroppo-continuera-ancora-a-scendere/?utm_source=brevo&utm_campaign=NEWSLETTER%20INDUSTRIA%20ITALIANA%2014%20GIUGNO%202023&utm_medium=email

Sapelli: la crisi energetica è un colossale fallimento manageriale e del green “forzato” dalla Ue

Si contempla il traguardo, ma non la strada da percorrere_Giuseppe Germinario

Sapelli: la crisi energetica è un colossale fallimento manageriale e del green “forzato” dalla Ue. Se ne esce rallentando la corsa alla transizione forzata e inverando l’economia circolare

di Marco de’ Francesco ♦︎ Intervista allo storico ed economista sull’enorme aumento dei prezzi dell’energia, che danneggerà seriamente molte industrie (automotive, plastica, chimica, acciaio…). «Il diesel, alla fine dei conti, era assai più verde dell’elettrico. Ma non c’è dubbio che una certa narrazione sia prevalente»

«La crisi energetica? Un colossale fallimento manageriale da parte degli strateghi e dei responsabili degli acquisti delle società energetiche europee». I primi hanno smesso di investire nelle ricerche minerarie, i secondi non hanno capito che il just in time, con l’interruzione delle filiere in corso di pandemia non funzionava più, e che bisognava far scorte di idrocarburi. E ora il Vecchio Continente è in guai seri, perché il prezzo del Brent viaggia a quota 80 dollari, e il gas naturale è passato in un anno da 2,5 dollari al metro cubo a circa 6 dollari, e anche il carbone ha rialzato la testa, da 50 a circa 220 dollari a tonnellata. E i livelli di stoccaggio sono paurosamente bassi. Ci aspettano momenti terribili, con possibili gravi ripercussioni sull’automotive, il vero motore dell’industria continentale, «che si sta smantellando da sola». Lo pensa Giulio Sapelli, economista, storico e accademico torinese (ma con cattedra a Milano), uno dei pochi ad avere sempre un punto di vista originale sulle vicende industriali ed economiche in Italia.

C’è di più. Secondo Sapelli, la dabbenaggine non c’entra. Non si tratta, cioè di errori di valutazione dovuti al fato o all’incompetenza. Il fatto è che i manager sanno bene che la Borsa premia il green. La Finanza sovvenziona l’ideologia verde con denari a palate: secondo Morningstar, sui 139,2 miliardi di dollari che nel secondo trimestre di quest’anno sono affluiti sulle società che producono energia rinnovabile o che investono nella transizione energetica, l’81%, e cioè 112,4 miliardi, provengono dal Vecchio Continente. Il mondo green valeva a giugno 2.243 miliardi di dollari, più del Pil dell’Italia; di questi soldi, l’82% era in mano all’Europa. È oggettivamente difficile, per qualsiasi manager, non tenere conto di queste dinamiche. D’altra parte, le scelte green degli amministratori, dice Sapelli, sono “ricompensate” dalle società di appartenenza con laute concessioni di stock option.

Tutto ciò si fa perché Strasburgo ha posto in essere un proprio piano sulle politiche energetiche (ma anche climatiche e dei trasporti), il Green Deal, che si fonda largamente sul ricorso alle fonti rinnovabili e sulla compressione di quelle fossili. Ma secondo l’economista non è chiaro se sia stata l’Unione Europea a condizionare la finanza, o il contrario, visto che la seconda «ha un piede nell’Unione Europea». Come se ne esce? Da una parte l’Unione Europea dovrebbe per lo meno rallentare la corsa alla transizione forzata, dall’altra il governo Draghi dovrebbe «inverare l’economia circolare», che riduce la produzione di emissioni senza annientare l’industria. Secondo me questa è una strada credibile, e realizzabile. È già in parte operativa: si tratterebbe soltanto di estendere il sistema. Tutto questo secondo Sapelli, che abbiamo intervistato.

 

D: Con il Covid la domanda di energia era calata, e pure i prezzi. Si era detto che era un calo strutturale e non casuale. Oggi questi discorsi sembrano destituiti di qualsiasi fondamento: abbiamo ancora bisogno di petrolio e gas?

Giulio Sapelli, economista e accademico

R: Sì, non c’era nulla di strutturale nella riduzione dei prezzi durante il Covid-19. Il calo era momentaneo, ed era legato al blocco delle attività produttive, al alla disarticolazione delle filiere e alla difficoltà degli approvvigionamenti. Molto si era fermato, e quindi c’era meno bisogno di energia. Poi, quanto sta accadendo da qualche mese, è invece frutto di un insieme di fattori. Anzitutto l’aumento è legato ad una transizione green troppo rapida, guidata dall’alto, e cioè dalle politiche europee sull’energia e sui trasporti, che sono frutto della tecnocrazia di Strasburgo, sempre più lontana dalla realtà dell’industria. Inoltre stanno pesando anche le condizioni climatiche, l’inverno freddo e l’estate calda, e soprattutto il default manageriale delle imprese energetiche del Vecchio Continente.

 

D: Quale default manageriale?

R: Ciò che si osserva è anche un colossale fallimento manageriale: i responsabili degli acquisti delle società energetiche europee avrebbero dovuto capire che centinaia di navi alla rada (cariche di idrocarburi) avrebbero creato colli di bottiglia. Avrebbero dovuto comprendere che il just in time che aveva regolato il loro mondo negli ultimi anni non avrebbe più funzionato e che bisognava fare scorte. Invece, gli esperti che si occupavano di strategia avrebbero dovuto continuare a fare investimenti nel fossile, nella ricerca mineraria. Non c’è niente da fare: senza queste attività si resta a secco. Comunque sia, ora ci troviamo senza riserve.

La missione 2 del Pnrr: la transizione ecologica

D: In effetti nel 2014 si investivano 800 miliardi nella mineraria, quest’anno di stima sui 250 miliardi. E i livelli di stoccaggio sono tra i più bassi mai registrati. Ma come mai i manager delle aziende energetiche non hanno interpretato correttamente la situazione?

R: Diversi fattori hanno inciso sul comportamento dei manager. La Borsa premia il green, che le stock option vengono assegnate a chi fa operazioni verdi: si assiste ad una discrasia sempre più profonda tra la finanza e la realtà. E le scelte dei manager sembrano guidate dalla logica dei bonus.

Gas naturale. L’incremento dei prezzi delle materie prime non è di certo una novità, ma piuttosto un fenomeno che ciclicamente coinvolge l’economia mondiale. Ma questa volta, alle dinamiche fisiologiche si sono sommate quelle straordinarie dettate dalla pandemia, su tutte le politiche di stimolo messe in campo dai governi

D: Non è che l’Europa, con il Green Deal, ha fatto il passo più lungo della gamba?

R: Ha imposto dall’alto una politica sull’energia e sui trasporti largamente fondata sulle rinnovabili, caratterizzate da una produzione intermittente e insostenibile dal punto di vista industriale. Bisogna tornare alla raffinazione del petrolio. È essenziale in termini energetici; e con i suoi derivati non si fa soltanto la plastica, il cui prezzo è peraltro raddoppiato in un anno, ma anche i prodotti farmaceutici, che sono basati sull’urea. Vorrei sapere come avremmo fatto a sviluppare i vaccini, altrimenti. L’aspetto grottesco del momento attuale è che, dopo tutta questa guerra ai combustibili fossili, alcuni Paesi paladini di questa ideologia (come il Regno Unito) stanno riattivando le centrali a carbone – che è senz’altro la fonte più inquinante.

Brent petrolio. Dopo un calo dei prezzi di materie prime come rame, petrolio e acciaio a cavallo di Ferragosto, ora si assiste a una nuova inversione di tendenza. Anche gli analisti si trovano in difficoltà: è difficile stabilire se si tratti di una normalizzazione della curva o di una nuova ondata di incrementi.

D: Quali settori industriali rischiano di più? E quanto rischiano?

Linea di produzione nella fabbrica Fca di Torino

R: La crisi energetica sta colpendo duramente le industrie ad alto consumo di elettricità, e quindi la siderurgia, la chimica, la ceramica, le cartiere. Ma non trascurerei l’automotive, che è centrale per il sistema Paese. Al di là dei componentisti, molti settori dipendono dalla domanda dei carmaker: si pensi alle materie prime: plastica, vetro, metallo, compositi. Ora, l’automotive è di nuovo sotto scacco, perché, dopo i guai e l’indebitamento per la transizione all’elettrico, si trova a fronteggiare sia la crisi energetica che quella dell’aumento dei costi e della difficoltà di reperire componenti essenziali, come i micro-chip, che dei raw material. Come si è arrivati a tutto questo? Si torna al discorso di prima: la colpa è dei tecnocrati di Bruxelles e Strasburgo, che subiscono le pressioni delle lobby ambientaliste, che a loro volta hanno un piede nella finanza. Quello che sta accadendo è strano e forse non è mai successo: l’industria europea si sta smantellando da sola.

 

D: L’Opec e la Russia non sembrano avere alcun interesse ad aumentare l’offerta. Anzi, pare che Gazprom abbia diminuito le forniture.

R: L’Opec e la Russia fanno i loro interessi. Per quale motivo dovrebbero agire per diminuire i prezzi, dopo un periodo, quello della pandemia, in cui questi sono diminuiti? Fa parte della dialettica fra gli Stati. L’Opec in particolare è sempre stata molto attenta a gestire la dinamica dei costi del petrolio. Questo si sapeva già. La colpa è dell’Europa, che si è cacciata nei guai da sola, e che ora non sa esattamente cosa fare.

Dopo un calo dei prezzi di materie prime come rame, petrolio e acciaio a cavallo di Ferragosto, ora si assiste a una nuova inversione di tendenza. Anche gli analisti si trovano in difficoltà: è difficile stabilire se si tratti di una normalizzazione della curva o di una nuova ondata di incrementi

D: Come si esce da questa situazione?

Maire Tecnimont Impianto di trattamento Oil & Gas Tempa Rossa

R: Ritornando alla ragione, e quindi abbandonando le sirene e i cantori della transizione forzata. Certo, bisogna agire anzitutto in Europa, per porre i tecnocrati di fronte alla realtà: non è mai stato inventato un sistema per contrastare l’emissione di Co2. Il green sposta il problema altrove, ma si vive sotto lo stesso cielo, nella stessa atmosfera. Se movimento e tratto in Cina centinaia di tonnellate di terra per ottenere un centimetro cubo di materiali da inserire in una batteria o nel fotovoltaico, qual è il vantaggio? Il diesel, alla fine dei conti, era assai più verde dell’elettrico. Ma non c’è dubbio che una certa narrazione sia prevalente. Poi c’è il governo. Se fossi Draghi, cercherei di inverare l’economia circolare, che riduce la produzione di emissioni senza annientare l’industria. Secondo me questa è una strada credibile, e realizzabile. È già in parte operativa: si tratterebbe soltanto di estendere il sistema. Quanto a Confindustria, non so neanche cosa dire. All’interno, non è difficile scorgere una lotta di potere, dove la politica ha un peso importante. D’altra parte, gran parte del finanziamento all’associazione dipende dalle imprese pubbliche. Questo influisce molto sulle dinamiche di Viale dell’Astronomia.

https://www.industriaitaliana.it/sapelli-crisi-energia-economia-circolare-industria-gas-petrolio/

Che cosa penso delle tesi di Rutelli su Pnrr e rinnovabili. Parla Sapelli

Draghi Sapelli

Lo storico ed economista, Giulio Sapelli, commenta in una conversazione con Start Magazine le tesi di Francesco Rutelli che a Draghi sulla transizione energetica ha consigliato di…

“Draghi ha ottenuto la fiducia sulla promessa di una “rivoluzione verde”, ma l’attuale agenda è inadeguata. Se ci faremo trovare impreparati, il Paese perderà anche competitività: compreremo dalla Cina le batterie e dalla Germania gli elettrolizzatori”. Non usa mezzi termini l’ex ministro dell’Ambiente Francesco Rutelli, ora presidente della fondazione Centro per un futuro sostenibile e presidente di Anica, associazione delle industrie cinematografiche, audiovisive e multimediali, in una intervista a Repubblica chiede che il dossier sul clima passi a Draghi.

Per Giulio Sapelli, economista, però il Pnrr più che essere fuori strada sul clima lo è sulla politica industriale. “Gli obiettivi climatici al 2030 non dovrebbero esistere”, dice Sapelli, sentito da Start Magazine.

Andiamo per gradi.

RUTELLI: SUL CLIMA SIAMO FUORI STRADA

Partiamo dalle tesi di Francesco Rutelli.

“Sul clima siamo completamente fuori strada”, afferma l’ex Ssndaco di Roma, che negli ultimi anni è uscito dalla scena politica in una intervista a Repubblica. “L’agenda politica italiana è totalmente inadeguata ad affrontare l’emergenza. Ma una soluzione c’è e si chiama lavoro”.

SPROPORZIONE TRA IMPEGNI E FATTI

“C’è una colossale sproporzione tra quello che ci siamo impegnati a fare e quello che stiamo realizzando davvero. La comunità internazionale, quindi anche l’Europa e l’Italia, è concorde nel dimezzare le emissioni di CO2 entro il 2030 e azzerarle entro il 2050”, ha aggiunto Rutelli.

IL DOSSIER PASSI A DRAGHI, DICE RUTELLI

Per il presidente di Anica, a prendere in mano il dossier dovrebbe essere direttamente il Premier: “Draghi ha ottenuto la fiducia sulla promessa di una “rivoluzione verde”, ma l’attuale agenda è totalmente inadeguata. Non basta cambiare nome a un ministero e affidarlo a un persona competente come Cingolani, di cui mi fido e che stimo, ma che è l’ottavo ministro del governo in termini gerarchici. Se ne deve far carico il premier in prima persona”, aggiunge Rutelli.

A RISCHIO COMPETITIVITA’ PAESE

Per l’ex sindaco di Roma, in gioco c’è il futuro imprenditoriale del Paese. Bisognerebbe, spiega Rutelli, riscrivere “totalmente l’agenda politica del Paese”, mettendo “al centro la lotta all’emergenza climatica. Se ci faremo trovare impreparati, il Paese perderà anche competitività: compreremo dalla Cina le batterie e dalla Germania gli elettrolizzatori (i dispositivi che estraggono idrogeno dall’acqua, ndr)”.

OBIETTIVO: CREARE LAVORO

Ma come convincere la popolazione che la strada verso il green sia quella giusta?

“L’unica chiave per convincere le persone a sposare la transizione ecologica – spiega Rutelli – è il lavoro. Vanno coinvolti tutti gli attori pubblici perché gli investimenti green siano finalizzati alla creazione di nuova occupazione. Chi perderà il lavoro per il passaggio dai fossili alle rinnovabili dovrà poter contare su una struttura di formazione permanente che lo prepari alle nuove professioni. E ai ragazzi va prospettata una filiera di formazione e occupazione compatibile con la transizione verde. È il solo argomento convincente nel breve termine per avere il consenso delle persone”.

SAPELLI: LA TRANSIZIONE E’ SOCIALE E A LUNGO TERMINE

Ma davvero, come dice l’ex ministro dell’Ambiente, nella lotta al cambiamento climatico siamo fuori strada? “L’affermazione di Francesco Rutelli è apolitica. Il problema sollevato è giusto, ma non possiamo trovare soluzioni solo superficiali. Bisogna capire cosa e come si interpreta la lotta al cambiamento climatico”, afferma Giulio Sapelli, storico ed economista, a Start Magazine.

“Per controbilanciare, realmente, la devastazione fatta negli anni passati del clima, della natura e della Terra, è necessaria una transizione di lungo termine. Guardiamo al passato e al tempo che è stato necessario per passare dal feudalesimo al capitalismo”.

CON MODELLO CAPITALISTA LA TRANSIZIONE ENERGETICA E’ LONTANA

E proprio il capitalismo, per Sapelli, è un impedimento alla lotta al cambiamento climatico. “Sarà difficile risolvere il problema climatico all’interno del nostro sistema capitalista, serve prima una transizione sociale ed economica. La necessità di presentare i conti economici ogni tre mesi dirotterà le politiche aziendali alla creazione di plus valore”.

OBIETTIVI 2030? MODELLO SBAGLIATO

Anche la modalità dell’imposizione degli obiettivi, per Sapelli, è fallibile. “Il problema non è essere in linea o meno con gli obiettivi al 2030, come sostiene Rutelli, il problema è l’imposizione di quelli obiettivi. Questa politica risponde ad un modello sovietico, già fallito”, spiega l’economista: “Con il Pnrr abbiamo resuscitato il modello URSS”.

SAPELLI SU RUTELLI

E allora qual è la strada che il governo Draghi dovrebbe perseguire? “Quella che dovremmo seguire tutti: puntare al risparmio energetico, nel senso di non accendere luci non necessarie, per esempio, e a nuovi modelli di estrazione delle risorse naturali. Mi spiego: l’acqua dovrebbe essere amministrata dalla comunità, come bene comune di cui prendere consapevolezza. Un altro esempio? La pesca: il fermo pesca non dovrebbe essere imposto dall’alto, ma deciso da una cooperativa di pescatori. É la società che si deve anche fare carico dell’economia”.

PNRR: NON RISPECCHIA STRUTTURA INDUSTRIALE

E quindi il Pnrr, così come impostato, potrebbe avere effetti controproducenti per la struttura imprenditoriale italiana? “Sì”, secondo Sapelli, ma non per gli stessi motivi di Rutelli. Secondo l’economista, infatti, “il Piano non è modulato sulla struttura industriale italiana, che è composta principalmente da piccole e medie imprese. Noi siamo una potenza grazie a queste: se guardiamo alla siderurgia, oltre all’Ilva, noi siamo leader grazie alle imprese medie e piccole di settore”.

UN PNRR TROPPO BUROCRATICO

Ma Sapelli che cosa rimprovera a questo Pnrr? “E’ troppo burocratico e centralizzato. Il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza è un elenco di spese, una teoria. Sembra essere l’ultimo tentativo sovietico. I neoliberisti vogliono fare i liberisti con lo Stato. Il Pnrr manca di una visione industriale per il nostro Paese, è frutto delle idee dei 10.000 burocrati di Bruxelles”.

IL FOSSILE TORNERA’ DI MODA

Ma burocrati ed ideologie momentanee a parte, per Sapelli i fossili non passeranno mai di moda. “Del fossile ce ne sarà sempre bisogno. Ci accorgeremo presto che con le rinnovabili produrremo più anidride carbonica di quanto immaginiamo. L’idrogeno, invece, richiede l’utilizzo di materiali cancerogeni. Il litio non riusciamo a smaltirlo. Quanto prima torneremo alle fossili e al gas, soprattutto”, secondo lo storico ed economista.

“Rutelli è mosso da pensieri positivi, ma bisogna conoscere bene la materia. Io ho anche letto il libro “Tutte le strade portano a Roma”, è molto bello, ma consiglio a Rutelli di leggere quanto è accaduto in Texas, dove sono stati senza luce per il crollo del sistema elettrico, che si regge sulle sole rinnovabili. Ci sono già elementi che valorizzano la mia tesi”.

https://www.startmag.it/energia/che-cosa-penso-delle-tesi-di-rutelli-su-pnrr-e-rinnovabili-parla-sapelli/